Fin dalla sua scoperta nell'800, l'arte e la cultura mesopotamica esercitarono un fascino irresistibile sull'Occidente. Ecco un mio breve excursus sulle contaminazioni "assiro-babilonesi" nella moda, la letteratura, il cinema, i fumetti e quant'altro.
Gilgamesh ha
stuzzicato l'immaginario collettivo con la sua disperata ricerca del segreto
dell’immortalità. Un carattere distintivo talmente forte e caratteristico che
non poteva sfuggire agli autori di novelle d’ogni tempo. Lo scrittore Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura nel 1981, ricorda nella sua autobiografia (Storia di una vita 1921-1931) come da giovane venne folgorato dalla potenza arcaica di Gilgamesh, "eroe babilonese", durante una piece dell'attore Carl Ebert in un teatro di Francoforte. Sentite che prosa da brivido: |
«Grazie all'infatuazione per il mio attore preferito incontrai
Gilgamesh, che più di ogni altra cosa ha determinato la mia
vita, il suo senso più segreto, la sua fede, la sua forza e le sue
attese.
Il lamento di Gilgamesh per la morte di
Enkidu mi penetrò nel cuore. E poi viene l'impresa di Gilgamesh
contro la morte fino a quando raggiunge il suo avo Utnapishtim.
Da lui Gilgamesh vuol sapere come potrà attingere la vita eterna. Gilgamesh, è
vero, fallisce e muore. Ma proprio questo esito non fa che rafforzare il
sentimento della necessità della sua impresa.
In questo
modo sperimentai su me stesso l'azione di un mito: come qualcosa su cui, durante
il mezzo secolo che da allora è trascorso, ho riflettuto in molti modi diversi,
voltandolo e rivoltandolo dentro di me, senza mai seriamente metterlo in dubbio
neppure una volta».
(Elias Canetti, Il frutto del Fuoco, p. 61, Adelphi
1982)
Già prima di Canetti, il poeta Rainer Maria Rilke nel 1916 era stato preda di una fascinazione irreversibile ("intossicazione da Gilgamesh", p. xiii Geo 1999). Ma Canetti subirà un'impronta profonda a livello filosofico in tutte le sue opere (da Auto da fè al Cuore segreto dell'orologio, come mostra una recente indagine di Fabio Brotto). Questo passo testimonia, inoltre, che oltre 70 anni fa, Gilgamesh aveva già aperto una breccia nel cuore del grande pubblico, uscendo dalla semplice cerchia dei dibattiti degli studiosi. Il salto nelle pagine di narrativa sarebbe stato breve.
Gilgamesh, per
esempio, è protagonista del fanta-romanzo di Wilson Tucker Signori del
Tempo (The Time Master, 1954; catalogo Urania n. 615). Qui Gilgamesh è
un naufrago dello spazio precipitato sulla Terra che, grazie a un metabolismo
più lento, riesce a vivere più a lungo degli esseri umani anche se non
all'infinito. Giunto ai giorni nostri egli assume l'identità di Gilbert
Nash, professione investigatore privato! Il passo più intrigante è quello dove il signor Nash affascina un'agente federale sfoggiando erudizione sui sumeri al tavolo di un ristorante. Il misterioso Nash mostra di saperla lunga sia sull'assiriologo George Smith che sugli archeologi Henry Layard e Leonard Wooley, senza peraltro mai nominarli. Ma ecco il punto culminante: |
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- Non avete mai sentito parlare dell'epica di
Gilgamesh?
- Gilgamesh? - ripetè Shirley. - No.
Nash scrollò il
capo con amara riprovazione. - Ah, le donne moderne.
- E va bene, ormai sono
in trappola. Parlatemi dell'epica di Gilgamesh.
- [...] Il poema parla di un
eroe straordinario, simile a un dio, chiamato Gilgamesh.
- Ah... - Lei lo
interruppe. Aprì la bocca come per dire qualcosa, poi cambiò idea. Adesso lo
osservava attentamente.
- Le origini di quell'uomo erano ignote ed egli
percorse la terra compiendo grandi imprese. Gilgamesh era una sorta di
avventuriero che visitò l'intero mondo conosciuto a quei tempi. Compariva prima
di qua poi di là, sconvolgendo tiranni e reami. Alla fine si incontrò con un
uomo preistorico dal nome impronunciabile e...
- Impronunciabile? - lo
interruppe lei.
- Ut-napishtim.
A questo punto il signor Nash riferisce la storia del diluvio così come la narrano le tavolette argillose scoperte nella biblioteca di Assurbanipal e al termine del racconto...
...la ragazza alzò gli occhi dal tovagliolo per guardare gli
occhi di lui. Rimaneva sempre colpita, ogni volta che li vedeva.
- Vorrei
farvi ancora una domanda - azzardò, dopo un momento. - Avete già accennato
all'argomento, ma poi l'avete lasciato cadere.
Nash si
fermò, con la forchetta a mezz'aria. - E cioè?
- Gilgamesh, alla fine, trovò
l'immortalità?
Nash rimase per un secondo con la forchetta
per aria, poi lentamente infilò il boccone in bocca. Dopo una brevissima
esitazione, osservò la faccia attenta della ragazza. - Trovò quel che cercava.
Ma era troppo tardi per salvarsi la vita.
(da I signori del tempo, ed. Urania
1973 pp. 75-78, adattamento T. Porzano)
Gilbert Nash tornerà in un altro romanzo di Tucker, L'uomo che veniva dal futuro (Time Bomb, 1955; catalogo Urania No. 743) di qualità inferiore rispetto al precedente. Gilgamesh è frettolosamente tirato in causa solo in due punti del libro (p. 45 e p. 87). Ma l'evocazione dell'eroe sumerico è spogliata di alcun intento di plausibilità al punto che il romanzo potrebbe benissimo fare a meno del personaggio di Mr. Nash! Ugualmente curiosa è l'opinione che ha Gilgamesh dei libri scritti su di lui:
...è tutto contento quando trova errori nei testi scientifici e
sghignazza leggendo romanzi pseudostorici dove vive le più ridicole e
incredibili avventure.
(da Time Bomb, ed. Urania 1978 p. 87, adattamento T.
Porzano)
Non a caso una nota antologia di fantascienza si intitolava The Road to Science Fiction: from Gilgamesh to Wells. La lista degli autori di "romanzi pseudostorici" che ricostruiscono con eccesso di fantasia le peripezie di Mr. Nash annovera Robert Silverberg, Angelo R. Mazzarese, Theodor H. Gaster, Mario Pincherle, Paola Capriolo e chissà quanti altri ancora...
L'italiano Cesare Ossicini ha immaginato e messo sul Web una meravigliosa serie di racconti filosoficicon Gilgamesh protagonista. La semplicità dello stile e la solenne brevità producono uno stato di magica sospensione. L'indagine filosofica di Ossicini si sviluppa prima nei dialoghi tra un dio e un semidio (Utnapishtim e Gilgamesh) e poi nei "dialoghi tra un semidio e un uomo" (Gilgamesh e Siddharta, Gilgamesh e Che Guevara, ecc.).
Negli anni '80 lo
sceneggiatore paraguaiano Robin Wood creò per il fumetto un
Gilgamesh che finalmente ottiene l’immortalità, dopo aver soccorso l’alieno
Utnapistim precipitato sulla terra. Questa versione “apocrifa”, magistralmente
disegnata dall’argentino Lucho Olivera in stato di grazia,
segna la storia del fumetto. Ancora oggi non si contano le ristampe di questa
lunghissima saga a fumetti (in Italia edita dalla Eura Editoriale). Wood immagina che la vita eterna di Gilgamesh sia vissuta dai sudditi di Uruk come in uno stato di oppressione. Tutti i vantaggi che essa potrebbe portare sono vanificati dal pregiudizio. Solo immaginando che il loro sovrano sia morto, gli abitanti di Uruk si sentono liberi dal giogo e riprendono a vivere serenamente. Ma Gilgamesh non può morire e abbandona Uruk per vivere avventure in tutte le epoche come un highlander ante litteram. |
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Gilgamesh ha ispirato anche l'immaginazione di Ludmila Zeman, scrittrice per l'infanzia e ottima illustratrice purtroppo mai apparsa in Italia. Ecco alcuni dei suoi titoli più famosi: Gilgamesh the King (1999), The last Quest of Gilgamesh (1998), The revenge of Isthar (1998). Tutti i titoli sono editi dalla Tundra Books.
Magari vi chiederete perché non ho ancora parlato del Gilgamesh di Franco Battiato (1992). Personalmente trovo molto noiosa quest'opera più portata al misticismo che all'indagine filosofica. Ugualmente contiene brani meritevoli fra cui "Il diluvio" e "Solo". Una migliore versione in musica di Gilgamesh è l'oratorio Epos O Gilgamesovi (1955) del ceco Bohuslav Martinu, meno reperibile nei negozi di dischi rispetto al lavoro di Battiato. Un Gilgamesh atipico ed idolatra è invece quello portato sulle scene dall'autore/regista Romeo Castellucci.
Infine non è per censura che taccio in questa sede i risvolti omofiliaci del personaggio poiché sono già stati affrontati in una mia nota all'analisi comparata Gilgamesh-Iliade.
Tra il 1847 e il 1851 le esibizioni al British Museum dei capolavori assiri scoperti dalle missioni inglesi a Calah e Ninive crearono una nuova moda "assira" tra i londinesi. L'arredamento vittoriano si arricchì d'imitazioni kitsch dei bassorilievi e delle sculture assire ad uso domestico (soprammobili, scrigni, gioielli, ecc.). La ditta Henry Wilkinson & Co. produceva mediante galvanotecnica coppe da vino che recavano incisioni di tori con testa umana e re assiri. Il toro e il leone alato divennero figure architettoniche molto comuni in Inghilterra e in Francia. Un «toro alato di Ninive» fece anche la sua comparsa in una canzone popolare.
Il libro di Henry Layard
dedicato ai suoi scavi a Ninive (1849) vendette quanto un best-seller
il che, secondo il suo stesso autore, «lo metteva alla pari del testo di cucina
di Mrs. Rundell» (p. 16 McCall
95).
Persino Henry
Rawlinson, traduttore delle iscrizioni di Behistun, fu
simpaticamente preso in giro da Gilbert e Sullivan
nell'operetta The Pirates of Penzance dove un suo alter-ego
cantava: «posso scrivere la lista del bucato in babilonese cuneiforme».
Su Assurbanipal e il crollo dell’impero assiro molti scrittori hanno inevitabilmente ricamato le loro opere, spesso con fantasia spregiudicata. L'ambientazione suggestionò la stessa Agatha Christie, moglie dell'archeologo Max Mallowan che nel 1950 ca. lavorò ad Nimrud. Robert E. Howard, creatore del personaggio heroic fantasy Conan il cimmero, scrisse intorno al 1930 un racconto dal titolo Il Fuoco di Assurbanipal (lo trovate nel V volume dei Cicli fantastici di Howard, ediz. Newton Compton 1995, pp. 197-215).
Qui si narra come Assurbanipal conquistò il mondo antico grazie all’aiuto di un mago e della sua gemma scolpita dalle fiamme dell’inferno (sic!). Naturalmente la gemma attira un'orrenda maledizione su Assurbanipal e, trascorsi i millenni, addosso ai cacciatori di tesori sulle tracce dell’inestimabile gioiello. Ecco dal racconto, la fantasiosa descrizione della città assira sepolta dalle sabbie del deserto e tomba del "crudele" sovrano:
«I tori alati di Ninive! I tori con testa umana! Per tutti i santi, le vecchie leggende sono vere! Sono stati gli assiri a costruire questa città! È tutto vero! Devono essere giunti qui quando i babilonesi hanno devastato l’Assiria. Avanzarono per l’ampia via. Steve percepiva la lugubre antichità di quel luogo e quasi temeva di veder comparire fragorosi carri da guerra o di udire l’improvviso squillo minaccioso di trombe bronzee. I costruttori della città dovevano essere di tutt’altro stampo rispetto alle genti odierne. La loro architettura era repellente: poderosa, e tuttavia così massiccia, tetra e brutale da apparire addirittura incomprensibile per i contemporanei». [ibid pp. 202-204].
L'illustrazione sottostante è tratta dall'adattamento Marvel a fumetti di questo racconto.
Un'immagine più rassicurante di Assurbanipal è data da Robin Wood che lo fa incontrare addirittura con Gilgamesh nella saga a fumetti omonima (ne abbiamo già parlato). L'incontro è, per noi lettori moderni, di sapore surreale dato che le storie di Gilgamesh hanno riposato per millenni sotto la sabbia tra le rovine della biblioteca di Assurbanipal a Ninive. Assurbanipal appare a Gilgamesh come un pensatore a capo di un governo assassino, un uomo debole, non tagliato per l'esercizio del potere ma per le lettere. Una visione riveduta del più sanguinario tra i sovrani assiri ma di enorme suggestione.
Riparliamo di Robert E. Howard che aveva una sincera predilezione per l'epica e la storia mesopotamica. Nel racconto intitolato I figli di Asshur (pubblicato postumo nel 1968 e che trovate nel IV volume dei Cicli fantastici di Howard, ediz. Newton Compton 1995, pp. 228-253) lo spadaccino puritano Solomon Kane trova sugli altopiani del Nord Africa la città perduta di Ninn (Nuova Ninive?). Sovrano della rocca è Asshur-ras-Arab (sic!), suo antagonista Yamen il persiano. Solomon si troverà coinvolto nella lotta di potere che vede opposte fazioni gli assiri (che parlano bantu!), gli elamiti e i Kaldii (caldei?). Sotto il tempio di Baal si consumerà il bagno di sangue finale per assicurarsi il dominio dell'ultimo impero assiro. Ahimè in questi frangenti perirà la bella Siduri (la taverniera di Shamash, ricordate?) compagna di Solomon. Ma il puritano al termine dell'avventurà si sveglierà come da un brutto sogno nell'altopiano deserto.
Proseguendo in questa divagazione passiamo dal fantasy al puro horror. William Peter Blatty ha terrorizzato milioni di lettori con il best-seller L'Esorcista (1971). Nella finzione, lo scontro col maligno inizia proprio nella reggia di Assurbanipal:
«Padre Lancaster Merrin era arrivato: si trovava sul terrapieno
dove un tempo splendeva Ninive dalle sette porte, covo
terrificante delle orde assire. Ora la città giaceva frantumata nella polvere
insanguinata della sua predestinazione. Il gesuita si aggirò tra le rovine come
in cerca di una preda. Il tempio di Nabu. Il tempio di
Ishtar. Vagliava le vibrazioni che gravavano nell'aria. Giunto al
palazzo di Assurbanipal si fermò e guardò in tralice una statua
di pietra calcarea che si ergeva sgraziata: il demone
Pazuzu...».
(da L'esorcista, p. 15 ed. Mondadori
1986, adattamento T. Porzano)
Dal libro di Blatty il regista William Friedkin ricavò nel 1974 un celeberrimo adattamento cinematografico. Il prologo del film è appunto ambientato in Iraq, al campo archeologico di Ninive:
Un dubbio mi assale: ma non era Tebe la città dalle sette porte?
E' davvero curioso come la mitologia mesopotamica sia divenuta fonte inesauribile di nomi e fatti per il genere pulp. Si pensi solo alla migliore invenzione di Lovecraft: il Necronomicon, spunto per un'infinità di storie e film horror. Ma è Nergal, signore dell'ade, che più di ogni altro dio mesopotamico ha fatto furore nella letteratura popolare. A tal proposito ricordo con piacere il racconto La mano di Nergal di Lin Carter su materiale di Robert E. Howard (in Conan il Cimmero, editrice Nord 1989, p. 85-102). In questa fosca storia sword & sorcery Conan il barbaro deve spaccare molti crani prima di impossessarsi dell'amuleto del dio... Mi chiedo se l'allusione alla «la mano di Ishtar», sinonimo di sventura secondo il Libro dei Sogni assiro, sia voluta o casuale. L'illustrazione sottostante è tratta dall'ennesimo adattamento Marvel:
In una altra celebre finzione fantasy, il dio Nergal è oggetto di venerazione dei troll in una guerra di religione contro gli uomini che adorano Tammuz (lo ricordate? è la versione accadica di Dumuzi). Con ironica e disincantata allusione alle discordie del presente l’estroso Frank Thorne, nella saga a fumetti Ghita di Alizarr (stampata in Italia dalla Editrice Nord, 1981) narra del culto di Nergal nel mondo “antidiluviano”:
«Dilagano in città le schiere troll. Le truppe umane sconfitte
dai servi di Nergal fuggono verso i monti. I cittadini inermi, se scampano allo
sterminio, vedono le case incendiate, le donne violentate. La foresta dei
simulacri di Tammuz è abbattuta! Presto li sostituirà Nergal,
dio dei troll, e una nuova foresta di idoli verrà adorata. Così capita alle dee
e agli dei antidiluviani. Tanti saluti e buon viaggio Tammuz. Ma rimanga il tuo
spirito, poco lontano dalle tue città.
L’immagine di
Nergal, l’essere anormale, gonfio e tozzo dio dei Troll,
lampeggia nella mente di Ghita. “La deità più orrenda dopo Baal. Ma Tammuz o Nergal che differenza fa?” sbuffa. “Qua come là, i sacerdoti sono sempre i
maiali più ricchi e più grassi”» (ibid pp. 3, 17. Adattamento T. Porzano).
L. Sprague de Camp nel suo dizionario dei Nomi Hyboriani (appendice al volume Conan il barbaro, AA.VV. Mondadori 1980) annota che Ishtar è una dea shemita pure adorata nelle nazioni hyboriane (sic!). Ricordo che effettivamente Ishtar è la dea di maggior successo in Mesopotamia che travalica differenze culturali e riassume in sé prerogative divine femminili da numerosi culti. Il sincretismo tra credenze immaginarie è proposto con somma plausibilità in Colosso Nero (1937) di Robert E. Howard. Da questo racconto sword & sorcery (pp. 135-187, L'era di Conan, Mondadori 1989) leggiamo questo passo sulla dea Ishtar:
«Principessa, l'incantesimo che i sacerdoti di
Ishtar ti hanno dato è inutile, quindi non ti resta che
consultare il perduto oracolo di Mitra»
Yasmela
rabbrividì. Gli dèi di ieri erano diventati i demoni di domani e i kothiani
avevano abbandonato da tempo il culto di Mitra, dimenticando gli attributi della
divinità universale iboriana. Yasmela aveva la vaga sensazione che, essendo
molto antico, il dio fosse per ciò stesso terribile. Ishtar,
d'altro canto, era paurosa come le altre dee della religione kothiana, perché la
cultura del paese aveva subito la sottile contaminazione di elementi shemiti e
stigiani: i semplici costumi degli iboriani erano stati profondamente modificati
dalle sensuali, lubriche, dispotiche abitudini
dell'oriente.
«E Mitra mi aiuterà? In
fondo adoriamo Ishtar da tanto tempo...»
(ibid. p. 146)
Lo scontro tra divinità è una fissa dei narratori. Dopo quello tra Nergal e Tammuz, e quello tra Mitra e Ishtar, mi piace ricordare quello tra Bel-Marduk (sic!) e Ishtar (“dea della gioia”). Teatro dell’azione è la Babilonia di Intolerance (1916) del noto regista-pioniere D.W. Griffith. Un film da non perdere (la cassetta si trova in molte videoteche) per la smisurata messa in scena. La capitale babilonese pare Metropolis con torri degne della skyline di Chicago, mura di cartapesta e abbondanza di decorazioni egizie e assire!
Splendide ed evidentissime contaminazioni letterarie del Toro Celeste, emissario del dio del cielo An nella celebre tav. VI dell'Epopea di Gilgamesh, sono rintracciabili nel racconto Intrusi a palazzo di Robert E. Howard (incluso nella raccolta Conan il Cimmero, editrice Nord 1989, p. 65-84). Dall'adattamento Marvel a fumetti, splendidamente disegnato da Barry Smith, ho tratto l’illustrazione che qui potete ammirare.
Babilonia è rappresentata in modo irresistibile nella Bibbia. Ricordo ad esempio il lirismo del Salmo 137 (i famosi salici quasimodiani), le beffarde profezie di Isaia ("ti salvino ora i tuoi magi, impegnati a contemplar le stelle!"), e naturalmente la coloratissima visione dell’Apocalisse di San Giovanni (la Grande meretrice che fornica coi i re della terra, seduta sopra una fiera scarlatta piena di nomi di bestemmia, avente sette teste e dieci corna. Sulla sua fronte un mistero: “Babilonia, la grande”).
Essa costituisce dunque lo scenario ideale per storie ricche di catastrofi, lussuria ed enigmi. Ecco pochi esempi per suggerirvi quale fascino abbia esercitato l'esotismo scintillante di Babilonia sull'immaginario di ieri e di oggi.
Senza scomodare le Storie di Erodoto (pratica ormai abusata), possiamo subito rivolgerci ai tragediografi greci, per cogliere le prime "suggestioni babilonesi". Cominciamo con il prediletto Euripide. Il prologo dionisiaco delle Baccanti dispiega nell'immaginazione dello spettatore gli orizzonti cangianti dell'Oriente:
Dioniso: «Ho percorso i campi dalle infinite ricchezze dei
Lidi
e dei Frigi, ho attraversato le pianure di Persia sferzate dal
sole,
le rocche della Battriana, e la terra tempestosa
dei Medi, e
l'Arabia Felice, e tutta l'Asia
che si estende di fronte all'acqua salsa del
mare,
dove si ergono maestose di torri
le città in cui barbari e
Greci si confondono».
(Euripide, Baccanti, vv. 13-18, traduz.
Giorgio Ieranò, Mondadori 1999)
Nulla sfugge alla suggestione. Dai regni costieri dell'Asia Minore (Lidia e Frigia) all'Anatolia (Asia), dalla Mesopotamia e oltre (Persia, Media Bactriana = Afghanistan) allo Yemen (Arabia Fenice). E più avanti la parodo delle baccanti orientali prorompe:
«Io vengo dalla terra d'Asia
lasciato il sacro Tmolo
accorro
per Bromio (=Dioniso) a un dolce tormento».
(Euripide,
Baccanti, vv. 64-66, traduz. Giorgio Ieranò, Mondadori 1999)
Il monte Tmolo riecheggia nei Persiani portati in scena ad Atene nel 472 a.C. Il soggetto di questa tragedia di Eschilo era, per l'epoca, d'attualità. Greci e persiani si erano infatti affrontati pochi anni prima a Salamina. La minaccia dall'Oriente è magnificamente evocata nei versi che seguono:
Gli abitanti del sacro Tmolo hanno giurato
di aggiogare la
Grecia, di farla schiava.
E Babilonia ricchissima fa
avanzare
in lunga fila una schiera confusa: guerrieri che affollano le
navi
o che confidano nella forza dell'arco che si tende.
E tutte le stirpi
dell'Asia si accodano
con la spada sguainata, spronate dai vigorosi comandi
di Serse.
(Eschilo, Persiani, vv. 49-58, traduz.
Giorgio Ieranò, Mondadori 1997. Adatt. T. Porzano)
Ma le cose si metteranno male per i persiani... La parabola della fragilità del potere si era già proposta un secolo prima quando l'antenato di Serse, Ciro, strappò Babilonia all'ultimo re caldeo Baltazar (discendente del famoso Nabucodonosor). Se ricordo bene, il sogno di Baltazar che preannuncia al velleitario sovrano la perdita di Babilonia è descritta nel libro di Daniele (in realtà la Bibbia confonde Baltazar con Nabonedo, ma non sottilizziamo). Questa sarà riproposta a teatro da Calderòn de la Barca e Goethe, in pittura da Rembrandt, in musica da Haendel e Sibelius, solo per citarne alcuni.
Celebre è la visione di S. Agostino ne De Civitate Dei. Babilonia è la città terrena contrapposta alla città celeste. Essa poggia sull’amore egoistico, opposta alla città celeste poggiata sull’amore di Dio. Babilonia è insomma toponimo di male e di confusione per tutto il medioevo e i suoi sovrani sono demoni o pazzi. Nel Paradiso di Dante e anche nell’Orlando Furioso di Ariosto, il più grande dei sovrani di Babilonia, Nabucodonosor, è ricordato come il folle che muove la sua ira contro Daniele. Dante insulta i fiorentini chiamandoli “novelli babilonesi”.
Ritroviamo Nabucodonosor protagonista del Nabucco (1842) di Giuseppe Verdi. Il celeberrimo coro ‘Va pensiero’, ispirato al citato Salmo 137, esprime il dolore dell’esule popolo ebraico e l’acredine verso il dominatore caldeo. Molto buffa, se vogliamo, è la conclusione dell’opera di Verdi dove Nabucodonosor ‘rinsavito’ fa infrangere la statua di Belo (Marduk) e libera gli ebrei unendosi a loro festanti la gloria di Yehova! La reinterpretazione del giovane Verdi (su libretto di Solera) rivela l’interesse verso temi patriottici, all’epoca particolarmente sentiti, attraverso rivisitazioni del passato (come già nei Lombardi alla prima crociata, con stesso librettista).
Facciamo un salto di duemila anni per ritrovare Babilonia archetipo di civiltà, lusso, progresso e inevitabile declino. L'energica Berlino pre-hitleriana è vissuta dall'anti-eroe Franz Biberkopf come una Babilonia prossima alla catastrofe:
Con gli occhi scintillanti il vecchio rabbino guardò lo straniero
[Franz]. Disse Geremia, noi vogliamo salvare Babilonia, ma Babilonia non voleva
essere salvata. Abbandonatela e ognuno di noi ritornerà alla sua casa. La spada
scenda sui Caldei, sugli abitanti di Babilonia. Il vecchio uscì senza dire più
una parola.
(da Berlin Alexanderplatz, Alfred Döblin, ed. Rizzoli 1995, p.
25)
Ho prima accennato alla Babilonia di D.W. Griffith (Intolerance, 1916). La sua fu forse la rappresentazione migliore di cosa divenne, di lì a pochi anni, la mecca del cinema nell'immaginario collettivo. L'appellativo Hollywood Babilonia, fu coniato dal giornalista Kenneth Anger per descrivere lo stato di corruzione e immoralità dell'ambiente cinematografico americano. Il periodo di massima sregolatezza si ebbe appunto negli anni '20 dove una sequela vertiginosa di scandali (il caso 'Fatty' ne fu l'apice) condusse l'America puritana a darsi un codice di autoregolamentazione (o meglio autocensura), il celeberrimo Codice Hays.
Babilonia, nel cinema come nei libri. L'arcipelago letterario di Abarat immaginato da Clive Barker (HarperCollinsPublishers 2002) è un luogo magico dove ogni ora del giorno corrisponde ad un'isola. L'ora sesta coicide con l'isola di Babilonium, dove è possibile incontrare una moltitudine di artisti (mimi, musici, maghi) e attraversare luoghi di piacere (arene, ippodromi). Ma per arrivare a Babilonium dovrete prima incrociare la grande Ziggurat di Noè di Soma Plume (sic!).
"Ziggurat", a Babilonia sinonimo di Esagil (ovvero la torre di Babele), è - guarda un po' - il grattacielo sede del partito di Marduk (dio di Babilonia...) nell'affresco animato Metropolis (regia di Rintaro, 2002). E "marduk" è il nome dato ai funzionari super-armati pronti a farvi fuori se vi intercettano nel coprifuoco vigente in città. Il monito contro il totalitarismo ipertecnologico è allegoricamente rappresentato nel crollo finale della Ziggurat, che ricalca in modo agghiacciante quello del WTC dell'11 Settembre, mentre placidamente suona una ballata di Ray Charles.
Ma tutto era già stato previsto dalla sconfinata fantasia di Georges I. Gurdjieff nel quinto viaggio di Belzebù sulla Terra! E' in quell'occasione che Belzebù ode l'anatema dell'assiro Hamolinadir contro la torre di Babele, simbolo della follia umana:
«Noi innalziamo in questo momento qui, nella città di Babilonia,
una 'torre di Babele' internazionale, con la speranza di salire fino al cielo e
vedere coi nostri propri occhi che cosa capita lassù. E' una torre composta da
mattoni di aspetto simile in apparenza ma fatti in realtà dei materiali più
vari.
Fra questi mattoni ce ne sono di ferro, di legno, di
'pasta', e ce ne sono persino di 'piuma'. Ebbene [...] qualsiasi uomo più o meno
cosciente deve ammettere che prima o poi la torre crollerà e schiaccerà non solo
tutti gli abitanti della città, ma tutto quello ch'essa
contiene.
Quanto a me, io voglio ancora vivere; non voglio
finir schiacciato dalla torre e me ne vado al più presto. Voialtri fate come vi
pare!»
(da I racconti di Belzebù a suo nipote, Neri Pozza Editore,
1999, pp. 290-291)
Chissà se anche Babylon 5, sorta di la base spaziale delle Nazioni Unite ipergalattiche, collasserà su sé stessa nell'ultimo episodio, non ancora uscito, della omonima serie televisiva di fantascienza. Il pubblico americano va pazzo per questi affreschi pieni di alieni in doppio petto. La cosa più divertente della serie di Babylon 5, sfacciatamente ispirata al Deep Space 9 di Star Trek, sono i nomi dei personaggi. Uno fra tutti: Garibaldi...
Ma concludo osservando che l’esotismo multietnico di Babilonia, più che la sua depravazione, pare tornato in auge nelle contaminazioni. Si pensi ai recenti film Matrix dove la navicella degli artefici della resistenza contro le macchine si chiama Nab ovvero Nabucodonosor (e l'ammiraglia si chiamava Ninive!). Un omaggio, forse involontario, al vero spirito libertario, esploratore ed innovatore della civiltà babilonese.
Ringrazio sentitamente Luigi R., Cesare O., Mauro B., Stefano C. e Vittorio A. senza i quali questo articolo sarebbe stato molto più breve e meno interessante.