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F O R U M E S O T E R I
C A
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Da occidentale non mi è facile
addentrarmi nei meandri delle religioni
dell'India, per cui cerco quello che mi
interessa in base alle informazioni avute.
Non essendo incline al misticismo, e trovando immagini forti che
mi interessano, eccomi qui a leggere nel
Ramayana di combattimenti aerei, bombardamenti
aerei, armi atomiche, missili telecomandati, e
tutto questo nel Ramayana scritto non so quanti
millenni fa.
Certo la storia
del re Rama avvince, come anche la storia dei
cugini del Maha bharata, dove si va subito però
al Dronaparva per sapere delle armi nucleari.
Cerca nel Maha Bharata: users.libero.it/linos/MahA/index.html
Sono immagini descritte millenni fa.
Cordiali saluti.
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PREFAZIONE
Il Ramayana di Maharishi Valmiki è una delle
due grandi epiche che formano l'anima della nazione indiana; esso
ha lo scopo dichiarato di glorificare il Dharma e inculcare le verità
spirituali che dischiudono all'uomo la via della perfezione suprema.
Esso rappresenta il vero spirito Indù di stretta e incondizionata
aderenza alla Legge della Giustizia e al fedele svolgimento del
proprio dovere. Uno degli scopi del Ramayana è quello di proclamare
la grandezza di una vita d'azione basata sui principi di giustizia
della legge dell'Essere Divino. La vita dell'uomo perfetto descritta
nel Ramayana vuole spronare tutti gli uomini a sforzarsi di diventare
incarnazioni del Dharma. Il Dharma è l'anima della vita, e una vita
senza Dharma non è degna di questo nome.
Tutte le azioni, gli sforzi, i tentativi e le aspirazioni basati
sull'adharma, sull'egoismo e l'arroganza dell'individuo, sono condannati
a fallire stritolati dalle mani della Legge Divina. Il Ramayana
dipinge magnificamente la vittoria del Dharma e la sconfitta finale
dell'adharma. Rama e Ravana simboleggiano rispettivamente queste
due forze dell'universo. Sri Rama, l'incarnazione di Dio, rappresenta
in sé il figlio ideale, il fratello ideale, il marito ideale, il
re ideale e l'emblema della Divinità sulla terra.
Swami Sivananda scrisse: "Lo Srimad Ramayana è l'anima stessa dell'India.
Gli ideali supremi di ogni indiano sono racchiusi e dipinti in questa
sacra Scrittura, che è una guida completa alla realizzazione di
Dio. È un libro pieno di morali, che ispira i giovani a sublimi
ideali di comportamento e di carattere. Esso contiene lezioni reali
per mogli e mariti, per genitori e figli, per fratelli e sorelle.
È un libro meraviglioso che contiene l'essenza di tutti i Veda e
di tutte le Scritture".
Da sempre il Ramayana ha esercitato una profonda influenza sulle
idee, i sentimenti e la coscienza del popolo indiano, fungendo da
fonte inesauribile di ispirazione per saggi, santi, artisti e poeti.
Per questo è impossibile comprendere l'India senza conoscere il
Ramayana.
A partire dal Ramayana di Valmiki, nel corso dei secoli successivi
molti grandi santi e poeti sono stati ispirati a riscrivere la storia
di Sita e Rama: così sono nati l'Adhyatma Ramayana, il Vasishtha
Ramayana, l'Ananda Ramayana e l'Agastya Ramayana in sanscrito; e
le versioni vernacolari del Ramayana curate da Tulsidas in hindi,
da Kamba in tamil, da Kirtivasa in bengali, da Ezuthachan in malayalam,
ecc.
Malgrado la sua insuperata popolarità, o forse proprio per questo,
il Ramayana non ci è giunto nella forma originaria datagli da Valmiki,
ma a tratti modificato e sfigurato da aggiunte e interpolazioni
successive di vario genere. La maggior parte degli studiosi è dell'opinione
che l'intero settimo libro (Uttara Kandam) e parte del primo siano
aggiunte posteriori.
Tra i libri sacri dell'India, il Ramayana è considerato un Itihasa,
una storia epica permeata di mitologia che facendo uso dell'allegoria
magnifica delle realtà oggettive (interne o esterne). Lo studio
del testo diventa più affascinante, grazie agli elementi mitologici
che contiene. La filosofia o i rituali da soli non sono sufficienti.
Non si può separare filosofia e mitologia nella religione. Ricordiamo
che sono il Ramayana e il Mahabharata che tengono uniti culturalmente
milioni di persone come un popolo, malgrado le numerose differenze
che sembrano dividerle.
La bellezza del Ramayana è davvero al di là di ogni descrizione,
perché è la rivelazione ricevuta da un Rishi, e non il mero lavoro
intellettuale di uno scrittore; perciò il suo significato è 'integrale'
e va preso globalmente. Infatti nessuna considerazione parziale
o unilaterale potrebbe rendergli giustizia. Nessuna traduzione potrà
mai rendere la sua bellezza poetica e la musicalità metrica dei
versetti originali.
Il poeta-veggente Valmiki ci descrive la vita nella sua totalità:
individuale, sociale e spirituale. Nel Ramayana vengono messi insieme
amore ed eroismo, ahimsa e kshatriya-dharma. Bhakti e yoga, karma
e jnana sono fusi in un tutt'uno.
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VALMIKI
La grande epica di Valmiki è chiamata in sanscrito Adikavya (il
primo poema), perché è il primo lavoro letterario di genuina poesia,
e il suo autore è chiamato Adikavi (il primo dei poeti).
Valmiki era un maharishi, un grande veggente della Verità, uno che
attraverso lo sforzo personale nella pratica spirituale aveva ottenuto
la grazia di Dio. In lui l'occhio divino dell'intuizione era stato
aperto e la conoscenza scaturiva dal di dentro. La sua immortale
opera letteraria, semplice e nello stesso tempo sublime, è prova
evidente del suo stato di realizzazione.
Il grande saggio, però, non apparteneva a un lignaggio di uomini
spirituali. Egli era un uomo del popolo che per mantenere la sua
famiglia, non trovando di meglio, era diventato un ladro e un predone
di strada. Si dice che un giorno Valmiki attaccasse il grande saggio
Narada, che si trovava a passare dalle sue parti. Il saggio lo rimproverò
per la vita violenta e disonesta che stava conducendo, ma Valmiki
si difese dicendo che in qualche modo doveva mantenere la sua famiglia,
e che non riuscendo a guadagnarsi da vivere con mezzi leciti, era
stato in un certo senso costretto a ricorrere a mezzi illeciti.
Narada gli rispose che questo non giustificava il suo comportamento
e che lui personalmente avrebbe dovuto pagare per i grandi peccati
che commetteva, e non i suoi familiari, per i quali diceva di rubare.
Fortemente scosso dalle parole del saggio, Valmiki si precipitò
a casa e chiese alla moglie, ai figli e agli anziani genitori se
erano pronti a rispondere karmicamente per i suoi modi illeciti
di sostenere la famiglia, e a condividere quindi le conseguenze
dei suoi misfatti. Essi risposero che era suo dovere mantenerli,
ma che a loro non interessava quali mezzi usasse allo scopo. Insomma,
essi non volevano avere niente a che fare con i suoi peccati e le
giuste punizioni che avrebbe dovuto subire a causa delle sue malefatte.
Questo duro scontro con la realtà aprì gli occhi di Valmiki, che
tornò subito da Narada e lo supplicò di dargli un mezzo di redenzione.
Il saggio celeste ebbe pietà del ladrone, e lo iniziò alla ripetizione
della parola sacra 'Rama'; ma quell'uomo rustico riuscì a pronunciare
la parola sacra solo nella sua forma inversa di 'Mara'. Tuttavia
il saggio lo incoraggiò a continuare la ripetizione, anche in quella
forma invertita. Nel corso del tempo, la ripetizione continua 'mara
mara mara' divenne 'Rama Rama Rama'.
Questo trasformò la sua mente. Il cambiamento avvenne in lui in
maniera spontanea e immediata, come se si fosse svegliato da un
brutto sogno. Egli fu assorbito così profondamente nella ripetizione
del sacro mantra che presto dimenticò ogni coscienza del corpo.
Sintonizzandosi con il mantra, egli entrò dentro e s'immerse nella
sorgente dell'eterna beatitudine. Seduto a meditare su quella Realtà,
rimase totalmente assorto in sé. Col tempo delle formiche costruirono
sopra e intorno a lui un formicaio, e ricoprirono il suo corpo;
ma il saggio, completamente assorto in samadhi, non ne fu consapevole.
Egli rimase immerso in samadhi dentro il formicaio per moltissimo
tempo. Da qui viene il suo nome Valmiki, che significa 'colui che
divenne un saggio dentro un formicaio (valmika)'.
Sri Rama è la personificazione del suono mistico 'Rama'. La realizzazione
spirituale ottenuta attraverso la ripetizione incessante del mantra
'Rama' fece vedere intuitivamente a Maharishi Valmiki l'intera storia
di Sri Rama. E quello che lui vide lo trascrisse in bellissimi versi
nel sacro poema che chiamò Ramayana (l'epopea di Rama).
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ADHYATMA
RAMAYANA
Il conflitto tra Rama e Ravana non è tanto tra due razze quanto
tra due civiltà e due modi di vivere. Uno degli scopi del poema
è quello di mostrare che il vero progresso dell'umanità sta nella
sua evoluzione morale e spirituale, e non nel suo sviluppo scientifico
e materiale. Il vero progresso dell'uomo è interno, non esterno.
Esternamente egli potrebbe condurre una vita semplice ed essenziale,
e nello stesso tempo vivere ad altissimi livelli morali e spirituali.
Viceversa l'uomo potrebbe essere molto evoluto scientificamente,
ricco e opulento materialmente, e tuttavia rimanere un essere primitivo
nel campo morale e spirituale, dedito all'alcool, alla violenza
e alla sensualità. I rakshasa o i demoni del Ramayana sono esempi
di questo tipo, e Valmiki mostra le differenze tra le civiltà di
Lanka, Kishkindha e Ayodhya, sottolineando che
il vero progresso non è materiale, ma morale. La vera civiltà non
dev'essere giudicata dalle sue conquiste materiali, ma dalle sue
realizzazioni spirituali.
Le due forze del bene e del male sono presenti dappertutto, dentro
e fuori di noi. Per questo in molte Scritture sacre (come la Gita
e il Chandi) troviamo la nota costante della battaglia cruenta tra
le forze opposte del bene e del male, a simboleggiare la battaglia
in atto in ogni sadhaka tra le abitudini, le forze, le tendenze
e le qualità divine contro quelle demoniache. Il Ramayana dà alle
forze benigne il nome di Rishi, sempre devoti alla meditazione,
alle austerità e al sacrificio. Le forze maligne sono chiamate rakshasa
o demoni, sempre dediti alla violenza e alla sopraffazione. I malvagi
sono prepotenti e intraprendenti, e sembrano avere facilmente successo.
I virtuosi sono prudenti e diffidenti, e sembrano continuamente
in difficoltà. Ma il Ramayana insegna che attraverso un sentiero
apparentemente facile e prosperoso i malvagi si avviano verso la
distruzione; mentre i virtuosi subiscono continuamente prove e tribolazioni,
che hanno lo scopo di mettere alla prova la sincerità del loro carattere.
Alla fine essi trionfano sempre.
La storia del Ramayana è una verità eterna in atto nelle menti di
tutte le anime che si sforzano di raggiungere l'unione spirituale.
In questo modo il Ramayana è rappresentato perennemente da e in
tutti i jivatman che anelano alla riunione con l'Amato. La gloria
del Ramayana consiste nel proiettare personalità oggettive che incarnano
le varie forze al lavoro nell'uomo. Così Rama rappresenta il Paramatman,
Dio, l'Assoluto trascendente. Sita rappresenta il jivatman, l'anima
individuale, che è una scintilla del Divino. Quello che Sita è per
Rama, il jivatman è per il Paramatman. Come Sita è eternamente unita
a Rama, così l'anima individuale ha il suo essere in Dio.
Re Dasaratha dev'essere visto come l'uomo comune del mondo posto
in un ambiente di ricchezza e di piacere, e che cade vittima delle
istigazioni della sua mente maligna (Manthara) affascinata dagli
oggetti dei sensi (Kaikeyi).
Il corpo di ogni essere umano è Lanka. Il jivatman che è racchiuso
nel corpo, o prigioniero nell'isola di Lanka, ha sempre desiderato
vivere unito a Rama, al Paramatman. Ma i demoni vogliono impedirlo.
I demoni rappresentano certi aspetti (guna) del carattere. Questi
guna impediscono al jivatman, Sita, prigioniero nel corpo, di riunirsi
con il Paramatman. Ma l'anima prigioniera che cerca di riunirsi
con il suo Signore riceve la visita del Guru, Hanuman, che le mostra
l'anello del Signore (cioè, la conoscenza suprema che distrugge
ogni illusione). In questo modo Sita trova la strada per riunirsi
con Sri Rama, l'anima individuale si riunisce con Dio.
Il Signore s'incarnò come Rama, Bharata, Lakshmana e Satrughna.
Sebbene in quattro forme differenti, in realtà essi erano Uno. Similmente
la Realtà Cosmica si rivela come Shiva, Vishnu, Shakti, ecc. La
conoscenza di uno di questi aspetti equivale alla conoscenza dell'unica
Realtà Assoluta.
Nella natura e nell'uomo ci sono tre disposizioni o qualità chiamate
guna: sattva, rajas e tamas. Sattva promuove la purezza, rajas risveglia
la passione e
la lussuria, mentre tamas favorisce sonno, apatia e inerzia. Dei
tre fratelli di Lanka, Vibhishana è fatto di sattva; e infatti si
oppone alle malvagità di Ravana. Kumbhakarna è fatto di tamas; e
perciò non fa altro che dormire e mangiare in maniera sregolata.
Ravana incarna il rajas, e rappresenta l'ego o la mente libidinosa
con i cinque organi di percezione e i cinque organi d'azione; questi
dieci organi sono allegoricamente rappresentati dalle sue dieci
teste.
L'ego, la mente malvagia (Ravana), cerca di separare l'anima individuale
(Sita) dalla sua eterna unione con il Paramatman (Rama), e strappandola
dal suo Amato fa di tutto per stabilire con lei una relazione impossibile.
Mentre l'anima Sita ignora le proposte maligne della mente Ravana,
e si angustia anelando alla riunione con Dio (Rama).
Il guru o il maestro spirituale è il più grande devoto di Dio; è
lui che agisce da tramite per riunire il jivatman con il Paramatman.
Egli è un grandissimo devoto, puro, fedele, leale ed eccezionale
da tutti i punti di vista. A lui Dio affida il compito di andare
in cerca dell'anima rapita dall'ego e nascosta nei meandri del samsara,
a lui è affidato il compito di consolarla e mostrarle l'anello dell'Amato,
assicurandole che presto sarà riunita al suo Signore. Hanuman è
la personificazione del guru e del più grande devoto di Dio.
Prima di lasciare questo mondo, il Signore Rama si riunì con tutti
i suoi devoti perché, come disse a Sugriva, Lui e i suoi devoti
sono inseparabilmente Uno. Egli non sarebbe mai entrato nella sua
dimora suprema (Parama Padam) lasciando dietro i suoi devoti.
Anche Hanuman era andato per immergersi definitivamente nel suo
Signore, ma Rama gli affidò una diversa funzione cosmica. Egli doveva
essere un Ciranjivi, un essere immortale sempre presente sulla terra.
Come incarnazione del guru, Hanuman non potrà mai lasciare questo
mondo. Dovunque c'è Rama e Sita, dovunque si studiano e si vivono
gli ideali del Ramayana, la sua benevola presenza è certa, per dare
forza e conforto all'aspirante.
Vibhishana pure era andato ad Ayodhya, pronto ad unirsi al suo Ideale,
ma anche a lui Rama assegnò un compito diverso. Egli dovrà continuare
a regnare sul mondo materiale (Lanka) fino a quando ci saranno aspiranti
spirituali in cerca di salvezza. Fino ad allora Sattva-guna continuerà
ad assolvere il suo sacro dovere di purificatore.
Editrice Vidyananda
Il Ramayana di Valmiki è diviso in sette libri:
PRIMO - Bala Kandam - L'infanzia di Rama
SECONDO - Ayodhya Kandam - La vita ad Ayodhya
TERZO - Aranya Kandam - La vita nella foresta
QUARTO - Kishkindha Kandam - Il soggiorno a Kishkindha
QUINTO - Sundara Kandam - La magnifica impresa
SESTO - Yuddha Kandam - La grande battaglia
SETTIMO - Uttara Kandam - Dopo l'incoronazione
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NOTA
Nel presentare questa versione del Ramayana di Valmiki curata in
inglese da Swami Venkatesananda, bisogna precisare alcune cose per
rendere giustizia all'impostazione originaria del libro, dalla quale
ci siamo lievemente distaccati in pochi punti marginali sia per
motivi pratici di stampa sia per venire maggiormente incontro al
lettore non specializzato. Lo schema elaborato dallo Swami segue
lo stile di un diario, con letture quotidiane per un totale di 366
pagine, così da coprire la lettura dell'intero libro nel corso di
un anno. Noi abbiamo mantenuto la stessa impostazione della pagina,
tralasciando però di citare il giorno e il mese dell'anno. Sulla
pagina in alto è riportato da un lato il numero di pagina e dall'altro
il numero del libro (kandam) e il numero del capitolo o dei capitoli
condensati in quella pagina.
Ogni pagina è la traduzione, necessariamente condensata, di uno
o più capitoli di ciascuno dei sette libri che compongono il testo
originale sanscrito. Di conseguenza la lunghezza delle pagine non
è omogenea.
Pur non essendo sempre letterale, la traduzione dello Swami si sforza
di seguire il più possibile l'originale sanscrito, mantenendo molto
spesso l'uso delle stesse parole, dello stesso stile e, qualche
volta, delle stesse ripetizioni del testo originale.
Dal capitolo tradotto in ogni pagina, lo Swami aveva scelto dei
versetti particolarmente significativi, ponendoli all'inizio della
pagina in alto, scritti in sanscrito traslitterato. La traduzione
dei versetti scelti era poi sottolineata nel testo della pagina.
Alcune note incluse dallo Swami sono state omesse.
Alla fine del volume è stato riportato un glossario, il cui scopo
è quello di far conoscere chi sono i vari personaggi. Sarebbe bene
stabilire con essi una certa familiarità anche prima dello studio
del testo.
Per facilitare la lettura dei nomi e dei termini sanscriti al lettore
non specializzato, abbiamo usato una traslitterazione che venisse
incontro il più possibile alla lingua italiana senza però alterare
l'originale.
Abbiamo omesso gli accenti lunghi sulle vocali, e i puntini sotto
le consonanti linguali.
La r vocalica è stata a volte tradotta ri.
La s palatale è stata lasciata semplicemente s.
La s cerebrale sibilante è stata sempre trascritta come sh.
Ricordiamo che la lettera c si legge sempre dolce, come l'italiano
cena; ad esempio, Marica si legge Maricia. Similmente, la lettera
g si legge sempre dura come ghiro; ad esempio, Gita si legge Ghita.
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INTRODUZIONE
di Swami Venkatesananda
Prima di cominciare la lettura del testo, penso sia opportuno fare
alcune considerazioni riguardo la storia e la geografia del Ramayana.
Nel libro 'Towards Acquarius' Vera W. Reid dice quanto segue riguardo
le date: "Il Ramayana, che immortalò il nome di Rama, fu scritto
nella sua forma attuale nel quarto secolo a.C. Tuttavia non c'è
dubbio che si trattava di un'epica indiana insegnata e trasmessa
oralmente già centinaia o forse migliaia d'anni prima. Così esso
contiene preziose testimonianze di vita sociale e religiosa di periodi
di tempo per i quali non esistono testimonianze storiche. Esso indica
anche che Rama era un personaggio veramente esistito e non, come
si pensava, un personaggio mitologico. Nel poema vengono infatti
descritte in maniera dettagliata le posizioni in cui si trovavano
i pianeti al momento della nascita di Rama. Questo costituisce il
primo oroscopo personale esistente e stabilisce il fatto che la
persona per la quale fu fatto nacque prima del 3.102 a.C.- probabilmente
intorno al 5.000 a.C.".
Poteva trattarsi di un'epica indiana, ma penso che quasi sicuramente
l'India attuale non è il posto in cui visse Rama. Certamente la
geografia della terra era molto diversa settemila o diecimila anni
fa. Gli stessi scienziati hanno varie teorie riguardo la deriva
dei continenti, i flussi delle maree, la grande alluvione, ecc.
Io azzardo persino l'ipotesi che tali cataclismi siano stati causati
da una grande guerra in cui furono usate, molto liberamente, potentissime
armi atomiche. Sono convinto che almeno il territorio chiamato Lanka,
sul quale ebbe luogo la grande guerra, fu sommerso dalla grande
alluvione che seguì l'abuso di armi nucleari. L'attuale Sri Lanka
non è certamente la Lanka del Ramayana.
Il fatto che il Ramayana sia in sanscrito non giustifica l'affermazione
che sia indiano. Il sanscrito giunse in India insieme agli Ariani,
che emigrarono dal Circolo Polare Artico attraverso l'Asia centrale
e occidentale. Il Ramayana potrebbe fare benissimo parte della storia
degli Ariani durante il loro periodo di migrazione.
Penso che le armi usate fossero indubbiamente nucleari, se non qualcosa
di peggio che la scienza moderna deve ancora scoprire. È interessante
notare che le armi erano prodotte da 'saggi', ma non usate da essi;
anche oggi lo scienziato accademico progetta le armi che useranno
gli uomini delle forze armate.
I 'demoni' non erano particolari esseri sovrumani o subumani. Ritengo
che la parola 'demone' non abbia maggiore significato della parola
'nemico' usata in guerra. Ciascun lato chiama l'altro 'nemico'.
Uno studio approfondito del testo originale ci incoraggia a pensare
che le forze di Rama, i vanara, non erano costituite da scimmie,
orsi e simili creature, ma che tali nomignoli indicassero piuttosto
i nomi di certe tribù montanare.
È possibile che alcune storie, da cui sembra che essi fossero di
natura subumana, siano interpolazioni fatte da un poeta successivo
che, con la sua vena, ha aggiunto umore e giochi di parole al racconto,
per renderlo più interessante.
Ho inteso invariabilmente 'volare' per significare prendere un velivolo;
come ai nostri giorni diciamo: 'Il Signor.... è volato in Giappone'.
Le descrizioni suggeriscono diversi tipi di velivoli allora in uso.
Il Ramayana è indubbiamente preistorico. Allora perché dovremmo
studiarlo? Mettere da parte il Ramayana considerandolo un mito o
la fantasia di un poeta, significherebbe gettare via un tesoro.
D'altra parte considerarlo solo una Scrittura da venerare e leggere
con devozione, significherebbe rimanere ciechi al tesoro.
Che il Ramayana - almeno la versione originale di Valmiki - sia
un semplice documento storico non può essere messo in dubbio. Possono
esserci delle esagerazioni, ma c'è molta esagerazione anche nei
giornali. Nonostante la narrazione veli le identità tribali degli
eroi, si tende a parteggiare e a identificarsi con l'uno o con l'altro,
indulgendo in giudizi - tutte cose che inevitabilmente generano
violenza nel nostro cuore.
Come documento storico è una semplice registrazione di eventi. Ma
il narratore non sa fare a meno di razionalizzare le azioni dell'eroe
e del villano, insinuandovi motivi. Il moderno psicologo fa questo
continuamente. Quest'analisi però esiste solo nella mente dell'analista,
e potrebbe non avere alcuna base. "Perché Rama ha fatto questo,
o Ravana ha fatto quello?". La sola risposta è: "Rama ha fatto questo!".
Letto così, il Ramayana è ancora lontano da voi e state trattando
Rama, Ravana e gli altri come oggetti del vostro studio psicanalitico.
Invece la saggezza risiede nello studiare il testo in maniera che
sia assimilato, in modo che diventi parte di voi, e allora il tesoro
sarà vostro.
Studiate il Ramayana senza pregiudizi, e allora sarete capaci d'assimilarlo.
Allora il Ramayana stesso agirà, e la sua azione, priva d'interesse
e volontà personale, sarà non-violenta. Installate Rama sul trono
del vostro cuore, senza giudicarlo (né come Dio né altro). Allora
Rama stesso agirà dall'interno di voi stessi.
Quando il Ramayana viene studiato come sacra Scrittura, si fa esperienza
di un sentimento diverso: poiché le caratteristiche razziali o regionali
dei personaggi sono mascherate, 'vediamo' nella Scrittura uno specchio
nel quale si riflettono il nostro cuore e la nostra mente. Rama
allora diventa il Divino nel nostro cuore. Sita è il simbolo di
ogni grande passione (la nostra fede, ideologia, ecc.), e Ravana
è l'aggregato dei (dieci) sensi. Si può trarre da questo tutta la
saggezza che siamo pronti a derivarne!
Che Dio vi benedica.
Swami Venkatesananda
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MAHARISHI
VALMIKI
SRIMAD RAMAYANA
Libro primo: BALA KANDAM - L'infanzia di Rama
Valmiki chiese al grande saggio Narada:
"C'è qualcuno in questo mondo che è di natura gentile, potente,
giusto, risoluto, istruito, abile nell'azione, veritiero nel parlare,
esemplare nella condotta, dedito al benessere di tutte le creature,
capace, piacevole nell'aspetto, autocontrollato, che ha vinto la
collera, risplendente e libero dalla gelosia, e del quale anche
gli dèi hanno paura quand'è adirato?".
Felicissimo, dopo avere magnificato le glorie del Signore Rama,
che era la persona che rispondeva alla descrizione implicita nella
domanda di Valmiki, il saggio Narada gli narrò brevemente l'intero
Ramayana:
"Rama è pari al Signore Vishnu! Nella sua natura egli è come l'oceano,
l'Himalaya, la Madre Terra, il dio della prosperità e l'incarnazione
del Dharma". Quindi Narada raccontò la storia di Sri Rama.
Dopo la narrazione Narada andò per la sua strada. Mentre Valmiki,
accompagnato dal discepolo Bharadvaja, andò verso il fiume Tamasa
per fare le abluzioni e il bagno di mezzogiorno. Fu allora che vide
un cacciatore uccidere crudelmente una gru maschio che giocava con
la sua compagna, e udì il lamento straziante della femmina.
Preso dalla compassione e adirato per la crudeltà del cacciatore,
Valmiki pronunciò una maledizione: "Per questo peccato, perderai
la tua pace mentale per innumerevoli anni".
Riprendendosi prontamente, Valmiki si pentì della maledizione (che
gli era uscita dalle labbra sotto forma di un verso espresso in
un metro incantevole), e l'annullò dicendo: "Sarà un verso e non
una maledizione". Eppure, il mistero che persino lui era potuto
andare in collera, rischiando di perdere i meriti del suo ascetismo,
l'affascinava.
Mentre continuava a pensarci ritornò nel suo eremitaggio, dove ebbe
la visione del divino Brahma, il Creatore. Valmiki Lo adorò.
Conoscendo lo stato mentale dell'asceta, Brahma gli disse: "Il metro
nel quale hai pronunciato quelle parole, o Valmiki, ti porterà grandi
benedizioni. Canta con lo stesso metro la gloria e la storia di
Sri Rama; sviluppa ciò che Narada ti ha già raccontato. Tutti i
dettagli riguardanti la storia di Rama saranno svelati alla tua
visione; nulla di ciò che esprimerai sarà falso. La tua composizione
sarà cantata finché splenderanno il sole e la luna".
Dopo averlo benedetto, il Signore Brahma ritornò nel proprio regno.
Subito dopo Valmiki cominciò a comporre l'epica immortale - il Ramayana
- nello stesso stile in cui aveva pronunciato il suo primo verso
rivolto al cacciatore.
Valmiki entrò in meditazione profonda, e nello stato di supercoscienza
vide realmente tutto ciò che era avvenuto nel passato, così chiaramente
come avrebbe visto un frutto nel palmo della sua mano. L'intera
storia si palesò alla sua coscienza in ogni dettaglio, compreso
ciò che i vari personaggi avevano detto o pensato, e come ridevano
o si comportavano.
La narrazione fluì dalle sue labbra sotto forma di un dolce poema,
e sebbene il suo tema centrale sia l'esposizione dettagliata del
Dharma e del moksha (liberazione), tratta anche della prosperità
(artha) e del piacere (kama), e incanta la mente tanto quanto illumina
l'anima. La storia che gli si rivelò andava dalla nascita all'incoronazione
di Rama, fino al suo regnare come monarca; e consisteva di ventiquattromila
versi.
Ora Valmiki si stava chiedendo: "Chi è quell'uomo intelligente,
dotato di memoria quasi sovrumana, che imparerà l'intero poema a
memoria e lo trasmetterà ai posteri?". In quell'istante entrarono
Lava e Kusa, che s'inchinarono davanti a lui. Essi erano i figli
di Rama e Sita; ed erano nati nello stesso eremo di Valmiki dopo
che Sita, bandita dalla corte di Rama, vi aveva preso rifugio. E
a Kusa e Lava, che erano i suoi migliori discepoli, Valmiki affidò
il poema epico - l'intero Ramayana, che comprende la grande storia
di Sita - chiamandolo Paulastya Vadham, poiché tratta della vittoria
su Ravana o Paulastya.
I due giovanetti memorizzarono presto l'intera epica. Avevano delle
voci melodiose ed erano esperti di musica. Nel loro aspetto erano
come immagini di Sri Rama. Un giorno recitarono l'epica in un'assemblea
di saggi e santi, che rimasero incantati dalla musica e rapiti dalla
sublimità dell'epica stessa. Essi proclamarono che il racconto di
Valmiki aveva immortalato la storia di Rama, che era così vivida
che ascoltarla era come riviverla. Inoltre i saggi premiarono i
due ragazzi con doni adeguati.
Incoraggiati, i due giovani si misero a viaggiare, narrando la storia
divina ovunque andassero. Un giorno giunsero ad Ayodhya, la capitale
del Kosala, dove regnava Rama. Anche qui furono accolti calorosamente
dalla gente. La loro fama giunse alle orecchie di Rama, che li invitò
a palazzo e li ricevette con gli onori dovuti agli asceti e ai saggi.
Quindi disse ai suoi fratelli: "Ascoltate attentamente il poema
epico che questi due giovani s'apprestano a cantare".
Allora, seguendo l'ordine di Sri Rama, i due ragazzi cominciarono
a cantare la storia nello stile che si conviene alla dignità del
poema. Lo stesso Rama era tra il pubblico e presto la sua mente
fu presa dalla narrazione.
Kusa e Lava dissero:
La storia sublime che stiamo per narrare è quella dei discendenti
del grande re Ikshvaku, tra i cui antenati c'era il famoso Sagara.
Essa è conosciuta come Ramayana. Ascoltate senza pregiudizio, mentre
raccontiamo la storia fin dall'inizio.
Sulle rive del sacro fiume Sarayu c'è un potente regno chiamato
Kosala. La sua capitale è Ayodhya, città costruita dallo stesso
Vaivasvata Manu, il primo regnante della terra nell'attuale ciclo
cosmico. Quest'immensa città si estende per dodici yojana (oltre
150 km) in lunghezza e tre yojana (oltre 38 km) in larghezza. È
una città potente e prosperosa, ben progettata e circondata da un
fossato invalicabile. Vi sono ambasciate di re che onorano l'imperatore,
e mercanti provenienti da molti paesi del mondo.
Le sue strade sono larghe e pulite, e il suo perfetto sistema idrico
fornisce acqua dolce e buona a tutti gli abitanti. Ci sono edifici
di sette piani decorati con pietre preziose, e la città risplende
come un corpo celeste. Inoltre essa è protetta da ogni lato da guerrieri
potenti e fedeli che la rendono ancor più inespugnabile.
I cittadini che vivono in questa magnifica città sono felici, devoti
alla giustizia, istruiti, saggi, sinceri, contenti dei beni che
hanno e perciò liberi dall'avarizia. In questa città nessuno è povero
o indigente, nessuno è ignorante o crudele. Tutti conducono una
vita ben regolata, fatta di devozione e carità. Ognuno ha fede in
Dio e nelle sacre Scritture, e ciascun membro delle comunità dei
due-volte-nati (dvija) è ben istruito nelle tradizioni sacre. Ottusaggine
e meschinità sono sconosciute in questa città. I brahmana si dedicano
devotamente allo studio dei testi sacri, ad una vita autocontrollata
libera dal desiderio e dall'odio, e alla promozione della giustizia
nel mondo. Mentre coloro che appartengono alle altre tre comunità
(i regnanti e i guerrieri, gli agricoltori e i commercianti, e i
servi del popolo) seguono la direzione dei brahmana.
In questo regno e in questa città regnava il famoso re Dasaratha,
che era istruito nei Veda, ed era tanto potente quanto saggio. Egli
era veramente un saggio reale; un saggio a cui era capitato d'occupare
un trono. Conduceva una vita austera, con i sensi e la mente sotto
il suo pieno controllo. Dalla capitale Ayodhya (dal nome significativo,
che vuol dire invincibile), resa invulnerabile dalle sue porte possenti
e risplendente con le sue bellissime case abitate da migliaia di
persone, il signore del mondo - Dasaratha - governava il regno come
Indra governa il cielo.
Re Dasaratha aveva otto ministri. Vasishtha e Vamadeva erano i suoi
precettori; e aveva anche altri consiglieri.
I ministri possedevano nobili qualità di statisti: erano ricchi
e modesti, potenti e autocontrollati, maestosi e sinceri. Erano
cortesi e avevano sempre il sorriso sulle labbra. Erano severi,
ma non andavano mai in collera neanche se venivano provocati. Avevano
tatto, ma non deviavano mai dal sentiero della verità. Erano giusti,
e non esitavano a punire i colpevoli anche quando si fosse trattato
dei propri figli. Mentre non perseguitavano neanche un nemico, se
non era colpevole.
Si preoccupavano che i forzieri dello stato fossero pieni, ma per
raggiungere tale scopo non usavano mezzi ingiusti. Quando emanavano
una sentenza, prendevano sempre in considerazione la debolezza o
la forza del colpevole. La loro condotta aveva l'approvazione dei
precettori. Erano famosi e potenti, e la reputazione della loro
saggezza e della loro abilità di governo giungeva fino in terre
straniere.
Sebbene il re fosse giusto e desiderasse tanto avere un figlio ed
erede al trono, non aveva ancora avuto questa benedizione. Perciò
un giorno disse tra sé: "Perché non dovrei compiere il sacrificio-del-cavallo
per ottenere la benedizione di un figlio?". Quindi chiamò immediatamente
a consiglio i suoi precettori e i sacerdoti.
Il re disse: "Nonostante goda di tutte le benedizioni di questo
mondo, non ho la fortuna di guardare il volto di un figlio, e questo
mi rattrista. Per ottenere questa benedizione, penso che dovrei
compiere il sacrificio-del-cavallo. Vi prego, disponete affinché
ciò sia possibile!".
I precettori approvarono l'idea; e consigliarono di liberare un
buon cavallo e di assicurarne l'incolumità. Quindi chiesero che
per il rito sacro si preparasse il terreno sulla riva nord del fiume
Sarayu.
Il re decretò che tutto questo fosse fatto immediatamente. Dopo
avere affidato il cavallo alle cure di un nobile principe, si assicurò
che i riti preliminari relativi al sacrificio fossero compiuti a
dovere dai sacerdoti, perché non ci fossero pecche nella sua conclusione;
altrimenti l'esecutore del rito avrebbe perso la sua prosperità.
I ministri e i sacerdoti diedero subito inizio ai compiti che avevano
ricevuto.
Infine il re annunciò il suo proposito alle mogli, e concluse dicendo
loro: "Sottoponetevi alla necessaria consacrazione insieme a me".
Quando udirono questo, i loro volti sbocciarono come i fiori di
loto al termine della stagione invernale.
Il ministro Sumantra disse al re:
"La seguente storia fu originariamente attribuita al saggio Sanatkumara,
che ti profetizzò la nascita di quattro figli. La sua profezia continuava
dicendo:
"Il saggio Kasyapa ha un figlio chiamato Vibhandaka, che avrà un
figlio di nome Rshyasringa. Questi vivrà sempre nella foresta, dedito
al servizio e alla sacra e sola compagnia di suo padre.
"Perciò Rshyasringa praticherà il brahmacharya (celibato) sia nel
suo aspetto di continenza fisica che in quello di trasformazione
spirituale di tutto il suo essere. Non avendo mai posto gli occhi
su persone del sesso opposto, possiederà l'innocenza dell'ignoranza.
"In quello stesso periodo, il potente Romapada sarà re di Anga,
e il suo regno soffrirà gli stenti di una forte siccità causata
dal karma del re e dei suoi sudditi.
"Quindi il re chiederà consiglio ai dotti brahmana, che proferiranno
l'unica soluzione alla crisi: "Se farai venire il giovane saggio
Rshyasringa nel tuo regno e gli darai in sposa tua figlia adottiva
Shanta, gli dèi saranno compiaciuti e invieranno una pioggia abbondante".
"Ma chi avrebbe potuto indurre il potente saggio ad allontanarsi
da suo padre?
"Il re affiderà il compito ai brahmana. Mentre il sacerdote di famiglia
gli suggerirà: "Impiega allo scopo le tue cortigiane più graziose".
"Il re acconsentirà, e un gruppo delle più belle damigelle si recherà
nella foresta dove vivrà il saggio. Notandole fuori dell'eremitaggio,
Rshyasringa le inviterà ad entrare e tributerà loro gli onori che
si riservano agli ospiti.
"Esse a loro volta gli offriranno della frutta, ma si congederanno
presto da lui, per paura d'incorrere nel disappunto di suo padre.
"La loro compagnia, il loro contatto e il loro tenero abbraccio,
farà sorgere nel giovane innocente il desiderio di stare ancora
in loro compagnia. Presto egli lascerà l'eremitaggio e seguirà le
tracce delle cortigiane. Ed ecco! Al suo ingresso nel regno di Anga
ci sarà l'attesissimo scroscio di pioggia.
"Il re accoglierà il giovane asceta con gli onori dovuti, chiedendogli
per prima cosa di concedere un dono: "Possa tuo padre non adirarsi
con noi, né maledirci".
"Questo verrà concesso. Quindi il re accompagnerà il giovane saggio
negli appartamenti privati e gli darà in sposa la figlia adottiva
Shanta. Il glorioso saggio Rshyasringa trascorrerà così il suo tempo
in compagnia della moglie Shanta".
Il ministro Sumantra continuò:
"Il saggio Sanatkumara profetizzò ancora quanto segue: "Un discendente
di Ikshvaku, chiamato re Dasaratha, coltiverà l'amicizia di re Romapada
e un giorno si rivolgerà a lui con questa richiesta: 'O re, poiché
non ho figli, permetti che Rshyasringa conduca un rito sacro, affinché
possa essere benedetto con un figlio'. Acconsentendo alla richiesta,
Romapada darà al saggio l'incarico di condurre il rito sacro attraverso
il quale Dasaratha sarà benedetto con dei figli".
"Perciò, mio re, vi esorto a fare subito quanto necessario per convincere
il saggio Rshyasringa a venire qui per presiedere il rito sacro
che avete intrapreso".
Con il permesso dei precettori e dei sacerdoti, re Dasaratha andò
subito in cerca del santo Rshyasringa. Raggiunto l'eremitaggio nella
foresta, trovò il re Romapada in compagnia del saggio. Romapada
ricevette Dasaratha con grande gioia e rispetto. Dopo avere trascorso
alcuni giorni nell'eremitaggio, re Dasaratha pregò Romapada: "Permetti
che tua figlia e il suo saggio marito vengano ad Ayodhya, a benedire
il sacro rito che sto per cominciare".
Romapada comunicò la richiesta alla coppia benedetta, che acconsentì
immediatamente.
Tutti insieme lasciarono l'eremitaggio. Re Dasaratha inviò dei veloci
messaggeri ad Ayodhya, per comunicare ai cittadini la buona novella
della visita del saggio e chiedere loro di riservargli un'accoglienza
regale. Felici i cittadini celebrarono con una festa l'entrata del
saggio nella capitale. Il saggio e sua moglie godettero per alcuni
giorni dell'ospitalità del re.
All'inizio della primavera re Dasaratha avvicinò Rshyasringa e lo
pregò di dar inizio al rito sacro. Il saggio diede le istruzioni
necessarie. Il re riunì i precettori e i sacerdoti e disse: "Desidero
compiere il sacrificio-del-cavallo per essere benedetto con un figlio.
Sono certo che grazie al potere spirituale di Rshyasringa il mio
desiderio sarà esaudito". I sacerdoti e i precettori applaudirono
le parole del re.
Allora Rshyasringa diede ordini sulla maniera giusta di liberare
il cavallo e di preparare il luogo del rituale.
Da parte sua, il re chiese ai sacerdoti d'aver cura che il rito
fosse condotto in maniera impeccabile, poiché il minimo errore nella
conduzione avrebbe potuto causare un risultato contrario. I sacerdoti
risposero positivamente e diedero inizio ai preparativi della cerimonia
sacra. Dopo essersi accertato personalmente della giusta esecuzione
del rito, re Dasaratha si ritirò nei suoi appartamenti.
Un anno era trascorso. Secondo le ingiunzioni delle Scritture ora
il re era pronto a dare inizio al sacrificio-del-cavallo. Con umiltà
egli andò dal suo precettore Vasishtha e gli disse: "Tu sei per
me un caro amico e il precettore supremo: tu solo puoi assumerti
la responsabilità del giusto compimento di questo rito". Il saggio
Vasishtha si assunse immediatamente l'incarico.
Secondo gli ordini di Vasishtha, una nuova cittadina sorse sulla
riva nord del sacro fiume Sarayu, con buche per i sacrifici, palazzi
per le famiglie reali, residenze per i sacerdoti officianti, e stalle
per i cavalli, gli elefanti e le altre bestie, e pozzi e mercati.
Tutto era stato ben fatto per sopperire alle necessità dei numerosi
ospiti che sarebbero venuti ad onorare l'occasione. Vasishtha ordinò
di persona: "Ogni casa dev'essere fornita di viveri e ogni altra
necessità. Accertatevi che le persone di tutte le comunità siano
ben nutrite e servite con riguardo, senza mai mancare di rispetto
e riverenza. Che nessuno mostri la minima mancanza di rispetto o
intolleranza - per non parlare d'ira - verso gli ospiti".
Tutti gli incaricati accettarono umilmente il loro compito. Vasishtha
chiese a Sumantra d'invitare a partecipare alla cerimonia sacra
i principi e i re dei paesi vicini e di quelli lontani. Ben presto
essi cominciarono ad arrivare, portando ricchi doni per re Dasaratha.
Ogni incaricato riferì a Vasishtha di aver portato a termine il
compito che gli era stato affidato. Di nuovo Vasishtha li ammonì:
"Servite i nostri ospiti, dando loro tutto il necessario, ma date
con rispetto. Non servite con disprezzo o scherzosamente; il servizio
irriverente distrugge chi serve".
Al termine dell'anno di consacrazione anche il cavallo sacro era
tornato. Sotto la guida di Rshyasringa i sacerdoti iniziarono il
sacrificio-del-cavallo, i mantra furono recitati correttamente e
tutto si svolse secondo le ingiunzioni delle Scritture. Vasishtha
aveva detto: "Date, date cibo e vestiti a tutti", e gli incaricati
eseguirono alla lettera il suo ordine. Tutti gli ospiti furono pienamente
soddisfatti e invocarono benedizioni per il re. I vari animali con
i quali si dovevano adorare le diverse divinità furono portati nel
salone. Lo stesso cavallo fu riccamente adornato e venerato dalle
regine. Felice dell'ottima riuscita del sacrificio-del-cavallo,
il re diede quella terra in dono ai sacerdoti, che a loro volta
gliela restituirono accettando da lui più utili doni in denaro.
Tutti erano estremamente compiaciuti.
Il re cadde ai piedi di Rshyasringa, e il saggio gli assicurò che
il suo desiderio sarebbe stato esaudito.
Il saggio Rshyasringa si raccolse profondamente per alcuni-minuti
e poi disse a re Dasaratha: "Celebrerò un rito sacro prescritto
nell'Atharva Veda, adottando il metodo degli esseri celesti che
hanno raggiunto la perfezione, per assicurarti la grazia della progenie".
Quando il saggio diede inizio al rito sacro, gli dèi e i siddha
(semidèi) discesero nella sala del culto nelle loro forme eteree,
e così pregarono Brahma, il Creatore: "Signore, approfittando del
dono che tu gli hai concesso, il demone Ravana ci sta opprimendo
tutti. Secondo quel dono, egli non può venire ucciso da dèi, semidèi
e demoni: perciò siamo impotenti nei suoi confronti. Persino gli
elementi naturali gli obbediscono. Ti preghiamo: trova un modo per
distruggere il nostro tormentatore".
Sentendo questo, il Creatore fu molto dispiaciuto e rispose: "Nel
suo orgoglio Ravana pregò soltanto che dèi, semidèi e demoni non
potessero ucciderlo: egli teneva l'uomo in così poco conto che non
si curò d'includerlo nella lista! Perciò potrà essere ucciso solo
da un essere umano".
Non appena Brahma terminò di parlare, apparve il Signore Vishnu.
Ora gli dèi si rivolsero a Lui con un'accorata preghiera: "Signore,
rimettiamo su di Te il peso della nostra afflizione. Ti preghiamo,
incarnaTi come essere umano e distruggi questo Ravana, che è un
nemico del mondo, e non può essere vinto dagli dèi. Tutti noi -
dèi, semidèi, demoni, saggi ed eremiti - prendiamo rifugio sotto
le ali della Tua protezione. Tu sei invero il nostro supremo rifugio".
Il Signore Vishnu assicurò che avrebbe fatto il necessario.
In quello stesso istante il Signore Vishnu decise che si sarebbe
incarnato come figlio di Dasaratha, esaudendo nel contempo anche
il desiderio degli dèi. Subito il Signore divenne invisibile a tutti.
Nello stesso tempo, un essere divino emerse dal fuoco sacro, tenendo
in mano una coppa d'oro contenente payasam (un preparato di riso
e latte). Egli disse a re Dasaratha: "Io sono un messaggero di Vishnu.
Con questo rito sacro hai propiziato il Signore. Questo payasam
preparato dagli dèi è capace di concederti il dono della progenie;
prendilo e dallo alle tue mogli". Detto questo il messaggero scomparve
nel fuoco sacro.
Re Dasaratha diede subito il payasam alle sue mogli. Metà lo diede
a Kausalya, metà del rimanente lo diede a Sumitra, metà del resto
a Kaikeyi, e ciò che rimase lo diede nuovamente a Sumitra.
Era tale la potenza del payasam celeste che tutte le quattro mogli
risplendettero immediatamente con la luce che proveniva dalla presenza
dell'essere divino nei loro grembi.
Brahma, il Creatore, ordinò agli dèi: "Proiettate parte delle vostre
energie nel mondo mortale, affinché da voi nascano degli esseri
potenti che aiutino il Signore".
Seguendo il comando del Creatore, per mezzo di donne-vanara gli
dèi generarono figli maestosi, potenti e forti, che avevano l'apparenza
e la forma esterna dei loro padri celesti. Hanuman, il figlio del
dio del vento, era il più intelligente e capace di tutti.
Poi trascorse un anno. Alla fine del dodicesimo mese da quando avevano
ingerito il payasam celeste, nel nono giorno della quindicina ascendente
del mese di Caitra (aprile-maggio) Kausalya diede alla luce il risplendente
Rama - il Signore dell'universo adorato da tutti - che di fatto
era la manifestazione di metà del Signore Vishnu. Quindi Kaikeyi
diede alla luce Bharata, che era la manifestazione di un quarto
del Signore Vishnu. Mentre Sumitra diede alla luce i gemelli Lakshmana
e Satrughna, che insieme costituivano l'altro quarto del Signore
Vishnu.
Queste nascite furono occasione di grande gioia non solo ad Ayodhya
e nel regno di Kosala, ma anche nel regno dei cieli, poiché il Signore
incarnato come figlio dell'uomo avrebbe posto fine al regno di terrore
del demone Ravana. Per festeggiare l'evento i cittadini manifestarono
in pieno tutta la loro gioia.
Come precettore del re, il saggio Vasishtha battezzò i quattro bambini
Rama, Lakshmana, Bharata e Satrughna, e distribuì profusamente doni
a tutti da parte del re. Lakshmana divenne il compagno inseparabile
di Rama; essi erano una sola vita in due corpi, e senza Lakshmana
Rama non sarebbe andato neppure a dormire. Allo stesso modo, Bharata
e Satrughna erano cari l'uno all'altro. Con il passare degli anni
essi divennero dei giovani saggi e intelligenti, eruditi nelle sacre
Scritture, esemplari nella condotta e devoti al benessere di tutti.
Il re era immensamente felice di vederli crescere e diventare uomini.
Un giorno il saggio Visvamitra andò ad Ayodhya, e con le guardie
che stavano all'ingresso del palazzo mandò a dire al re che desiderava
incontrarlo. Dasaratha corse incontro al saggio, che era un Rajarishi
(perché di discendenza regale) che in seguito, per mezzo di grandi
austerità, era diventato un Brahmarishi (pari a un saggio-brahmana).
Il re venerò il saggio, che a sua volta abbracciò calorosamente
tutti gli uomini santi presenti nella corte reale. Quindi il re
offrì di fare tutto ciò che era in suo potere per servire Visvamitra;
e questa offerta fece molto piacere al saggio.
[NOTA: Ho preferito mantenere il termine 'vanara' invece di adottare
la traduzione 'scimmia'; il termine potrebbe indicare un membro
di una tribù della foresta, specialmente se ricordiamo che i figli
avevano la forma e il valore dei propri padri divini.]
Udendo le nobili parole del re, Visvamitra si commosse e, per incoraggiare
maggiormente le sue nobili intenzioni, disse: "Al mondo non c'è
nessuno che ti sia pari, o grande re! Tu appartieni a una stirpe
gloriosa, e per di più hai come tuo precettore e guida spirituale
lo stesso saggio Vasishtha".
Il saggio continuò: "Ho preso dei voti per compiere un rito sacro,
che però viene ostacolato da una coppia di demoni. Potrei affrontarli
facilmente io stesso, ma i voti mi trattengono dal soccombere all'ira.
Perciò, ti prego, manda con me tuo figlio Rama per proteggere questo
rito sacro. Sotto la mia guida e con le sue doti egli saprà fare
quanto è necessario. Ti assicuro che i due demoni possono già considerarsi
morti, poiché conosco il potere ineguagliabile di Rama, così come
lo conoscono Vasishstha e gli altri saggi. Ho bisogno di lui solo
per dieci giorni e dieci notti, perché è imperativo che il rito
sacro si concluda entro questo periodo e non venga prolungato dalle
interruzioni".
Udendo queste parole re Dasaratha svenne. E dopo alcuni minuti,
riprendendo coscienza, disse con voce tremante a Visvamitra: "Rama
ha appena sedici anni! Non credo che sia pronto a combattere, soprattutto
contro i demoni. Dimmi cosa devo fare. Manderò con te il mio grande
esercito. Verrò io stesso con te e combatterò i demoni, ma senza
Rama non posso vivere neanche per pochi minuti. Egli è solo un bambino
e non è capace di valutare la forza dei nemici. Dopo moltissimo
tempo mi è stato dato questo figlio prezioso come dono degli dèi;
come potrei mai pensare di separarmi da lui? No, verrò io con il
mio esercito a combattere i demoni".
Visvamitra reiterò la sua domanda con queste parole: "C'è un potente
demone chiamato Ravana, un discendente di Pulastya. Non viene lui
personalmente a ostacolare i riti sacri, ma manda due altri demoni,
Marica e Sabahu, perché li disturbino; questi infatti gettano immondizie,
sangue e carne nel fuoco sacro. È contro tali nemici che chiedo
l'aiuto di Rama, perché solo lui può distruggere questi demoni".
Fortemente turbato da queste parole, il re replicò: "Oh no, neanch'io
posso affrontare in battaglia il potente Ravana. Ma se si tratta
solo d'affrontare Marica e Sabahu, verrò io di persona con il mio
esercito; in nessun caso però potrò mandare il mio amato figlio
Rama. Invero tu sei un saggio famoso e conosci il Dharma: perciò
sii benevolo e abbi misericordia di noi. Non mi chiedere di mandare
Rama con te. Se vuoi verrò io con te. E se questo ti è inaccettabile,
ti prego di perdonare la mia incapacità di aiutarti".
Colmo d'ira il saggio Visvamitra disse a re Dasaratha: "Quant'è
ignobile e indegno di un re, che dopo avere promesso ritratti la
tua parola! Questo disonora la stirpe gloriosa alla quale appartieni.
Ma, se questa è la tua decisione, me ne andrò. Goditi la vita nell'ignominia!".
Vedendo questo, il saggio Vasishtha intervenne e disse a re Dasaratha:
"O re, tu discendi da un lignaggio ininterrotto di monarchi famosi
per la loro giustizia. Non si conviene che tu abbandoni il sentiero
della verità. Se non manterrai la promessa fatta al saggio Visvamitra,
perderai tutti i meriti che hai guadagnato compiendo grandi riti
religiosi. Il saggio Visvamitra è un grande maestro nelle arti militari.
Egli è padrone di tutti i missili (astra) più micidiali, che ha
ottenuto direttamente dal Signore Shiva. Inoltre può anche inventare
nuovi missili ancora più mortali. Perciò non è che lui abbia paura
dei demoni, di cui potrebbe facilmente sbarazzarsi da solo, ma sta
chiedendo l'aiuto di Rama per il bene dello stesso principe! Perciò
non esitare ad acconsentire alla richiesta di Visvamitra, mantenendo
nel contempo la tua promessa".
Queste parole rassicurarono il re, che riacquistò immediatamente
la sua compostezza e sicurezza e decise di mandare Rama con il saggio
per proteggere il suo rito. Quindi mandò a chiamare Rama, l'abbracciò
di cuore, lo baciò sul sommo della testa e lo benedì.
Anche il precettore familiare, Vasishtha, benedì Rama con sacre
invocazioni vediche. La stessa Natura benedì Rama. E mentre Rama
e l'inseparabile Lakshmana si avviavano al seguito del saggio, soffiò
una brezza soave e ci fu una pioggia di fiori dall'alto.
Era una visione divina vedere Rama e Lakshmana, con le armi da guerra
a tracolla, camminare con l'austero asceta Visvamitra. Mentre stavano
ancora camminando lungo la riva meridionale del sacro fiume Sarayu,
rivolgendosi a loro il saggio disse: "Rama, senza perdere altro
tempo, t'inizierò ai misteri di Bala e Atibala (forza e forza suprema);
quando ne sarai padrone, non sarai più soggetto alla fatica o alla
febbre, né la tua bella forma sarà soggetta ad alcun cambiamento
avverso. Né i demoni potranno avere la meglio su di te, neanche
nel sonno, se conoscerai questi misteri".
Dopo la necessaria purificazione preliminare, Rama fu iniziato dal
saggio nei misteri divini; e immediatamente rifulse di un nuovo
splendore. I tre passarono la notte sulla riva del sacro fiume Sarayu,
mentre Rama e Lakshmana rendevano al saggio tutti i servigi personali
che un discepolo deve al precettore.
[NOTA: Le armi: 'bana' solitamente tradotto come 'freccia' sembra
essere più una 'bomba' o un missile. Ancor'oggi la parola 'bana'
è usata nell'India del sud per indicare i fuochi pirotecnici che
vengono proiettati nello spazio e ivi esplodono. 'Dhanus', che è
solitamente inteso come 'arco', poteva essere qualcosa di simile
a un cannone. Vi erano due tipi di armi: sastra e astra. Sastra
era un congegno meccanico; astra era un congegno astrale.]
All'alba del giorno dopo, il saggio svegliò amorevolmente i principi
e insieme fecero le loro preghiere mattutine. I due principi salutarono
devotamente il precettore, pronti a ubbidirgli. Sotto la sua guida
continuarono il viaggio e presto raggiunsero la confluenza del Sarayu
e del sacro Gange. Qui essi videro diversi eremitaggi. I principi
erano curiosi e il saggio disse loro:
"Nei tempi antichi Cupido aveva una forma fisica. Una volta che
il Signore Shiva era impegnato in austerità incredibili proprio
in questo luogo, Cupido cercò di distrarre il Signore. Con il semplice
suono 'hum' e con il fuoco che emanò dal suo occhio, il Signore
distrusse il corpo di Cupido, che da allora non ha più una forma
fisica. E il territorio dove egli lasciò le membra (anga) del suo
corpo fu chiamato Anga. Questi eremiti dediti qui alle loro austerità
sono seguaci del Signore Shiva".
Mentre guadavano il fiume sacro vicino alla confluenza, Rama udì
un rombo provenire dall'acqua. Visvamitra appagò nuovamente la sua
curiosità con questa storia: "Vicino al monte Kailash c'è un lago
chiamato Manasa Sarovar, perché nacque dalla mente di Brahma. Il
fiume Sarayu è così chiamato perché nasce da quel Sarovar. Il rombo
che hai udito è causato dalla forza con la quale il fiume si precipita
per unirsi al sacro Gange. O Rama, offri i tuoi saluti ai fiumi
sacri, alla loro confluenza.
Presto raggiunsero una spaventosa foresta, che metteva paura ad
entrarci. Ancora una volta Visvamitra spiegò:
"Una volta quest'area era un paese prosperoso. Quando anticamente
Indra uccise il demone Vritra, che di nascita era un brahmana, dovette
espiare la colpa di avere ucciso un brahmana. I saggi e i brahmana
celebrarono il rituale d'espiazione con le acque dei fiumi sacri.
Quando le impurità furono rimosse, Indra rifulse col suo splendore
originario. Le impurità rimosse da Indra si depositarono qui. Felice
d'esserne libero, Indra volle mostrare la sua gratitudine al luogo
in cui caddero. Perciò donò a questo paese la prosperità e gli diede
i nomi di Malada e Karusha.
"Da allora i principati di Malada e Karusha furono ricchi e prosperosi,
finché non comparve la demonessa Tataka, moglie del demone Sunda:
essi hanno un figlio terribile chiamato Marica. Tataka infonde il
terrore nei cuori degli abitanti di Malada e Karusha e ha trasformato
questa terra fertile e prosperosa in un luogo desolato e in una
foresta. Rama! Ora tocca a te distruggere questa famiglia demoniaca
e ridare a questo paese la gloria e la prosperità che aveva una
volta".
Rama manifestò il suo stupore: "Come può una fragile donna possedere
tanta energia e tanta forza?". Allora il saggio Visvamitra gli raccontò
tutta la storia di Tataka, che è questa:
"C'era una volta un potente semidio chiamato Suketu, che non aveva
figli. Desiderando avere un figlio, si mise a praticare austerità.
Il Creatore, Brahma, altamente compiaciuto, gli diede in dono una
figlia, che benedì con la forza di mille elefanti. E una fortuna
che il Creatore non gli diede un figlio maschio! La ragazza era
tanto bella quant'era forte. Suketu la diede in sposa al demone
Sunda, e dalla loro unione nacque il terribile Marica.
"Sunda era stato maledetto a morte dal saggio Agastya. Tataka volle
vendicare la morte del marito e si scagliò contro il saggio. Agastya
pronunciò una maledizione anche contro Tataka: "D'ora in poi perderai
l'aspetto di semidea e diventerai una terribile demonessa".
"Non farti bloccare dal pensiero che si tratta di una donna. Per
il bene della società, devi distruggerla. Può capitare che per la
protezione dei suoi sudditi un sovrano debba compiere sia azioni
lodevoli che biasimevoli, e anche delle azioni che sembrano ingiuste
e peccaminose. Questo è invero l'eterno dovere di coloro ai quali
è affidato l'oneroso compito d'amministrare lo stato. Perciò distruggi
questa donna malvagia, che non sa che significa Dharma!".
Rama rispose prontamente: "Quando m'affidò alla tua protezione,
mio padre mi comandò di obbedirti in ogni cosa. Perciò, ubbidendo
a te, farò il mio dovere sia verso di te che verso mio padre!".
Così dicendo, preparò la sua arma; e il suono che essa produsse
terrificò gli abitanti della foresta e insospettì Tataka.
Ella si precipitò verso la fonte di quel suono e, quando fu in vista,
Rama scherzando indicò a Lakshmana quella forma terribile. "Guarda
questa demonessa, o Lakshmana, la renderemo immobile amputandole
le gambe e le braccia: non mi sento incline a uccidere questa donna.
Visvamitra tuonò 'hum' e spronò i principi.
Tataka lanciò delle enormi rocce contro Rama, che le rispose lanciandole
dei missili con la sua arma. Tataka scomparve alla vista, e Visvamitra
ammonì Rama: "Non scherzare più con questa demonessa. Esse diventano
più potenti al calare della notte. Uccidila rapidamente". Benché
fosse invisibile, Rama la colpì, facendosi guidare soltanto dal
suono. Tataka cadde a terra esanime.
In quello stesso istante la foresta rifulse del suo antico splendore.
All'alba del giorno dopo, il saggio Visvamitra parlò amorevolmente
a Rama: "Sono molto contento di te. Perciò ti darò un armamentario
dei missili più potenti, con l'aiuto dei quali potrai sottomettere
tutti i tuoi nemici, siano essi esseri terreni o celesti. Ecco,
prendi possesso dei migliori missili esistenti:
"Il Dharma cakram, il Kala cakram, il Vishnu cakram e anche il terribile
cakram di Indra. Ti do il Danda cakram e anche il missile che ha
il potere del tuono (Vajra), il Shulam (di Shiva), il Brahma-shiras
e un altro ancora conosciuto come aisikam, che è come un filo d'erba.
Ti do il potentissimo Brahma-astram, che distrugge tutto, e anche
i missili a forma di clave. Ed ecco il missile dei gandharva che
confonde e stupisce il nemico. Questi altri missili sono capaci
di fare addormentare il nemico e di cambiare il suo stato d'animo
da malvagio a pacifico.
"Ti do ancora questi altri missili che possono produrre la pioggia
o fare inaridire il terreno, o generare un calore insopportabile
e bruciare il nemico. E ancora, un altro missile che produce nel
nemico una specie d intossicazione e un altro che fa insorgere in
lui la passione. Quest'altro missile possiede lo splendore del sole
e abbaglierà il nemico. Ti do tutte queste e molte altre armi che
sono potenti e preziose in guerra, persino contro gli esseri celesti".
Rama vide tutte quelle armi davanti a sé. Soddisfatto, prese la
risoluzione che le avrebbe usate solo quando il loro uso sarebbe
stato necessario. Inchinandosi al saggio Visvamitra, Rama disse:
"Signore ti prego, istruiscimi nell'arte di neutralizzare l'effetto
di questi missili"
Allora, il saggio istruì Rama e Lakshmana sul sistema anti-missile.
A tal fine, il saggio diede loro molti altri missili, chiamati con
nomi che indicavano il loro modo di funzionare: alcuni visibili
e altri invisibili, alcuni che si muovevano in avanti e altri che
si muovevano all'indietro alcuni con dieci 'teste', altri con cento
'addomi', alcuni che sembravano carbone ardente, altri che si manifestavano
come fumo denso.
Tutti questi missili e missili anti-missili furono messi di fronte
a Rama, in attesa del suo ordine; stavano ai suoi piedi, per così
dire, per offrirgli il loro servizio. Egli li annotò nella sua mente
e decise che li avrebbe usati solo quando sarebbe stato assolutamente
necessario.
Ormai erano giunti al termine della densa foresta. Appena fuori
videro un bellissimo e sacro eremitaggio. Rama chiese di esso e
il saggio Visvamitra narrò la seguente storia riguardo al Siddhashrama.
[NOTA: Questo capitolo, che menziona moltissimi tipi di quelli che
ovviamente erano missili nucleari e non, dovrebbe essere studiato
alla luce della moderna conoscenza degli armamenti.]
Visvamitra disse: "Tanto tempo fa, lo stesso Vishnu dimorò qui per
migliaia d'anni, praticando austerità. Qui c'è anche l'eremitaggio
del Signore Vamana noto col nome di Siddhashrama. Quello che ti
racconto accadde durante il periodo in cui re Bali regnava su cielo
e terra. Bali, che era il re dei demoni, stava celebrando un potentissimo
rito, al termine del quale sarebbe diventato come Indra. Tutti gli
dèi, con a capo Indra, chiesero aiuto al Signore Vishnu.
"Nello stesso tempo il saggio Kasyapa aveva concluso con successo
una sacra osservanza durata mille anni. Quando il Signore apparve
davanti a lui e gli offrì di concedergli un dono, il saggio pregò:
"Se, compiaciuto da me, vuoi concedermi un dono, allora Ti prego,
diventa mio figlio".
"Volentieri il Signore S'incarnò come figlio del saggio e di sua
moglie Aditi. Il Suo aspetto fisico era quello di un nano. Immediatamente
andò nel luogo di culto di Bali e chiese al re di concedergli tre
passi di terra. Quando questo gli fu concesso, il Signore misurò
il cielo e la terra con due passi (recuperandoli così per Indra)
e con il terzo benedì il re, ponendogli il piede sulla testa. Questo
ashrama (eremo), così chiamato perché elimina shrama (la fatica
fisica e mentale), era abitato dal Signore stesso, ed ora vi abito
io che sono Suo devoto. Venite, entriamo nell'eremo, perché è tanto
vostro quanto mio. Adesso comincerò il rito sacro. Vi prego, proteggetelo
dalle interferenze dei demoni".
I principi risposero con gioia: "Signore benedetto, inizia il rito
sacro; noi eseguiremo il tuo ordine". La mattina seguente il rito
ebbe inizio. Il saggio Visvamitra aveva preso il voto del silenzio;
perciò altri istruirono Rama e Lakshmana: "Sorvegliate la casa della
preghiera per sei giorni e sei notti". E così fecero, senza un attimo
d'assopimento, sempre vigili durante il giorno e la notte.
Era l'ultima notte. Il fuoco rituale divampava con insolito splendore.
Ci fu un forte boato nel cielo. Come le nuvole dei monsoni, scure
e turbolente, i due demoni apparvero nel cielo. Ci fu una pioggia
di carne e sangue e d'ogni sorta di cose terribili.
"Lakshmana, guarda come li disperdo in tutte le direzioni", disse
Rama, lanciando il missile chiamato Siteshu (il missile freddo),
che come il vento disperde le nuvole scagliò il demone Marica in
mezzo all'oceano, a una distanza di ottocento miglia. Marica non
venne ucciso. Poi, con un missile di fuoco, Rama distrusse l'altro
demone Subahu. Infine, con il missile del vento, Rama disperse i
demoni inferiori. Il rito continuò fino alla sua conclusione senza
incontrare altri ostacoli.
Compiuta la loro missione, i principi dormirono nell'eremo e la
mattina seguente si svegliarono di buon'ora. Dopo avere terminato
le preghiere mattutine, avvicinarono il saggio Visvamitra a mani
giunte e gli chiesero: "Siamo i tuoi umili servi, o saggio; comandaci,
che cosa dobbiamo fare?".
Visvamitra li benedì e rispose: "Re Janaka di Mithila sta per celebrare
un rito sacro, e vorrei che vi partecipaste insieme a me. A Mithila
vedrete anche un'arma straordinaria che ha sconcertato uomini potenti,
demoni e dèi. A dire il vero è stata donata dagli dèi molti anni
fa; ma siccome nessuno finora è riuscito a maneggiarla, è stata
religiosamente messa da parte".
Immediatamente il saggio si preparò alla partenza. S'inchinò per
salutare la foresta e chiese il permesso agli alberi: "Dio vi benedica,
adesso me ne sto andando nell'Imalaya". Molti saggi, bestie e uccelli
accompagnarono Visvamitra! Tuttavia dopo un po' il saggio li convinse
tutti a tornare nella foresta. Gli eremiti che accompagnavano Visvamitra
fecero ancora un tratto con lui prima di ritirarsi per la notte
sulle rive del fiume Sone.
Visvamitra disse: "C'era una volta un re chiamato Kusa, che era
figlio di Brahma, il Creatore. Egli aveva quattro figli: Kusamba,
Kusanabha, Asurtarajasa e Vasu, ai quali affidò il compito di proteggere
gli abitanti del regno. I quattro figli costruirono quattro città:
e cioè, rispettivamente, Kaushambi, Mahodaya (Kanauj), Dharmaranya
e Girivraja (Rajgir). Queste città erano circondate da colline.
Allora il fiume Sone, che scorreva tra queste colline, era anche
chiamato Magadhi, perché attraversa il territorio Magadha.
"Kusanabha aveva cento figlie, nate dalla ninfa celeste Ghrtaci.
Quando crebbero e diventarono delle belle ragazze, il dio del vento
andò da loro e disse: "Desidero sposarvi tutte. Abbandonate l'idea
che siete esseri umani e ottenete la longevità. La giovinezza è
evanescente; specialmente tra gli esseri umani. Diventate eternamente
giovani e immortali, accettando la mia proposta". Udendo questo
le ragazze si rattristarono: "Come possiamo accettarti come nostro
marito - tu che entri in tutti gli esseri? Inoltre nostro padre
è il nostro signore e maestro, anzi il nostro dio; solo colui al
quale egli ci darà, sarà nostro marito". Offeso da questo rifiuto
il dio del vento entrò in tutte loro causando nei loro arti delle
deformità (come l'artrosi).
"Così deformate e con gli occhi pieni di lacrime esse andarono da
loro padre Kusanabha. Disperato il re loro padre chiese: "Ditemi,
chi ha causato queste terribili deformità nelle vostre belle forme"?".
"Le ragazze narrarono al padre quanto era accaduto. Re Kusanabha
lodò molto la condotta delle figlie e disse: "La pazienza è il più
grande ornamento di uomini e donne - il tipo di pazienza che avete
mostrato nel vostro comportamento con il dio del vento. La pazienza
è il dono più grande, la verità, la forma migliore d'adorazione,
è la gloria, la giustizia e il sostegno del mondo".
"Presto il re cominciò a pensare di darle in matrimonio a un uomo
degno. In quello stesso periodo c'era un grande asceta chiamato
Chuli, che aveva intrapreso austerità senza precedenti. Durante
la pratica egli fu servito da una ragazza chiamata Somada. Estremamente
compiaciuto del suo devoto servizio, l'asceta le disse: "Sono contento
del tuo servizio, chiedimi un dono". Subito ella rispose: "Non sono
sposata, né mi sposerò. Concedimi perciò la grazia di un figlio
attraverso il potere del tuo ascetismo".
"Felice di questa preghiera, l'asceta espresse la volontà che ella
concepisse e desse alla luce un bambino: e l'energia cosmica (Brahmica)
realizzò tutto questo. Il figlio così concepito e dato alla luce
fu chiamato Brahmadatta (dono di Brahma), e in seguito diventò re
di Kampilya. E fu a Brahmadatta che re Kusanabha diede in matrimonio
le sue cento figlie. Quando, durante la cerimonia, Brahmadatta toccò
la mano di ogni ragazza, tutte le deformità scomparvero ed esse
riacquistarono la loro bellezza e il loro fascino.
"Quindi re Kusanabha pregò perché gli nascesse un figlio. Suo padre
Kusa lo benedì dicendo: 'Certamente ti nascerà un figlio pio'; e
detto ciò ascese in cielo. Presto Kusanabha fu benedetto con un
figlio, che chiamò Gadhi, secondo il desiderio del suo nobile padre.
O Rama, quel Gadhi è mio padre; ed io sono anche chiamato Kausika,
perché sono un discendente di Kusa.
"Ho avuto anche una sorella maggiore chiamata Satyavati, che fu
data in matrimonio al saggio Ricika. Ella era molto devota a suo
marito. Di conseguenza, quando il saggio se ne andò da questo mondo,
lei ascese in cielo con tutto il corpo, e in seguito per la magnanimità
del suo cuore ridiscese sulla terra come un fiume, il Kosi. E come
tale, o Rama, ella continua ad esistere fino ad oggi. Poiché amavo
molto mia sorella, ho vissuto per qualche tempo sulle rive del fiume
Kosi. In seguito lasciai quel posto e mi trasferii al Siddhashrama,
dove - grazie a te - ho portato a compimento il rito più sacro.
"Così, o Rama, ti ho narrato la storia di questo luogo. La notte
è fonda; è ora che tutti voi andiate a dormire".
La mattina presto, il saggio annunciò di nuovo l'alba ed esortò
i principi ad alzarsi e a prepararsi a partire. Attraversato il
fiume Sone, il gruppo continuò fino a raggiungere il sacro Gange.
Come al solito, Rama pose una domanda, a beneficio di tutto il gruppo:
stavolta voleva sapere la storia del Gange. Il saggio Visvamitra
disse:
"Himavan (l'Himalaya) sposò la figlia di Meru (la calotta polare)
chiamata Mena. Essi ebbero due figlie: la maggiore è Ganga e la
minore è Uma. Per il bene di tutti gli esseri dei tre mondi (il
cielo, la terra e lo spazio intermedio), gli dèi chiesero a Himavan
di dare a loro Ganga. Il magnanimo Himavan acconsentì
"Fu così che la sacra Ganga ascese in cielo e divenne un fiume celeste.
In seguito ridiscese sulla terra sotto forma di un corso d'acqua
purificatore. L'altra figlia - Uma - Himavan la diede in sposa allo
stesso Signore Shiva".
Con la curiosità stimolata da questo breve racconto, Rama chiese
al saggio di narrare la storia sublime entrando maggiormente nei
particolari. Il saggio acconsentì e raccontò dettagliatamente la
storia di Uma, consorte del Signore Shiva, e anche la storia della
discesa di Ganga sulla terra:
"Il Signore Shiva aveva sposato Uma, figlia di Himavan. Per molto
tempo la coppia rimase a godere dei piaceri coniugali. L'energia
creativa del Signore cresceva sempre più d'intensità; e persino
gli dèi temevano che la terra non sarebbe stata capace di sostenere
la sua progenie.
"Perciò, facendosi coraggio, essi osarono interrompere l'unione
della coppia divina per offrire una preghiera: "Signore, ti preghiamo
di fermare la tua energia creativa con il tuo autocontrollo. I mondi
non saranno in grado di sopportare il pieno impatto della tua energia
creativa. Soltanto grazie all'autocontrollo praticato da te e dalla
tua consorte i mondi sopravviveranno".
"Il Signore acconsentì subito alla loro preghiera, e chiese: "Che
possiamo fare con l'energia già creata?". L'energia infatti aveva
già coperto la terra.
"Gli dèi chiesero l'aiuto del fuoco e del vento. Il fuoco concentrò
l'energia, che ora prese la forma di una montagna che, spinta a
sua volta dal vento, divenne un canneto - che alla fine avrebbe
assunto la forma di Kartikeya (il figlio del Signore Shiva).
"Tuttavia la consorte del Signore, Uma, fu infastidita dall'interferenza
degli dèi durante la sua unione con il marito. Perciò lanciò su
di essi la maledizione che non avrebbero mai avuto figli".
"Mentre Uma e il Signore Shiva ritornarono alle loro austerità,
gli dèi capeggiati da Indra andarono da Brahma, il Creatore, e gli
chiesero umilmente: 'Signore, il divino Shiva ci ha concesso il
dono che gli abbiamo chiesto, e cioè di benedirci con un condottiero.
Questo comandante può nascere solo dalla sua energia. Dopo avere
liberato quest'energia, il Signore Shiva è ritornato alle sue austerità,
insieme alla sua consorte Uma. Ti preghiamo, dicci che cosa dobbiamo
fare'.
"Brahma rispose: 'Le parole di Uma sono sacrosante. Nessun dio può
ricevere l'energia di Shiva per dargli un corpo. Ecco la celestiale
Ganga: che il dio del fuoco porti l'energia del Signore a Ganga,
che allora darà alla luce il bambino. Certamente Ganga considererà
suo il bambino e anche Uma gli darà il suo affetto; in questo modo
sarà amato da tutti'.
"Allora gli dèi si rivolsero al dio del fuoco perché adempisse gli
ordini del Creatore. A sua volta il dio del fuoco si rivolse alla
celeste Ganga, pregandola di ricevere l'energia creativa del Signore.
Ganga assunse la forma di una bellezza eterea; e vedendola, l'energia
si fuse in lei. Così il dio del fuoco la riempì con l'energia divina.
"Incapace di sostenere a lungo l'energia divina, su consiglio del
dio del fuoco la sacra Ganga la lasciò cadere su di un fianco dell'Himalaya.
Ovunque scorreva l'energia, tutto diventava oro. Qualsiasi cosa
l'energia toccava si trasformava in oro e argento di splendore incomparabile;
il semplice calore dell'energia trasformava gli oggetti più lontani
in rame e ferro. Persino le sue 'impurità' divennero stagno e piombo.
Così apparvero i minerali sulla terra.
"Come ho già detto, l'energia si sparse tra i canneti sulle rive
del fiume Ganga. Gli dèi raccolsero quell'energia, che poi diventò
un bambino. Quindi gli dèi ordinarono alle divinità che presiedevano
alla costellazione Krittika di nutrire il bimbo con il loro latte;
per questo gli venne dato il nome di Kartikeya. Inoltre egli è chiamato
anche Skanda, perché è 'sceso' con il fiume Gange.
"In pochi giorni questo bimbo divino divenne potentissimo e distrusse
le schiere di demoni che tormentavano gli dèi. Così egli divenne
il comandante delle armate divine.
Questa è la storia della nascita del figlio del Signore Shiva conosciuto
anche col nome di Kumara. Chi è devoto a Kartikeya godrà di una
lunga vita, sarà benedetto con figli e nipoti, e un giorno diventerà
una sola cosa con il signore Skanda".
O Rama, adesso ti racconterò la storia della discesa di Ganga sulla
terra.
Uno dei tuoi antenati era il potente re Sagara. Egli però non aveva
un erede al trono, nonostante avesse due mogli: Kesini, la figlia
di re Vidarbha, e Sumati, figlia del saggio Aristanemi e sorella
dell'uccello divino Garuda.
Re Sagara praticò grandi austerità; e compiaciuto di lui, il saggio
Bhrigu concesse al re una strana grazia: "Una delle tue mogli darà
alla luce un figlio per la perpetuazione della tua stirpe; mentre
l'altra darà alla luce sessantamila figli".
A suo tempo, Kesini diede alla luce un figlio, che fu chiamato Asamanja.
Sumati invece partorì un uovo (a forma di zucca) dal quale uscirono
sessantamila figli. Sumati li conservò in recipienti di burro chiarificato
(ghì), e ben presto crebbero e diventarono dei bei giovani. Fedele
al suo nome, Asamanja si dimostrò un giovane malvagio con pericolose
tendenze sadiche, che si divertiva a torturare e ad affogare anche
i bambini. Al contrario, suo figlio Amsuman era pio e nobile e immensamente
amato dal popolo.
Re Sagara decise di compiere il sacro rito-del-cavallo. Perciò scelse
il terreno più sacro tra l'Himalaya e i Vindhya, che dai saggi è
considerato particolarmente adatto alla celebrazione dei riti sacri,
e diede inizio al sacrificio. Il cavallo sacro fu affidato alla
custodia del valoroso Amsuman, il nipote del re.
Tuttavia, in un momento critico del rito, Indra - il capo degli
dèi - sotto le guise di un fantasma riuscì a rubare il cavallo.
I sacerdoti esclamarono: "O re, cattura il ladro e uccidilo; fa'
che il rito sia portato a termine con successo, altrimenti ne conseguirà
una grande disgrazia".
Il re mandò a chiamare i suoi sessantamila figli e comandò loro
di setacciare la terra e ritrovare il cavallo. Essi ricevettero
persino il permesso di scavare la terra.
I sessantamila non riuscirono nel compito che era stato assegnato
loro. Non trovando il cavallo in superficie, cominciarono a scavare
sotto terra.
Assistendo all'inutile e spietata distruzione della vita in superficie
e nel sottosuolo, gli dèi e i demoni pregarono Brahma, il Creatore:
"Signore, la vita sulla terra sta per essere distrutta dai figli
di Sagara. Anche le creature acquatiche e quelle del sottosuolo
sono tormentate. Sospettando che questo o quell'altro possa essere
il nemico del rito, e che il cavallo possa essere nascosto qui o
là, essi stanno arrecando un grande danno agli esseri viventi".
Il Creatore Brahma rispose: "La Madre Terra è per così dire la consorte
del Signore Vishnu, il protettore dell'universo. I figli di Sagara,
che stanno devastando lei e le sue creature andranno sicuramente
incontro al loro destino per mano del Signore Stesso, che ora è
incarnato sulla terra nelle sembianze del saggio divino Kapila.
La stessa devastazione della terra avviene in ogni epoca; non è
una cosa insolita. Coloro che sono dotati di visione interiore vedono
che le persone sconsiderate colpevoli di crimini contro la benevola
terra saranno punite giustamente". Le trentatré divinità che presiedono
sugli elementi naturali tornarono soddisfatte alle loro dimore.
I figli di Sagara non riuscirono a trovare il cavallo, malgrado
avessero cercato dappertutto e scavato persino la terra. Ma il re
li spronò: "Scavate in profondità, facendo a pezzi la stessa terra".
E così fecero. Mentre perlustravano la terra incontrarono quattro
elefanti che sembravano montagne (o forse il contrario?): Virupaksha
a est, Mahapadma a sud, Saumanasa ad ovest e Bhadra a nord. Offrirono
ad essi i loro rispettosi saluti e continuarono le ricerche, procedendo
infine in direzione nord-est. Erano delusi e adirati. Alla fine
del tunnel attraverso la terra, quando emersero all'aperto, videro
Kapila seduto in meditazione. E poiché videro anche il cavallo sacro
che pascolava pacificamente vicino all'eremitaggio, scambiarono
il saggio per il ladro del cavallo. Gridando di collera essi si
precipitarono contro il saggio. Ma intonando semplicemente 'hum',
il saggio Kapila dalla gloria incomparabile li ridusse tutti in
cenere.
Stanco di aspettare il ritorno di figli e cavallo nel luogo del
sacrificio, il re mandò suo nipote Amsuman per scoprire cos'era
successo. Amsuman seguì gli stessi percorsi e incontrò e s'inchinò
agli stessi 'elefanti', che lo rassicurarono che avrebbe trovato
il cavallo. Quando infine raggiunse l'eremitaggio di Kapila, vide
il cavallo e le ceneri degli zii. Mentre stava pensando al modo
più appropriato di fare le esequie ai defunti, vide l'uccello divino
Garuda, che lo consigliò: "Non angustiarti, o valoroso, la distruzione
dei tuoi zii da parte del Signore Kapila è giusta. Non è giusto
usare l'acqua terrestre per propiziare le loro anime. Quando la
divina Ganga scenderà su questa terra, e quando le loro ceneri saranno
toccate dalle acque del Gange, anch'essi ascenderanno in cielo".
Amsuman tornò nel luogo del sacrificio con il cavallo, e il re portò
a termine il rito. Sagara regnò per molto tempo ma morì senza riuscire
a trovare un metodo per far discendere il divino fiume Gange sulla
terra e realizzare il suo desiderio di purificare le ceneri dei
suoi figli con il fiume sacro.
Alla morte di re Sagara, il popolo chiamò amabilmente Amsuman ad
occupare il trono. Egli s'impegnò in continue austerità per molti
anni, allo scopo di far discendere Ganga; ma morì prima che le austerità
dessero frutto. Dopo la sua morte divenne re suo figlio Dilipa,
che era talmente addolorato per la morte dei suoi prozii che non
riuscì a fare nulla per loro. Alla sua morte, salì al trono suo
figlio Bhagiratha.
Bhagiratha si ritirò sul monte Gokarna (forse Gomukh), nell'Himalaya,
per praticare intense austerità col duplice scopo di far discendere
Ganga e avere un figlio. Praticò austerità incredibili, e un giorno,
compiaciuto dalla sua devozione, gli apparve il Signore Brahma e
gli concesse la grazia che voleva. Bhagiratha scelse le due cose
che aveva in mente. "Ecco Ganga - disse Brahma - ma solo il Signore
Shiva può sostenere l'impatto della sua discesa sulla terra".
Allora Bhagiratha rivolse la sua devozione al Signore Shiva. Restando
in piedi sulla punta dell'alluce per un anno intero, Bhagiratha
invocò la grazia del Signore Shiva. Compiaciuto dalla sua devozione
il Signore gli apparve e gli disse: "Soddisferò il tuo nobile desiderio
e sosterrò il Gange sulla mia testa".
Subito dopo il fiume celeste Ganga discese con tutta la sua potenza
e maestà sulla testa del Signore Shiva. I capelli intrecciati del
Signore sembravano le cime imalayane, e imbrigliato nelle crocchie
dei suoi capelli il fiume si precipitò nel suo corso terreno. Il
Signore lo fece cadere nel lago celeste Bindusara: da lì il Gange
fuoriuscì in tre direzioni diverse, come sette ruscelli.
Col suo cocchio Bhagiratha fece strada al ruscello principale. Il
corso del fiume, come il corso delle nostre vite, era tranquillo
in alcuni posti e tortuoso in altri, calmo qui e tumultuoso là,
serpeggiante, curvo e diritto, e a volte tornava persino indietro.
Le acque del Gange, toccate dalla testa del Signore Shiva, sono
estremamente pure. Anche coloro che a causa di una maledizione sono
caduti dal cielo vengono purificati bagnandosi nel Gange.
Mentre Bhagiratha conduceva il Gange sulla terra, passarono vicino
al luogo d'adorazione del saggio Jahnu, che allora era impegnato
in un rito sacro. Le acque del Gange inondarono il luogo sacro.
Irritato, il saggio bevve l'intero fiume, che così scomparve dentro
di lui. Poi, per intercessione degli dèi, il saggio permise al Gange
di uscire dal suo orecchio! Di nuovo il Gange seguì il cocchio di
Bhagiratha, e finalmente essi raggiunsero il tunnel scavato dai
figli di Sagara. Bhagiratha realizzò lo scopo dei suoi sforzi sovrumani:
il sacro Gange passò sulle ceneri dei figli di Sagara, che furono
istantaneamente purificati e liberati.
Il Creatore Brahma si congratulò con Bhagiratha per aver raggiunto
il suo scopo superando tutti gli ostacoli con uno sforzo sovrumano,
e decretò che d'allora in poi il fiume sacro che Bhagiratha aveva
portato sulla terra sarebbe stato chiamato Bhagirathi (figlia di
Bhagiratha). Inoltre decretò che chiunque ascolterà il racconto
glorioso dell'impresa sovrumana, risoluta, vittoriosa e senza precedenti
di Bhagiratha (di riportare il Gange sulla terra), vedrà realizzati
tutti i suoi desideri, gli saranno rimessi tutti i peccati, e godrà
di fama e lunga vita.
Così il saggio Visvamitra concluse la storia di Ganga. La mattina
seguente di buon'ora essi attraversarono il Gange e raggiunsero
la città di Vishala. Ancora una volta Rama chiese a Visvamitra di
narrare le storie relative a Vishala. Il saggio rispose:
"Nell'era conosciuta come Satya Yuga c'erano due sorelle, Diti e
Aditi, che diedero alla luce rispettivamente molti figli potenti
e molti figli pii. Quando crebbero, in loro crebbe anche il desiderio
di liberarsi della vecchiaia e della malattia, e diventare quindi
immortali. Guardando l'oceano di latte (la via lattea) nello spazio
esterno, pensarono che se avessero potuto trovare un bastone e una
corda adatti avrebbero potuto zangolare l'oceano e ricavare certamente
il nettare che avrebbe conferito loro l'immortalità. Allora usarono
il monte Mandara come bastone, e il serpente Vasuki come corda,
e cominciarono a zangolare l'oceano.
"Ma il primo dono dell'oceano fu deludente e doloroso, poiché venne
fuori il terribile veleno Halahala. Gli dèi atterriti cercarono
rifugio nel Signore Shiva. E per salvare gli dèi e tutta la creazione,
Shiva bevve subito quel terribile veleno, come fosse stato nettare.
"La zangolatura continuò. Ma il bastone, il monte Mandara, cominciò
a sprofondare. Gli dèi pregarono il Signore Vishnu, che prendendo
la forma di una tartaruga sostenne il monte sul suo dorso. Dopo
molto tempo apparve il medico divino: Dhanvantari. Poi venne un
gruppo di ninfe celesti: e poiché erano la panna (rasa) stessa dell'oceano
(ap), furono chiamate apsara. Poi venne fuori un liquore inebriante
chiamato Varuni. I demoni rifiutarono di berlo, ma gli dèi lo bevvero.
Perciò i demoni sono chiamati asura (perché non presero il liquore
o sura) e gli dei sono chiamati sura. Quindi venne fuori un cavallo
divino, una gemma divina, e infine il nettare, che sia gli dei che
i demoni volevano e per il quale cominciarono a lottare. Ma il Signore
Vishnu, nelle sembianze di una bella donna, portò via il nettare.
I demoni che si opposero al Signore furono sconfitti e gli dèi,
con Indra a capo, ottennero la sovranità!".
"Afflitta di dolore per la morte dei suoi figli (i demoni) per mano
dei figliastri (gli dèi), Diti volle vendicare la loro distruzione.
Con gli occhi pieni di lacrime implorò suo marito, il saggio Kasyapa:
"Ti prego, benedicimi, affinché possa dare alla luce un figlio che
ucciderà Indra, il capo dei figli che hai avuto da Aditi".
"Messo sulle spine, il saggio espresse astutamente la sua benedizione:
"Così sia. Se praticherai intense austerità per mille anni, e se
riuscirai a completarle senza la minima negligenza, darai alla luce
un figlio capace di uccidere Indra".
"Diti intraprese subito intense austerità. E Indra stesso (il figliastro)
la serviva, portandole la legna, l'acqua, la frutta e tutte le altre
cose che le servivano, e lavandole devotamente i piedi mentre dormiva.
I mille anni passarono. Molto contenta di Indra, Diti disse: "Sto
praticando queste austerità per avere un figlio che ti ucciderà!
Però tu mi hai servito devotamente per tutti questi anni; farò quindi
in modo che il tuo nuovo fratello ti sia amico, e che insieme conquistiate
il mondo".
"Poco dopo, a mezzogiorno, Diti sprofondò nel sonno. Sfortunatamente,
proprio quel giorno, la posizione nella quale s'addormentò era impura
e immorale: aveva la testa tra i piedi. Approfittando subito di
questa impurità, grazie al suo potere magico Indra entrò nel corpo
di lei e, con la sua potente arma (il fulmine), cominciò a tagliare
il feto: il suo nemico non ancora nato. L'aveva tagliato in sette
pezzi, quando cominciarono a piangere; ma egli continuò a tagliarli,
dicendo: 'Non piangete, non piangete'. E intanto li aveva tagliati
ancora, ciascuno in sette pezzi (quarantanove in tutto).
"Diti si svegliò e gridò: "Non ucciderli, non ucciderli". Udendola
gridare, Indra uscì dal suo corpo e la pregò di perdonarlo: "Tu
hai commesso un atto di negligenza e hai quindi perso la grazia
che mio padre ti aveva concesso; perciò ho cercato di distruggere
il mio nemico ancora prima che nascesse. Ti prego di perdonarmi".
"Sebbene fosse nuovamente addolorata per la perdita, Diti si rese
conto che era stata colpa sua, e quindi perdonò Indra e gli disse:
"Questi quarantanove pezzi nasceranno come divinità del vento, in
gruppi di sette. Tu stesso li hai chiamati Matura (gridando loro
ma-ruda, non piangete). Questi sette gruppi di divinità del vento
riempiranno il cielo, la terra e lo spazio intermedio e si muoveranno
al tuo comando".
"Così Indra e la sua matrigna raggiunsero un accordo. O Rama, questo
è il luogo sacro dove Diti praticò le sue austerità e Indra stesso
la servì".
Visvamitra e i principi, accompagnati da altri saggi, passarono
la notte a Vishala; e la mattina seguente partirono per Mithila.
In prossimità di Mithila, Rama vide un eremo abbandonato e chiese
a Visvamitra: "Ti prego, dimmi di chi era quest'eremo - che non
ha più eremiti e sembra desolato?".
Con il cuore colmo di gioia il saggio Visvamitra rispose: "Anticamente
questo meraviglioso eremitaggio apparteneva al famosissimo saggio
Gautama, che viveva qui con la sua fedele, devota e bellissima moglie
Ahalya.
"Un giorno Indra, il capo degli dèi, approfittando dell'assenza
del saggio entrò nell'eremitaggio nelle sembianze dello stesso Gautama,
e desiderò unirsi con Ahalya. La pia e devota Ahalya riconobbe subito
che sotto il travestimento c'era lo stesso Indra; tuttavia cedette
al suo desiderio, poiché la compiaceva molto il fatto che il capo
degli dèi l'avesse avvicinata.
"Mentre Indra s'apprestava a lasciare l'eremitaggio, ella lo mise
in guardia contro l'ira di Gautama e lo pregò di stare attento.
Ma Gautama rientrò proprio mentre Indra stava uscendo. Pieno di
collera Gautama maledì Indra: "Assumendo la mia forma, hai commesso
un grande peccato: perciò perderai la tua virilità". E rivolgendosi
alla moglie infedele, il saggio maledì anche lei: "Vivendo d'aria,
giacendo sulla cenere, invisibile a tutti, vivrai qui per lunghissimo
tempo; ma quando Rama visiterà quest'eremitaggio, riacquisterai
la tua purezza". Così, dopo averli maledetti entrambi, il saggio
se ne andò nell'Himalaya.
"Avendo perso la sua virilità, Indra supplicò gli dèi e gli altri
esseri celesti: "In ciò che ho fatto volevo solo servire gli dèi:
ho provocato la collera del saggio Gautama, che mi ha maledetto
con la perdita della virilità e così facendo ha perso l'energia
guadagnata con le sue austerità. Vi prego, fate qualcosa per restituirmi
la virilità". Gli dèi andarono quindi dal capo dei Mani e lo pregarono:
"Trasferite i genitali di questo ariete su Indra; l'ariete castrato
sarà una delizia anche per voi". Il capo dei Mani acconsentì e restituì
la virilità a Indra trapiantandogli i genitali dell'ariete.
"Ora che sei qui, o Rama, la fine, della maledizione di Ahalya è
vicina. Entra nell'eremo". Appena Rama mise piede nell'eremo, Ahalya
gli venne incontro. Tutte le sue impurità furono rimosse alla vista
di Rama ed ella risplendette della sua bellezza e radiosità eteree.
Ella adorò devotamente gli ospiti divini. Nel frattempo era tornato
anche Gautama. Ambedue offrirono la loro devozione e ospitalità
a Rama e poi ripresero le loro austerità. Rama procedette verso
Mithila.
Ben presto il gruppo raggiunse la sala di culto di Janaka, dove
il rito sacro era già cominciato. Era sorta una nuova cittadina,
e Rama ammirò le eccellenti preparazioni predisposte da Janaka.
Migliaia di brahmana eruditi nei Veda erano giunti da diverse parti
del paese ed erano stati comodamente alloggiati.
Quando Janaka seppe dell'arrivo di Visvamitra, corse ad incontrarlo.
Da parte sua il saggio s'informò sulla salute del re e su come procedeva
il rito sacro; quindi salutò anche gli altri saggi presenti nella
sala. Re Janaka disse: "Ora, con la tua presenza, la mia devozione
e il rito sacro che sto celebrando hanno dato frutto. Oggi sono
stato molto fortunato, sono stato davvero benedetto". Poi informò
il saggio che il rito sacro sarebbe durato dodici giorni, e nell'ultimo
giorno gli stessi dèi sarebbero apparsi per ricevere personalmente
le offerte.
Guardando i principi, il re chiese umilmente a Visvamitra: "Chi
sono questi giovani? Sembrano dèi. Il loro portamento è maestoso
come quello degli elefanti. Questi giovani eroici hanno la forza
della tigre e del toro. I loro occhi ricordano i petali del loto.
Essi sono belli come gli Asvini Kumara (i medici celesti)". Poi
Janaka s'informò anche sullo scopo della loro visita a Mithila.
Il saggio Visvamitra spiegò al re chi erano Rama e Lakshmana e ciò
che avevano compiuto fino ad allora. Venendo a sapere della loro
visita all'eremo di Gautama e della redenzione di Ahalya, Satananda
- che era il sacerdote di famiglia di re Janaka, e figlio di Gautama
e Ahalya - s'informò amorevolmente sulla salute dei suoi genitori.
Visvamitra rispose: "Tutto ciò che era necessario fare per loro
l'abbiamo fatto. Gautama e Ahalya sono stati riuniti".
Felice di questo, Satananda si rivolse a Rama e disse: "Benvenuto,
o principe tra gli uomini! È davvero una grande fortuna per te essere
venuto qui, sotto la guida del saggio Visvamitra. Egli è un saggio
che ha fatto cose incredibili; è un Brahmarishi, pieno d'effulgenza
spirituale e del potere delle austerità. Io lo reputo il migliore
rifugio. Ascolta, ti racconterò tutto quello che so di lui:
Questo saggio era un grande e nobile re, devoto alla giustizia,
ma che teneva sotto controllo i suoi nemici. Egli è figlio di Gadhi,
e nipote di Kusha. Una volta re Visvamitra andò in giro per il mondo
con un grande esercito. Durante il suo giro giunse all'eremo del
saggio Vasishtha. Quell'eremo meraviglioso era dimora di dèi ed
esseri celesti, come pure di fiori e animali selvatici. Nel suo
splendore era uguale al paradiso di Brahma.
Il saggio Vasishtha diede il benvenuto a re Visvamitra e gli offrì
l'ospitalità dell'eremitaggio. Com'era d'uso, il re s'informò se
le attività religiose dell'eremo si svolgevano come dovuto. Rispondendo,
il saggio informò il re che tutto andava bene per l'eremo e per
gli eremiti che vi abitavano. Da parte sua Vasishtha chiese al re:
"Va tutto bene per te? Stai proteggendo il tuo popolo, aderendo
strettamente al Dharma? Sono fedeli i tuoi servi? I tuoi nemici
sono sotto controllo? Va tutto bene con l'esercito, le finanze,
gli amici e la famiglia?". E re Visvamitra rispose che anche per
lui tutto andava bene.
Il saggio Vasishtha continuò: "Posso offrire a te e al tuo vasto
esercito l'ospitalità dell'eremo? Vi prego d'accettare e di essere
miei ospiti oggi". Il re rimase perplesso: cosa potevano offrire
quest'asceta e quest'eremitaggio a lui e al suo vasto esercito!
Forse l'offerta era più d'intenzione che di fatto. Prendendola per
tale, il re rifiutò gentilmente l'offerta. Ovviamente il saggio
conosceva il pensiero del re e ripeté più volte l'offerta. Infine,
incuriosito dal suo comportamento, il re accettò.
"Sabala - chiamò Vasishtha, e davanti a lui apparve una vacca -
Oggi desidero intrattenere questo re e il suo grande esercito; ti
prego di fare il necessario. Rendi disponibile qualsiasi tipo di
vivanda ciascuno dei nostri ospiti desideri". E cosi la vacca fece!
Cibo e bevande di ogni tipo, secondo il desiderio di ognuno, compresi
i piatti e le posate - in breve, un banchetto reale di un lusso
e una prodigalità mai visti prima - furono messi davanti a re Visvamitra
e al suo numeroso esercito.
Davanti a questo miracolo inaudito il re rimase stupefatto, e dopo
il pranzo andò da Vasishtha e gli disse: "Devo farti una richiesta.
La vacca Sabala è davvero un gioiello di vacca; e i gioielli appartengono
al re. Perciò dammi Sabala, e io ti darò in cambio centomila vacche".
Gentilmente, ma con fermezza, Vasishtha declinò l'offerta e rifiutò
di separarsi da Sabala: "Tutte le mie attività religiose e i miei
riti sacri dipendono da lei. Non mi separerò da lei neanche per
un miliardo di vacche!". Il re non s'arrese, e offrì molto di più!
Migliaia d'elefanti e cavalli, milioni di vacche, enormi quantità
di gemme e gioielli... il re era pronto a dare a Vasishtha ricchezze
illimitate, ma voleva Sabala.
Parimenti adamantino fu il saggio nel rifiutare tutte le offerte
del re, spiegando ripetutamente che la vacca gli era indispensabile
per i riti sacri e le elemosine quotidiane; e infine egli chiuse
l'argomento dicendo: "A che servono tante parole: non ti darò Sabala".
Quando Vasishtha rifiutò di separarsi da Sabala, la vacca che appaga
i desideri, re Visvamitra la portò via con la forza. Ma ben presto
la vacca si liberò dei rapitori, tornò da Vasishtha e si lamentò:
"O saggio, perché mi hai abbandonato?". Il saggio rispose amorevolmente:
"Io non ti ho abbandonato, Sabala; ma il re ha un grande esercito
e perciò è più potente di me. Che cosa posso fare?".
Sabala rispose prontamente: "Si dice che in questo mondo i veri
potenti non sono i regnanti. Sono i saggi ad essere potenti: perché
il potere dei forti è limitato alle loro armi, mentre il potere
dei saggi è divino e infinitamente superiore. Se è tuo desiderio,
metterò fine al re e al suo esercito". Accettando il consiglio,
Vasishtha le ordinò: "Produci un potente esercito per distruggere
l'armata del re".
Sabala creò immediatamente centinaia di guerrieri Pahlava; e quando
furono uccisi dall'armata del re produsse centinaia di altri guerrieri
di razza mista Shaka-Yavana, belli e di carnagione chiara. Essi
combatterono furiosamente, ma il re usò tutte le armi che aveva,
e gli Yavana, i Kamboja e i Barvara (tutti stranieri) furono decimati.
Allora Vasishtha ordinò a Sabala di produrre più guerrieri. Dalla
sua bocca uscirono Kamboja, dalle mammelle Barvara, dalle parti
posteriori Yavana e Shaka, dagli stessi pori della sua pelle Harita,
Kirata e altri stranieri. In brevissimo tempo tutti insieme distrussero
l'intero esercito di Visvamitra, e perfino i suoi figli.
Solo un figlio sopravvisse alla carneficina. Affidandogli il regno,
Visvamitra andò nell'Himalaya a pregare, adorare e meditare. Compiaciuto
dalle sue austerità, il Signore Shiva gli apparve e gli concesse
un dono. Visvamitra pregò: "Voglio conoscere i segreti di tutti
i missili posseduti da dèi, demoni ed esseri celesti". Shiva esaudì
la sua preghiera e gli svelò i segreti vitali riguardanti i missili.
Armatosi di questi, il re pensava fieramente che Vasishtha sarebbe
stato facilmente sconfitto. Recatosi immediatamente all'eremo di
Vasishtha, mise a sacco il luogo sacro con i missili. Scoppiò un
terribile incendio, e gli eremiti fuggirono per la paura, anche
se Vasishtha cercava di far loro coraggio promettendo di trattare
il re a dovere. Anche gli uccelli e le bestie lasciarono l'eremitaggio.
Fortemente adirato dal corso degli eventi, il saggio Vasishtha disse
a re Visvamitra: "Che tu sia maledetto: hai profanato questo sacro
eremitaggio, rendendolo un luogo desolato". Il saggio stava lì dritto
con il bastone alzato. E il suo bastone sembrava il bastone del
giudizio di Yama, come il fuoco senza fumo che presagisce la dissoluzione
cosmica.
La fiducia che il re aveva nelle armi e nella forza non fu scossa
dal bastone da mendicante che Vasishtha impugnava. "Aspetta un momento",
disse Visvamitra, e lanciò al saggio il mortale missile di fuoco.
"Sto qui - disse Vasishtha - fai del tuo peggio, vile guerriero!
Può la stupida forza di un guerriero affrontare il potere spirituale
di un conoscitore dell'infinito Brahman?". Con stupore di Visvamitra,
il missile di fuoco fu neutralizzato dal bastone di Vasishtha!
Uno dopo l'altro, Visvamitra usò tutti i missili i cui segreti gli
erano stati rivelati dal Signore Shiva: il missile soporifico, il
missile inebriante, i missili che producono un calore insopportabile,
il missile che secca tutto, il missile che disintegra ogni cosa,
il missile che infrange tutto come il fulmine, e un altro missile
ancora fatale come la morte. Ma l'energia sprigionata da tutti questi
missili fu assorbita facilmente dal bastone magico del saggio Vasishtha!
Sconfitto nel suo scopo, Visvamitra decise di usare il più potente
di tutti i missili, il Brahma-astra, che poteva distruggere ogni
cosa creata. Persino gli dèi e gli esseri celesti guardavano ansiosi
e col fiato sospeso. Ma il bastone impugnato dal saggio rese impotente
anche il Brahma-astra. Tuttavia l'impudenza del re provocò l'ira
del saggio: da ogni poro della sua pelle emanò un'energia soprannaturale.
Allora gli dèi e gli esseri celesti supplicarono Vasishtha: "Ti
preghiamo, arresta questo flusso d'energia divina". Il saggio si
calmò; ma Visvamitra fu umiliato completamente: "Nulla è la potenza
di un re! La vera forza è quella che possiede un brahmana (conoscitore
dell'Assoluto). Con il suo solo bastone, questo saggio ha neutralizzato
tutti i miei missili mortali! Tornerò a praticare austerità: poiché
è con le austerità che si ottiene lo stato di brahmana". Dicendo
questo s'avviò verso sud e cominciò le sue austerità.
Dopo anni d'intense austerità, lo stesso Brahma, il Creatore, apparve
davanti a lui e gli disse: "Ti do il riconoscimento di saggio reale",
ma Visvamitra non fu soddisfatto. Egli voleva essere un brahmana!
Perciò continuò le sue austerità.
In quello stesso periodo viveva un re chiamato Trisanku, che desiderava
ascendere in cielo con tutto il corpo! Egli andò da Vasishtha con
questa richiesta: "Desidero ascendere in cielo con tutto il corpo;
e a tal fine praticherò cento riti sacri. Ti prego di condurre questi
riti". Ma Vasishtha rifiutò. Trisanku però non era disposto ad arrendersi,
perciò andò dai figli di Vasishtha e chiese loro di fargli il favore
di condurre i cento riti sacri, affinché potesse ascendere in cielo
con tutto il corpo.
[NOTA: 'Brahmana' non si riferisce solo a uno nato nella casta brahmana.
Altri saggi anch'essi brahmana di nascita) fuggirono, ma non Vasishtha.
Brahmana perciò è colui che conosce l'Assoluto. I missili qui nominati
sono quelli che in seguito Visvamitra darà a Rama.]
Seccati dalla richiesta di Trisanku, i figli di Vasishtha risposero:
"Il santo guru Vasishtha è devoto alla verità. Egli ha respinto
la tua proposta: come puoi quindi rivolgerti ad altri con la stessa
proposta? Se egli ha detto che non può essere o che non dev'essere
fatto, bisogna lasciar perdere! Fare ciò che lui ha proibito equivarrebbe
a insultarlo" Ma orgoglioso e avido, pur essendo un sovrano pio
e nobile, re Trisanku non rinunciò al suo scopo. Così disse ai figli
di Vasishtha: "Bene, allora cercherò aiuto altrove!". Questo fu
per loro intollerabile; e lo maledirono: "Ti sei allontanato dalla
luce della verità (il guru) e hai abbracciato le tenebre dell'egoismo.
Perciò diventerai un essere scuro (candala), tanto impuro e sporco
all'esterno come lo sei all'interno".
La mattina seguente re Trisanku si svegliò e s'accorse che anche
il suo aspetto era cambiato, e che qualsiasi cosa toccava o veniva
a contatto con lui diventava inquinata e sporca. Vedendo questa
trasformazione, i suoi ministri e seguaci lo abbandonarono e tornarono
in città. Il re, che era diventato un intoccabile, cercò rifugio
da Visvamitra.
Pieno di compassione, Visvamitra chiese a Trisanku qual era la causa
della terribile trasformazione; e questi narrò tutto ciò che era
accaduto. Di com'era andato da Vasishtha e dai suoi figli con le
migliori intenzioni, ma che non era servito a niente. E invece d'ascendere
in cielo con tutto il corpo, aveva perso anche l'aspetto fisico
di re ed era diventato un essere disprezzabile. "Sono sempre stato
un re giusto e onesto. Volevo compiere cento riti religiosi che
mi avrebbero permesso di ascendere in cielo con tutto il corpo.
Guarda il mio stato attuale! Solo l'invisibile volontà del divino
è suprema; lo sforzo personale sembra futile. La volontà divina
domina tutto; soltanto la volontà divina è la nostra ultima risorsa.
Oggi prendo rifugio in te. Non ho altro rifugio. Ti prego dì trovare
il modo di vincere il mio fato attraverso lo sforzo personale".
Commosso dalla preghiera del re, Visvamitra mandò i suoi discepoli
in tutte le direzioni per invitare uomini santi e sacerdoti al rito
sacro che aveva deciso di condurre per realizzare il desiderio di
Trisanku: "Invitate tutti da parte mia, anche i figli di Vasishtha".
Tutti accettarono l'invito e andarono subito all'eremo di Visvamitra,
tranne i figli di Vasishtha, che rifiutarono sprezzanti. Saputo
questo, Visvamitra li maledì: "Nonostante si supponga che siano
uomini santi dediti alla pratica di austerità, in questo modo essi
mi insultano! Perciò moriranno e per settecento volte rinasceranno
come intoccabili, dediti a lavori spregevoli".
Prima di cominciare il rito sacro che avrebbe permesso a Trisanku
d'ascendere in cielo con tutto il corpo, Visvamitra si rivolse ai
grandi saggi e ai sacerdoti riuniti là con lui e disse: "Impegnatevi
a celebrare insieme a me il rito sacro che permetterà a Trisanku
d'ascendere in cielo col suo corpo fisico".
Visvamitra stesso condusse il rito sacro, che tutti celebrarono
seguendo fedelmente le ingiunzioni delle Scritture relative a quel
rito. Quindi invocarono la presenza degli dèi affinché ricevessero
le offerte: ma gli dèi non arrivarono. L'ira di Visvamitra fu terribile.
Versando un'oblazione sul fuoco sacro, egli dichiarò: "Come sola
ricompensa per le austerità che ho praticato esercitando il mio
libero arbitrio, io reclamo l'ascensione fisica di Trisanku in cielo.
O re, guarda il potere della mia volontà e del mio sforzo personale:
tramite essi io ti mando in cielo con tutta la tua forma fisica".
Immediatamente, tra lo stupore di tutti, Trisanku cominciò ad ascendere
in cielo nella sua forma fisica. Ma Indra, sovrano degli dèi e delle
sfere celesti, lo scacciò dalle porte del cielo, dicendo: "Poiché
sei stato maledetto dal tuo guru, qui non c'è posto per te! Ritorna
sulla terra". Con queste parole Indra lo buttò fuori, e Trisanku
cominciò a precipitare. Ma mentre stava per cadere sulla terra,
egli riuscì a gridare a Visvamitra: "Salvami, proteggimi!".
Fuori di sé dalla collera, Visvamitra gridò: "Fermati!". E Trisanku
s'arrestò, rimanendo sospeso nello spazio. Coi meriti guadagnati
con le sue austerità e col proprio sforzo personale, e sfidando
la volontà degli dèi, Visvamitra cominciò a creare un altro cielo,
un altro gruppo di stelle e pianeti, un altro insieme di 'sette
costellazioni' (come l'Orsa Maggiore) che dovevano ruotare intorno
a Trisanku (come le altre ruotano intorno alla stella polare). Di
fatto egli creò una nuova galassia nell'emisfero meridionale dello
spazio. Pensava anche di creare un altro Indra, o forse voleva lasciare
il nuovo cielo senza un capo.
Sconfitti, gli dèi e i demoni andarono umilmente da Visvamitra e
affermarono: "O santo, Trisanku aveva perso tutti i suoi meriti
facendosi maledire dal suo guru, e ignorando il consiglio del suo
guru. Perciò non può ascendere fisicamente in cielo". Visvamitra
rispose: "Ho dato la mia parola che ci andrà, e non posso infrangere
la mia promessa. Perciò lasciategli godere la beatitudine celeste
là dove si trova, e lasciate anche che i corpi celesti che ho creato
continuino ad esistere per questo ciclo cosmico". Gli dèi acconsentirono,
e concessero anche che Trisanku rimanesse sospeso nello spazio,
ma felice come un dio.
Tutto ciò fu però d'ostacolo alle pratiche spirituali di Visvamitra,
che con questo incidente perse tutti i meriti che aveva guadagnato
con le sue austerità precedenti. Perciò lasciò la sua dimora nel
sud e andò a Pushkar, ad ovest, dove ricominciò le sue pratiche.
In quel periodo regnava ad Ayodhya re Ambarisha, che era allora
impegnato a celebrare il sacrificio-del-cavallo. Come al solito,
Indra rubò il cavallo. Pieno d'amarezza il sacerdote ufficiante
disse al re: "Il cavallo è stato rubato a causa della vostra negligenza;
il peccato di negligenza distrugge un monarca. Se egli non riesce
a trovare il cavallo, l'espiazione prescritta è l'offerta di un
sacrificio umano".
Turbato da queste frasi solenni, il re cercò di trovare il cavallo,
ma non riuscì a trovarlo da nessuna parte. Nel corso dei suoi viaggi
arrivò all'eremitaggio del saggio Ricika, al quale chiese di offrire
uno dei suoi figli per l'espiazione. Il saggio rifiutò di separarsi
dal suo primogenito, mentre sua moglie rifiutò di separarsi dall'ultimo
figlio. Allora il figlio mezzano, chiamato Sunahsepa, osservò: "Il
figlio maggiore è indispensabile al padre; il minore è indispensabile
alla madre; credo che io, che sono il mezzano, sia l'unico non necessario".
Sunahsepa si offrì di andare con il re. Questi diede abbondanti
doni ai genitori del ragazzo e partì con lui.
Lungo la strada, Sunahsepa notò Visvamitra intento nelle sue austerità,
e cercando rifugio in lui lo pregò: "Signore, non ho nessuno che
si prenda cura di me in questo mondo; perciò cerco rifugio in voi.
Per carità, fate qualcosa perché il sacrificio del re si possa concludere
con successo, e io possa godere di una lunga vita per praticare
austerità e andare in cielo". Mosso a compassione, il saggio reale
si rivolse ai suoi figli e chiese chi di loro avrebbe preso il posto
di Sunahsepa per salvarlo. Uno dei figli rimproverò aspramente il
padre: "Com'è strano, padre, che desideri gettare via i tuoi figli,
per salvare il figlio di un altro!".
Visvamitra s'adirò per l'impudenza del figlio. E tale impudenza
doveva essere punita, sia che si trattasse dei figli di un altro
o dei propri. Perciò il saggio pronunciò questa maledizione: "Subirai
lo stesso fato dei figli di Vasishtha".
Rivolto a Sunahsepa, Visvamitra disse: "Durante il rito sacro, recita
i due inni che ora t'insegnerò, e conseguirai il tuo scopo". Ambarisha
riprese il rito interrotto e lo portò a compimento. Al momento giusto
Sunahsepa recitò gli inni, e lo stesso Indra - compiaciuto nell'udirli
- apparve sul posto. Egli benedì Ambarisha e benedì Sunahsepa con
una lunga vita.
Visvamitra continuò le sue austerità a Pushkar.
Dopo mille anni di austerità, gli dèi - capeggiati da Brahma, il
Creatore - andarono dall'asceta Visvamitra e gli dissero: "Ora sei
diventato un rishi, non semplicemente un saggio reale". Ma Visvamitra
continuò le sue austerità con rinnovato zelo.
Un giorno la ninfa celeste Menaka andò a fare il bagno nel lago
di Pushkar. Il rishi la vide e perse il suo cuore per lei. Anche
lei rispose al suo invito; ed essi cominciarono a vivere insieme
nell'eremitaggio del rishi. Per dieci anni vissero insieme, godendo
di tutti i piaceri. Un giorno però egli realizzò che anche questo
era un altro ostacolo alle sue pratiche spirituali! Percependo il
cambiamento che era avvenuto in lui, Menaka cominciò a tremare di
paura: ma congedandosi da lei con parole affettuose, il rishi se
ne andò al nord.
Ancora una volta riprese le austerità. Persino gli dèi erano stupefatti.
Insieme a Brahma, essi andarono di nuovo da Visvamitra e gli dissero:
"Siamo compiaciuti delle tue austerità, ora tu sei il più grande
dei rishi, perciò sei un maharishi". Visvamitra rispose umilmente:
"Se m'aveste chiamato brahmarishi, avrei pensato che voi ritenevate
che io avessi conquistato i sensi". "Non ancora - rispose Brahma,
che aggiunse: Continua!". Visvamitra intensificò le sue austerità.
Con le braccia alzate, stando in piedi senza alcun sostegno, senza
mangiare, circondandosi con i cinque fuochi d'estate, rimanendo
solo col cielo sulla testa nella stagione delle piogge, e giacendo
sulla nuda terra d'inverno - egli intraprese austerità inaudite.
Gli dèi s'inquietarono, perché le austerità di Visvamitra minacciavano
la loro posizione e il loro potere. Allora Indra disse a un'altra
ninfa celeste, chiamata Rambha: "Va' e distrai la sua mente". Ma
siccome lei temeva la maledizione del saggio, Indra la rassicurò:
"Non temere, anch'io sarò con te; ti starò vicino sotto forma di
uccello".
Convinta, Rambha andò all'eremitaggio. Ma non appena Visvamitra
la vide, capì il tranello e la maledì: "Tu sei venuta a rovinare
le mie austerità! Bene, resta lì pietrificata. Dopo tanto tempo
il saggio Vasishtha ti farà riacquistare la tua forma celeste".
Rambha fu mutata in pietra. Indra e Cupido volarono subito via!
Visvamitra però non si rallegrò. Aveva vinto la battaglia contro
la lussuria; ma era caduto vittima dell'ira, e di conseguenza aveva
perso quanto aveva acquisito con le sue austerità. "Conquisterò
la collera - disse a sé stesso - non parlerò, non respirerò nemmeno.
Finché non raggiungerò lo stato di brahmana, rimarrò qui in piedi,
senza cibo né bevanda, senza neanche respirare". Un tale voto non
era stato preso da nessuno prima di Visvamitra.
Per l'ultimo periodo delle sue pratiche spirituali Visvamitra scelse
l'oriente. Questa volta esse furono più dure che mai. Per quanto
venisse fortemente provocato, non s'adirava mai. Dopo mille anni,
concluso con successo il voto di silenzio e digiuno, mentre stava
per rompere il digiuno e s'accingeva a mangiare, Indra stesso gli
apparve sotto le sembianze di un mendicante e gli chiese del cibo.
Con calma, senza perdere la pazienza, Visvamitra gli diede il cibo
che aveva preparato per sé, e poiché non ne rimase altro, continuò
il digiuno e il silenzio per altri mille anni.
Il 'fuoco' delle sue austerità, l'energia psichica prodotta dalle
sue pratiche, divenne enorme. Sembrava che la sua energia avrebbe
consumato il mondo intero.
Allora gli dèi andarono da Brahma e lo pregarono "L'energia generata
dalle austerità di Visvamitra sta bruciando il mondo. Noi tutti
abbiamo cercato di distrarlo in maniere diverse: ma la sua pratica
continua indisturbata. Ora non c'è altra alternativa che concedergli
quello che vuole, anche se fosse il governo degli dèi".
Brahma e gli dèi si recarono da Visvamitra, e il Creatore gli disse
"Sono estremamente compiaciuto delle tue austerità, o Brahmarishi!
Con la forza delle tue austerità hai veramente raggiunto lo stato
di brahmana". Felicissimo di udire le benedizioni del Creatore,
Visvamitra affermò: "Se tale è la tua volontà, Signore, fa' che
'Om' e Vashat e i Veda entrino nel mio cuore e diventino parte del
mio essere. Inoltre vorrei che il riconoscimento d'essere un Brahmarishi
mi venisse dal supremo saggio Vasishtha".
Allora Brahma e gli altri dèi andarono dal saggio Vasishtha con
quella proposta. Vasishtha acconsentì immediatamente, e andato da
Visvamitra, lo salutò amichevolmente e gli disse: "Tu sei davvero
un Brahmarishi, pienamente realizzato". Così le straordinarie austerità
di Visvamitra avevano portato frutto.
"O Rama, questa è la storia della vita gloriosa del potente saggio
Visvamitra; e invero tu sei tre volte benedetto a godere della sua
guida e compagnia" - concluse Satananda.
Re Janaka, che aveva ascoltato questa storia esaltante, cadde ai
piedi di Visvamitra ed esclamò: "Sono davvero fortunato che, in
compagnia di Rama, tu hai benedetto il rito sacro che sto conducendo.
Sono stato molto ispirato dalla storia della tua vita narrata da
Satananda Desidererei ascoltare ancora, ma adesso devo scusarmi,
perché s'avvicina l'ora della preghiera serale. Ti prego di benedirmi
di nuovo con la tua presenza domani".
La mattina seguente, di buon'ora, re Janaka invitò nel suo palazzo
Visvamitra e i principi Rama e Lakshmana. Al loro arrivo li onorò
debitamente, e quindi si rivolse a Visvamitra: "O santo, attendo
i tuoi ordini: cosa posso fare per te?". In risposta, Visvamitra
disse: "I due figli di Dasaratha qui presenti desiderano vedere
il famoso dhanus in tuo possesso".
Il re mandò a prendere il dhanus, e nel frattempo raccontò la storia
dell'arma, dicendo:
"Voi sapete come il Signore Rudra distrusse anticamente il rito
sacro di Daksha. Irritato perché gli dèi non gli avevano lasciato
nemmeno una parte delle offerte rituali, egli minacciò di distruggerli
tutti con la sua arma. Allora gli dèi caddero ai suoi piedi e appagarono
il Signore. Subito soddisfatto, il Signore lasciò loro l'arma come
ricordo. E a loro volta gli dèi la diedero a un mio antenato, chiamato
re Devarata.
"Alcuni anni fa, mentre aravano una parte del mio terreno, trovai
in un solco una bambina divina. Perciò la chiamai Sita, e l'adottai
come figlia. Crescendo diventò una bellissima ragazza, e molti principi
la chiesero in sposa. Ma io non volevo dare Sita, che ha avuto una
nascita immacolata, a una persona indegna. Fu deciso che solo quell'eroe
che fosse riuscito a far funzionare quest'arma avrebbe ottenuto
la mano di Sita. Tutti questi principi ed altri ancora hanno provato,
ma essi non hanno saputo neppure cosa farci; non hanno saputo né
toccarla né tenerla in mano. Se Rama riuscirà a usare quest'arma,
gli darò in sposa Sita che è d'origine divina".
Intanto cinquemila uomini eccezionalmente robusti avevano portato
l'arma nella sua pesante custodia montata su ruote.
Il saggio Visvamitra disse a Rama: "Giovanotto, ti prego, osserva
quest'arma". Rama aprì la custodia ed esclamò: "So che cos'è: penso
che riuscirò a maneggiarla e anche a farla funzionare". E mentre
migliaia di persone guardavano, Rama la prese, la caricò e quindi
tirò: con un rumore assordante l'arma si spezzò nel mezzo.
Re Janaka disse: "Sant'uomo, ora ho visto la forza di Rama, e ho
visto con i miei occhi quest'avvenimento supremamente meraviglioso,
incredibile e vero. Sita ha trovato il suo sposo, e darà alla famiglia
dei Janaka grande fama e gloria".
Quindi re Janaka e il saggio Visvamitra inviarono veloci messaggeri
ad Ayodhya per informare re Dasaratha e per invitare tutti a Mithila
per il fausto matrimonio di Rama e Sita.
Gli ambasciatori di re Janaka giunsero presto ad Ayodhya e chiesero
un'udienza con re Dasaratha. Con le mani giunte e con voce dolce,
essi dissero: "Maestà, re Janaka vi manda i suoi saluti tramite
noi, suoi umili servi, e s'informa sulla vostra salute. Tramite
noi egli vi manda il seguente messaggio di gioia: "Tu saprai già
che avevo promesso che chi fosse riuscito a usare la potente arma
degli dèi, che è in mio possesso, avrebbe conquistato la mano di
mia figlia Sita. Questa condizione è stata realizzata dal tuo grande
e degno figlio Rama. Perciò prego umilmente che tu ci benedica presto
con la tua presenza, affinché possa adempiere la mia promessa e
dare Sita in sposa a Rama". Questo messaggio ha la viva approvazione
sia di Visvamitra che di Satananda".
Dasaratha fu felicissimo di udire questo messaggio. Subito egli
fece chiamare i suoi consiglieri e precettori, diede loro la bella
notizia e chiese il loro consiglio: "Se le credenziali di re Janaka
sono per voi accettabili, allora procederemo verso la sua capitale
senza perdere tempo". I consiglieri e tutti gli altri acclamarono
la proposta, e il re compiaciuto decise che sarebbero partiti il
giorno dopo.
Secondo le sue istruzioni, re Dasaratha era preceduto dai suoi tesorieri,
che portavano ingenti ricchezze e gemme preziose; da un potente
esercito; quindi dai saggi e dai precettori, e infine dai sacerdoti
di famiglia.
Nel frattempo gli ambasciatori di re Janaka gli portarono la notizia,
ed egli organizzò a Mithila un grande ricevimento in onore di re
Dasaratha. L'incontro di questi due monarchi fu commovente e ispirante.
Nel suo discorso di benvenuto, re Janaka disse: "Mi sento onorato
e benedetto dalla tua visita a Mithila, o migliore tra gli uomini!
Presto vedrai i tuoi eroici figli. Il mio casato viene elevato da
questa alleanza di matrimonio con il casato di Raghu. Domattina,
dopo le debite cerimonie, e con le benedizioni dei saggi, assisterai
allo sposalizio".
Nella sua risposta, re Dasaratha disse: "Così ho sentito dire: chi
riceve un dono è nelle mani del donatore! Tu sei il donatore, in
quanto desideri dare tua figlia in sposa a mio figlio. E certamente
io farò tutto quello che dici".
Quest'espressione di benignità e dolcezza da parte dell'anziano
re Dasaratha commosse re Janaka.
Poco dopo il ricevimento regale, Dasaratha vide e abbracciò Rama
e Lakshmana, che toccarono umilmente i piedi del padre. Poi ognuno
di loro si ritirò nel proprio appartamento.
La mattina seguente re Janaka mandò a chiamare suo fratello Kusadvaja,
re di Sankasya, dopo averlo informato delle imminenti celebrazioni.
Poi invitò gentilmente re Dasaratha alla corte reale, insieme al
suo precettore e ai sacerdoti.
Dopo aver preso posto nella corte, Dasaratha disse: "Il saggio Vasishtha
è il nostro portavoce, a lui chiedo di portarvi a conoscenza della
nostra discendenza". Vasishtha elencò i nomi degli antenati di Dasaratha,
tra i quali c'erano Marici, Kasyapa, Vivasvan, Manu, Ikshvaku, Mandhata
e Asita.
Quest'ultimo era morto nell'Himalaya, lasciando due mogli che aspettavano
ognuna un bambino. Una di loro diede del veleno all'altra, per distruggerne
il feto. Ma Kalindi incontrò il saggio Chyavana, per grazia del
quale il feto che era stato avvelenato rimase illeso. Il bambino
che era stato avvelenato prima di nascere fu chiamato Sagara, poiché
era 'sa' (con) 'garena' (veleno). Dopo Sagara vennero Amsuman, Bhagiratha,
Kakutstha, Raghu, e così via fino ad Aja, il cui figlio è Dasaratha,
i cui figli sono Rama e Lakshmana.
E Vasishtha concluse: "Immacolato è il lignaggio di re Dasaratha,
fin dalle origini. Poiché tutti i re sono stati pii, eroici e veritieri.
Io chiedo le mani delle vostre due figlie per Rama e Lakshmana.
A spose tanto meritevoli devono essere dati sposi degni di loro".
A sua volta, lo stesso re Janaka elencò la sua discendenza, poiché
come disse: "In occasione del matrimonio della propria figlia con
un degno sposo, chi appartiene ad una dinastia rispettabile deve
fare conoscere i propri antenati". Tra i suoi antenati c'erano Nimi,
Mithi, il primo Janaka, Suketu, Devarata, Maharoma, Swarnaroma e
Hriaswaroma.
Janaka continuò: "Quest'ultimo ebbe due figli: mio fratello Kusadvaja
e me medesimo. Dopo avermi insediato sul trono, nostro padre si
ritirò nella foresta. In seguito, il potente re di Sankasya - di
nome Sudhanva - invase Mithila; ma fu sconfitto e ucciso da me.
Quindi io installai Kusadvaja sul trono di Sankasya.
"Questa è la mia discendenza. Io dico, e lo ripeto tre volte al
di là di ogni dubbio, che ti do le mie due figlie: Sita - che è
d'origine divina - e anche la mia seconda figlia Urmila, perché
siano tue nuore; Sita come moglie di Rama e Urmila come moglie di
Lakshmana. Perciò si dia subito inizio alle cerimonie auspicali
che precedono le nozze. E il terzo giorno a partire da oggi si celebreranno
le nozze. Che si diano abbondantemente doni per auspicare il benessere
di Rama e Lakshmana".
I due potenti saggi Vasishtha e Visvamitra avvicinarono re Janaka
e gli dissero: "O re, la dinastia di re Dasaratha e la tua sono
grandissime e senza pari. E perciò naturale che le tue figlie sposino
i figli di re Dasaratha. Ma c'è di più! Noi suggeriamo che le due
figlie di tuo fratello Kusadvaja siano date in matrimonio agli altri
due figli di re Dasaratha".
Felice, re Janaka rispose con grande umiltà: "Considero un'incomparabile
benedizione che questa proposta venga da due saggi come voi. Perciò
così sia: che le figlie di Kusadvaja diventino le mogli di Bharata
e Satrughna".
Alzandosi dal suo seggio, re Janaka indicò due posti elevati riservati
ai due saggi nel padiglione delle nozze, e chiese loro umilmente:
"Voi avete conferito il più grande dharma (benedizione o merito)
su di me. Io sono il vostro umile discepolo! O migliori tra i saggi,
accettate benignamente questi seggi elevati. Vi prego di condurre
le cerimonie auspicali".
Nello stesso tempo re Dasaratha si congedò da re Janaka e da re
Kusadvaja e si ritirò nel suo accampamento, per condurre la parte
delle cerimonie che riguardava gli sposi. Là, per il bene dei suoi
figli, egli diede in carità migliaia di vacche adornate d'oro alle
persone religiose.
Nello stesso giorno arrivò Yudhajit, cognato di re Dasaratha e fratello
della regina Kaikeyi, con il messaggio che il padre della regina
desiderava vedere suo nipote Bharata e anche Satrughna.
La vera e propria cerimonia nuziale ebbe inizio nel padiglione.
Dasaratha s'avvicinò all'entrata e si fece annunciare a Janaka,
che gli rispose: "Questa è la casa dell'imperatore Dasaratha! Ha
forse bisogno di chiedere il permesso a qualcuno per entrare? Vieni!
Tutti noi aspettavamo con ansia il tuo arrivo".
Come preliminare alla cerimonia delle nozze, cominciò l'adorazione
del fuoco sacro. I più santi tra i saggi recitarono i mantra. Al
culmine della cerimonia re Janaka condusse Sita da Rama e, ponendo
la mano di lei in quella di lui, gli disse: "O Rama, questa è Sita,
mia figlia, che da oggi è la tua compagna nella vita. Accettala.
Tieni la sua mano nella tua. Lei ti seguirà sempre come la tua ombra".
Il mondo intero e gli esseri celesti gioirono. Poi Janaka diede
Urmila a Lakshmana; e quindi, a nome di suo fratello, diede Mandavi
a Bharata e Srutakirti a Satrughna.
Ora le quattro coppie benedette adorarono il fuoco sacro e s'inchinarono
umilmente ai saggi e ai genitori per ricevere le loro benedizioni.
Quindi si ritirarono nei loro appartamenti. Dopo averli accompagnati,
anche i re e tutti gli altri si ritirarono nei propri alloggi.
La mattina seguente, tutti i re, i saggi e gli ospiti erano pronti
a partire. Il saggio Visvamitra si congedò dai re e partì immediatamente
per l'Himalaya. Anche re Dasaratha si stava preparando a partire,
quando re Janaka gli consegnò un'ingente e ricca dote: migliaia
di vacche, tappeti, carri, serve, ecc. Quindi re Janaka tornò a
Mithila.
Mentre re Dasaratha tornava ad Ayodhya con i suoi figli, le nuore
e tutti gli altri, lungo la strada ci furono sia buoni che cattivi
presagi!
Ben presto essi videro a distanza una terribile tempesta di polvere.
Quindi apparve davanti ai loro occhi il terribile Parasurama, il
nemico giurato degli kshatriya, con la sua ascia e i capelli intrecciati
sulla testa. I saggi e i sacerdoti intorno al re rimasero perplessi,
ma ricevettero Parasurama con grande rispetto e devozione.
Tuttavia, inflessibile nella sua determinazione, Parasurama si rivolse
a Rama dicendo: "Ho sentito parlare della tua meravigliosa impresa
nell'usare l'arma che possedeva re Janaka. Ne ho portata un'altra
con me! Caricala e usala, o Rama; mostrami il tuo valore e la tua
forza. Se ci riuscirai, ti sfiderò a duello".
Scosso da quanto aveva udito, re Dasaratha disse: "O brahmana, avevi
promesso che non avresti più ucciso i condottieri e i sovrani (gli
kshatriya), dopo averne ammazzati tanti. Perché ora vieni meno alla
tua parola d'onore? Certamente sei venuto qui per annientarmi del
tutto; perché senza di Rama nessuno di noi qui continuerà a vivere.
Ignorando queste parole, Parasurama continuò a rivolgersi a Rama:
"L'arma che hai rotto a Mithila e quella che ho qui con me furono
entrambe forgiate da Visvakarma. Il Signore Shiva usò quell'altra,
mentre questa fu data al Signore Vishnu. Una volta gli dèi vollero
determinare quale delle due divinità fosse più potente. Istigati
da Brahma, i due cominciarono a combattersi in duello. Ma il Signore
Vishnu fece tacere l'arma di Shiva. E quindi fecero pace. Sconfitto,
il Signore Shiva diede la sua arma (quella che tu hai rotto di recente)
a Devarata. Mentre l'arma in mio possesso il Signore Vishnu la diede
al saggio Ricika, che a sua volta la diede a mio padre. Ma siccome
egli rifiutò di usarla, approfittando di questo Sahasrabahu lo uccise.
Per vendicare la sua morte, io uccisi tutti gli kshatriya, conquistai
il mondo e lo offrii al saggio Kasyapa.
"Dopo questi fatti mi sono ritirato dal combattimento attivo e ora
vivo sul monte Mahendra. Ma avendo saputo della tua impresa a Mithila,
sono venuto qui a sfidarti. Carica anche quest'arma, e usala se
puoi. Poi ti sfiderò a duello".
Dopo un rispettoso silenzio, in omaggio agli anziani presenti nell'assemblea,
Rama rispose: "Sant'uomo, ho sentito parlare di te e del modo in
cui hai vendicato l'assassinio di tuo padre: e l'approvo. Adesso
guarda il mio valore!". Prendendo l'arma, Rama la caricò e la preparò;
quindi disse con ira a Parasurama: "Non posso ucciderti con questa,
perché sei un adorabile brahmana. Ma una volta preparata essa dev'essere
usata. Dimmi: a che cosa devo puntarla? O ti renderò impossibile
muoverti, oppure ti priverò dei mondi che hai guadagnato".
Parasurama disse: "Vinsi tutta la terra e la offrii al saggio Kasyapa.
Poi egli mi disse: "Non devi vivere nel mio regno", e quindi mi
ritirai sul monte Mahendra. Ma ti prego, non privarmi del movimento.
Ritornerò subito sul monte Mahendra. Puoi privarmi dei mondi che
ho guadagnato. Non mi vergogno d'essere stato sconfitto da te: perché
so che tu sei il Signore Vishnu in persona, e per questo conoscevi
bene l'arma! Usa l'arma, Rama, e io partirò".
Rama lanciò il missile. E dopo aver salutato umilmente Rama, Parasurama
andò sul monte Mahendra.
Vedendo che re Dasaratha era ancora esterrefatto, Rama lo informò
rispettosamente della partenza di Parasurama. Tutto il gruppo continuò
il viaggio, e presto raggiunse Ayodhya, la capitale.
I cittadini, che erano stati già informati e delle imprese di Rama
e del suo matrimonio, si raccolsero lungo il percorso del corteo
regale per potere vedere, salutare e benedire Rama.
Arrivati al palazzo, i giovani e le loro spose furono amorevolmente
ricevuti dalle regine. Da allora le quattro coppie divine vissero
felicemente, adempiendo tutti i loro doveri familiari, sociali e
religiosi.
Un giorno re Dasaratha ricordò a Bharata e a Satrughna che lo zio
di Bharata era in attesa di condurli a far visita al nonno. Quindi,
dopo aver salutato i genitori e anche Rama, Bharata partì insieme
a Satrughna per andare a trovare suo nonno.
Rama e Lakshmana continuarono a servire i genitori e i precettori,
rendendo in particolare a questi ultimi tutto il servizio che doveva
essere fatto. In questo modo essi deliziavano i cuori di re Dasaratha,
dei saggi e di tutti gli altri. Il popolo era molto contento della
nobile indole di Rama. Sita e Rama erano immensamente devoti l'un
l'altro. Sita conosceva anche le intenzioni e i desideri inespressi
di Rama, e li esaudiva con amore.
FINE DEL BALA KANDAM
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Libro
secondo: AYODHYA KANDAM - La vita ad Ayodhya
Vedendo l'amato figlio Rama crescere e diventare un giovane principe
pieno di qualità insuperabili, la regina Kausalya era piena di gioia
suprema; come lo era stata Aditi nel vedere crescere Indra. Rama
era un giovane perfetto, che possedeva tutte le nobili qualità:
era dotato di perfetto autocontrollo ed era paziente con gli errori
degli altri, ma lui stesso non agiva mai male. Cercava la compagnia
degli anziani e dei saggi. Era molto colto e raffinato, e anche
il suo comportamento era molto educato. Le sue azioni erano governate
dal più alto codice di giustizia; e non era interessato ad una condotta
indegna. Nell'arte della guerra era più che un maestro. Sapeva quando
usare la violenza e quando controllarsi. Anche il suo corpo era
perfetto, sano, forte e bello. Era svelto di mente, e capace di
leggere il pensiero e le intenzioni di chiunque andasse da lui.
Era molto preparato nelle sacre Scritture, e perciò conosceva bene
le ingiunzioni e le proibizioni riguardanti i tre scopi della vita
(il Dharma, il benessere materiale, e anche la ricerca del piacere).
Egli non dimostrava simpatie o antipatie verso gli altri, e quindi
conquistava l'amicizia di tutti. Era veramente l'incarnazione di
tutte le buone qualità, ed era - per così dire - la vita stessa
delle persone che si muoveva all'esterno dei loro corpi.
Re Dasaratha era felicissimo di tutto ciò: era molto fiero di Rama
e l'amava molto. Ma in questo periodo avvertì dei presagi di terribili
mali. E poi stava pure invecchiando; perciò gli fu naturale pensare
che la sua fine era prossima. E si chiese: "Come posso fare per
assicurarmi che Rama ascenda al trono mentre sono ancora in vita?
Invero egli è più che degno d'essere re. Io sono vecchio e ho vissuto
abbastanza. Sarebbe per me la più grande benedizione vedere Rama,
l'amato di tutti, governare la terra prima che io vada in cielo".
Il re non perse molto tempo prima d'informare i ministri, i precettori
ed altri del suo desiderio. E poiché Rama era assai benvoluto da
tutti i sudditi, dai ministri e dai precettori, non ci fu di fatto
alcun problema né impedimento alla sua ascesa al trono. Allora il
re invitò a corte i capi delle comunità di tutte le città e i paesi
del suo regno, per conoscere la loro opinione. Inoltre invitò i
re e i governanti di tutti i regni e gli stati confinanti, per avere
anche la loro approvazione, affinché Rama fosse sicuro non solo
della lealtà dei suoi sudditi, ma anche dell'amicizia di tutti i
vicini. Tuttavia, per una svista, re Dasaratha aveva dimenticato
d'invitare suo suocero, il re dei Kekaya, e il suocero di suo figlio,
re Janaka.
Quando tutti gli invitati arrivarono, furono riuniti a corte.
Ora re Dasaratha si rivolse all'assemblea con queste parole: "Ho
vissuto a lungo e per molto tempo ho portato sulle spalle gli onerosi
doveri di un re. Questo corpo è vecchio e stanco. Desidero nominare
mio figlio per proteggere il mio popolo, e dare a questo corpo il
necessario e meritato riposo, ritirandomi. Sono convinto che egli
sarà superiore a me e a tutti i miei antenati, e che il suo regno
sarà una grandissima fortuna per la terra. È questo accettabile
per voi?". L'assemblea applaudì di cuore la proposta del re, e il
suo portavoce disse: "Maestà, davvero ci avete governato bene e
a lungo. È ora che Rama, il nostro prediletto, salga al trono".
Il re si rivolse nuovamente a loro: "Sono contento della vostra
spontanea risposta. Ma vi prego, ditemi, perché volete che Rama
sia incoronato mentre io sono ancora in vita?".
La risposta fu di nuovo spontanea e immediata. L'assemblea assicurò
il re di non essere dispiaciuta con lui, ma che adorava Rama. Il
portavoce disse ancora: "Rama è un sat-purusha, l'uomo ideale devoto
alla verità, la fonte della giustizia e del benessere. Egli è dotato
di grande conoscenza, saggezza, valore, compassione, autocontrollo
e ogni altra buona qualità che l'uomo ideale deve possedere; inoltre
egli s'identifica totalmente con le gioie e i dolori del popolo
e, come tale, è il regnante ideale. Egli è degno di governare i
tre mondi, non solo questo: e né la sua ira né il suo piacere sono
senza motivo. Noi sentiamo che il regno è impaziente di vedere Rama
installato sul trono. Sappiamo che tutto il popolo, e specialmente
le donne, pregano ogni giorno perché egli diventi il loro re. Dasaratha
fu felicissimo e li ringraziò tutti per il consenso dato alla sua
proposta.
Dopo che l'assemblea s'era sciolta, re Dasaratha disse umilmente
al saggio Vasishtha: "Signore santo, fa' che si prepari presto tutto
quanto è necessario per installare Rama sul trono". Vasishstha a
sua volta diede istruzioni ai ministri, che in seguito riferirono
al re che tutto era stato preparato. Allora il re mandò a chiamare
Rama, che non appena giunse si prostrò ai piedi del padre. Dopo
averlo abbracciato, il re gli comunicò le sue intenzioni: "Tu sei
il maggiore e il più amato dei miei figli; e anche il prediletto
del nostro popolo. Perciò sali al trono come yuvaraja (principe
ereditario). Tu eccelli in tutto: ma prima dell'incoronazione ti
darò questo consiglio: "Scaccia i vizi e abbraccia la virtù. Fa'
ciò che piace ai tuoi amici e al popolo, ed essi ti saranno devoti".
Nel frattempo alcuni amici di Rama andarono da sua madre Kausalya
e le comunicarono la bella notizia. La regina e tutti quelli che
ne vennero a conoscenza pregarono Dio per il successo dell'incoronazione.
Ripensandoci, re Dasaratha decise di far chiamare nuovamente Rama!
Vedendo di nuovo Sumantra fuori dei suoi appartamenti e chiedendosi
perché fosse tornato, Rama lo sollecitò: Dimmi senza riserve cos'hai
in mente". Sumantra disse soltanto: "Il re vuole rivederti immediatamente".
Rama andò, e il re gli parlò di nuovo: "Ho vissuto molto e ho goduto
di tutti i piaceri reali, ho dato tanto in carità e ho praticato
molti riti religiosi. Dopo tante preghiere, mi sei nato tu. Ho pagato
tutti i debiti che un uomo deve ai saggi, agli dèi e ai Mani. L'unica
cosa che mi resta da fare è vederti sul trono di Ayodhya. E ho visto
molti cattivi presagi, molti sogni terribili, che presagiscono calamità.
Anche gli astrologi dicono che, secondo le mie stelle, una calamità
è imminente. Perciò, desidero incoronarti immediatamente: domani!
Devo farlo prima che la mente volubile cambi; perché la mente degli
esseri umani è volubile. Ti ho fatto richiamare per dirti questo:
domani ci sarà la tua incoronazione. Perciò stasera devi digiunare,
insieme a Sita, e osservare una rigida disciplina. Penso sia meglio
che tu salga al trono mentre Bharata è lontano da Ayodhya. Egli
è certamente un giovane nobile; ma nessuno può dire cos'è capace
di fare la mente".
Rama lasciò il re e tornò nel suo appartamento, ma riuscì subito
per andare in cerca di sua madre. Kausalya, insieme a Sumitra e
a suo figlio Lakshmana, era andata nel tempio a offrire preghiere
al Signore per il successo dell'incoronazione. Rama stesso annunciò
loro le intenzioni del re e chiese le loro benedizioni. Felice,
Kausalya lo benedì: "Rama, figlio mio, possa tu vivere a lungo,
senza nemici. Possa tu portare gioia ai miei parenti e a quelli
di Sumitra. Ti ho avuto dopo anni d'infelicità e di austerità, che
però ora rimangono solo come vaghe memorie. Le mie preghiere non
sono state invano!". Poi Rama si rivolse a Lakshmana: "Io vivo per
te, fratello, e anche questa corona l'accetto per amor tuo. Gioisci
e godi della sovranità!". Quindi Rama si ritirò per la notte.
Ma il re non riposava ancora! Mandò a chiamare Vasishtha e gli comunicò
la sua decisione: "Ti prego, va' da Rama e digli tutto ciò che deve
fare stanotte". Vasishtha si recò al palazzo di Rama, anche se non
fu facile. S'era sparsa infatti la voce dell'incoronazione, e le
strade erano piene di gente; e se era difficile muoversi, lo era
ancor più guidare un veicolo! Le strade di Ayodhya furono pulite
e spruzzate con acqua profumata. C'erano bandiere e festoni dappertutto.
In qualche modo Vasishtha arrivò da Rama e gli ingiunse di digiunare,
ecc. Poi tornò dal re e l'informò che tutto il necessario era stato
fatto. Quindi il re si ritirò nel suo appartamento.
Non appena Vasishtha lasciò il suo palazzo, Rama fece il bagno e
andò nel tempio del Signore Narayana. Dopo aver adorato il Signore,
lui e Sita s'adagiarono su una stuoia di paglia, con i sensi sotto
controllo e la mente rivolta ai piedi del Signore Narayana. Poi
egli si svegliò tre ore prima del sorgere del sole e si mise ad
adorare il Signore e a compiere i vari riti religiosi che precedono
la cerimonia dell'incoronazione.
In ogni parte della città la gente si riuniva e discuteva il glorioso
evento del giorno. Numerose compagnie di artisti recitavano, e alcune
di esse mettevano in scena opere che parlavano di Rama e dei suoi
antenati. Dappertutto il popolo aveva eretto dei 'dipa-vriksha'
(alberi con lampade decorative). Tutti cantavano le glorie di Rama.
Non si sa come, ma Kaikeyi (l'ultima moglie di Dasaratha) non era
stata informata di tutto ciò. La sua serva Manthara aveva visto
per caso i festeggiamenti e le celebrazioni che si svolgevano in
città, e aveva anche notato che le serve di Kausalya erano vestite
lussuosamente. Informandosi, era venuta a sapere la causa di tutto
questo.
Allora si precipitò da Kaikeyi, che era già andata a dormire, e
scuotendola violentemente le disse con grande agitazione: "Alzati!
Come puoi riposare? T'aspetta una grande disgrazia. La persona che
tu ami di più, la persona che finge d'amarti teneramente e di cui
ti fidi ciecamente, sta per tradirti e gettarti nella miseria".
Tutta calma, Kaikeyi le chiese: "Stai male? Che cosa stai dicendo?".
Ma agitandosi ancora di più, Manthara rispose: "La tua rovina è
vicina. Domani re Dasaratha incoronerà Rama".
Manthara continuò: "Tu sei figlia di un re. Tu sei la sposa prediletta
di un grande re. Eppure non capisci le complessità degli intrighi
di palazzo. Io sono solo la tua serva, devota al tuo benessere.
Perciò prevedo chiaramente la tua rovina quando Rama, e quindi sua
madre Kausalya, diventeranno potenti; allora la tua buona fortuna
finirà, e di conseguenza anche la mia. Oh, quale tragedia: tu ti
sei fidata del re e lo hai amato, senza renderti conto che tenevi
un rettile velenoso vicino al tuo seno. Tu e tuo figlio Bharata
siete stati ingannati dal re. Svegliati, Kaikeyi, e agisci prontamente
per salvarti".
Felice delle buone notizie ricevute e senza corrispondere al panico
che aveva invaso Manthara, Kaikeyi diede alla serva dei ricchi doni
di valore, e disse: "Io non vedo alcuna differenza tra Rama e Bharata.
Perciò sono felice di sentire che il re sta per incoronare Rama".
Gettando sprezzante i preziosi doni reali, Manthara continuò: "Com'è
sciocco da parte tua gioire del successo del tuo nemico! Beata Kausalya!
Presto ti avrà a capo delle sue serve. E il tuo amato figlio Bharata,
che potrebbe essere re, che avrebbe il diritto di essere re, perché
è degno di diventarlo quanto Rama, potrebbe anche essere cacciato
dal regno, se non da questa terra!". Disgustata da queste parole,
Kaikeyi disse con fermezza: "Che ti prende, Manthara? Rama mi è
tanto caro quanto Bharata. Anche Rama mi tratta con immensa devozione
e mi serve ancor più di quanto non serva Kausalya. Se viene incoronato
Rama, è come se venisse incoronato Bharata, perché Rama stima Bharata
più di se stesso".
Tuttavia non fu possibile azzittire Manthara, che continuò con i
suoi consigli malvagi finché la sua insistenza non ebbe successo.
Infatti alla fine riuscì a suscitare l'ira di Kaikeyi, che le disse:
"Escogita dunque un piano: cosa posso fare?". Esultante per la vittoria,
Manthara rispose lesta: "Naturalmente ho già un piano. Tu stessa
mi hai detto che durante una battaglia tra Indra e i demoni, re
Dasaratha rimase ferito e privo di sensi, e tu gli salvasti la vita.
Allora egli ti offri due doni, che però in quel momento non hai
scelto. Probabilmente avrai dimenticato: ma siccome ti voglio bene,
ti ricordo questa storia. Prima di tutto fatti promettere dal re
che adesso egli onorerà la sua promessa e ti concederà i due doni
che sceglierai. E che saranno: primo, Bharata dovrà salire al trono;
secondo, Rama sarà bandito dal regno per quattordici anni. Se Rama
andrà via per quattordici anni, Bharata - che ha tutte le qualità
di un sovrano - potrà conquistare la fiducia del popolo e consolidare
la sua posizione. Il re ti ama molto e non ti negherà questi due
doni. Tuttavia potrebbe offrirti in cambio oro e gioielli: rifiutali.
Che nulla ti faccia deviare dal tuo duplice scopo. Non accontentarti
dell'incoronazione di Bharata: insisti sull'esilio di Rama".
La forza di persuasione di Manthara fece apparire il male come bene!
Non solo Kaikeyi si fece convincere dalla serva, ma addirittura
la lodò: "Dicono che le persone deformi siano malvagie e corrotte,
mentre la tua gobba è piena d'espedienti meravigliosi. Dovrei adorare
questa gobba, che aumenta il tuo fascino". Manthara tornò al punto:
"Nessuno costruisce una diga quando l'acqua è già defluita! Agisci
ora". Entrando nella 'stanza del pianto', Kaikeyi si spogliò dei
gioielli che l'adornavano e s'accasciò al suolo. Poi disse a Manthara:
"Rama andrà nella foresta e Bharata sarà re, oppure informerai il
re che sono morta". Ancora una volta Manthara ricordò a Kaikeyi
il pericolo imminente e le consigliò di decidere presto.
Concluse tutte le preparazioni per l'incoronazione, il re volle
comunicare la felice notizia all'amata moglie Kaikeyi. Perciò entrò
nel suo palazzo, che risplendeva come una dimora celestiale. Tuttavia
non la trovò nella stanza da letto, e preso dall'intenso desiderio
di stare con lei s'informò dove fosse. Mai prima d'allora la regina
era mancata dal salutarlo amorevolmente a quell'ora! Una serva informò
il re: "Molto adirata, la regina giace nella stanza del pianto".
Profondamente turbato da questa notizia, il re si precipitò nella
stanza e vide la sua regina più amata stesa a terra, con i gioielli
sparsi tutt'intorno. Sedutosi accanto a lei e prendendole la mano,
il re le rivolse queste parole consolanti: "Mia amata, non stai
bene? Dimmelo: chiamerò per te i dottori più bravi e qualificati.
Forse qualcuno ti ha insultata? O desideri che venga ucciso qualcuno
che non lo merita, o desideri che sia liberato un condannato? Desideri
che arricchisca un povero o che privi della sua ricchezza un ricco?
Me stesso e tutto ciò che m'appartiene è tuo, ed io non posso andare
contro i tuoi desideri. Ti prego, alzati e dimmi qual è il problema".
Così confortata, Kaikeyi decise di tormentare ulteriormente il marito,
e disse: "Prima promettimi che farai ciò che ti chiederò; e poi
ti dirò cosa voglio". Felice all'idea della riconciliazione, il
re disse: "Nel nome di Rama, che amo più di ogni cosa e senza il
quale non posso vivere neanche un istante, prometto di fare tutto
ciò che desideri". Questo il re lo promise tre volte, pregandola
ancora una volta di esprimere il suo desiderio.
Approfittando immediatamente della situazione, con queste parole
Kaikeyi chiamò gli stessi dèi come testimoni: "Tu sei un monarca
giusto: lascia che gli dèi siano testimoni del tuo voto solenne".
E continuò: "Ricordi che quando ti salvai la vita sul campo di battaglia,
tu mi offristi due doni? Allora ti dissi che te li avrei chiesti
in un altro momento. Ecco, li voglio adesso". Legato dal suo voto,
il re attese pazientemente che nominasse quali erano i doni.
Kaikeyi continuò: "Tu hai fatto dettagliate preparazioni per insediare
Rama sul trono. Usando le stesse preparazioni, mio figlio Bharata
deve salire al trono. Questo è il mio primo desiderio. E il secondo
è: che Rama vada immediatamente nella foresta Dandaka e vi rimanga
come eremita per quattordici anni. Vestito di corteccia d'alberi
e pelle di daino, che Rama diventi un eremita, mentre Bharata godrà
della sovranità del regno. Tu sei devoto alla verità, e i saggi
dicono che l'osservanza della verità è la chiave del paradiso. Perciò
mantieni la tua promessa".
Colpito dagli strali crudeli delle parole di Kaikeyi, per alcuni
momenti il re rimase ammutolito. E si chiese: "Sto sognando o sono
pazzo, o forse la mia mente sta rivivendo un evento passato, o forse
sono malato?". Ma uno sguardo a Kaikeyi lo convinse che non era
niente di tutto ciò. Era vero; e subito svenne. Quando si riprese,
si rivolse a Kaikeyi con grande ira e dolore: "Donna malvagia, cosa
ti ha fatto Rama per essere tanto crudele con lui? Egli è più devoto
a te che a sua madre: e tu stessa lo elogiavi a me. Il mondo intero
canta la sua gloria. Per quale colpa lo esilierò? Oh no! Abbandonerò
Kausalya, Sumitra, tutte le mie ricchezze e anche la mia vita: ma
non abbandonerò il mio amato Rama. Se lo desideri, incoronerò Bharata".
Kaikeyi però era ostinata, e continuò: "Ah, bene, se desideri ritrattare
la tua parola, se desideri disonorare la fama della tua dinastia,
se vuoi essere deriso dai saggi e dai nobili, fallo! Abbandonando
la giustizia, vorresti goderti la vita con Rama e Kausalya? Vergogna.
Se non mi concederai i miei doni, prenderò del veleno e morirò!".
Dasaratha cominciò a gemere e a delirare: ma Kaikeyi non sembrava
neanche ascoltare. Vedendo la determinazione della regina e la terribile
promessa fatta da lui, Dasaratha pensò a Rama e cadde come un albero
reciso.
Ancora una volta Dasaratha implorò: "Se acconsentissi alle tue richieste
il popolo direbbe di me: "Per una donna, il re ha bandito il nobile
e giusto Rama; come ha potuto un tale folle regnare su Ayodhya per
tanto tempo?". Per amor tuo ho ignorato l'amabile servizio che mi
ha reso Kausalya, anche se per me lei era nello stesso tempo una
serva, un'amica, una moglie, una sorella e una madre, e soprattutto
la madre del mio figlio più caro. Ah, non m'ero reso conto che nelle
tue sembianze nutrivo un cobra velenoso! Se mando via Rama, anche
Lakshmana andrà con lui. E incapace di sopportarne la separazione,
io morirò. Tu regnerai da vedova: e quanto crudelmente governerai
il mio amato popolo! Se dicessi a Rama "Vai nella foresta", egli
mi ubbidirebbe prontamente. Egli è il Dharma incarnato. Come puoi
mai concepire che questo giovane e glorioso principe vada nella
foresta e viva di frutta e radici, vesta rozzamente e vada in giro
a piedi? Se Bharata approva la tua proposta di bandire Rama, non
deve neppure farmi i funerali. Donna crudele, quando hai pronunciato
quelle terribili parole i tuoi denti dovevano frantumarsi e caderti
dalla bocca. Non m'importa se svieni, ti dai fuoco, muori o sprofondi
nelle viscere della terra: non farò ciò che mi chiedi. M'inchino
a te, tocco anche i tuoi piedi. Fammi questa grazia e salvami".
Dasaratha si prostrò a terra, ma le sue mani non riuscirono a raggiungere
i piedi di Kaikeyi.
Kaikeyi però rimase imperturbabile e ripeté: "Sto solo chiedendo
i doni che ho guadagnato e che mi spettano. Tu prometti, rompi la
promessa, e pretendi anche d'essere giusto!". Dasaratha svenne di
nuovo. Poi, tornato in sé, implorò: "Di certo morirò quando Rama
lascerà Ayodhya. E se nell'altro mondo rispondessi agli dèi: 'Rama
è andato nella foresta a causa del mio amore per Kaikeyi', anche
questo sarebbe falso. Come posso chiedere al mio amato Rama di andare
nella foresta Dandaka? Se morissi prima di dare a Rama questo dolore
immeritato, sarebbe per me la cosa migliore". Kaikeyi restava impassibile,
ma il tempo passava.
S'avvicinava l'alba. I musici di palazzo cominciarono a suonare
il motivo con il quale erano soliti svegliare il re; ma quella mattina
il re li fermò. Era sveglio, angosciato e irrequieto. Vedendo ciò,
Kaikeyi disse: "Tu mi hai promesso i doni; perché resti steso così?
Dovresti darti da fare e adempiere la tua promessa. Coloro che sanno
qual è il giusto modo d'agire dichiarano che la verità è il solo
Dharma supremo; aderendo fermamente alla verità, io ti incito a
fare ciò che è giusto. Re Shibi raggiunse lo stato supremo aderendo
alla verità e sacrificando il suo stesso corpo. Privandosi dei suoi
occhi e dandoli a un brahmana, re Alarka ottenne fama. Aderendo
alla verità e adempiendo la sua promessa, l'oceano non oltrepassa
i suoi confini. Attieniti alla verità. Manda tuo figlio nella foresta.
Se non lo farai, morirò qui davanti a te".
Dasaratha vide chiaramente che era legato dalla sua parola. E piangendo
disse: "Io rinnego te e tuo figlio. Quando morirò, che sia Rama
ad offrire le libagioni; e non tu o tuo figlio. Ho visto la gioia
nei volti dei miei sudditi; come farò a vedere i loro volti addolorati
quando Rama partirà per la foresta?". Ma Kaikeyi lo incalzò: "Il
tempo sta passando. Invece di lamentarti, chiama Rama; quando l'avrai
mandato nella foresta e avrai installato sul trono Bharata, avrai
fatto il tuo dovere". Dasaratha acconsentì: "Sono incatenato dal
Dharma; ho perso il senno. Voglio vedere Rama".
Pronti ad iniziare le cerimonie auspicali, Vasishtha e il suo seguito
arrivarono al palazzo. Il saggio mandò Sumantra ad annunciare il
suo arrivo al re, comunicandogli che tutto era pronto per la cerimonia
dell'incoronazione. Entrando nella stanza dov'era il re, Sumantra
lo svegliò con sublimi parole; ma queste furono strazianti per l'angosciato
re, che lo interruppe. Visto che il re non riusciva a parlare, Kaikeyi
disse a nome suo: "Il re è stato sveglio tutta la notte ed è stanco;
ora desidera vedere Rama". Perplesso, Sumantra guardò il re, che
confermò: "Vai a chiamare Rama". Ed egli partì.
I brahmana avevano preparato tutto per le cerimonie dell'incoronazione.
I vasi d'oro contenenti le acque dei fiumi sacri, raccolte per la
maggior parte alle loro sorgenti, erano pronti. E tutti gli accessori,
come il parasole, i ventagli, l'elefante ed il cavallo bianco, erano
ugualmente pronti.
Però il re non si presentava, malgrado il sole fosse già sorto e
l'ora fausta s'avvicinasse rapidamente. Il popolo e i sacerdoti
si chiedevano: "Chi può svegliare il re, e dirgli di far presto?".
In quel momento Sumantra uscì dal palazzo e, vedendoli, disse: "Su
ordine del re, sto andando a chiamare Rama". Ma ripensandoci, sapendo
che i precettori e i sacerdoti suscitavano anche il rispetto del
re, egli tornò indietro per comunicare al re che lo stavano aspettando.
In piedi vicino al re, Sumantra cantò: "Alzati, o re! La notte è
volata. Alzati e fa' ciò che dev'essere fatto". Ma il re esausto
chiese: "Ti ho ordinato di fare venire qui Rama; non sto dormendo.
Perché non fai quello che ti dico?". Questa volta Sumantra uscì
di corsa e s'affrettò verso il palazzo di Rama.
Giunto al palazzo e attraversando liberamente i cancelli e le porte,
Sumantra vide il divino Rama e gli disse: "Il re, che si trova in
compagnia della regina Kaikeyi, desidera vederti immediatamente".
Allora, rivolgendosi a Sita, Rama le disse: "Sono certo che il re
e madre Kaikeyi vogliono discutere con me dei dettagli importanti
relativi alla cerimonia. Vado e torno subito". Da parte sua, Sita
offrì dal profondo del suo cuore questa preghiera agli dèi: "Possa
io avere la benedizione di servirti umilmente durante la fausta
cerimonia dell'incoronazione!".
Quando Rama uscì dal suo palazzo ci fu grande gioia tra la gente,
che lo salutò e l'applaudì. Montando sul suo agile cocchio egli
s'avviò verso il palazzo del re, seguito dalla scorta reale. Dalle
finestre delle loro case, e vestite a festa per esprimere tutta
la loro gioia, le donne fecero piovere fiori su di lui. Esse lodavano
Kausalya, sua madre; e Sita, la sua sposa: "Di certo deve aver fatto
molte austerità per averlo come marito".
I cittadini gioivano come se loro stessi dovevano salire al trono,
e parlando tra loro dicevano: "L'incoronazione di Rama è una vera
benedizione per tutti. Durante il suo regno, e egli regnerà per
lunghissimo tempo, nessuno avrà mai esperienze spiacevoli né sofferenze".
Anche Rama era felice di vedere la grande folla di persone, gli
elefanti e i cavalli; tutte cose che indicavano come molti erano
venuti ad Ayodhya da lontano per assistere all'incoronazione.
Mentre Rama procedeva sul suo cocchio radioso verso il palazzo di
suo padre, i cittadini dicevano tra loro: "Quando Rama sarà re saremo
molto felici. Ma perché pensare a quella felicità? Quando vedremo
Rama sul trono, raggiungeremo la beatitudine eterna!".
Mentre avanzava lungo la strada regale, Rama ascoltava tutte queste
lodi e gli omaggi devoti del popolo con estrema indifferenza. Il
cocchio attraversò il primo cancello del palazzo. Da lì Rama continuò
a piedi ed entrò rispettosamente negli appartamenti del re. Le persone
che l'avevano accompagnato aspettarono fuori impazienti.
Con ardore e rispetto, Rama andò subito dal padre e s'inchinò ai
suoi piedi, quindi toccò devotamente anche i piedi di sua madre
Kaikeyi. "O Rama!", disse il re. Ma non riuscì a dire altro, perché
fu soffocato dalle lacrime e dal dolore. Egli non riusciva né a
guardare né a parlare al figlio. Rama percepì un grande pericolo:
come se avesse messo il piede su un serpente velenosissimo.
Rivolgendosi a Kaikeyi, Rama le chiese: "Perché oggi il re non mi
parla benevolmente? Forse l'ho offeso in qualche modo? O non si
sente bene? Oppure ho offeso il principe Bharata o una delle mie
madri? Oh, com'è straziante! Se gli avessi arrecato dispiacere,
non potrei vivere nemmeno un'ora. Ti prego, dimmi la verità".
Con tono calmo, misurato e severo, Kaikeyi disse a Rama: "Il re
non è malato e neppure è arrabbiato con te. Ciò che deve dirti non
vuole dirlo, per paura di dispiacerti. In passato egli mi concesse
due doni; ma quando ora glieli ho chiesti si è tirato indietro.
Come può un uomo di verità, un re giusto, ritrattare la sua parola?
Eppure è questa la sua condizione adesso. Ti dirò la verità se tu
mi assicuri che rispetterai la promessa di tuo padre".
Per la prima volta Rama fu addolorato: "Ah, vergogna! Ti prego,
non dirmi queste cose! Per amore di mio padre posso gettarmi nel
fuoco. E t'assicuro che Rama non dice menzogne. Perciò dimmi cosa
vuole il re che si faccia".
Senza perdere tempo, Kaikeyi disse: "Molto tempo fa resi un grande
servigio al re, ed egli mi concesse due doni. Adesso glieli ho richiesti,
ed egli ha promesso. Queste sono le due cose che ho chiesto: che
Bharata sia incoronato, e che tu vada via subito nella foresta Dandaka.
Se vuoi che si sappia che tu e tuo padre siete entrambi devoti alla
verità, lascia che Bharata sia incoronato con gli stessi preparativi
fatti per te; e tu vattene nella foresta per quattordici anni. Fallo,
Rama, perché questa è la parola di tuo padre; e così salverai il
re".
Prontamente e senza mostrare il minimo segno di dispiacere, Rama
disse: "Così sia! Andrò immediatamente nella foresta, e là vivrò
coperto di cortecce e pelli d'animali. Ma perché il re non mi parla
né si sente felice in mia presenza? Vi prego di non fraintendermi:
partirò, e io stesso darò con gioia a mio fratello Bharata il regno,
le ricchezze, Sita e anche la mia vita, ma tutto questo mi sarà
più facile se lo farò in obbedienza al comando di mio padre. Mi
si spezza il cuore vedendo che mio padre non mi dice neanche una
parola direttamente".
Kaikeyi rispose con durezza: "Penserò io a tutto quanto, e manderò
a chiamare Bharata. Penso tuttavia che tu non debba ritardare di
un attimo la tua partenza da Ayodhya. Neppure la considerazione
che tuo padre non ti parla di persona deve fermarti. Finché non
lascerai la città, egli non farà il bagno né mangerà". Sentendo
queste parole, il re gemette a voce alta: "Ahimè, ahimè!", e perse
di nuovo i sensi. Ora Rama decise di partire subito, e disse a Kaikeyi:
"Non amo le ricchezze e i piaceri: ma sono devoto alla verità, come
lo sono i saggi. Anche se mio padre non m'avesse comandato, e tu
m'avessi chiesto d'andare nella foresta, l'avrei fatto lo stesso!
Adesso informerò mia madre, e anche Sita, e subito dopo partirò
per la foresta".
Rama non fu affatto turbato dall'improvviso cambiamento degli eventi.
Uscendo dal palazzo con Lakshmana, gli attendenti cercarono di porre
su di lui il parasole regale: ma egli li allontanò. Continuando
a parlare con amore e dolcezza alla gente, egli entrò nella residenza
di sua madre. Felice di vederlo, Kausalya si mise a glorificarlo
e a benedirlo, e gli chiese di sedere sul seggio regale. Ma senza
sedersi, Rama le disse con calma: "Madre, il re ha deciso d'incoronare
Bharata come principe ereditario, mentre io devo andare nella foresta
e viverci come eremita per quattordici anni".
Udendo ciò, la regina svenne, abbattuta dal dolore. E quando si
riprese disse con voce soffocata: "Se fossi stata sterile, sarei
stata infelice, ma non avrei dovuto sopportare questa terribile
agonia. In tutta la mia vita non ho avuto un giorno felice. Ho dovuto
sopportare gli scherni e gli insulti delle altre mogli del re. Da
lui stesso sono stata sempre trattata con meno affetto e rispetto
delle serve di Kaikeyi. Pensavo che dopo la tua nascita e la tua
incoronazione la mia sorte sarebbe cambiata. Ma le mie speranze
sono state infrante, e anche la morte mi disdegna. Devo certo avere
un cuore duro, se non si spezza neanche in questo momento di grande
disgrazia e dolore. Senza di te non vale la pena vivere. Perciò
se devi andare nella foresta, io ti seguirò".
Lakshmana prese la parola e disse: "Penso che Rama non debba andare
nella foresta. Il re ha perso la testa, sopraffatto dalla vecchiaia
e dalla lussuria. Rama è innocente; e nessun uomo giusto nelle sue
piene facoltà mentali tradirebbe il figlio innocente. Inoltre anche
un principe con una minima conoscenza di governo ignorerebbe il
comando puerile di un re che ha perso la testa". E rivolto al fratello
disse: "Sono qui, Rama, devoto a te, dedito alla tua causa. Sono
pronto a uccidere chiunque interferisca con la tua incoronazione
- anche se si trattasse dello stesso re! Lascia che la cerimonia
dell'incoronazione prosegua senza ritardo".
Kausalya disse: "Hai sentito l'opinione di Lakshmana. Non puoi andare
nella foresta solo perché lo vuole Kaikeyi. Se, come dici, sei devoto
al Dharma, allora il tuo dovere è quello di restare qui e servire
me, tua madre. Come madre, io sono tanto degna della tua devozione
e del tuo servizio quanto lo è tuo padre. Ma io non ti do il permesso
d'andare nella foresta. E se mi disubbidirai, la tua sofferenza
nell'inferno sarà terribile. Io non potrò vivere qui senza di te.
Se partirai, digiunerò fino alla morte".
Allora Rama, devoto com'era al Dharma, rispose: "Tra i nostri antenati
ci furono re che ottennero la fama e il paradiso eseguendo gli ordini
dei loro padri. Madre, io sto solo seguendo il loro nobile esempio".
E rivolto a Lakshmana disse: "Conosco la tua devozione e il tuo
amore per me; il tuo coraggio e la tua forza. L'universo è basato
sulla verità: e io sono devoto alla verità. La madre non ha compreso
la mia visione della verità, e quindi soffre. Ma io non posso abbandonare
la mia risoluzione. Abbandona la tua risoluzione basata sul principio
della forza. Segui il Dharma. Non lasciare che il tuo intelletto
diventi aggressivo. Il Dharma, la prosperità e il piacere sono gli
scopi dell'umanità; e la prosperità e il piacere seguono sicuramente
il Dharma: come il piacere e la nascita di un figlio derivano dalla
dedizione di una moglie devota al marito. Bisogna evitare quell'azione
o modo di vita che non assicura il conseguimento di tutti e tre
gli scopi della vita, e del Dharma in particolare; poiché dalla
ricchezza nasce l'odio, e la ricerca del piacere non è lodevole.
Chi non è di carattere spregevole, per amore del Dharma deve obbedire
agli ordini del guru, del re e del padre anziano, anche quando venissero
pronunciati in un momento d'ira, d'allegria o di lussuria. Perciò
io non posso deviare dal sentiero del Dharma, che vuole che ubbidisca
senza riserve a nostro padre. Inoltre non è giusto per te, madre,
abbandonare tuo marito e seguire me nella foresta, come se fossi
una vedova. Perciò, madre, benedicimi perché nella foresta possa
avere un periodo prospero e piacevole".
[NOTA: Qui comincia il Vangelo di Rama.]
Rivolgendosi di nuovo al fratello, Rama disse: "Non perdiamo tempo.
Liberiamoci delle cose approntate per l'incoronazione e con uguale
rapidità prepariamoci perché io lasci immediatamente il regno. Solo
così possiamo esser certi che madre Kaikeyi riavrà pace. Altrimenti
potrebbe pensare che i suoi desideri non vengano esauditi. Adempiamo
la promessa di nostro padre. Perché fin quando non si realizzeranno
i due desideri di Kaikeyi, ci sarà confusione nella mente di tutti.
Io devo partire immediatamente per la foresta; poi Kaikeyi manderà
a chiamare Bharata e lo farà installare sul trono. Di certo questo
è il volere divino, e io devo rispettarlo senza indugio. Il mio
esilio dal regno, come pure il mio ritorno, è tutto frutto delle
mie azioni (kritanta). Altrimenti, come avrebbe potuto la nobile
Kaikeyi concepire un pensiero tanto indegno? Io non ho mai fatto
alcuna distinzione tra lei e mia madre; né lei aveva mai mostrato
finora il minimo disamore verso di me.
Il risultato delle proprie azioni non può essere previsto: e quello
che chiamiamo 'daiva' (provvidenza o volontà divina) non può essere
conosciuto ed evitato da nessuno. Piacere, dolore, paura, collera,
guadagno, perdita, vita e morte: sono causati dal 'daiva'. Persino
saggi e grandi asceti sono indotti dal volere divino ad abbandonare
il loro autocontrollo e sono soggetti alla lussuria e all'ira. Il
volere divino è sacro e imprevedibile. Perciò non ci dev'essere
astio verso Kaikeyi; ella non ha colpa. Tutto questo non è cosa
sua, ma è volontà del divino".
Lakshmana ascoltò tutto questo con sentimenti contrastanti: rabbia
alla svolta che avevano preso gli eventi, e ammirazione per l'attitudine
di Rama. Tuttavia non poteva accettare la situazione come aveva
fatto Rama, ed esplose furibondo: "Il tuo senso del dovere è maldiretto,
come lo è la tua stima del volere divino. Com'è possibile che pur
essendo un astuto governante tu non vedi che ci sono persone false
che fingono d'essere buone solo per conseguire i loro scopi egoistici
e disonesti? Se tutti questi doni e promesse fossero veri, potevano
essere chiesti e dati molto tempo fa! Perché hanno dovuto aspettare
la vigilia dell'incoronazione per mettere in atto questa farsa?
Tu ignori quest'aspetto e parli di volere divino! Solo i codardi
e i deboli credono in un invisibile volere divino: gli eroi e i
forti di mente non ci credono. Oggi il popolo vedrà come la mia
determinazione e il mio impeto spazzerà via qualsiasi decreto della
volontà divina possa essere implicato in quest'ingiusto complotto.
Chi ha progettato il tuo esilio andrà in esilio! E oggi tu sarai
incoronato! Queste braccia, Rama, non sono graziose membra, né porto
queste armi per ornamento: esse sono al tuo servizio".
[NOTA: Le parole 'kritanta' e 'daiva' significano molto di più che
fato, provvidenza, frutti delle azioni passate, ecc. 'Kritanta'
significa lo sviluppo logico della propria azione. 'Daiva' vuol
dire 'gioco divino'. In questo caso Kaikeyi dovette fare ciò che
fece perché era quello che volevano gli dèi.]
A questo punto Kausalya disse: "Come farà Rama, nato dà me e dal
potente imperatore Dasaratha, a vivere raccogliendo i cereali, i
vegetali e i frutti che sono d'avanzo? Lui, i cui servi mangiano
leccornie e cibi prelibati, come farà a sostentarsi di frutti e
radici? Senza di te, Rama, il fuoco della tua separazione mi brucerà
a morte. No, se devi andare, portami con te".
Rama rispose: "Madre, questo sarebbe estremamente crudele verso
mio padre. Finché mio padre vive, ti prego di servirlo: questo è
il Dharma eterno. Per una donna il proprio marito è invero Dio stesso.
Sono certo che il nobile Bharata sarà molto gentile con te e ti
servirà come ti ho servito io. Vorrei tanto che alla mia partenza
tu consolassi il re, affinché egli non avverta per niente la mia
separazione. Anche una donna pia e altrimenti giusta, sarebbe condannata
come peccatrice se non servisse il marito. Mentre colei che serve
il proprio marito viene benedetta, quantunque potrebbe non adorare
gli dèi, non praticare i rituali o non onorare i santi".
Vedendo che Rama era inflessibile nella sua risoluzione, Kausalya
riacquistò la sua compostezza e lo benedì. Infine disse: "Aspetterò
ansiosamente il tuo ritorno ad Ayodhya, dopo i tuoi quattordici
anni nella foresta".
Raccogliendo rapidamente quant'era necessario, Kausalya fece un
rito sacro per propiziare le divinità, assicurando così la salute,
la sicurezza, il felice soggiorno e il rapido ritorno di Rama. Infine
concluse dicendo a Rama:
"Possa il Dharma, che tu hai protetto con tanto zelo, proteggerti
sempre. Possano coloro ai quali t'inchinerai lungo le strade e nei
templi proteggerti! Possano le armi che ti ha dato il saggio Visvamitra
assicurare la tua incolumità. Possano tutti gli uccelli e le bestie
della foresta, gli dèi e gli esseri celesti, le montagne e gli oceani,
e tutte le divinità che presiedono le fasi della luna, i fenomeni
naturali e le stagioni essere a te propizi. Possa tu godere della
stessa benedizione che ebbe Indra quando distrusse il suo nemico
Vritra, quella stessa che Vinata elargì a suo figlio Garuda e che
Aditi pronunciò per suo figlio Indra, quando questi combatteva contro
i demoni; quella stessa della quale godeva Vishnu mentre misurava
il Cielo e la terra. Possano i saggi, gli oceani, i continenti,
i Veda e i piani celesti esserti propizi".
Quando Rama si prosternò per toccarle i piedi, Kausalya l'abbracciò
amorevolmente e gli baciò la fronte; e infine, prima di congedarlo,
girò rispettosamente intorno a lui.
[NOTA: Rama (e Valmiki) amano usare le parole 'dharma sanatana'
per definire una questione etica. In India l'Induismo è chiamato
Sanatana Dharma.]
Dopo essersi congedato dalla madre, Rama andò in cerca dell'amata
consorte. Da parte sua, Sita - che aveva rispettato tutte le ingiunzioni
e le proibizioni relative alla vigilia dell'incoronazione, e si
stava preparando a partecipare al fausto evento - vedendo entrare
nel palazzo il suo sposo divino, andò ad accoglierlo col cuore pieno
di gioia e d'orgoglio. Tuttavia il suo contegno la rese perplessa:
il suo volto rifletteva ansia e dolore. E intuendo che c'era qualcosa
che non andava, chiese a Rama: "L'ora propizia è vicina: e tuttavia,
cosa vedo! Signore, perché non sei accompagnato dalla scorta regale,
dagli uomini con il parasole cerimoniale, dai cavalli e dall'elefante
reale, dai sacerdoti che cantano i Veda, e dai bardi che cantano
le tue glorie? Perché il tuo volto è offuscato dalla tristezza?".
Senza perdere tempo e parlando con naturalezza, Rama le disse: "Sita,
il re ha deciso d'installare sul trono Bharata e d'inviare me nella
foresta per quattordici anni. Sto per partire e sono venuto a salutarti.
Ora che Bharata è il principe ereditario, anzi il re, ti prego di
comportarti con lui di conseguenza. Ricorda: le persone al potere
non sopportano quelli che decantano gli altri davanti a loro. Perciò
non lodarmi in presenza di Bharata. Ed è meglio che non mi lodi
neanche in presenza delle tue compagne. Sii devota alle tue pratiche
religiose e servi mio padre, le mie tre madri e i miei fratelli.
Bharata e Satrughna devono essere trattati come tuoi fratelli o
figli. Stai ben attenta a non arrecare la minima offesa a Bharata,
il re. I re ripudiano anche i loro figli, se gli sono ostili; mentre
sono benigni perfino con gli stranieri, purché gli siano amici.
Questo è il mio consiglio".
Fingendosi adirata - mentre in realtà era divertita - Sita rispose
a Rama: "Il tuo consiglio che io debba restare qui al palazzo è
indegno di un principe eroico come te. Mentre padre, madre, fratello,
figlio e nipote vivono la propria buona o cattiva sorte, solo la
moglie condivide la vita di suo marito. L'unico rifugio per una
donna, sia in questo mondo che nell'altro, è soltanto il marito,
e non certamente il padre, né la madre, né il figlio, né gli amici.
Perciò verrò con te nella foresta. Andrò davanti a te, aprendoti
il sentiero nella foresta. La vita con il marito è incomparabilmente
superiore alla vita in un palazzo, o in una dimora celeste, o a
un viaggio in paradiso! Non resterò qui. T'assicuro che non ti sarò
di peso o d'impedimento nella foresta; né considererò la vita nella
foresta come un esilio o una sofferenza. Stando al tuo fianco essa
sarà per me più che un paradiso, non sarà affatto una vita dura;
mentre senza di te, anche il paradiso è un inferno".
Pensando alle dure prove che avrebbero dovuto affrontare nella foresta,
Rama cercò di dissuadere Sita con queste parole: "Tu provieni da
una ricchissima famiglia devota alla giustizia. Perciò è giusto
che tu rimanga qui e serva i miei. Così, evitando le avversità della
foresta e servendo amorevolmente i miei cari, farai felice il mio
cuore. La foresta non è luogo per una principessa come te. Essa
è piena di grandi pericoli: nelle caverne ci sono dei leoni, e il
loro ruggito è terrificante. Le bestie feroci non sono abituate
a vedere gli esseri umani, e il modo in cui attaccano gli uomini
fa orrore anche solo a pensarci. I sentieri sono pieni di spine
ed è difficile camminarvi. Il cibo è costituito da pochi frutti
caduti spontaneamente dagli alberi: e nutrendosi di questi bisogna
contentarsi per tutto il giorno. I nostri indumenti saranno fatti
di pelli e cortecce; mentre i capelli dovranno essere intrecciati
e legati sulla testa. Si dovrà rinunciare alla collera e alla cupidigia,
la mente dovrà concentrarsi sulle austerità, e bisognerà vincere
la paura anche laddove essa viene naturale. Totalmente esposti alle
inclemenze della natura, circondati da animali selvatici, serpenti,
e così via, la foresta è piena d'indicibili difficoltà. Non è un
posto per te, mia cara".
La continua insistenza di Rama commosse Sita fino alle lacrime:
"La tua benevola sollecitudine per la mia felicità rende solo più
ardente il mio amore per te, e più forte la mia determinazione a
seguirti. Hai parlato d'animali: essi non s'avvicineranno mai a
me mentre ci sarai tu. Hai parlato del dovere di servire i tuoi:
ma l'ordine di tuo padre che tu vada nella foresta esige che ci
vada anch'io. Io sono la tua metà: e per questo non posso vivere
senza di te. Tu hai spesso dichiarato che una vera moglie non potrà
vivere separata dal marito. Inoltre, ascolta! Tutto ciò non mi è
nuovo: perché quando vivevo in casa di mio padre, molto prima di
sposarci, dei saggi astrologi predissero giustamente che avrei passato
qualche tempo nella foresta. Se ben ricordi, ho desiderato vivere
per un pò nella foresta, poiché mi sono addestrata per tale eventualità.
Signore, sono davvero felice al solo pensiero che finalmente andrò
nella foresta, per servirti costantemente. Servendo te, non incorrerò
nel peccato di lasciare i tuoi genitori. Questo ho sentito dire
da coloro che ben conoscono i Veda e le altre Scritture, che una
moglie devota resta unita al proprio marito anche dopo aver lasciato
questa terra. Perciò non c'è un motivo valido per cui tu debba volermi
lasciare qui e andar via da solo. Se rifiuti ancora di portarmi
con te, non ho altra scelta che togliermi la vita".
[NOTA: Rama ripete le parole 'duhkham ato vanam - la spaventosa
foresta' quasi in ogni verso. Un'efficace tecnica persuasiva.]
All'ennesimo discorso persuasivo di Rama, Sita rispose seccata,
mostrando coraggio e fermezza. E rimproverò perfino Rama, dicendo:
"Quando ti ha scelto come genero, non si è reso conto mio padre
Janaka che avevi un cuore di donna in un corpo di uomo? Altrimenti
perché tu, che sei tanto valoroso e coraggioso, dovresti temere
per me? Se non mi porterai con te, morirò sicuramente; ma invece
d'aspettare la morte, preferisco morire davanti a te. Se non cambi
subito parere, prenderò del veleno e morirò". Presa dall'angoscia,
il timbro della sua voce divenne sempre più acuto, e un torrente
di lacrime ardenti sgorgò dai suoi occhi.
Rama la prese tra le braccia e le parlò amorevolmente, con grande
gioia: "Sita, non potevo leggere nella tua mente e perciò ho cercato
di dissuaderti dal venire con me. Ora vieni, seguimi. Non posso
abbandonare l'idea d'andare nella foresta, neanche per amor tuo.
Non potrei vivere se disubbidissi il comando dei miei genitori.
Invero mi chiedo come si potrebbe adorare il Dio invisibile, se
uno fosse contrario ad ubbidire ai comandi dei genitori e del guru
che si possono vedere. Nessuna attività religiosa, neanche l'eccellenza
morale, può uguagliare il servizio dei propri genitori per ottenere
la felicità suprema. Qualunque cosa uno desideri e in qualunque
regione uno desiderasse ascendere dopo aver lasciato questa terra,
tutto si ottiene servendo i genitori. Perciò farò come mi è stato
comandato da mio padre; questo è il Dharma eterno. E tu hai deciso
giustamente di seguirmi nella foresta. Vieni, prepariamoci. Offri
doni generosi ai brahmana e distribuisci il resto dei tuoi averi
ai servi e agli altri".
Ora Lakshmana disse a Rama: "Se sei determinato a partire, allora
andrò innanzi a te". Rama però cercò di dissuaderlo: "So bene che
sei il mio compagno più prezioso, ma penso che dovresti rimanere
qui e aver cura delle nostre madri. Kaikeyi potrebbe non trattarle
bene. E con questo servizio mi proverai la tua devozione". Ma Lakshmana
rispose prontamente: "Sono sicuro che Bharata si prenderà cura delle
madri, ispirato dal tuo spirito di rinuncia e dalla tua aderenza
al Dharma. Se così non fosse, potrei sterminarli tutti in un attimo.
Inoltre Kausalya è abbastanza grande e potente da badare a se stessa:
per questo ha dato alla luce te! Rama, il mio posto è vicino a te;
il mio dovere è servirti".
Felice di udire questo, Rama rispose: "Allora andiamo! Ma prima
di partire desidero dare in elemosina ai santi brahmana tutto ciò
che possiedo. Ti prego di riunirli. Congedati dai tuoi amici e prepara
anche le nostre armi".
Il primo a beneficiare dei doni di Rama fu Suyajna, un figlio di
Vasishtha, il sacerdote di famiglia. Poi vennero un figlio del saggio
Agastya e un figlio di Visvamitra. Poi il brahmana che si occupava
dei riti religiosi che Kausalya faceva ogni giorno: a lui furono
dati un veicolo, dei servi, degli abiti di seta e molte ricchezze.
A Citraratha, l'auriga-ministro, donarono gioielli, indumenti e
bestiame. Poi si rivolsero ai casti studenti che s'erano dedicati
completamente allo studio delle Scritture e che, perciò, non avevano
alcuna entrata economica: ad essi donarono cammelli carichi di gioielli
e carri pieni di cibo. Rama distribuì le sue ricchezze ai brahmana,
ai giovani, agli anziani e ai poveri; e chiese loro di custodire
i Suoi palazzi e quelli di Lakshmana durante il periodo della loro
assenza.
Ci fu un particolare commovente in questa grande cerimonia. In un
sobborgo di Ayodhya viveva un brahmana chiamato Trijata, che era
povero e aveva molti figli. Quel giorno la moglie gli disse: "Benché
come moglie non dovrei istruirti, ma servirti come mio dio, ti suggerisco
di buttare l'accetta che porti sempre con te - e con la quale vai
scavando radici da mangiare - e andare da Rama. Egli ti darà certamente
del denaro con il quale alleviare la nostra povertà". Trijata arrivò
al palazzo proprio mentre Rama stava distribuendo le sue ricchezze,
e lo pregò d'aiutarlo. Indicando le vacche che stavano sull'altra
riva del fiume Sarayu, Rama disse al brahmana: "Lancia il tuo bastone
con tutta la tua forza. Tutte le vacche che si troveranno da questa
parte del bastone saranno tue". L'emaciato e debole brahmana lanciò
il bastone con tale forza che raggiunse l'altra riva del fiume e
cadde vicino a un toro. Rama gli disse sorridendo: "Ho scherzato
con te, per vedere la tua forza Queste migliaia di vacche sono tue.
Se desideri di più, chiedi! Ho acquisito tutte le mie ricchezze
solo per la protezione delle persone spirituali. Donandole a te
sarò benedetto". Il brahmana andò via felice con le vacche. Non
ci fu ad Ayodhya un solo brahmana, parente, servo o povero che non
ricevette parte delle ricchezze di Rama.
Quindi Rama s'avviò verso il palazzo di Kaikeyi per congedarsi dal
re. Le persone che avevano saputo della svolta degli eventi si accalcavano
per vedere Rama, Lakshmana e anche Sita (che fino ad allora non
era mai stata vista camminare per strada), e tra loro dicevano:
"Sicuramente il re è posseduto da uno spirito maligno, per mandare
Rama nella foresta. Anche noi andremo nella foresta, come Lakshmana.
Allora la foresta diventerà una città, e questa città diventerà
una foresta. Che Kaikeyi regni pure su una città in rovina abitata
solo da ratti e serpenti".
Vedendo l'addolorato Sumantra fuori del palazzo, Rama gli chiese
d'informare il re del suo arrivo. Il re disse a Sumantra: "Prima
fai venire qui velocemente tutte le mie mogli; voglio vedere Rama
solo in loro presenza". Sumantra corse negli altri appartamenti
ed esortò le mogli del re ad andare da lui. Trecentocinquanta di
esse si strinsero intorno a Kausalya, la regina principale, e con
lei s'affrettarono verso il palazzo di Kaikeyi. Quando arrivarono,
il re disse a Sumantra: "Fai entrare Rama".
Non appena Rama fu in sua presenza - seguito da Lakshmana e da Sita
- il re si alzò e gli corse incontro a braccia aperte, ma perse
coscienza e cadde. Colpiti da questa scena commovente, tutti i presenti
emisero un gemito. Quando il re si riprese, Rama gli disse: "Padre,
sono pronto a congedarmi da te e andare nella foresta: ti prego
di benedirmi. Anche Sita e Lakshmana insistono per accompagnarmi,
benché abbia fatto del mio meglio per dissuaderli. Dacci il permesso
di partire". Il re gridò forte: "Ahimè, io non ero cosciente quando
ho concesso quel dono a Kaikeyi. Perciò è giusto che tu non tenga
conto del mio ordine; fammi prigioniero e incoronati re".
Rama rispose umilmente: "Non ho ambizioni per il trono, padre. Possa
tu regnare per moltissimo tempo, affinché al mio ritorno, tra quattordici
anni, io possa inchinarmi ai tuoi piedi". Nello stesso tempo Kaikeyi
ammonì il re a non fare alcun compromesso. Il re disse a Rama: "Figlio
amatissimo, va' nella foresta; possa il tuo viaggio essere felice
e piacevole. Tu sei devoto alla verità e la tua decisione non può
essere cambiata; ma ti prego, resta ancora oggi e parti domani.
Ti assicuro che quanto è successo non mi piace affatto; è tutta
opera di questa donna, che si è comportata come brace ardente nascosta
da ceneri fredde. Malgrado ciò, tu - verità incarnata - hai mantenuto
la mia promessa e hai tenuto alto il prestigio della nostra dinastia".
Rama rispose gentilmente: "Chi mi darà domani le cose buone che
posso avere oggi? Preferisco andare via ora. Padre, metà della tua
promessa a Kaikeyi viene così esaudita; esaudisci anche l'altra
metà. Che la corona passi a Bharata. Io non desidero né il regno
né la felicità né questa terra; né i piaceri né il paradiso e neppure
la vita: io desidero onorare la tua parola. Sapendo questo, ti prego
di non angosciarti, padre. Madre Kaikeyi ha detto: "Va' subito nella
foresta", e così sarà. Per noi non sarà cosa dura. Sono certo che
saremo felici tra le miti gazzelle, gli animali e gli uccelli. Tu
devi consolare gli altri e asciugare le loro lacrime: non devi piangere.
Fa' subito il necessario per installare Bharata sul trono". Il re
abbracciò Rama, e subito perse coscienza.
A questo punto il nobile ministro Sumantra, che aveva osservato
tutto questo con la mente profondamente agitata, pensando che insultando
Kaikeyi avrebbe potuto farle cambiare idea, esplose dicendo: "Io
ti considero l'assassina di tuo marito e di tutta la famiglia; sembra
che non ci sia limite alla tua cattiveria. Con l'inganno hai infranto
l'antichissima tradizione di questa dinastia; e cioè, che il figlio
maggiore erediti il trono. Vuoi che il tuo Bharata regni su Ayodhya?
Allora noi tutti lasceremo il paese insieme a Rama. Abbandonata
dai brahmana, dai parenti e dai saggi, che cosa otterrai installando
tuo figlio sul trono? Ahimè, perché la terra non si apre sotto i
tuoi piedi e non t'inghiotte? Mi meraviglio inoltre come il dolore
provato dai saggi come Vasishtha non si trasformi in una lingua
di fuoco che ti consumi.
"Somigli proprio a tua madre. Tuo padre aveva ottenuto da un saggio
la facoltà di comprendere la lingua degli uccelli. Una notte udì
due uccelli che comunicavano tra loro e si mise a ridere. Tua madre
volle sapere il motivo di quella risata, e non cedette neanche quando
tuo padre le disse che rivelare la causa avrebbe significato la
sua morte! Infine, su consiglio del saggio, il re esiliò tua madre
e ritrovò la pace. Davvero hai preso di tua madre e non dai valore
alla vita di tuo marito. Se non rinunci immediatamente a questo
piano malvagio, otterrai l'ignominia eterna". Ma Kaikeyi non prestò
attenzione a queste parole!
Allora Dasaratha disse a Sumantra: "Lascia stare. Sotto il mio comando,
che un vasto esercito, un gran numero di serve, di guardie e anche
tutto il mio tesoro accompagni Rama nella foresta, affinché egli
non senta privazioni durante il suo lungo soggiorno là".
Udendo questo, Kaikeyi esplose infuriata: "Oh no! Questo non puoi
farlo. Bharata non sarà sovrano di un regno fantasma, con le casse
del tesoro vuote!". Dasaratha si adirò e gridò: "Questo non l'hai
pattuito prima come condizione! Perché ora contraddici i miei ordini?".
Ma l'inflessibile Kaikeyi continuò: "Il tuo antenato Sagara esiliò
suo figlio Asamanja, ma non gli diede un esercito, servi e ricchezze.
Rama andrà via senza niente".
Il primo ministro Siddhartha intervenne dicendo: "Asamanja era sadico
e malvagio, e uccideva anche i neonati; perciò Sagara lo bandì.
Rama non solo è innocente, ma è dotato di tutte le qualità divine.
Bandire una persona tanto perfetta depriverebbe anche Indra dei
suoi meriti. Basta, regina, con questa storia. Lascia che Rama governi
il regno".
Il re fece eco al primo ministro e disse: "Se il tuo cuore non è
cambiato, anch'io andrò nella foresta con Rama; regna sul paese
insieme a Bharata".
Rama disse: "Padre, ho rinunciato al regno e a tutti i suoi piaceri;
che ne farò dell'esercito e del tesoro? Chi, se non un folle, dopo
aver abbandonato un elefante si tiene la catena? L'esercito e il
tesoro saranno utili a Bharata. Io sarò contento se le serve di
madre Kaikeyi mi faranno dono dei ruvidi indumenti che portano gli
asceti che vivono nella foresta". Udendo questo, e senza perdere
tempo, la stessa Kaikeyi portò dei rozzi vestiti fatti di corteccia
d'albero per Rama, Sita e Lakshmana.
Rama prese umilmente i suoi e li indossò lì stesso, spogliandosi
degli abiti principeschi. Lakshmana fece altrettanto. Ma Sita rimase
perplessa e impacciata dal ruvido vestito di fibre che Kaikeyi le
aveva dato: lo provò in diversi modi, ma non sapeva come indossarlo.
Allora chiese aiuto a Rama, che immediatamente glielo avvolse intorno.
Nel contempo, le donne lì presenti si lamentavano in preda a un
dolore irrefrenabile; ma Rama non se ne curò.
Commosso fino alle lacrime dalla scena che gli stava davanti, il
saggio Vasishtha disse: "Malvagia Kaikeyi, il calice del tuo peccato
trabocca. Non ti basta aver ingannato il re, carpito da lui i due
doni più ingiusti e portato disgrazia a tutta la dinastia? La principessa
Sita non è obbligata e non deve andare nella foresta. Ella è lo
stesso sé di Rama; poiché la moglie è davvero l'alter ego del marito.
Se ambedue andranno via, noi tutti li seguiremo. Sono sicuro che
anche Bharata e Satrughna partiranno. E tu sarai l'unica sovrana
di questo regno abbandonato. Tu non conosci Bharata: egli non acconsentirà
a governare il regno abbandonato da Rama. Perciò hai agito contro
l'interesse di tuo figlio. Tu hai solo chiesto che Rama sia esiliato.
Lascia dunque che Sita parta con gli abiti e i gioielli principeschi".
Ma Kaikeyi ignorò tutto questo e Sita finì d'indossare gli abiti
ascetici.
Tutti i presenti gridarono: "Vergogna, vergogna". Mentre Dasaratha,
in preda alla più terribile angoscia, implorò Kaikeyi: "Risparmia
almeno a Sita questa crudeltà. Che cosa ti ha fatto? Mi hai ingannato
per farti concedere i due terribili doni, per i quali merito certamente
la morte, ma essi non richiedono questo crudele trattamento di Sita.
Hai davvero superato ogni limite di decenza e giustizia; hai deciso
d'andare all'inferno". Ma non vi fu risposta a questa supplica!
A questo punto Rama si fece avanti e disse a Dasaratha: "Padre,
dacci il permesso d'andare. Ma prima di partire devo farti una preghiera:
tratta mia madre con maggiore considerazione, poiché è anziana e
sopraffatta dal dolore. Fa' che la separazione da me non le causi
maggiore sofferenza. Fa' che non lasci questo mondo per la disperazione".
Dasaratha gemette ancora nell'agonia: "Devo aver separato molti
vitelli dalle loro madri, perciò sto soffrendo così tanto. Vedendo
il mio amato figlio vestito da asceta, perché la vita non mi lascia?".
Poi gridò: "Rama", e perse coscienza. Quando riprese i sensi disse
a Sumantra: "Porta il cocchio più bello, con i migliori cavalli".
E rivolto al tesoriere ordinò: "Ricorda che Sita passerà quattordici
anni nella foresta. Porta abbastanza vestiti e gioielli per tutto
quel tempo". Gli ordini furono subito eseguiti. Sita rispettò i
desideri del suocero e indossò abiti e gioielli reali.
Abbracciandola amorevolmente, Kausalya disse: "Le donne malvagie
abbandonano anche il caro marito quando questi è sopraffatto dalla
cattiva sorte. Il loro cuore è incostante. Né il loro stato familiare
né quanto è stato fatto per loro, né l'istruzione né i doni ricevuti
e neppure i voti nuziali le trattengono. Ti prego, sii come le donne
rette, e tratta sempre Rama come il tuo dio". Sita rispose immediatamente:
"Certamente osserverò il tuo consiglio, madre. Una vina senza corde
non è una vina, un carro senza ruote non è un carro, e una donna
senza marito - anche se avesse cento figli - non può avere felicità
in questo mondo. Poiché il padre, il fratello e il figlio danno
alla donna solo una piccola felicità; mentre il marito le dà una
felicità immensa. Come potrebbe dunque non adorarlo?".
Quindi Rama pregò sua madre di continuare similmente ad adorare
suo padre. Poi, inchinandosi a Kaikeyi, disse: "Ti prego di perdonarmi
se negli anni trascorsi insieme ti ho offesa in qualche modo". Udendo
questo, le donne gemettero forte. Infine Rama, Sita e Lakshmana
fecero un giro intorno al re e si congedarono da lui. Si congedarono
poi da Kausalya, e quindi andarono da Sumitra (la madre di Lakshmana).
Ella era felice che suo figlio accompagnasse Rama, e lo benedì e
lo istruì: "Considera Rama come lo stesso Dasaratha (tuo padre);
tratta Sita come fosse tua madre; considera la foresta come Ayodhya,
e va' con gioia, amato figlio mio".
Il cocchio era pronto. Appena Rama vi salì, Sumantra disse: "Il
periodo dell'esilio, che è di quattordici anni, comincia da questo
momento". Il cocchio si mosse, e commosse i cuori dei cittadini
di Ayodhya che lo rincorrevano gridando: "Va' piano". Anche Dasaratha
e Kausalya lo inseguirono gridando: "Va' piano". Ma Rama esortò
Sumantra: "Va' veloce. E se dopo ti chiederanno, potrai dire: 'Non
ho sentito'. Non bisogna prolungare il dolore della separazione!".
Il cocchio prese velocità. I ministri pregarono il re di tornare
al palazzo: "Non dovete andare troppo lontano per vedere partire
uno di cui desiderate il ritorno".
Le persone che fino all'ultimo videro Rama seduto sul cocchio, che
in silenzio e con le mani giunte salutava tutti i cittadini di Ayodhya,
gridarono angosciate: "Dove va il nostro Signore, il solo rifugio
e protettore dei poveri, dei deboli e degli asceti; colui che non
s'adirava neanche quando gli si mancava di rispetto, che cercava
di compiacere anche quelli che erano in collera con lui, e per il
quale piacere e dolore erano uguali? Quel Rama che trattava noi,
suo popolo, con lo stesso amore, devozione e riverenza con cui trattava
sua madre - dove sta andando? Il re ha sicuramente perso la testa,
per bandire un tale principe". Anche il re udì ciò che diceva la
gente, e questo lo rese ancora più triste.
Sopraffatta dal dolore, la gente non voleva occuparsi delle faccende
quotidiane, mondane o religiose. Anche gli animali erano riluttanti
a pascolare o a mangiare. Gli stessi esseri celesti erano ulteriormente
confusi. La partenza di Rama fu contrassegnata da minacciose nuvole
nere, da tempeste di sabbia e da un terremoto ad Ayodhya. Avvilita
al solo pensiero che tale ingiustizia avesse potuto prevalere ad
Ayodhya, la gente sembrava aver perso ogni interesse nei confronti
della vita e del prossimo. Le menti e i cuori di tutti erano totalmente
assorti nel solo pensiero di Rama.
Dasaratha rimase sulla strada a guardare il cocchio che scompariva
nella nuvola di polvere che sollevava. Con il collo proteso e gli
occhi spalancati, egli si sforzava d'intravedere il figlio amato.
Quando non riuscì più a vedere, cadde a terra svenuto. Kausalya
e Kaikeyi s'inginocchiarono subito per sollevarlo. Rinvenendo, il
re ammonì Kaikeyi: "Non toccare il mio corpo, peccatrice! Non ti
considero più mia moglie. Non sopporto più neanche la tua vista".
Mentre camminava aiutato da Kausalya, il re si voltò indietro, guardò
a terra e vide le impronte lasciate dalle ruote del cocchio e dagli
zoccoli dei cavalli: "Vedo queste impronte - gemette - ma non vedo
Rama". Poi aggiunse: "Presto si stenderà per dormire sulla dura
e nuda terra, e il suo corpo si coprirà di polvere. Anche Sita,
che non è abituata alla vita della foresta, dovrà sostenere privazioni
indicibili. Sono certo che gli abitanti della foresta vedranno Rama
come gli indifesi percepiscono il Signore del mondo". E rivolto
a Kaikeyi disse: "Non sono capace di vivere senza Rama! Presto morirò,
e tu governerai da vedova!".
Sempre più irrequieto, il re ordinò ai suoi attendenti: "Qui non
trovo pace. Portatemi nel palazzo della regina Kausalya". Giunto
là, giacendo su un sofà, il re disse alla regina: "Kausalya, ti
prego, toccami con la mano. Io non ti vedo: la mia vista ha seguito
Rama e non è più tornata".
Kausalya disse al re: "Avrei preferito che Rama fosse rimasto ad
Ayodhya, anche come servo di Kaikeyi, se lei l'avesse voluto. Ora
che Rama è andato nella foresta, lontano da noi, non so neanche
che cosa gli stia succedendo e che cosa lei gli farà ancora. La
fortuna di Kaikeyi è in ascesa, è sulla cresta dell'onda: mi chiedo
cos'altro farà. Verrà mai quel giorno in cui Rama e Lakshmana torneranno
ad Ayodhya, portando gioia e felicità al loro popolo? Come desidero
vedere i volti dei tre giovani! Di certo in una vita passata devo
aver mutilato le mammelle di una vacca e privato i vitelli del loro
sostentamento. Come un leone abbatte un vitello e priva la vacca
del suo piccolo, così Kaikeyi mi ha privato di mio figlio".
Allora la saggia Sumitra, la madre di Lakshmana, che era rimasta
molto più calma, disse a Kausalya: "Colui che consideri tuo figlio
è nobile e forte: non c'è bisogno che piangi per lui. Con la sua
rinuncia suprema al regno ha guadagnato molto merito sia in questo
mondo che nell'altro. Anche Lakshmana ha acquisito molto merito,
andando con Rama per servirlo. E pensa all'eroica principessa Sita,
che con coraggio e consapevolezza ha rifiutato gli agi del palazzo
e ha scelto di stare col marito per servirlo costantemente!
"Sono certa che l'intera natura risponderà generosamente allo splendore
e alla gloria spirituale di Rama. Anche la dolce brezza e la piacevole
freschezza della luna lo serviranno. I missili e le armi che il
saggio Visvamitra gli ha dato, e che egli ha portato con sé, gli
daranno la massima sicurezza. Nessun nemico può affrontare lo splendore
della devozione di Rama al Dharma. E poi tornerà presto, dopo aver
completato il periodo di vita ascetica.
"Devoto al Dharma com'è, egli è la luce nel sole, il calore del
fuoco, la prosperità della ricchezza, e l'essenza stessa della gloria
e della pazienza. Non solo: io credo che egli sia il Dio degli dèi,
l'essere più eccelso. Che egli viva nella foresta o nella città,
cosa può capitargli di male? Sita - che è la stessa dea Lakshmi
- l'accompagna, e il potente Lakshmana lo protegge giorno e notte:
come può essere colpito da qualche male! Non aver paura. Non angustiarti.
Presto egli tornerà ad Ayodhya. Presto i tuoi occhi potranno rivederlo.
E quando lo accoglierai di nuovo ad Ayodhya verserai lacrime; non
come queste, ma lacrime d'amore. Asciugati queste lacrime nate dal
dolore, o regina benedetta. Presto, quando Rama tornerà e s'inchinerà
davanti a te e a tutte le tue amiche, allora sarà il momento di
versare lacrime, lacrime d'amore".
Le sagge parole di Sumitra, madre di Lakshmana, diedero grande conforto
alla regina Kausalya.
I cittadini di Ayodhya che avevano seguito Rama non volevano tornare
in città. Quando vide che il sole stava per tramontare, Rama si
rivolse loro con affetto: "Amati cittadini di Ayodhya! L'amore e
l'adorazione che nutrite per me, mostrateli anche a Bharata, per
amor mio. Bharata è nobile nel carattere e nelle azioni, e farà
tutto ciò che sarà necessario per il vostro bene e la vostra felicità.
Inoltre vi prego, per amor mio, di comportarvi in maniera tale da
non causare la minima preoccupazione al cuore del re, mio padre".
Qualunque cosa facesse per dissuaderli sembrava piuttosto persuaderli
che solo lui era degno di governarli. I brahmana si fecero avanti
e parlarono a nome di tutti: "Cari cavalli, non tirate il cocchio
verso la foresta, ma riportate il vostro padrone Rama ad Ayodhya.
Questa è la preghiera di tutti gli esseri". Quando Rama vide i santi
brahmana, scese dal cocchio e camminò umilmente con loro, pur non
tenendo conto dei loro argomenti. Vedendo che Rama procedeva ancora
verso la foresta, i brahmana lo pregarono: "Finora le nostre menti
sono state devote ai Veda; ma ora, Rama, stanno seguendo te nella
foresta. Una volta che i nostri cuori sono entrati nel tuo essere,
non c'è ritorno. Se tu non tornerai ad Ayodhya, come potrà regnarvi
il Dharma? Non odi: gli alberi che non possono seguirti perché trattenuti
dalle loro radici ti pregano, ti supplicano (con il suono stridente
che producono) di tornare! Guarda quegli uccelli: accovacciati,
immobili, ti sollecitano a tornare. O tu compassionevole, abbi misericordia
di tutte queste creature e ritorna". Mentre dicevano queste cose,
raggiunsero la riva del fiume Tamasa. E anche il fiume sembrava
dire "Ritorna", perché sbarrava e ostruiva il cammino di Rama.
Sumantra sciolse i cavalli e li lasciò a pascolare. Rama disse a
Lakshmana: "Passeremo la notte qui. Non dobbiamo stare in ansia
per i nostri genitori. Bharata, che è il Dharma incarnato, si prenderà
cura di loro. Sono contento che sei venuto, mi sarai di grande aiuto
per proteggere Sita". Dopo le preghiere, Sumantra preparò il letto
di Rama. E su un giaciglio fatto di foglie d'alberi Rama e Sita
si coricarono e ben presto s'addormentarono profondamente. Lakshmana
restò sveglio, raccontando a Sumantra le glorie di Rama. Quando
Rama si svegliò vide i cittadini ancora addormentati e disse a Sumantra:
"Porta subito il cocchio e partiamo prima che si sveglino. E dovere
dei principi salvaguardare il popolo dall'infelicità causata dagli
stessi principi". Appena il cocchio fu pronto, Rama chiese a Sumantra
d'andare prima verso nord e poi di tornare velocemente verso la
foresta. Tutto questo per confondere i cittadini, perché smettessero
di seguirli e tornassero in città.
I cittadini di Ayodhya che avevano accompagnato Rama si erano addormentati
sulla riva del fiume Tamasa. Quando si svegliarono si accorsero
che Rama era andato via. E sinceramente addolorati maledirono il
sonno: "Maledetto il sonno dal quale siamo stati privati della nostra
consapevolezza, senza la quale adesso non vediamo Rama. Pur essendo
tanto premuroso con i suoi devoti, come mai Rama ci ha abbandonati
ed è fuggito di nascosto? Egli trattava noi di Ayodhya come fossimo
suoi figli; eppure è andato via nella foresta. Dovremmo seguirlo
tutti oppure morire qui stesso. Come possiamo tornare dalla gente
di Ayodhya e dire: "Siamo andati con Rama, ma siamo tornati senza
di lui".
Poi videro per terra le impronte delle ruote del cocchio e, gioendo
alla prospettiva d'incontrare di nuovo Rama, le seguirono. Ma quando
d'un tratto queste s'interruppero bruscamente senza lasciare altre
tracce, i cittadini rimasero addolorati e perplessi. Delusi, dovettero
tornare ad Ayodhya, consolati dal pensiero che tutto questo era
opera degli dèi. Eppure rientrando nelle loro case non vi trovarono
alcuna gioia; il dolore accecava i loro occhi ed essi si muovevano
come ciechi, come se fossero stati privati della vita stessa.
Da allora nulla poteva far gioire la gente di Ayodhya. Le donne
erano letteralmente possedute dall'angoscia e dicevano ai mariti:
"A che servono le mogli, le ricchezze, i figli, i piaceri e le case
a coloro che non possono vedere Rama? Lakshmana è certamente la
sola persona buona del mondo, in quanto ha accompagnato Rama. Le
colline, gli alberi e i fiumi della foresta sono più fortunati di
noi, perché servono Rama. Andiamo dov'è lui: perché egli è la nostra
sola mèta e rifugio. Dov'è Rama non c'è paura né sconfitta". E inoltre
decisero: "Non ci assoggetteremo mai al governo di Kaikeyi. Incapace
di sopportare la separazione da Rama, il re forse morirà presto.
E allora forse Kaikeyi dominerà il regno. In tal caso dovremmo o
bere del veleno e morire, o seguire Rama, o almeno andare lontano.
Oh, quale crudeltà che Rama, Lakshmana e Sita siano stati esiliati
nella foresta. Certamente ora Rama illumina la foresta... Rama il
cui volto è come la luna piena, che ha un torace possente e delle
lunghe braccia, che sottomette i suoi nemici, e che ha gli occhi
simili al loto; che è il primo a parlare a tutti, con dolcezza e
sincerità; che è forte e buono, che dà gioia a tutto il mondo come
la luna; il migliore tra gli uomini, con il coraggio di un elefante".
Così il popolo di Ayodhya si lamentava e dava sfogo al proprio dolore.
Ayodhya sembrava una città morta.
Continuando il viaggio verso la foresta, Rama disse a Sumantra:
"Penso al giorno in cui tornerò ad Ayodhya e vagherò nelle vicine
foreste col pretesto d'andare a caccia. Io non amo cacciare. La
caccia agli animali selvatici fu praticata nei tempi antichi per
amore dei saggi e degli asceti che vivevano nelle foreste. Col passare
del tempo divenne un passatempo per le persone che maneggiavano
armi".
Quando il territorio Kosala stava per scomparire all'orizzonte,
Rama si volse verso di esso e con le mani giunte si congedò da Ayodhya.
Rivolgendosi alla gente dei villaggi che si era radunata intorno
a lui, la invitò a tornarsene a casa con queste parole: "E peccato
prolungare la sofferenza; andate e applicatevi ognuno ai vostri
compiti".
A un'andatura più lenta, perché non era più seguito, Rama guidò
il cocchio fino a raggiungere la riva del sacro Gange. Il fiume
sacro era fiancheggiato da molti eremi di saggi. Dèi e devoti di
dèi, demoni ed esseri celesti (gandharva = artisti), ninfe e mogli
di gandharva, tutti adoravano il Gange e si bagnavano nelle sue
acque. Turbolento e 'furioso' in alcuni posti, placido e allegro
in altri; quasi immobile e calmo in certi luoghi, rapido e fragoroso
in altri, il fiume dava gioia continua a tutti. Prendendo origine
dai piedi di loto del Signore Vishnu, il fiume immacolato distruggeva
ogni peccato.
Rama giunse nella città chiamata Sringaverapura, sulle rive del
Gange, e decise di passarvi la notte. Da lontano vide un grande
albero d'ingudi e decise d'accamparsi sotto la sua ombra. Il capo
di Sringaverapura era Guha, un amico di Rama; e quando seppe dai
suoi uomini che Rama era giunto fin là, si precipitò ad accoglierlo.
Al loro incontro i due amici s'abbracciarono affettuosamente. Guha
fu confuso nel vedere Rama vestito da asceta. Fece portare subito
dei cibi prelibati e poi disse a Rama: "Benvenuto, o potente! Tutta
la terra è tua. Tu sei il Signore: noi siamo i tuoi umili servi.
Dacci la tua protezione e la tua guida. Qui ci sono quattro tipi
di cibo: cibo che dev'essere masticato, cibo soffice, bevande e
cibi prelibati ridotti in pasta. Ecco del cibo per i cavalli; ed
ecco dei magnifici letti per il vostro riposo".
Rama abbracciò nuovamente Guha e gli disse: "Sono felice di vederti,
e constatare che stai bene. Grazie per la tua ospitalità, amico:
ma ora non mi occorre. Ho preso il voto di condurre vita ascetica.
Ti chiedo comunque del cibo per i cavalli, che sono i prediletti
di re Dasaratha, mio padre". Guha fornì il cibo per i cavalli. Rama
prese solo l'acqua del Gange. Rama e Sita dormirono sotto l'albero,
mentre Lakshmana e Guha restarono svegli sotto un altro albero.
Guha disse a Lakshmana: "Noi, fratello, siamo abituati alla vita
nella foresta, ma tu no. Ecco un letto per te, stenditi e dormi.
Resterò io di guardia". Ma Lakshmana rifiutò dicendo: "E proprio
come dici. Però non mi coricherò in presenza di mio fratello". E
mentre sedevano entrambi a vigile guardia, Lakshmana espresse a
Guha la sua angoscia: "Forse questa è la notte del castigo di Ayodhya.
Forse nostro padre è morto; e forse anche le nostre madri. Il popolo
è affranto dal dolore. La nostra sola preghiera è che i quattordici
anni passino presto, così che Rama torni ad Ayodhya".
All'alba, Rama si svegliò e fece le sue preghiere. Poi disse a Guha:
"Ti prego, disponi per farci attraversare il Gange". Quando la barca
fu pronta, Rama disse a Sumantra: "Penso che ci hai accompagnati
abbastanza lontano; ora devi tornare con il cocchio ad Ayodhya".
Sumantra non poté sopportare quel pensiero neanche per un momento;
e pianse amaramente: "Come posso tornare senza di te? La vita di
brahmacharya e lo studio dei Veda, la coltivazione di virtù come
la bontà e la sincerità... tutto mi sembra infruttuoso, quando penso
che devi subire quest'esilio. No, permettimi di restare con te.
Se rifiuti di farmi venire, mi darò fuoco insieme al cocchio e al
resto".
Rama però parlò dolcemente all'angosciato Sumantra: "Tu sei l'unico
vero amico della nostra famiglia. Tu sei il nostro saggio consigliere.
Perciò devi tornare ad Ayodhya e consolare il re con questo messaggio
da parte mia: 'Né io né Lakshmana siamo dispiaciuti per aver dovuto
lasciare Ayodhya e vivere nella foresta'. Ti prego di comportarti
col re in maniera tale da non causargli alcun dispiacere. Ti prego
di portare un messaggio a Bharata: 'Tratta tutte le nostre madri
con uguale amore e riverenza'. E importante che tu torni ad Ayodhya,
Sumantra. Solo quando madre Kaikeyi vedrà che sei tornato in città
senza di me sarà convinta che sono andato nella foresta. E quando
Bharata sarà incoronato, i suoi desideri saranno esauditi. Per amor
mio, Sumantra, ti prego di tornare ad Ayodhya".
A Guha, Rama disse: "Sotto il voto dell'ascetismo, non posso restare
in foreste abitate. Permettimi di partire". Ma prima di separarsi
ottenne da lui il lattice che trasuda dal banyan e con esso s'intrecciò
i capelli alla maniera degli asceti. Congedatosi da Guha, Rama chiese
a Lakshmana di salire per primo sulla barca e quindi d'aiutare Sita;
infine vi montò anche lui. D'allora in poi questo fu l'ordine nel
quale camminarono. Sita offrì una preghiera al Gange per la loro
incolumità nella foresta e per un sicuro ritorno ad Ayodhya. Giunti
sull'altra riva, nel territorio Vatsa, Rama e Lakshmana uccisero
quattro animali, che insieme ad alcune erbe costituirono il loro
pasto.
Passarono quella notte senza Sumantra: la prima notte del loro esilio
trascorsa da soli. Il pensiero di Ayodhya tornò nella mente di Rama,
che disse a Lakshmana: "Chissà cosa sta succedendo ad Ayodhya. Sicuramente
nostro padre è tormentato dal dolore. Forse Kaikeyi dorme tranquillamente.
Se Bharata è tornato in città, lei potrebbe anche togliere la vita
al re. Considerando gli eventi degli ultimi giorni, comincio a pensare
che il piacere dei sensi sia più potente della ricchezza e del Dharma.
Altrimenti, come avrebbe potuto il re bandire il figlio che non
ha dato alcun motivo di scandalo? Eppure chi ignora il Dharma e
la propria prosperità, e si dedica ai piaceri dei sensi, va presto
incontro al dolore, come ha fatto re Dasaratha. Stasera sto pensando
al fato delle nostre madri, che sono di certo le più duramente colpite
dalla svolta degli eventi, e il loro dolore è il peggiore. Nelle
sue vite passate mia madre deve aver privato altre madri dei loro
figli; per questo ora deve subire questa sofferenza. Il dolore di
Kausalya è grande e intollerabile. Sono davvero in ansia per lei.
Ti prego, torna ad Ayodhya ed abbi cura delle nostre madri; io riuscirò
sicuramente a proteggere Sita nella foresta". La risposta di Lakshmana
fu enfatica e definitiva: "Ayodhya è già stata privata della sua
luce, in quanto tu sei andato via. Ma ora è inutile preoccuparsene.
Per nessun motivo, però, io ti lascerò e tornerò ad Ayodhya". Rama
accettò questa decisione, e dal quel momento in poi furono in tre!
Dopo aver trascorso la notte su un letto di paglia preparato da
Lakshmana sotto un grande albero, Rama, Sita e Lakshmana proseguirono
e raggiunsero presto la confluenza dei fiumi Gange e Yamuna. Rama
notò del fumo in lontananza e con gioia esclamò: "Guarda, Lakshmana,
quello è un chiaro segno che il saggio Bharadvaja è nel suo eremitaggio
e custodisce il fuoco sacro".
Bharadvaja riservò loro una calda accoglienza. "Aspettavo la vostra
venuta; ho saputo degli avvenimenti ad Ayodhya. Questo è un bel
posto. Potete trascorrere qui tutto il periodo dell'esilio". Ma
Rama rispose: "Certo questo luogo è bello e sacro, però è troppo
vicino alle grandi città; e la gente di Ayodhya, del Kosala e di
altri paesi potrebbe venire spesso a vedere Sita o me. Perciò sento
che non dobbiamo fermarci qui. Vi prego di suggerirci qualche altro
posto".
Accettando questa considerazione, Bharadvaja continuò: "A una certa
distanza da qui c'è la collina sacra di Citrakuta. Chi guarda le
cime di quelle montagne gode di prosperità e non cade mai in errore.
Essa è dimora di molti saggi. Stabilitevi là". Rama fu d'accordo
con questa proposta.
Il saggio Bharadvaja, che frequentava la collina di Citrakuta, indicò
dettagliatamente a Rama la strada per arrivarci. Inoltre offrì delle
preghiere particolari per la loro incolumità e il successo della
loro missione. Rama si prostrò davanti al saggio e disse: "Seguirò
le tue indicazioni". Poi si rivolse a Lakshmana dicendo: "Di certo
in passato dobbiamo avere acquisito molti meriti per ricevere tutto
questo affetto dal saggio".
Per prima cosa si accinsero ad attraversare il fiume Yamuna; e per
questo dovettero costruirsi una zattera con le loro mani. Quando
fu pronta, aiutarono Sita a salirvi e poi vi montarono anche loro.
Arrivati in mezzo al fiume, Sita offrì delle preghiere alla dea
Yamuna perché potessero concludere senza pericoli il loro esilio
di quattordici anni e tornare salvi ad Ayodhya. Raggiunta l'altra
sponda lasciarono la zattera e trovarono il segno indicato dal saggio:
un albero di banyan. Secondo le istruzioni del saggio, Sita offri
delle preghiere anche al banyan.
Si misero in marcia: Lakshmana faceva strada, Sita lo seguiva, e
Rama seguiva Sita. Ogni volta che Sita vedeva dei bei fiori selvaggi
chiedeva a Rama cos'erano; e spesso Lakshmana raccoglieva e le donava
un mazzetto di fiori di campo. Dopo aver camminato così per un certo
tempo, scelsero un altro grande albero sotto il quale passare la
notte.
All'alba Rama si svegliò e quindi svegliò Lakshmana: "Ascolta la
dolce musica degli uccelli; la notte è passata ed è ora di muovessi".
Dopo aver fatto il bagno nel fiume Yamuna e aver pregato, essi proseguirono
verso Citrakuta.
Lungo tutto il cammino, Rama indicava a Sita le bellezze della flora
e della fauna della foresta. Quando s'avvicinarono a Citrakuta,
egli la indicò con gioia a Sita e a Lakshmana e disse che là avrebbero
trascorso il periodo del loro esilio, vivendo felicemente nella
foresta. Rama disse al fratello: "E una collina deliziosa, con una
grande varietà di alberi e piante rampicanti, e frutti e radici
in abbondanza. Essa fa vibrare il mio animo. E poi qui vivono molti
saggi e santi. Penso che dovremmo stabilirci qui".
Quindi entrarono nell'eremo del saggio Valmiki, che li accolse affettuosamente.
Su ordine di Rama, Lakshmana costruì rapidamente una capanna di
legno col tetto di paglia. Subito dopo celebrarono la cerimonia
di consacrazione del loro eremitaggio, per impedire che gli spiriti
maligni occupassero la nuova dimora e per far sì che l'abitazione
avesse un'atmosfera più sublime e spirituale. Quando infine Rama
entrò nella capanna, si sentì completamente liberato dell'infelicità
causata dagli eventi dei giorni precedenti.
Mentre Sumantra attraversava le vie della città con il cocchio vuoto,
tutti gemettero di nuovo a voce alta, realizzando che Rama era veramente
andato via. Disperando di poterlo rivedere ancora, dicevano: "Il
solo pensiero costante di Rama era: 'Che cosa vuole il popolo, che
cosa gli piace, e che cosa lo renderà felice', e ci trattava come
suoi figli".
Quando Sumantra entrò nel palazzo, le consorti del re espressero
ancora una volta il loro dolore: "Ritornando senza Rama, in che
modo Sumantra può consolare la regina Kausalya? Vedendo il fato
di Kausalya, pensiamo che sia tanto penoso rinunciare alla propria
vita quanto lo sia viverla quando si è colpiti dalle disgrazie".
Quando fu in presenza del re, Sumantra gli portò il saluto di Rama,
e il re svenne di nuovo. Quindi la regina Kausalya invitò il fedele
ministro a non avere riserve, perché Kaikeyi non era presente. Riprendendo
coscienza, il re disse a Sumantra di esporre dettagliatamente tutti
gli eventi e i messaggi di Rama.
Con la voce strozzata dal pianto, il re chiese a Sumantra: "Come
è stato possibile per Rama, Sita e Lakshmana, di discendenza reale,
abituati alla vita regale del palazzo e ad essere accuditi da servi
e ancelle adattarsi alla dura vita degli asceti? Ti prego, dimmi
come ora Rama siede, caccia, mangia e dorme".
Dopo aver narrato del viaggio verso la foresta, Sumantra riferì
i messaggi di Rama. Innanzitutto Rama desiderava che i piedi del
venerabile re fossero adorati. Secondo, Rama inviava questo messaggio
alla regina Kausalya: "Sii devota al Dharma. Mantieni il fuoco sacro.
Adora i piedi del nostro signore, il re, considerandolo come dio.
Nei rapporti con le altre mie madri non farti prendere né dall'orgoglio
né da un falso senso di dignità; e questo ancor più nel caso di
Kaikeyi, particolarmente amata dal re. Considera Bharata come re:
perché anche se giovani, i re devono essere rispettati. Questo è
il Dharma politico".
Il messaggio di Rama per Bharata riguardava soprattutto il suo atteggiamento
verso le madri: "Ti prego, considera la regina Kausalya come tua
madre: ella mi ama profondamente e soffre molto per la mia assenza".
Sumantra aggiunse: "Mentre pronunciava queste parole, gli occhi
di Rama erano inondati da lacrime di dolore".
Sumantra continuò: "Lakshmana però era adirato. Era ancora aspramente
contrario all'esilio di Rama e diceva: "Come può essere considerato
padre chi bandisce Rama? Come si può considerare re chi ha esiliato
Rama contro il volere del popolo?". Sita, invece, stava zitta e
il suo viso piangente era sempre rivolto a Rama, quando questi e
Lakshmana mi parlavano".
Sumantra continuò: "Dopo essermi congedato da Rama, tornai verso
Ayodhya; ma i miei cavalli non volevano tornare senza Rama. Perciò
passai un paio di giorni con Guha. Speravo che Rama mi mandasse
a chiamare per raggiungerlo: ma non lo fece. Col cuore oppresso
dal dolore, mi diressi verso Ayodhya. Ma Ayodhya senza Rama è un
corpo senz'anima. M'accorgevo che i fiumi, gli alberi, le foreste,
e tutti gli esseri viventi sulla terra, in cielo e nell'acqua, si
comportavano come fossero senza vita. Mentre attraversavo Ayodhya,
nessuno mi salutava o mi sorrideva. Quando vedevano il cocchio vuoto,
le persone si coprivano viso e occhi e piangevano. In questo c'era
totale unanimità: sia che essi fossero stati amichevoli, ostili
o indifferenti verso Rama, erano tutti affranti dal dolore".
Dasaratha si lamentò di nuovo: "Ahimè, ho commesso l'errore più
grande della mia vita e del mio regno. Ho agito impulsivamente per
compiacere mia moglie, mentre avrei dovuto ascoltare il consiglio
dei miei precettori e dei miei ministri. Se avessi chiesto il loro
consiglio, questa calamità si sarebbe potuta evitare. Forse questa
è la volontà degli dèi. O Rama, o Lakshmana, o Sita! Voi non sapete
che sto morendo d'intenso dolore, come un destituto e un orfano.
O Sumantra, non mi porteresti dov'è il mio amato Rama?".
Guardando Kausalya, il re descrisse vividamente l'oceano di dolore
in cui era sprofondato. E mentre lo faceva, incapace di sopportare
l'angoscia, svenne di nuovo.
Vedendo questo, Kausalya fu presa dal terrore e s'accasciò al suolo;
poi, guardando Sumantra, disse: "Ti prego, portami subito da Rama
e Lakshmana. Non posso vivere qui senza di loro neanche per un momento".
Allora il saggio Sumantra si rivolse con calma alla regina: "Vi
prego, mettete fine al vostro dolore, alla delusione e alla confusione
causata dalla vostra infelicità. Rama ha abbandonato l'angoscia
mentale, e sicuramente vivrà nella foresta senza la minima tristezza.
Anche Lakshmana, devoto com'è a Rama e al suo servizio, sta acquisendo
molto merito religioso. Il cuore di Sita è totalmente assorto in
Rama. Anzi, in compagnia di Rama, ella ha l'impressione di essere
in un bosco appena fuori Ayodhya, e non sente affatto il dolore
dell'esilio. Perciò neanche il suo corpo mostra segni di fatica
o le conseguenze del rigido clima e dei disagi della vita nella
foresta. Ella sembra proprio la stessa persona celestiale che vedevamo
qui. Oh no, non dobbiamo rattristarci per loro, e neanche tu e il
re dovete rattristarvi. Tutto ciò che sta succedendo ora sarà ricordato
dall'umanità per tutto il tempo a venire".
Affranta dal dolore, la regina Kausalya disse al marito: "Tu sei
certamente un re glorioso e giusto, pieno d'amore e generosità.
Eppure non hai pensato per un attimo a come i tuoi figli e tua nuora
Sita avrebbero potuto vivere nella foresta. Cresciuti nei palazzi,
ora devono vivere in una capanna. Abituati a cibi ricchi, ora devono
vivere col vitto degli asceti. Le loro orecchie, abituate ad ascoltare
dolce musica, ora devono udire gli ululati e i ruggiti degli animali
selvaggi della foresta. Come puoi pensare che Rama, abituato a riposare
su morbidi letti, possa dormire su giacigli di stuoie, usando il
suo braccio come cuscino? Ahimè, mi vergogno del mio cuore di granito
che non scoppia in mille pezzi al solo pensiero dell'esilio di Rama
nella foresta. Ahimè, tu sei colpevole di una grande crudeltà verso
Rama, in quanto l'hai bandito dal regno.
"Mi chiedo anche se dopo i quattordici anni d'esilio Rama ascenderà
al trono. Tutti sanno che i brahmana non mangiano le rimanenze del
cibo già dato ad altri. Le persone pie considerano le cose già usate
come indegne d'essere adoperate di nuovo in un rito sacro. Come
pensi, dunque, che Rama accetterà il trono che gli è stato usurpato,
e che un altro ha usato e poi gli ha restituito? Questo figlio della
verità tu l'hai ingiustamente bandito nella foresta; è difficile
credere che tu conosca il significato di Dharma. Ahimè, sono stata
privata di ogni sostegno. Si dice che il marito sia il primo sostegno
di una donna, il figlio il secondo, e il terzo i parenti; ma non
ce n'è un quarto. Sì, con questa azione ingiusta tu hai distrutto
il regno, il popolo e i ministri, me e mio figlio".
Udendo queste dure parole, Dasaratha perse di nuovo coscienza, pronunciando:
"Rama".
Quando riprese coscienza, sconvolto dal dolore e con le mani giunte
il re disse alla moglie: "Kausalya, abbi pietà di me, ti prego,
non dirmi queste dure parole".
Piena di rimorso, Kausalya prese le mani giunte del marito, le pose
sulla sua testa e gli disse: "Perdonami, signore. Ho sbagliato,
e la mia colpa è imperdonabile. La donna che con le sue azioni costringe
il marito ad inchinarsi a lei, non è degna di lode né in questo
mondo né nell'aldilà. Pur conoscendo il corso del Dharma, il grande
dolore mi ha temporaneamente privato della ragione, perciò ho detto
cose che non avrei dovuto dire. Il dolore distrugge il coraggio,
la saggezza appresa e ogni altra cosa; perciò non c'è nemico più
grande del dolore. Questi cinque giorni senza Rama sono stati come
cinque anni per me, e perciò l'angoscia ha raggiunto il culmine.
Com'è terribile quest'angoscia!.
Era la sesta notte dopo la partenza di Rama per la foresta. Dopo
la conversazione con Kausalya, il re dormì un pò; ma a mezzanotte
si svegliò, ricordandosi una sua cattiva azione passata. Allora
narrò questa storia a Kausalya:
"Qualunque cosa un uomo faccia, sia essa buona o cattiva, riceve
i frutti di quell'azione. Chi non si rende conto delle gravi o leggere
conseguenze delle sue azioni sin dall'inizio, è davvero immaturo
e infantile. Ciò che sto per raccontarti accadde prima che ci sposassimo,
quand'ero un giovane principe. Avevo imparato l'arte di tirare ad
un bersaglio senza vederlo, aiutandomi col suono che emana dal bersaglio
stesso.
"Ero andato a caccia nella foresta. Il sole era tramontato ed era
scesa la notte. Mi diressi verso la riva del fiume Sarayu. Quella
notte volevo catturare un grande bufalo o un elefante. Era buio;
e nel silenzio della foresta udii ciò che pensai fosse il suono
fatto da un elefante. Non potevo vedere l'elefante, ma il suono
mi era sufficiente. Mirai e tirai.
"All'alba, dalla stessa direzione dalla quale era venuto il suono,
udii una voce umana che gemeva in terribile agonia: "A chi poteva
interessare togliere la vita ad un innocente asceta? A chi ho causato
la minima offesa? Ero venuto in questo posto solitario sulla riva
del fiume, a prendere l'acqua per placare la sete dei miei genitori;
ma, ahimè, sono stato colpito e ferito a morte. L'assassino non
potrà guadagnare nulla da quest'azione malvagia; ma raccoglierà
solo cattivi frutti. Non mi preoccupo tanto della mia vita quanto
del futuro dei miei genitori ciechi, che dipendono completamente
da me e sono sempre stati accuditi da me. Di certo, quando sapranno
che sono morto vorranno morire anche loro. Solo un folle con questa
stolta azione poteva causare questo triplice omicidio.
"Udendo questo lamento, corsi sul posto. Avevo colpito un giovane
asceta. Questi stava riempiendo la sua brocca d'acqua, e io avevo
scambiato il suono fatto dall'acqua che entrava nella brocca per
quello fatto dagli elefanti. M'inginocchiai pentito ai suoi piedi.
Egli mi fissò con gli occhi resi ardenti dalle austerità e disse:
'Vai subito da mio padre e chiedi il suo perdono; altrimenti la
sua collera potrebbe distruggerti. Quel sentiero ti condurrà dove
vivono i miei genitori. Ma prima d'andare liberami dal dolore, tirando
fuori la freccia ficcata nel mio corpo e che mi causa grande dolore.
Non temere con questo di causare la morte di un brahmana, perché
io sono nato da padre vaishya e da madre sudra'. Per liberarlo dall'atroce
dolore tirai fuori la freccia, e in un attimo morì".
Re Dasaratha continuò:
"Dopo aver commesso quella terribile azione, ponderai sul modo migliore
per espiarla. Presi il sentiero indicato dal giovane morente e ben
presto raggiunsi l'eremitaggio dove viveva l'anziana coppia cieca.
Quando il padre udì i miei passi, disse: 'Amato figliolo, perché
hai impiegato tanto tempo per andare a prendere l'acqua? Tu sei
soccorso per gli impotenti e vista per i ciechi, tutte le nostre
forze vitali sono concentrate in te. Ma perché non mi parli? figlio
mio, se io o tua madre ti abbiamo offeso, non prendertela; non sei
forse un asceta?'. L'ansia, la paura e il rimorso riempivano il
mio cuore. Sforzandomi d'esprimere ciò che sentivo in quel momento,
dissi: "Sant'uomo, io non sono vostro figlio. Sono un principe chiamato
Dasaratha. Per colpa di una mia malvagia e ignorante azione, tuo
figlio è stato gravemente ferito da me. Io sono responsabile della
morte di tuo figlio. Adesso ti prego, dimmi che cosa devo fare".
"Inebetito dal dolore, il vecchio asceta rispose: "Se tu non fossi
venuto di persona a confessarmi la tua azione malvagia, la tua testa
sarebbe scoppiata in un milione di pezzi. Inoltre, come hai detto,
hai commesso il peccato nell'ignoranza, senza saperlo. Altrimenti
tutta la tua famiglia sarebbe stata distrutta. Ora, guidaci dove
il nostro amato figliolo giace esanime".
"Condussi l'anziana coppia cieca nel posto in cui giaceva il corpo
del giovane asceta. Il vecchio toccò il corpo del figlio, e nella
terribile e straziante agonia si lamentava: "Chi si occuperà di
noi come facevi tu, amato figlio?". Ed enumerò tutte le cose che
il giovane faceva per loro. Poi continuò: "Aspetta, figliolo, perché
presto anche noi ti seguiremo nel regno dei morti, e là pregheremo
il dio della morte di concederci che tu possa continuare a stare
con noi e a servirci. Possa tu fonderti nell'Essere Supremo, che
è la mèta dei santi". Quindi il vecchio celebrò i riti funebri del
figlio, il cui spirito salì in cielo. Infine il padre si rivolse
a me: "Prima che io vada, devo pronunciare questa maledizione su
di te: Poiché hai causato questo dolore nato dalla separazione da
mio figlio, anche tu morirai per il dolore causato dalla separazione
da tuo figlio". Subito dopo lui e l'anziana moglie si consegnarono
al rogo funebre, per godere in cielo della compagnia del figlio".
E Dasaratha concluse: "Ora sto subendo le conseguenze di quel peccato,
o Kausalya".
Ben presto il re perse ogni sensazione, e disse: "Il dolore causato
dalla separazione da mio figlio sta prosciugando tutte le mie forze
vitali. O Rama, sei davvero andato via? O Kausalya, o Sumitra, non
vedo più nessuno". E gemendo il re perse coscienza.
La mattina seguente, gli attendenti del re si riunirono nel palazzo
per andarlo a svegliare con la consueta musica, coi panegirici e
i versi di benedizione delle sacre Scritture. Era poco prima del
levar del sole. Udendoli gli uccelli si svegliarono, ma non il re,
e neanche le due regine Kausalya e Sumitra, che dormivano sullo
stesso letto.
Allora le altre consorti del re entrarono nella camera reale e scossero
dolcemente il letto, nel tentativo di svegliare il re e le regine;
ma anche questo non sortì lo scopo. Esaminandolo più da vicino,
esse si accorsero che il re non respirava. Prese dal terrore, cominciarono
a lamentarsi a voce alta; e udendo quei lamenti, Kausalya e Sumitra
si svegliarono. Per lo stesso fatto che le regine avevano dormito
nello stesso letto con il re, esse giunsero alla conclusione che
il re fosse morto nel sonno. Il lamento delle regine fu straziante.
Kausalya e Sumitra gridarono forte: "O Signore", e caddero a terra.
Le splendide regine avevano perso tutto il loro lustro, ora che
avevano perso il marito. In tutto il palazzo ci furono pianti e
lamenti incontrollabili.
Presa da un'angoscia e da un dolore inconsolabile e incontrollabile,
Kausalya diede sfogo a tutta la sua amarezza, rivolgendo lo sguardo
a Kaikeyi, che pure era addolorata: "Sei soddisfatta ora, Kaikeyi!
Tu sei la causa della morte del re. Ora non hai più nemici: goditi
la sovranità del regno. Come può una donna casta sopravvivere alla
morte del marito? Eppure nella tua bramosia tu hai causato la sua
morte, come pure la distruzione di tutta la nostra dinastia. Tu
hai portato dolore e tristezza a re Janaka, a Sita e a tutta la
famiglia. Affranto dal dolore per il male che è stato fatto alle
sue figlie, re Janaka sicuramente morirà. E né Sumitra né io stessa
potremo sopravvivere alla morte di nostro marito".
Quando gli ufficiali della casa reale scoprirono il decesso del
re, prepararono tutto ciò che si doveva fare. Imbalsamarono il corpo
del re in una vasca d'olio e fecero le dovute preparazioni per il
rito funebre. Ma il funerale stesso non si poteva fare senza la
presenza del figlio del re; perciò si fece ricorso all'imbalsamazione.
Guardando il corpo imbalsamato di re Dasaratha, le sue consorti
- ora vedove - si lamentavano continuamente per la crudeltà del
loro fato: sia per il dolore della morte del marito, sia per la
paura di mali peggiori che Kaikeyi poteva serbare ancora per loro.
Tutte le regine e il popolo di Ayodhya erano unanimi nella condanna
di Kaikeyi, la cui azione crudele era stata l'unica causa della
morte del re.
La mattina seguente, i ministri di stato, come pure i consiglieri
e i saggi, si riunirono sotto la presidenza del saggio Vasishtha
per decidere sull'immediato da farsi. I ministri dissero all'assemblea:
"Incapace di sopportare la separazione dai suoi figli Rama e Lakshmana,
re Dasaratha è asceso in cielo. Dei suoi figli, Rama e Lakshmana
sono nella foresta; e Bharata e Satrughna sono presso il loro zio
nel regno dei Kekaya. Bisogna nominare subito un re, poiché senza
un re il regno andrebbe in rovina. I mali dell'anarchia sono ben
noti a tutti: i cittadini non potrebbero fare tranquillamente le
loro cose sacre e mondane, e non sarebbero possibili né la giustizia
né le normali occupazioni né i giusti divertimenti. I ladri e i
furfanti prospererebbero; e prima o poi i malvagi prenderebbero
il potere e assumerebbero l'autorità di governanti. Ogni forma di
progresso sarebbe arrestata, e non s'intraprenderebbe alcuna attività
costruttiva. La legge e l'ordine finirebbero. La giustizia non potrebbe
prevalere. La moralità sarebbe ignorata. Non ci sarebbero né riti
religiosi né pubblici spettacoli. Ci sarebbe ansia e paura nel cuore
di ognuno. E invero anche gli asceti e i saggi sarebbero riluttanti
a muoversi liberamente.
"Quando regna l'anarchia, nessuno può considerare sua qualcosa;
come il pesce grande mangia quelli piccoli, così il forte ha il
sopravvento sui deboli. Quello che gli occhi sono per il corpo,
questo è il re per il paese. Incarnando in sé virtù e nobiltà, il
re è veramente il padre e la madre di un regno. O saggio Vasishtha,
ti preghiamo, decidi cosa bisogna fare adesso".
Vasishtha disse: "Bharata è già stato nominato re. Ora egli si trova
in casa di suo zio. Che dei veloci messaggeri siano inviati immediatamente
per riportarlo qui". I ministri e i consiglieri acconsentirono di
cuore con questa proposta. Vasishtha chiamò dunque alcuni messaggeri
scelti perché si recassero subito nel territorio Kekaya, per trasmettere
il seguente messaggio a Bharata: "Tanti saluti a te, o Bharata;
i saggi di Ayodhya ti chiedono di tornare subito in città, poiché
t'aspetta un compito importante". Vasishtha però li avvertì: "Non
dite a Bharata né dell'esilio di Rama né della morte del re, e neanche
della cattiva sorte subita dalla grande dinastia".
I messaggeri partirono quasi subito da Ayodhya. Attraversando il
fiume Gange ad Hastinapura, continuarono verso ovest. Passarono
i territori Kurujangala e Pancala, attraversarono il fiume Ikshumati
e oltrepassarono il monte Sudana, fino al regno Bahlika; poi attraversarono
il fiume Vipasa e altri fiumi ancora, e quindi raggiunsero la città
di Girivraja, la capitale del regno Kekaya.
Da un'altra parte, nelle ultime ore di quella stessa notte Bharata
ebbe un incubo. Di conseguenza il giorno dopo non si sentiva di
divertirsi. Vedendolo depresso, i suoi compagni si sforzarono come
meglio poterono di distrarlo, circondandolo di musiche, danze, scenette,
giochi e scherzi. Ma Bharata non prestò molta attenzione a queste
cose, assorto com'era a rimuginare sul suo sogno.
Quando i suoi amici l'interrogarono, egli raccontò loro le parti
essenziali del sogno:
"La scorsa notte ho fatto un sogno terribile. Ho visto mio padre
cadere dalla cima di una montagna in uno stagno di sterco di vacca.
L'ho visto bere olio dai suoi palmi uniti. Ho visto anche che gli
oceani si erano prosciugati; la luna era caduta sulla terra; e dappertutto
regnavano i demoni. Ho visto le zanne dell'elefante reale rotte.
Ho visto dei grandi fuochi estinti in un attimo. Delle ragazze scure
colpivano il re, che era seduto su un seggio di ferro. Il re, con
addosso dei fiori cremisi, era portato verso sud in un cocchio tirato
da asini. Un'orribile demonessa rideva del re. Questo è il sogno
che ho fatto nell'ultimo quarto della notte. Qualcuno morirà: o
il re, o io, o Rama o Lakshmana. Si dice infatti che chi sogna un
cocchio tirato da asini vedrà il fumo alzarsi da un rogo funebre.
Dopo aver fatto questo brutto sogno, mi sento in ansia. Benché non
veda cause immediate da temere, c'è molta paura nel mio cuore. Perciò
non riesco a godere di ciò che altrimenti mi avrebbe reso felice".
Più o meno in quel momento arrivarono i messaggeri da Ayodhya. Essi
cercarono rapidamente Bharata e gli comunicarono il messaggio che
era stato affidato loro. Da parte sua Bharata volle sapere dettagliatamente
del re, di Rama, Lakshmana, le sue madri, ecc. Ma i messaggeri diedero
una risposta ambigua e diplomatica alle sue domande: "Tutti coloro
sulla cui salute t'informi stanno bene. La dea della fortuna è in
tuo favore. Non ritardare la tua partenza".
Quindi Bharata chiese il permesso del nonno materno, che non solo
glielo diede, ma lo caricò di doni (in cambio dei doni preziosi
che i messaggeri da Ayodhya avevano portato per il vecchio e suo
figlio, cioè lo zio di Bharata). Tuttavia Bharata non fu reso per
nulla più felice dall'amore, l'affetto e i doni preziosi che gli
erano stati dati. Nel suo cuore c'era una paura irrazionale, causata
dal sogno della notte precedente e dalla misteriosa fretta mostrata
dai messaggeri.
Quando tutto fu pronto, Bharata entrò negli appartamenti interni
e si congedò dal nonno e dallo zio. Quindi, accompagnato da Satrughna,
il nobile Bharata salì sul cocchio che a gran galoppo si diresse
verso Ayodhya, scortato da un contingente dell'esercito Kekaya.
Da Girivraja (o Rajagriha) Bharata si diresse verso Ayodhya, attraversando
i fiumi Sudama, Hradini, Satadru e Ailadhana; attraversò il territorio
Aparaparvata e i monti Salyakarshana e Mahasaila. Poi attraversò
i fiumi Sarasvati e Gange, il territorio Viramatsya, e quindi lo
Yamuna e poi di nuovo il Gange a Pragvata. Infine la settima sera
giunse ad Ayodhya.
Entrando ad Ayodhya, Bharata fu sconvolto nel vedere il grande cambiamento.
La città era in lutto. Nulla sembrava normale: non c'era gioia né
allegria né alcun segno fausto. Ed egli chiese all'auriga: "Perché
è così? Ho sentito dire come appare una città quando muore il re,
e tali sono le scene che vedo ad Ayodhya!".
Subito si diresse nell'appartamento del padre. Ma non trovandolo
là, con la mente turbata si precipitò in quello di sua madre. Ella
l'aspettava con ansia, gli corse incontro e con grande gioia l'abbracciò
e gli diede il benvenuto. Poi gli chiese del viaggio, ed egli le
raccontò tutto nei dettagli. Gli chiese anche notizie di suo padre
e suo fratello, ed egli le rispose che stavano bene. Infine Bharata
le chiese: "Dov'è mio padre? Stava quasi sempre nel tuo appartamento,
disteso su quel divano dorato. Desidero inchinarmi a lui e toccare
i suoi piedi. Dov'è?".
Ora Kaikeyi, che era stata mentalmente squilibrata dall'avidità,
disse con calma al figlio (che non sapeva nulla) ciò che sapeva
lei, come se fosse stato qualcosa di molto bello: "Tuo padre è andato
laddove infine vanno tutti: all'altro mondo". Bharata fu come trafitto
da un fulmine e cadde a terra piangendo. Ella cercò di consolarlo
dicendo: "Alzati, tirati su, o re! Perché stai a terra in quel modo?
Le persone come te riverite dall'alta società non piangono così!".
"Sono venuto in fretta, pensando che l'invito significasse o l'incoronazione
di Rama o la celebrazione di un rito sacro. Ma ahimè! Non trovo
mio padre! Dimmi madre: quali sono state le ultime parole di mio
padre?", chiese Bharata. Kaikeyi rispose: "Egli ha lasciato il corpo
sospirando forte i nomi di Rama, Lakshmana e Sita, e ha detto: "Solo
coloro che potranno vederli al loro ritorno dalla foresta saranno
beati'". Ancora più scosso, Bharata chiese: "Dov'è Rama?". E Kaikeyi
rispose: "Rama, con Sita e Lakshmana, è andato nella foresta". Profondamente
agitato, Bharata chiese ancora: "Per quale crimine Rama è stato
esiliato?". In risposta a questa domanda vitale Kaikeyi narrò l'intera
storia, e concluse: "Figlio mio, tu conosci il Dharma, ora devi
prendere le redini del regno nelle tue mani. E stato per amor tuo
che ho fatto tutto questo. Non essere triste, non preoccuparti,
questo regno ora dipende da te. Esegui senza indugio il rito funebre
di tuo padre e sali al trono".
La terribile rivelazione della verità da parte di Kaikeyi provocò
in Bharata un attacco incontrollabile di collera, nata da un'angoscia
inesprimibile. Egli disse: "Che cosa ho a che fare io con il regno,
addolorato come sono, privato di mio padre e di mio fratello, che
per me è come un padre? Tu mi hai dato un dolore dopo l'altro, causando
la morte di mio padre e facendo esiliare mio fratello nella foresta.
Tu hai sterminato la nostra dinastia; e dici che hai fatto tutto
questo per amor mio.
"Certamente, accecata dalla brama di potere non ti sei accorta di
quanto amore e riverenza nutro per Rama. Come posso prendere le
redini di un governo che lui e solo lui può tenere? Ricordati, anche
se per mezzo di qualche potere psichico o intellettuale acquisissi
l'abilità di governare il paese, non salirei mai al trono; perché
non esaudirò mai il tuo malvagio desiderio. Nella nostra dinastia
è sempre stato il primogenito a salire al trono. Ora tu hai distrutto
questa nobile tradizione; ma io non permetterò che ciò accada. Andrò
nella foresta, e convincerò Rama a tornare ad Ayodhya, e poi o vivrò
nella foresta al suo posto o verrò qui a servirlo.
"Per questo peccato imperdonabile, tu meriti l'inferno. D'ora in
poi non hai più il diritto di parlarmi; tu che sembreresti mia madre,
sei in realtà mia nemica. La tua condotta è riprovevole; sei piena
d'ambizione politica e hai assassinato tuo marito. Tu non sei degna
di considerarti figlia del nobile re Ashvapati, mio nonno. Ti sei
guadagnata una cattiva reputazione per sempre. Quali terribili sofferenze
hai causato a madre Kausalya! Non sai che un figlio nasce da ogni
parte di sé e dal proprio cuore, ed è perciò l'essere più amato
della madre? Eppure, crudeltà incarnata come sei, hai privato madre
Kausalya di suo figlio.
"Ho udito questa leggenda: Una volta Indra vide la vacca divina
Surabhi che piangeva. Interrogata dal dio, Surabhi indicò due vitelli
che si erano accasciati esausti per la fatica, e disse: "Indra,
soffro nel vedere i miei due figli che giacciono esausti, perché
un agricoltore insensato e malvagio che li aveva aggiogati al suo
aratro li ha trattati con crudeltà e spietata avidità. Vedendo i
miei figli così maltrattati, esausti e sofferenti, sono molto addolorata:
non c'è nessuno tanto caro quanto un figlio".
"Quale dolore incommensurabile hai causato nel cuore di madre Kausalya!
Non posso sopportare neanche il pensiero del grande peccato che
hai commesso. Puoi gettarti nel fuoco o andare nella foresta o impiccarti:
puoi fare quello che ti pare. Io ho deciso d'andare nella foresta
e riportare Rama ad Ayodhya". Terribilmente scosso dal dolore, Bharata
cadde privo di sensi.
Nel frattempo i ministri s'erano raccolti intorno a Bharata, che
dopo aver ripreso i sensi disse: "Non ho mai desiderato il trono;
né ho consigliato mia madre al riguardo".
Udendo la voce di Bharata, Kausalya andò ad incontrarlo; mentre,
nello stesso tempo, anche Bharata la cercava. Vedendo che era svenuta
per il dolore, Bharata e Satrughna le massaggiarono i piedi. Quando
riprese coscienza, ella disse: "Il regno è tuo, Bharata, vinto per
te da tua madre. Per me c'è solo un grande dolore. Sarebbe meglio
che andassi nella foresta, dov'è Rama". Con le mani giunte, Bharata
le rispose umilmente, con il viso grondante di lacrime: "Madre,
non conosci me e il mio amore per Rama? Allora perché dici queste
dure parole? No, l'esilio di Rama non è cosa mia; davvero, non lo
sapevo neanche! Lo giuro: se sono responsabile di questo delitto,
possa io subire le conseguenze di tutti i peccati menzionati nelle
Scritture.
"Possa il responsabile dell'esilio di Rama attirare a sé i peccati
di maltrattare una vacca, di un padrone che deruba il servo, di
tradimento, di tirannia, di crimini di guerra, di mostrare disprezzo
agli anziani, d'ingannare un amico, di ricattarlo, di mangiare del
cibo senza condividerlo con la famiglia e i servi, di dormire all'alba
e al tramonto, d'incendio doloso, di adulterio, di trascurare il
servizio dei genitori, d'inquinare le acque, d'avvelenare qualcuno,
e di mostrare parzialità testimoniando in una disputa. Che egli
diventi indolente, inattivo, ingrato, respinto e odiato da tutti.
Che diventi la dimora di tutti i vizi condannati nelle nostre Scritture:
che ogni sorta di disgrazia e sfortuna s'abbatta su di lui".
Kausalya fu profondamente commossa dalle parole di Bharata, e con
affetto gli disse: "Basta così, figliolo: tu aggiungi la tua angoscia
a chi è già angosciata dalla perdita del figlio. Per fortuna il
tuo cuore non ha deviato dal sentiero del Dharma; figlio mio, tu
sei devoto alla verità e ascenderai ai reami divini". E così dicendo
Kausalya prese in grembo Bharata e lo consolò.
La mattina seguente, il saggio Vasishtha disse: "Basta con il dolore,
Bharata: che si proceda con il rito funebre". Il corpo del re fu
tirato fuori dalla vasca con l'olio. E vicino al cadavere Bharata
si lamentò ed espresse ancora una volta il suo dolore. Vasishtha
gli disse: "Il funerale del re dev'essere fatto con mente serena,
senza alcuna agitazione". Allora i sacerdoti portarono il fuoco
sacro che lo stesso re aveva diligentemente mantenuto a casa sua
e con il quale sarebbe stata accesa la propria pira funeraria. Quando
il rogo fu acceso, ci furono grida strazianti da parte delle donne
del palazzo.
L'undicesimo giorno Bharata fece il necessario rito di purificazione;
e il dodicesimo compì la cerimonia specifica per la pace dell'anima
dipartita, durante la quale distribuì abbondanti doni ai brahmana
e ai poveri. La mattina del tredicesimo giorno, Bharata pianse ancora
una volta il re, quando andò a raccogliere le ceneri nel luogo della
cremazione. Piangendo incontrollabilmente, Bharata cadde privo di
sensi.
Anche Satrughna svenne; e quando riprese coscienza si lamentò a
voce alta: "L'oceano di dolore generato dalla malvagia Manthara
- che ha preso la forma dei due doni concessi da mio padre - infestato
dai coccodrilli dell'avidità di Kaikeyi, ci ha inghiottiti. Il nostro
caro padre ci accudiva con tanto amore e affetto, e soddisfaceva
tutti i nostri bisogni. Ora chi si prenderà cura di noi?". Udendo
i due fratelli che si lamentavano, tutta la gente del palazzo espresse
il proprio dolore.
Vedendo ciò, il saggio Vasishtha disse a Bharata: "Questo è il tredicesimo
giorno; le cerimonie connesse al funerale devono essere fatte oggi.
Queste tre coppie di opposti: nascita e morte, gioia e dolore, guadagno
e perdita, sono inevitabili nella vita di tutti gli esseri; perciò
non dovete comportarvi così". Udendo l'ammonimento del saggio, i
due principi si alzarono e continuarono i riti del tredicesimo giorno
di lutto.
Più tardi Satrughna disse a Bharata: "Rama è veramente il rifugio
di tutti gli esseri che soffrono, ma quel Rama dotato di tutte le
nobili qualità è stato esiliato nella foresta da una donna! Ciò
che è ancora più strano è che il potente Lakshmana abbia tollerato
tutto l'accaduto senza impedire a nostro padre di commettere questa
terribile ingiustizia".
Mentre Satrughna diceva queste parole, entrò la gobba Manthara.
"Questa peccatrice è responsabile di tutta la tragedia", disse Bharata.
E consegnandola a Satrughna continuò: "Dalle la punizione che merita".
Quando Satrughna afferrò Manthara, tutte le sue amiche fuggirono
e andarono a chiedere aiuto nell'appartamento di Kausalya! Incapace
d'affrontare l'ira e il rimprovero di Satrughna, Kaikeyi chiese
aiuto a suo figlio!
Allora Bharata disse a Satrughna: "Non uccidiamo queste donne, fratello.
Io stesso avrei ucciso questa malvagia Kaikeyi, ma non l'ho fatto
per paura d'offendere il giusto e nobile Rama, che potrebbe non
approvare quest'azione. Anche se uccidessimo questa gobba, egli
sarebbe dispiaciuto con noi. Perciò lasciala andare"
Libera dalla presa di Satrughna, Manthara si dileguò in compagnia
di Kaikeyi, che cercava di consolarla.
Il quattordicesimo giorno dopo la morte di re Dasaratha i consiglieri
personali del re si riunirono e dissero a Bharata: "Dasaratha è
morto, dopo aver mandato Rama e Lakshmana nella foresta. Ti preghiamo,
sii nostro re. Non c'è alcun male in questo, poiché sei stato nominato
al trono. Il nostro regno è senza un sovrano, e ciò non è desiderabile".
Le cose necessarie per l'incoronazione erano già state preparate;
e Bharata vide le persone che avevano portato tutto il necessario.
Con il capo chino e le mani giunte, egli fece un giro intorno a
quegli articoli in segno di venerazione, e poi parlò ai consiglieri:
"Voi che siete uomini di cultura e di saggezza non dovreste darmi
tale suggerimento. Di certo Rama, che è il nostro fratello maggiore,
sarà il re. Io andrò al suo posto nella foresta e vi dimorerò per
quattordici anni. Vi prego di preparare un contingente del nostro
esercito con tutto il necessario. Andrò nella foresta, cercherò
Rama ovunque sia, e là stesso celebrerò la cerimonia d'insediamento
e lo farò tornare ad Ayodhya. In nessun caso permetterò che si realizzi
il desiderio malvagio di colei che si ritiene mia madre. Io vivrò
nella foresta, e Rama sarà re. Perciò mandate i nostri architetti,
ingegneri e operai ad aprire una strada adeguata che permetta a
tutti noi di andare nella foresta".
I consiglieri e tutti gli altri che udirono questa lodevole decisione
di Bharata l'approvarono di cuore e lo benedirono. Questo, a sua
volta, fece piacere a Bharata. Architetti, ingegneri, artigiani,
operai, e altri, furono inviati immediatamente a preparare la strada
affinché l'esercito e tutti gli altri che godevano di prerogative
regie potessero andare nella foresta.
Il gruppo era composto di geologi, genieri, macchinisti, architetti,
ingegneri meccanici, ingegneri civili, falegnami, rabdomanti, costruttori
di ponti e gallerie, oltre a cuochi, ciabattini e domestici. Tutti
questi, insieme al contingente delle forze armate, apparivano come
un oceano d'umanità in movimento. Con la rapidità del fulmine, essi
costruirono strade, livellarono dossi, riempirono fossati e burroni,
piantarono alberi dov'era necessario e li tagliarono quando ostruivano
il passaggio, scavarono pozzi e costruirono dighe, creando così
anche dei laghi. In pochissimo tempo essi costruirono un'ottima
superstrada. Man mano che avanzavano piantavano le loro tende, che
erano numerose quanto le stelle del firmamento. Questi accampamenti
avevano i loro templi per le preghiere e le celebrazioni dei riti
sacri anche durante la marcia.
Costruita da esperti, la superstrada appariva molto bella e fu presto
pronta per l'uso.
La mattina seguente, gli ufficiali di corte che non erano al corrente
della decisione di Bharata si stavano preparando per le cerimonie
relative alla sua incoronazione. I musicisti e i panegiristi di
corte s'avvicinarono al palazzo di Bharata e cominciarono a cantare
le sue lodi e la gloria della sua dinastia. Essi fecero il loro
dovere mattutino; e come l'avevano fatto prima per re Dasaratha,
ora lo facevano per Bharata.
Svegliato dal loro frastuono, Bharata si sentì doppiamente triste.
Ordinò loro di fermarsi, e rivolto a Satrughna espresse così la
sua tristezza: "Ahimè, che terribile errore ha commesso mia madre!
Dasaratha è andato all'altro mondo; e Rama, che è il Dharma incarnato,
è andato nella foresta. Mi sento affogare in un oceano di dolore.
E anche lo stato è senza un sovrano".
Il potente saggio Vasishtha s'era seduto sul suo seggio dorato nella
corte reale, circondato dai suoi degni discepoli. E ordinò ai messaggeri
di corte: "Vi prego, sollecitate i capi della nostra comunità, e
anche Bharata e Satrughna, insieme ai loro amici, a venire presto
a corte. Ci sono cose urgenti". I santi brahmana, i sacerdoti, i
comandanti dell'esercito, i consiglieri ed altri ancora arrivarono
prontamente. Quando entrò Bharata lo applaudirono, com'erano soliti
fare con Dasaratha.
Il saggio Vasishtha si fece portavoce dei sentimenti dell'assemblea
e così si rivolse a Bharata: "Figliolo, re Dasaratha ha lasciato
a te questo regno, insieme a tutti i suoi tesori e ai suoi sudditi
leali. Rama, che aveva ricevuto dal re l'ordine di andare nella
foresta, ha ubbidito prontamente al comando di suo padre. Allo stesso
modo, è giusto che tu ascenda al trono. Sali al trono che ti è stato
donato sia da tuo padre che da tuo fratello, e incoronati re".
Queste parole furono molto penose per Bharata, che con la voce tremante,
che esprimeva profondo dolore, disse: "Come può un figlio di re
Dasaratha usurpare il trono che appartiene giustamente a un altro?
Rama è il primogenito ed è in ogni cosa superiore a me. Usurpando
il trono guadagnerò solo infamia e castigo eterno per me stesso
e disgrazia per la dinastia. Questa malvagità è stata commessa da
mia madre, ma a me non piace. Stando qui io saluto Rama. Io seguirò
lui e solo lui, perché solo lui è degno d'essere re. Reverendi saggi,
ho già dato ordini perché un contingente dell'esercito e tutti i
nostri capi vengano con me nella foresta dove si trova Rama. Convincerò
o forzerò Rama a ritornare. Se, però, egli rifiutasse, io resterò
con lui nella foresta come Lakshmana. Una magnifica strada è già
in preparazione per il gioioso ritorno di Rama ad Ayodhya".
Ben presto un maestoso fiume d'umanità devota cominciò a fluire
da Ayodhya verso la foresta. I capi della comunità, i membri della
corte reale, i consiglieri personali, i rappresentanti di ogni tipo
di artigiani, i membri delle varie corporazioni - falegnami, muratori,
calzolai, ingegneri, architetti, artisti, vasai, tessitori, orefici
e gioiellieri, medici, sarti e lavandai, musicisti e ballerini -
facevano parte di quest'imponente spedizione, condotta da novemila
elefanti riccamente bardati, sessantamila carri e uomini muniti
di varie armi e una cavalleria forte di centomila unità.
Tutti si chiedevano: "Quando vedremo Rama, colui che scaccia il
dolore del mondo intero, che ha il colore delle nuvole cariche di
pioggia, che ha braccia possenti, che è fermamente stabilito nella
divinità, ed è saldo nelle sue risoluzioni? Nel momento in cui lo
vedremo le nostre angosce svaniranno, come svaniscono le tenebre
del mondo quando sorge il sole". Dei brahmana d'eccelsa sapienza,
splendenti del lustro della meditazione profonda e delle realizzazioni
spirituali, seguivano Bharata nei loro carri trainati da buoi.
Presto raggiunsero la riva del sacro Gange. Bharata ordinò di piantare
le tende e d'accamparsi sulla riva per la notte. Quel mare di persone
attirò l'attenzione di Guha. Mentre rifletteva per capire chi fossero,
egli vide Bharata che in piedi in mezzo alle acque del Gange offriva
libagioni per la pace del defunto re. Guha si chiese per quale motivo
Bharata stava conducendo un esercito così potente nella foresta:
"Forse Bharata vuole uccidere Rama, ed assicurarsi l'occupazione
continua del trono? Rama è il mio Signore e anche mio amico". Infine
disse ai suoi compagni: "Dobbiamo fare diligentemente ciò che è
nell'interesse di Rama. Se Bharata sta andando nella foresta per
fare del male a Rama, non gli lasceremo attraversare il Gange; se
invece Bharata è disposto favorevolmente verso Rama, allora saremo
felici d'aiutarlo ad attraversare il fiume".
Prendendo del miele e dei frutti selvatici, Guha s'avviò verso la
tenda di Bharata. Vedendolo arrivare, Sumantra - che già conosceva
Guha - lo annunciò subito a Bharata: "Guha è davvero un tuo caro
amico e fratello, perché tale è considerato da Rama. E bene che
tu lo riceva e sia amichevole con lui; perché sicuramente egli sa
dov'è Rama". Con grande gioia, Bharata fece subito entrare Guha
nella sua tenda. Con naturale e spontanea umiltà Guha offrì i frutti
e il miele a Bharata, e disse cordialmente: "Benché indipendente,
noi consideriamo il nostro principato come un sobborgo di Ayodhya.
Che tu sia benvenuto, Bharata. Noi ti auguriamo un soggiorno piacevole
in questa regione".
Il nobile Bharata accettò l'ospitalità di Guha con sincera gratitudine.
Quindi gli chiese: "Ti prego, dimmi quale sentiero il mio amato
fratello ha seguito per raggiungere l'eremo di Bharadvaja?". Guha
rispose subito: "Stai certo, Bharata, che i miei uomini ti guideranno
attraverso la foresta. Ma prima vorrei porti una domanda; e vorrei
una risposta sincera. Stai forse cercando Rama con cattive intenzioni?
L'esercito che ti circonda fa sorgere questo dubbio nella mia mente".
Bharata si sentì scosso da questa domanda e rispose gentilmente:
"Fratello, ti prego, sii clemente con me e metti da parte quel pensiero.
Rama è il mio stimatissimo fratello maggiore che io considero come
un padre. Ti dico la verità: sto andando da Rama per implorarlo
di tornare ad Ayodhya".
Guha fu molto colpito da questa rivelazione, e con gioia e amore
disse a Bharata: "Beato davvero sei tu, o Bharata: io non vedo alcuno
uguale a te sulla terra, poiché tu desideri rinunciare al regno
che ti si è presentato senza cercarlo. La tua gloria sarà cantata
eternamente in tutti i mondi, in quanto desideri far tornare Rama
e quindi rovesciare la sua cattiva sorte".
Mentre parlavano, il sole calò dietro l'orizzonte d'occidente e
le tenebre avvilupparono la terra. Ma col cuore incendiato dal dolore,
Bharata non riusciva a dormire. Oppresso dal fardello del suo dolore,
si girava e si rigirava, senza trovare pace. Vedendo questo, però,
Guha si convinse pienamente delle nobili intenzioni di Bharata.
Per alleviare in qualche modo la sua angoscia, Guha gli narrò gli
eventi della notte in cui aveva dormito sullo stesso terreno insieme
a Rama, Lakshmana e Sita, e disse: "Cercai di persuadere Lakshmana
a dormire, assicurandolo che conoscevo molto bene la foresta e che
li avrei protetti da qualsiasi pericolo. Ma egli non volle. 'Come
possiamo dormire, Guha - mi disse il nobile Lakshmana - quando vediamo
questa coppia reale, Rama e Sita, che dorme sulla nuda terra con
dell'erba come giaciglio?'. Poi egli cominciò a rimuginare sul fato
di Ayodhya e della famiglia reale, e mi disse: 'Incapace di sopportare
la separazione da Rama, sicuramente il re morirà. Io credo che né
madre Kausalya né mia madre sopravviveranno a questa notte: anche
se mia madre vivesse in attesa di Satrughna, madre Kausalya morirà.
Dopo aver completato i quattordici anni d'esilio, Rama ed io torneremo
ad Ayodhya insieme a Sita'. E così passammo la notte parlando del
glorioso Rama. Il giorno dopo i due eroi partirono con Sita, con
il portamento d'elefanti reali, con i capelli intrecciati sulla
testa, vestiti di cortecce d'alberi e pelli d'animali, e con le
armi in spalla".
La vivida descrizione della maniera in cui Rama, Lakshmana e Sita
erano partiti per la foresta, portò Bharata a contemplare i piedi
di Rama. Con calma si concentrò per un pò, ed essi divennero vivi
nella sua coscienza. Visualizzò la famiglia reale nel ruvido abbigliamento
ascetico, e subito svenne! Allora Satrughna gemette a voce alta;
e udendolo, le regine si precipitarono nella tenda di Bharata. Madre
Kausalya lo sollevò amorevolmente, con molta tenerezza. Al suo dolce
tocco, egli riprese i sensi. E Kausalya gli chiese: "Stai bene figliolo?
Da te ora dipende la vita di tutti noi e dei cittadini di Ayodhya".
Dopo aver rassicurato Kausalya, Bharata chiese a Guha: "Mostrami
dove mio fratello ha dormito con Sita. Su che cosa s'è adagiato,
e cosa ha mangiato la notte che ha trascorso qui?". Guha rispose:
"Posi davanti al nobile Rama frutti e diversi altri piatti deliziosi,
che egli gentilmente rifiutò dicendo: 'Amico, noi non accettiamo
doni; sappiamo solo come donare'. Lui e Lakshmana presero solo dell'acqua
del sacro Gange. Poi Lakshmana preparò un giaciglio d'erba, sotto
quell'albero d'ingudi, e là dormirono Rama e Sita, senza mostrare
il benché minimo disagio".
In un'estasi mista a intenso dolore, Bharata disse: "Qui, sotto
quest'albero d'ingudi, il nobile Rama ha trascorso la notte con
la principessa Sita. Questi sono i fili d'erba benedetta che hanno
toccato il corpo di Rama. Abituati a dormire su morbidi letti, a
camminare su pavimenti lastricati d'oro e pietre preziose, come
hanno potuto il nobile principe e la sua principessa dormire sull'erba?
Lui che era abituato ad essere svegliato da bardi e musicisti -
come ha potuto passare la notte in questa densa foresta, ascoltando
gli ululati e i ruggiti degli animali selvatici? E incredibile,
non mi sembra vero; tutto mi fa pensare che è solo un sogno. Di
certo anche gli dèi sono soggetti alla sorte avversa che ha fatto
dormire Rama, figlio di re Dasaratha, sulla nuda terra, e ha permesso
che Sita - figlia di re Janaka e nuora di re Dasaratha - dormisse
sulla nuda terra! Qui ha dormito chiaramente la beata Sita; alcuni
fili d'oro del suo vestito sono rimasti imbrigliati nell'erba. Ah,
la moglie devota ha trovato molto confortevole questo giaciglio
d'erba condiviso col marito. Beato Lakshmana, che è andato con Rama
per servirlo. Ayodhya è desolata ora che il re e Rama l'hanno lasciata.
Adesso neppure i nemici desiderano invaderla, nonostante sia stata
lasciata indifesa! D'ora innanzi anch'io porterò i capelli intrecciati
sulla testa e mi vestirò di cortecce d'alberi. Rama tornerà ad Ayodhya
e io prenderò il suo posto nella foresta. E se egli non tornasse,
anch'io rimarrò con lui come asceta e come suo servo".
Bharata, Satrughna, le regine, i sacerdoti e tutto il seguito passarono
la notte nello stesso luogo dove Rama, Lakshmana e Sita avevano
trascorso la notte prima di partire per Citrakuta. La mattina dopo
molto presto Bharata vide Satrughna ancora a letto e gli disse:
"Svegliati! E già ora d'attraversare il Gange. Vai subito a chiamare
Guha, perché ci faccia attraversare il fiume". Satrughna rispose:
"Non dormivo, fratello, anch'io contemplavo il glorioso Rama". In
quel momento arrivò Guha, che s'informò se i principi avevano trascorso
una nottata riposante. Dopo aver dato la risposta appropriata, Bharata
concluse: "Amico, siamo impazienti d'attraversare il Gange al più
presto".
In pochi minuti Guha raccolse una flottiglia di parecchie centinaia
di barche grandi e piccole, per fare attraversare il sacro Gange
a tutto il seguito reale. Lui stesso condusse un magnifico battello
coperto di tappeti per i principi e le regine. Tutti entrarono nelle
barche, che ora cominciarono ad attraversare il fiume. Gli elefanti
passarono a nuoto con i loro guidatori. Molti furono i cittadini
zelanti che attraversarono il fiume a nuoto, alcuni usando giare
vuote che li aiutavano a tenersi a galla e altri dipendendo solo
dalla forza delle proprie braccia. Raggiunta l'altra riva del Gange,
la comitiva arrivò presto nella foresta vicino Prayaga (Allahabad).
Bharata lasciò il seguito accampato nella foresta e continuò fino
all'eremitaggio di Bharadvaja, accompagnato soltanto dai saggi e
dai sacerdoti. Bharadvaja li accolse come si conviene. Vasishtha
e Bharadvaja si salutarono con grande riverenza, informandosi reciprocamente
del loro benessere.
Bharadvaja conosceva intuitivamente l'identità di Bharata, e l'apostrofò:
"Tu dovresti essere ad Ayodhya, a governare; cosa fai qui? A causa
di un complotto macchinato da una donna, il nobile Rama è andato
nella foresta con suo fratello e sua moglie. Spero che tu non voglia
perseguitarlo per fargli del male". Bharata fu molto scosso dalle
parole del saggio. E in tono supplichevole e con la voce strozzata
dal pianto rispose: "Signore, che un tale pensiero non trovi posto
nella tua mente santa. Tutto quello che è successo ad Ayodhya durante
la mia assenza è totalmente contrario ai desideri del mio cuore.
Invero sto andando ad incontrare Rama per supplicarlo di tornare
ad Avodhya. Sono venuto qui per sapere dove si trova il nobile principe".
Estremamente compiaciuto, Bharadvaja rassicurò Bharata: "Conoscevo
bene le tue intenzioni, ma ho espresso il dubbio per rafforzare
la tua determinazione e manifestare la tua gloria. So anche dov'è
Rama: sulla collina di Citrakuta. Ma stanotte passala qui e parti
domattina".
Bharata fu d'accordo con il saggio Bharadvaja, ma all'offerta dell'ospitalità
dell'eremitaggio il principe rispose cortesemente: "La gioia con
cui ci avete ricevuto è di per sé un'ospitalità più che sufficiente".
Realizzando pienamente la riluttanza del principe ad approfittare
dell'ospitalità dell'eremita, il saggio rise di cuore e disse: "Sei
davvero nobile, Bharata, poiché non desideri approfittare indebitamente
della nostra ospitalità. Ma mi farebbe davvero molto piacere ospitare
e servire te e anche il tuo seguito. Perché hai lasciato l'esercito
e tutti i cittadini così lontano nella foresta?".
Bharata rispose di nuovo umilmente: "O santo, li ho lasciati indietro
e sono venuto da solo di proposito! I re e i principi devono sempre
cercare di non invadere gli eremi degli asceti. C'è un grande esercito
e un numero ancora più grande di cittadini di tutti gli strati sociali
che m'accompagnano in questo pellegrinaggio. Non volevo che s'avvicinassero
a questo pacifico eremitaggio, inquinandone le acque e la terra,
e danneggiando gli alberi e le capanne".
Felice della premura di Bharata, il saggio chiese comunque al principe
di fare entrare l'esercito e tutto il seguito nel terreno dell'eremo
per godere della sua ospitalità. Mentre Bharata dava gli ordini
necessari, il saggio si ritirò nella sua capanna e dopo i dovuti
riti preliminari entrò in profonda meditazione e comunione con gli
dèi (le forze) che controllano tutti i fenomeni naturali.
In quello stato di santa comunione (samyama), il saggio pregò: "Possa
Visvakarma (il Signore di ogni azione) concedermi d'intrattenere
i miei ospiti oggi. Possano Indra e le tre divinità guardiane della
terra manifestarsi qui e permettermi di servire adeguatamente gli
ospiti. Possano tutti i fiumi che scorrono sulla terra e nelle regioni
celesti essere presenti qui nelle loro forme sottili. Possano ruscelli
d'acqua pura e di bevande alcooliche e non alcooliche scorrere in
questo eremitaggio per il piacere dei miei ospiti. Possano i musicisti
e le ninfe celesti manifestarsi in questo eremitaggio per servire
e intrattenere i miei ospiti reali. Desidero anche che appaiano
'alberi' carichi di abiti, gioielli e frutti deliziosi. Possano
apparire subito in questo eremitaggio ghirlande profumate, e bibite,
carni e vivande prelibate".
Il saggio, che si trovava in un profondo stato supercosciente di
samadhi, pronunciò gli inni idonei ad invocare la presenza delle
divinità desiderate. Mentre pregava mentalmente, con le mani giunte,
tutte le divinità si manifestarono là ad una ad una. In quell'istante
spirò sul luogo una dolce e fresca brezza che liberò tutti da ogni
fatica.
Gli esseri celesti si manifestarono presto. Ci furono musiche e
danze dappertutto. Bharata e il suo seguito guardavano tutto con
occhi stupefatti. Mentre guardavano, proprio dinanzi a loro chilometri
e chilometri di terreno divennero istantaneamente pianeggianti e
si coprirono d'un soffice prato. Dappertutto apparvero alberi da
frutta. Bellissime dimore si materializzarono ovunque, comprese
le stalle per gli animali della comitiva reale. Nel mezzo si materializzò
un palazzo reale ornato di ghirlande, drappi e bandiere a tutti
gli ingressi. Bharata entrò nel palazzo. E visualizzando Rama seduto
sul trono, vi girò intorno umilmente e s'inchinò a Rama che vi era
assiso; quindi sedette sul seggio del primo ministro.
Dopo un pò apparvero ruscelli di latte e altre bevande. In quella
città istantanea si materializzarono centinaia di uomini e donne
celesti; e musicisti divini che cominciarono a cantare davanti a
Bharata, mentre altri lo intrattenevano con le loro danze. Di fatto,
mentre tutta quell'umanità guardava, gli alberi dell'eremitaggio
si trasformarono in musicisti, tamburini e ballerini. Altri alberi
ancora divennero subito servi reali, uomini e donne. Questi servi
dissero ai membri delle forze armate: "Quelli di voi che sono abituati
alle bevande alcoliche, si servano pure; quelli che hanno fame,
prendano pure latte e vivande; e quelli che lo desiderano, mangino
le carni e gli altri cibi prelibati. Mangiate e bevete a volontà
secondo il vostro desiderio". Le donne materializzate all'istante
aiutarono i soldati a lavarsi e a vestirsi. E li aiutarono anche
a lavare e a nutrire gli animali. Disorientati da tutto ciò, gli
animali non riconoscevano più i padroni e viceversa!
Abbagliati da quanto avevano visto quella sera, i soldati dicevano:
"Non vogliamo andare nella foresta Dandaka, né vogliamo tornare
ad Ayodhya! Possano Rama e Bharata essere benedetti e felici!".
Contenti d'aver visto i poteri del saggio Bharadvaja, dicevano tra
loro: "Questo è proprio il paradiso". Tutti presero nuovi e costosi
indumenti dagli alberi. Davanti a loro c'erano vassoi d'oro e d'argento
pieni di dolci prelibati e di ogni tipo di vivande. C'erano pozzi
pieni di vino e bevande. E per ognuno c'era un gran numero di piatti
d'oro da cui mangiare. Era stato fornito ogni articolo di lusso,
fino a migliaia di stuzzicadenti, specchi, pettini e spazzole per
i capelli, scarpe e sandali di legno, sedie e letti.
Così trascorse la notte. La mattina presto gli dèi e gli esseri
celesti si congedarono dal saggio Bharadvaja, e l'eremitaggio riprese
l'aspetto consueto. Gli uomini di Bharata rimasero stupefatti dalla
meravigliosa dimostrazione dei poteri divini del saggio.
Con grande umiltà mista a gioia e gratitudine, Bharata andò da Bharadvaja;
e il saggio gli chiese: "Avete trascorso una notte riposante, tu,
il tuo esercito e tutto il seguito; vi è stato dato tutto il necessario?".
Bharata rispose umilmente: "Sì, signore. Ora sono ansioso di raggiungere
mio fratello. Vi prego di benedirmi e d'indicarmi la sua dimora".
Il saggio gli diede istruzioni complete e dettagliate.
Manifestando la sua gratitudine, Bharata s'inchinò di nuovo davanti
al saggio. Anche le nobili regine s'inchinarono a lui, mentre Bharata
gliele presentava: "Questa, signore, è Kausalya, la regina più anziana,
la madre di Rama, il più eccelso tra gli uomini. Questa è Sumitra,
la seconda regina, madre di Lakshmana e Satrughna. Questa terza
è la malvagia e crudele regina Kaikeyi, mia madre, che ha dato a
tutti noi quest'immensa infelicità; è a causa del suo terribile
complotto che il re è morto e Rama è andato nella foresta".
Ma il saggio Bharadvaja, che era dotato d'onniscienza, lo interruppe
prontamente e disse: "Non accusare Kaikeyi, Bharata: perché l'esilio
di Rama sarà certamente fonte d'immensa felicità per tutti. È per
il bene degli dèi, dei demoni e dei saggi che Rama è andato nella
foresta".
Bharata s'inchinò nuovamente davanti al saggio, e subito dopo partì
con tutto il seguito verso la collina Citrakuta. Dopo che avevano
viaggiato per un certo tempo, Bharata disse al saggio Vasishtha:
"O santo, penso che ormai siamo molto vicini al luogo che ci ha
indicato il saggio Bharadvaja. Ecco la collina Citrakuta, ed ecco
anche il fiume Mandakini. E là c'è la foresta dove sicuramente vive
Rama".
Dal promontorio sul quale si trovava, Bharata indicò a Satrughna:
"Guarda quest'esercito e quest'enorme carovana che s'avvicinano
alla foresta. Guarda la polvere che sollevano e che vela temporaneamente
il cielo. La foresta che era disabitata e quindi silenziosa, ora
risuona del fragore prodotto da queste persone e da questi animali:
a me sembra come la stessa Ayodhya".
Bharata ordinò all'esercito di fermarsi e mandò alcuni soldati in
esplorazione, per cercare di rintracciare dove si trovava la capanna
di Rama. Essi videro del fumo che s'alzava in lontananza e, tornati
da Bharata, dissero: "Guardate quel fumo che si solleva laggiù:
in questa foresta disabitata, è certamente un segno d'abitazione.
Di certo ci vive Rama o qualche altro asceta".
D'accordo con loro, Bharata ordinò all'esercito d'accamparsi là
e decise di procedere facendosi accompagnare solo da Sumantra e
da Dhrti.
Rama, Lakshmana e Sita si erano stabiliti nell'eremitaggio sulla
collina Citrakuta, ed avevano cominciato ad amare la semplice e
austera vita della foresta.
Spesso Rama vagava per la foresta insieme a Sita, mostrandole i
tanti scenari meravigliosi che costituivano la ricchezza e la gloria
di Citrakuta, e diceva: "Un semplice sguardo a questa piacevole
e deliziosa montagna mi fa dimenticare la perdita del trono e perfino
la separazione dai nostri cari amici di Ayodhya. Penso che le ricchezze
minerarie di queste montagne siano incalcolabili. Alcuni picchi
luccicano come l'argento, alcuni sono rossi, altri giallastri; e
qui e là si possono vedere anche gemme preziose, come topazi e cristalli,
che splendono del colore del fiore ketaka. Guarda quegli uccelli
dalle piume graziose; e anche questi daini bellissimi. E che cosa
straordinaria che questi leopardi, tigri e orsi siano completamente
inoffensivi. Si potrebbero passare ore, giorni e anni ad ammirare
l'infinita varietà di alberi che si trovano sulle colline e nella
foresta.
"E guarda questi uomini e queste donne dall'aspetto celestiale che
si divertono felici nella foresta. Non sono meravigliose queste
cascate? Non ti fanno sentire che questa montagna è un essere vivente?
Non conoscerò mai il dolore se vivrò molto a lungo in questa foresta,
naturalmente con te e Lakshmana. Venendo in questa foresta, sono
felice d'aver potuto esaudire la promessa di mio padre e sono anche
felice che Bharata è stato installato sul trono. Inoltre ho sentito
dire che, secondo i miei antenati, la vita nella foresta aiuta molto
a ottenere la libertà dal ciclo di nascite e morti. Per di più questa
collina supera la capitale del regno celeste per la sua bellezza
e la sua ricchezza.
"Sita, guarda il sacro fiume Mandakini. Guarda quei graziosi cigni
Guarda gli alberi sulle due rive del fiume che fanno cadere una
pioggia di fiori sulle acque. Ogni mattina in questo fiume si bagnano
saggi ed asceti coi capelli intrecciati sulla testa e vestiti di
pelli di daino e cortecce. Ce ne sono altri che pregano il sole,
stando in piedi nell'acqua. Le acque del fiume sacro sono pure e
anche purificatrici; sono splendenti chiare, pulite e sante. Vieni,
vieni nel fiume insieme a me, e bagnati in queste sacre acque in
cui si bagnano anche i saggi e gli asceti che hanno bruciato tutte
le loro impurità nel fuoco delle austerità.
"Sita, riverisci coloro che dimorano nella foresta come faresti
con gli uomini spirituali di Ayodhya; considera questo fiume come
il Sarayu. Come sono felice d'avere te e Lakshmana, che mi siete
entrambi devoti e vi prestate gioiosamente ai miei comandi".
Mentre si trovava seduto fuori dell'eremitaggio con Sita e Lakshmana,
e stava mostrando a Sita dei frutti selvatici, spiegando le loro
proprietà e il loro uso, improvvisamente Rama si fermò e disse:
"Lakshmana, sento un rumore tumultuoso e laggiù vedo una nuvola
di polvere. Ti prego, sali su quell'albero e guarda che cosa sta
succedendo. Forse una comitiva reale è venuta a caccia nella foresta".
Lakshmana s'arrampicò sull'albero, guardò, e rimase esterrefatto:
"C'è un grande esercito che circonda la collina. Sembra minaccioso.
Fa' rifugiare Sita in quella grotta; ed è meglio che tu prenda le
armi".
Rama gli chiese. "Non puoi vedere di quale esercito si tratta?".
Lakshmana riuscì a vedere di quale esercito si trattava, e disse
con ira: "Ah, è Bharata. Ora che s'è seduto sul trono, non vede
l'ora d'ucciderci entrambi e assicurarselo per sempre. Vedo chiaramente
la sua insegna personale sul cocchio. Vedo anche cavalieri giubilanti
ed elefanti in marcia verso questo eremitaggio. Vieni, presto, prepariamoci
a combattere. Sono felice che oggi vedrò quel traditore di Bharata,
che è la causa di tutte le nostre pene e l'usurpatore del trono
di Ayodhya. Oggi egli andrà incontro al suo fato, per mano mia.
Non è peccato uccidere chi ha commesso un atto così deplorevole,
come quello che ha fatto Bharata. O Rama, non è saggio lasciare
impunito un criminale. E se è venuta Kaikeyi, ucciderò anche lei.
Libererò questa terra da quella terribile fonte di peccato. Distruggerò
l'intero esercito, propiziando così le mie armi!".
Dopo avere ascoltato freddamente tutto questo, Rama rispose: "Ho
fatto voto d'esaudire la promessa di nostro padre; e il mio proposito
fallirebbe se uccidessimo Bharata! Una grande ignominia s'abbatterebbe
su di noi. Che ne faremo di un trono così disonorato? Qualunque
cosa io cerchi in questo mondo (ricchezza, piacere, Dharma, ecc.)
è solo per amore del vostro bene; ma non cercherò il regno dei cieli
con mezzi ingiusti. Sono pienamente convinto che Bharata non intende
farci del male. Sicuramente ha saputo del nostro esilio ed è talmente
addolorato dalla svolta degli eventi che è venuto per riportarci
ad Ayodhya, forse anche col consenso di nostro padre. Che cosa ti
fa dubitare di lui, Lakshmana? Se è per amore del trono che dici
questo, chiederò a Bharata di farti regnare per sempre! E so che
egli non rifiuterà".
Appena Rama disse questo, Lakshmana fu sopraffatto dalla vergogna.
Guardando di nuovo, vide l'elefante reale che s'avvicinava e disse:
"Sta venendo anche il re". Ma quando Rama vide che mancava il bianco
parasole reale, si preoccupò e chiese a Lakshmana di scendere.
Dopo avere ordinato all'esercito e al gruppo reale d'accamparsi
ai margini della foresta, Bharata inviò dei soldati in tutte le
direzioni alla ricerca dell'eremitaggio di Rama. Se fosse stato
necessario, decise che avrebbe cercato lui stesso per tutta la foresta:
"Finché non vedrò i nobili Rama, Lakshmana e Sita, la mia mente
non avrà pace. Come potrò avere pace finché non avrò posato il capo
ai piedi del mio amato fratello Rama, i cui piedi portano impresso
il segno della regalità. No, non potrò avere pace finché quel nobile
principe non sarà installato sul trono che gli appartiene per nascita".
Dopo un pò salì su un albero per guardare intorno, e dall'alto vide
poco distante del fumo che s'alzava da un eremitaggio. Il solo pensiero
che poteva trattarsi dell'eremo di Rama fece sussultare di gioia
tutto il suo essere.
Rivolgendosi a uno dei suoi attendenti, gli disse: "Fai venire qui
le mie madri: abbiamo localizzato l'eremitaggio di Rama". Mentre
avanzavano nella direzione dalla quale proveniva il fumo, Bharata
vide diversi segni che confermavano la sua supposizione: vide la
capanna in lontananza, vide dei sentieri battuti, della legna tagliata,
dei petali di fiori per terra (petali che ovviamente erano caduti
mentre li portavano per l'adorazione), e qui e là vide delle striscette
di tessuto legate agli alberi per servire da guida.
Pieno di gioia, Bharata esclamò: "Molto presto vedrò il viso di
loto di Rama"; ma questo durò solo un attimo, perché dopo un momento
egli fu tormentato dal pensiero che il nobile principe nato per
governare il mondo, per godere della sovranità, per gioire dei piaceri
regali, stava seduto per terra in una capanna in mezzo alla densa
foresta, assoggettando le sue membra delicate a severe privazioni
- e tutto questo per colpa sua (di Bharata). Descrivendo questo
più volte ai suoi compagni, Bharata scoppiò in lacrime.
Avevano raggiunto l'eremitaggio. Da lontano Bharata vide le armi
dorate di Rama appese fuori della capanna. Vide l'altare rituale
presso il quale Rama offriva ogni giorno le sue preghiere.
Ben presto vide lo stesso Rama, seduto per terra nella veranda esterna
della capanna, insieme a Sita e a Lakshmana. Vedendo l'amato fratello
vestito da asceta, il cuore di Bharata si spezzò. Vide che Rama
aveva i capelli intrecciati e raccolti sulla testa ed era vestito
con pelli e cortecce. Allora si precipitò ai suoi piedi, e disse
piangendo: "O nobile fratello", ma non riuscì a dire altro. La sua
gola era strozzata dal pianto. Le lacrime scendevano anche sulle
guance di Satrughna. Rama si alzò e li abbracciò entrambi, mentre
le lacrime scendevano profusamente anche dai suoi occhi.
Vedendo Bharata dopo molto tempo, Rama fu pieno di gioia, e dopo
averlo abbracciato più volte e baciato sulla fronte con tenero affetto,
lo fece sedere sulle sue ginocchia e gli chiese come stava lui e
tutti quelli di Ayodhya.
"Sono felice di vederti dopo tanto tempo, Bharata: ma perché sei
venuto in questa foresta disabitata e pericolosa? Perché hai lasciato
nostro padre da solo nel palazzo e sei venuto qui? Come farà il
vecchio re a sopportare la tua assenza? Spero che il re sia sopravvissuto
alla grande tragedia che lo ha colpito. Spero anche che non abbia
lasciato questo mondo. E tu stai bene, Bharata? Spero che non ti
abbiano sottratto il regno con l'inganno, puro e semplice di cuore
come sei. Ti prego, dimmi anche come sta il venerabile saggio Vasishtha?
Lo onori e lo adori come dovresti, mio amato fratello? Come sta
mia madre Kausalya, e come sta Sumitra; come sta la nostra gloriosa
madre Kaikeyi, spero che adesso sia felice.
"Come stanno i sacerdoti della casa reale? Li tratti con il dovuto
rispetto, ed essi compiono correttamente i loro doveri religiosi?
Onori gli dèi, i nostri antenati, i servi reali, i precettori -
che sono degni d'adorazione quanto il proprio padre - gli anziani,
i medici e i santi brahmana? Ti prendi cura del tuo maestro personale
Sudhanva, che è un esperto nell'arte della guerra e conosce i segreti
delle armi? Hai scelto i giusti consiglieri che sappiano aiutarti?
Questo è essenziale; perché è importante avere dei ministri che
sappiano mantenere il più stretto riserbo; questo è infatti il segreto
della vittoria. Spero che tu non agisca senza consigliarti con i
ministri; e nello stesso tempo spero che tu non chieda consiglio
a troppe persone. Spero ancora che non proclami le tue decisioni
prima che diventino effettive. E inoltre t'assicuri che i segreti
di stato non siano rivelati da ufficiali poco degni di fiducia?
"Comprendi che un solo saggio è più utile al paese che migliaia
di stolti? Hai affidato i ministeri più importanti ad ufficiali
di prima qualità, i ministeri secondari ad ufficiali mediocri, e
così via? Il popolo ha fiducia nei ministri che hai nominato? Hai
messo una persona coraggiosa, saggia e capace a capo dell'esercito?
Perché è importante liberarsi: di un medico le cui cure aumentano
le sofferenze del malato, di un servo ribelle e di un eroe desideroso
di potere politico - chi non si libera di queste persone verrà distrutto.
Spero che i servitori dello stato ricevano puntualmente la loro
paga, al momento stabilito; altrimenti la macchina amministrativa
diventa inefficiente".
Rama continuò: "Spero che tu stia attento, come deve un saggio governante,
e che tu abbia un servizio segreto che osservi costantemente i principali
funzionari dello stato, quelli che ti sono favorevoli e quelli che
potrebbero non essere ben disposti verso di te. Soprattutto quelli
che ti sono stati ostili e che poi sono ritornati nel tuo gruppo
devono essere osservati attentamente. Spero, Bharata, che non incoraggi
quei brahmana mondani che si considerano sapienti, ma che in realtà
sono esperti in opere distruttive.
"Dimmi, Bharata, è Ayodhya inespugnabile com'è sempre stata, e come
implica il suo nome? I cittadini dei diversi gruppi e delle diverse
classi continuano a impegnarsi diligentemente nelle loro rispettive
professioni? Il nostro regno è sempre stato libero dal crimine e
dalla violenza, dalla povertà e dalla siccità, e pieno di ricchezze
di ogni tipo, abitato da donne e uomini istruiti, con uno spiccato
senso del bene comune; stai mantenendo questa tradizione, caro fratello?
Gli agricoltori e gli imprenditori godono della tua protezione particolare,
in modo che l'economia dello stato sia prospera? E le donne del
regno sono ben assistite e protette da ogni privazione e sfruttamento?
E, cosa ugualmente importante, spero che non si faccia eccessivo
affidamento su di loro né che ricevano le tue confidenze sulle questioni
della sicurezza nazionale.
"Ora dimmi: sono ben tenute le foreste nel nostro paese? Sono ben
curate le vacche e gli altri animali? Controlli che la tua fortezza
e le altre fortificazioni abbiano un adeguato rifornimento di cibo
e munizioni? Spero che malgrado tutto tu riesca a pareggiare il
bilancio e a non andare in perdita. E ora una cosa molto importante:
hai fatto in modo che la legge e l'ordine siano rigorosamente rispettati
nello stato, che un ladro non rimanga impunito per colpa dell'avidità
di ufficiali corrotti, che le corti di giustizia siano assolutamente
imparziali e che nessun innocente sia mai punito? Perché le lacrime
versate dall'innocente punito per errore distruggono la prosperità
del re.
"E tu, Bharata, segui personalmente il codice del giusto vivere?
Sei regolare nelle preghiere e nelle pratiche religiose? Ti prego,
non lasciare che il Dharma, la prosperità materiale e il godimento
dei giusti piaceri si sovrappongano l'un l'altro. Ogni cosa a suo
tempo, è una buona regola. Ricorda che lo stesso re dev'essere un
esempio di tutte le virtù che ci s'aspetta dal popolo. Inoltre devi
sapere come comportarti con gli altri re e come conquistarti l'amicizia
degli uomini, delle donne e dei bambini del paese. E stato governando
secondo il Dharma che i nostri antenati si sono goduti la vita qui
e hanno ottenuto il cielo nell'aldilà".
Infine Rama chiese a Bharata: "Ora ti prego, dimmi, perché sei venuto
nella foresta, abbandonando il tuo giusto posto ad Ayodhya?".
In lacrime e con le mani giunte, Bharata rispose: "Nostro padre,
il re, fu spinto da sua moglie, mia madre, a commettere il più terribile
dei peccati. Ma tormentato dall'angoscia causatagli dalla tua separazione,
è salito in cielo. Mia madre, invece, responsabile di quest'atto
riprovevole, scenderà presto all'inferno. O Rama, io sono il tuo
umile servo. Ti prego, concedimi questa grazia... torna ad Ayodhya
e sii il nostro re. Questa è la preghiera di tutti i nostri amici
e parenti, e di tutto il popolo". Bharata si prostrò ai piedi di
Rama e li toccò con la testa.
Rama lo sollevò e, abbracciandolo amorevolmente, gli disse con espressione
serena: "Il mio cuore rifugge l'ingiustizia, Bharata. Metterò da
parte il Dharma per amore di un regno? Non turbarti, Bharata. Io
non vedo alcuna colpa in te, assolutamente. Non ti ritengo responsabile
dell'accaduto. E ti prego, non accusare neanche tua madre. Gli anziani
hanno la libertà di fare ciò che desiderano con la moglie, i figli
e i discepoli. Perciò anche nostro padre era motivato per quello
che ha fatto. Che m'avesse installato sul trono o mandato nella
foresta, egli aveva il diritto di fare ciò che voleva. Lo stesso
vale per le nostre madri. Noi siamo tenuti a obbedire ai loro ordini.
Una volta che nostra madre mi ha comandato di vivere nella foresta,
come posso andare contro il suo ordine? Similmente, a te è stato
ordinato di governare Ayodhya; e anche tu dovresti obbedire)".
Bharata rispose: "Poiché il figlio minore non è eleggibile al trono,
io non sono legato da questa regola di condotta! Nella nostra dinastia
il trono è sempre stato trasmesso dal padre al figlio primogenito.
Come posso violare questa regola? Il popolo considera il re come
fosse un uomo; colui che governa con giustizia portando lo stato
alla prosperità, lo considerano un superuomo; ma io penso che il
re sia davvero una divinità. E questo sarà provato se tu salirai
al trono)".
Ricordando re Dasaratha, Bharata disse a Rama: "Nostro padre è morto
poco dopo che tu hai lasciato Ayodhya, mentre io ero ancora nel
regno Kekaya. Vieni fratello, offrigli delle libagioni. Poiché dicono
che le libagioni offerte dalle persone care si dimostrano di un
bene inestimabile per l'anima dipartita: e tu eri molto caro a nostro
padre, che ha lasciato questo mondo pensando a te e desiderando
la tua compagnia".
Quando gli fu ricordato che suo padre era morto, Rama svenne. Sita
e i tre fratelli gli spruzzarono subito dell'acqua sul viso e su
tutto il corpo, e l'aiutarono a riprendersi rapidamente.
Una volta ripresa coscienza, Rama espresse il suo dolore: "Il re
è morto, e tu vuoi che io torni ad Ayodhya! Che cosa dovrei fare
ad Ayodhya ora che il re non c'è più; chi governerà Ayodhya ora
che il migliore dei re ci ha lasciati? Bharata, tu e Satrughna siete
davvero fortunati in quanto avete potuto servire il re e celebrare
i riti del suo funerale. Neanche dopo la scadenza dei quattordici
anni nella foresta mi sentirò di tornare ad Ayodhya, ora che nostro
padre non c'è più. Chi mi guiderà, chi mi chiamerà con affetto,
chi mi sussurrerà tenere parole all'orecchio quando farò qualcosa
di buono?".
Poi andarono tutti quanti al fiume Mandakini. Stando in piedi nel
fiume, Rama offrì libagioni d'acqua per la pace dell'anima dipartita:
"Possa quest'acqua da me offerta esserti utile, o re, adesso che
ti sei riunito con i nostri antenati". Quindi egli offrì la pasta
dell'albero ingudi insieme a dei frutti: "Ti prego, accetta quest'offerta,
o re, perché questo è il nostro cibo: infatti il cibo che un uomo
mangia, quello stesso egli offre agli dèi".
Dopo il rituale Rama tornò nella capanna insieme ai suoi fratelli
e a Sita. L'intera foresta e la collina riecheggiavano dei lamenti
dei principi.
Gli uomini dell'esercito e tutti i membri della comitiva reale che
s'erano accampati ad una certa distanza dall'eremitaggio, udirono
quelle grida strazianti e furono presi dall'angoscia. Nello stesso
tempo dedussero che Bharata aveva scoperto l'eremitaggio di Rama.
Allora si precipitarono verso l'eremitaggio, verso il posto dal
quale provenivano i suoni. Alcuni scesero dai mezzi e dalle cavalcature
e cominciarono a correre a piedi. Mentre altri, i più anziani, andarono
là sui mezzi o a cavallo o su altri animali.
Anche da lontano potevano vedere Rama seduto fuori della sua capanna
insieme a Sita e agli altri fratelli. Essi avevano perduto perfino
la speranza di posare nuovamente gli occhi su di lui. Per questo,
tutti avevano maledetto mentalmente la malvagia Kaikeyi, ritenendola
responsabile dell'esilio di Rama. In un'estasi di totale oblio di
se stessi essi videro Rama; i loro occhi bagnati dalle lacrime si
rallegrarono alla vista di Rama. Anche Rama corrispose il loro amore,
e salutò ciascuno nella maniera appropriata. Era uno scenario molto
commovente, e le lacrime scorrevano profusamente.
Infine le regine e il saggio Vasishtha s'avvicinarono all'eremo
di Rama. Kausalya indicò a Sumitra il sentiero fatto da Lakshmana
che portava dall'eremo alla riva del fiume. Poi Kausalya vide l'offerta
di pasta d'ingudi che Rama aveva fatto all'anima del re defunto,
e proruppe in un lamento: "Ahimè, il potente monarca deve accontentarsi
di questa misera offerta; poiché suo figlio, il principe Rama, che
è nato per regnare, conduce una vita da asceta".
Quando Rama le vide avvicinarsi alla capanna, corse loro incontro,
si prostrò e strinse loro i piedi. Dopo di lui, Lakshmana s'inchinò
dinanzi a loro, seguito immediatamente anche da Sita. Kausalya abbracciò
Sita e le disse piangendo: "Vedendoti sopportare tutte queste privazioni,
il fuoco del dolore mi consuma". Quindi Rama s'inchinò ai piedi
del saggio Vasishtha. Infine tutti presero posto. Bharata sedette
proprio dietro a Rama, con le mani giunte. Tutti erano impazienti
di sentire ciò che Bharata aveva da dire.
La mattina presto del giorno dopo, si riunirono tutti come prima
e Bharata disse: "Il regno mi è stato dato da mio padre e da mia
madre. Esso è mio. Ma io adesso lo do a te, Rama! Nessun altro eccetto
te può esserne re. Io non sono alla tua altezza". L'intera assemblea
approvò all'unanimità.
Rama prese la parola e rispose: "L'essere incarnato non è libero,
Bharata, ma è condotto qui e là dai risultati delle sue azioni.
In ogni caso, tutto in questo mondo ha come fine la distruzione,
ogni innalzamento finisce in una caduta, ogni incontro ha per fine
la separazione, e ogni essere vivente ha per fine la morte. La chiara
consapevolezza che un frutto deve cadere e che un uomo deve morire
libera dalla paura. Tutto ciò è naturale e inevitabile. Non ci si
addolora per la morte più di quanto non ci si affligga per il fatto
che un frutto matura e cade! Non addolorarti per un altro, Bharata,
stai all'erta e renditi conto che la vita sta passando sia che tu
sieda o ti muova. Gli stolti non percepiscono lo scorrere della
vita. Allo stesso modo la gente non s'accorge che il tempo avvicina
e separa le persone, come dei tronchi d'albero sono avvicinati e
separati nell'acqua. Percependo chiaramente tutto ciò, uno deve
lavorare diligentemente alla propria felicità: perché in effetti
la vera felicità è la mèta di ognuno.
"Il nostro nobile padre, che era devoto alla giustizia, ha completato
la missione della sua vita ed è deceduto. Piangere per lui non ritarderà
la nostra morte! Torna ad Ayodhya, Bharata, e fa' ciò che devi fare:
amministra il regno. E anch'io continuerò a fare ciò che devo: vivere
nella foresta per quattordici anni. Questo è il corso del Dharma".
Bharata si rivolse nuovamente a Rama: "In tutto il mondo non c'è
nessuno pari a te. Poiché conosci il Sé, non perdi mai la tua equanimità
neanche in mezzo alla più grande calamità. In mia assenza mia madre
ha commesso un'azione terribilmente malvagia; e anche se fu fatta
per amor mio, io la detesto. Se non fosse perché onoro il codice
che proibisce ad un principe d'uccidere una donna, l'avrei uccisa.
Io reputo lei la sola responsabile, e non nostro padre. Egli era
nobile, con moltissime nobili azioni in suo conto, e poi era anziano,
e come padre per me era come Dio stesso; ma soprattutto ora è deceduto.
Di certo se fosse stato pienamente cosciente egli non avrebbe mai
sancito questo peccato. La sua azione conferma la verità dell'antico
detto, che la mente si confonde quando s'avvicina la morte. Come
degno figlio di nostro padre, è giusto che tu ripari il suo errore.
Perché questo viene considerato il dovere di un figlio rispettoso:
correggere gli errori del padre. Se lo farai, allora salverai me,
mia madre e anche mio padre dal peccato e dalla calunnia. Non mischiare
la vita nella foresta con il governo, il tenere i capelli intrecciati
sulla testa con la funzione regale di proteggere il popolo: ti prego,
non permettere quest'incoerenza nella tua condotta. Il dovere d'un
principe è quello d'ascendere al trono e governare con giustizia:
sfuggire questo dovere e abbracciare la vita ascetica non è corretto.
Se sei avverso ai piaceri, puoi condurre una vita ascetica ad Ayodhya,
anche mentre amministri il regno. Io sono più giovane e inferiore
a te in tutti i sensi; non posso prendere il tuo posto. Ho portato
con me tutti i sacerdoti e i ministri: fatti consacrare al trono
qui e ora. Se però non accetterai, anch'io rimarrò con te nella
foresta".
Ma Rama rimase impassibile. Vedendo ciò, tutti furono fieri della
fermezza di Rama, pur essendo dispiaciuti perché non voleva farsi
incoronare re. Tutti applaudirono Bharata.
Rama rispose: "Sono d'accordo con ciò che hai detto, Bharata; ma
ci sono altre considerazioni. Quando nostro padre chiese in sposa
tua madre, egli offrì in cambio lo stesso regno; il che significava
che il figlio di lei o il suo prescelto sarebbe stato re. Inoltre
tu sai che egli le aveva promesso due doni, che infine lei ha reclamato.
Noi dobbiamo mantenere la parola data da nostro padre. E il sacro
dovere di un figlio; e poiché salva il padre dall'inferno chiamato
'put', il figlio viene chiamato 'putra'. Tu torna ad Ayodhya; io
andrò nella foresta Dandaka. Tu governa il popolo; io governerò
gli abitanti della foresta. Tu avrai il parasole reale sulla testa;
io troverò l'ombra di un albero. Tu hai Satrughna, ed io ho Lakshmana
come compagno. Così entrambi faremo il nostro dovere nei confronti
di nostro padre".
Un brahmana di nome Jabali intervenne nel dialogo e disse a Rama:
"E giusto che uno mantenga la sua parola; ma in primo luogo tu non
avresti dovuto prendere questo voto improprio. In questo mondo,
o Rama, nessuno è parente a qualcun altro; ciascuno viene solo e
se ne va da solo. Soltanto gli stolti pensano che qualcuno sia suo
padre o sua madre, ecc. Queste relazioni sono ripari temporanei
che uno inventa e nei quali ci si rifugia nel corso del viaggio
della propria vita. Abbandonando l'idea illusoria che il re era
tuo padre, e che tu debba onorare la sua parola, ecc., torna ad
Ayodhya e ascendi al trono che t'appartiene. Preoccuparsi degli
antenati deceduti e sforzarsi di compiacerli è folle, Rama. Se fosse
possibile soddisfare l'antenato deceduto offrendo da qui libagioni
di riso, allora perché non lo si fa anche per appagare la fame di
un parente in viaggio in terre lontane? Basati sulla percezione
diretta e fai quello che consideri giusto; non dipendere da ciò
che viene detto".
A Rama diede fastidio che un brahmana avesse potuto dare questo
consiglio eretico, e lo rimproverò: "Se seguissi il tuo consiglio,
diventerei un ipocrita. Pur sembrando buono, in realtà sarei l'esatto
contrario. Se facessi ciò che mi pare o ciò che considero giusto,
darei un cattivo esempio; e il popolo emulerebbe il mio esempio.
Io non devierò dal sentiero della Verità: poiché soltanto la Verità
è segno di un'encomiabile condotta regale. Il regno e il mondo intero
sono stabiliti sulla Verità. La gente teme, sospetta ed evita l'uomo
che non è sincero e che infrange le sue promesse. In questo mondo
soltanto la Verità è Dio; il Dharma si fonda sulla Verità; non c'è
religione superiore alla Verità. Sapendo questo, come potrei deviare
dal sentiero della Verità, o brahmana! Io porto questa Verità sulla
testa: tengo i capelli intrecciati perché così li portano anche
le persone sante. La gente ignorante pensa il male, dice menzogne
e indulge in azioni malvagie; e così si perde tutto ciò che è buono
e salutare in questo mondo. Se seguissi il tuo consiglio, anch'io
sarei colpevole di questo triplice peccato. No, io continuerò a
vivere nella foresta, adempiendo il mio dovere verso mio padre.
Una volta venuto in questo mondo d'attività, uno deve impegnarsi
in giuste azioni. Il fuoco, il vento e il soma condividono i frutti
dell'azione dell'uomo".
Allora Jabali rispose: "Io non sono un miscredente né dico quello
che dicono i miscredenti; né la miscredenza esiste. In conformità
col tempo sono diventato di nuovo un credente, e a tempo debito
diventerò un miscredente. Ciò che ho detto è servito al suo scopo:
ha espresso il mio desiderio e quello del popolo d'averti come re,
e ha manifestato la tua gloria di persona saldamente stabilita nella
Verità".
[NOTA: L'azione dell'uomo influenza l'atmosfera: il fuoco, l'aria
e il soma (che non è solo la luna, ma anche l'azoto).]
Vedendo che Rama era rimasto offeso dalle parole di Jabali, il saggio
Vasishtha intervenne dicendo: "O Rama, Jabali sa bene ciò che va
fatto e ciò che non va fatto in questo mondo, ma ha parlato nella
speranza di farti tornare ad Ayodhya. Adesso voglio dirti della
tua discendenza a partire dal Creatore; di suo figlio Marici, che
ebbe per figlio Kasyapa, il cui figlio Vivasvan - il sole - fondò
la dinastia solare alla quale appartieni tu. Manu era figlio di
Vivasvan, e suo figlio Ikshvaku governò Ayodhya.
Poi Vasishtha citò per nome tutti gli antenati di Rama. Il trono
era stato invariabilmente trasmesso al figlio primogenito di ogni
re. Vasishtha disse: "Questa tradizione non dev'essere violata da
te". E continuò: "Padre, madre e precettore - questi tre sono i
guru di una persona. Il padre gli dà solo la nascita, mentre il
precettore gli dà la saggezza suprema, e per questo è chiamato guru.
Seguendo il mio consiglio non commetterai alcun peccato".
Rama fu inflessibile nella sua decisione, e rispose al saggio Vasishtha:
"Il debito che uno ha con il padre e la madre è davvero grande:
per tutto il tenero e amorevole servizio che ha ricevuto da loro,
nel nutrirlo, nel metterlo a letto e nel sussurrargli dolci parole.
Per questo non verrò meno al comando di mio padre di vivere nella
foresta".
A questo punto Bharata si rivolse decisamente a Sumantra e gli ordinò:
"Prepara un letto d'erba kusha per me davanti a questa capanna;
giacerò lì, senza mangiare e senza bere, finché Rama non tornerà
ad Ayodhya". Sumantra guardò Rama!
E Rama disse a Bharata: "Tale condotta non s'addice a un principe!
Un brahmana può fare una cosa del genere. No, Bharata, abbandona
quest'impresa impossibile e torna ad Ayodhya". Allora Bharata si
rivolse al popolo: "Perché non cercate di dissuadere Rama dalla
sua risoluzione?". E il portavoce del popolo rispose: "Noi vi abbiamo
ascoltato entrambi. Ciò che tu dici è giusto e nobile; ma vediamo
che Rama è saldamente stabilito nella Verità e non desidera trasgredire
il comando di suo padre. Perciò siamo incapaci di dire qualcosa".
Bharata fece un ultimo tentativo, e disse: "Tutti voi sapete che
non ho desiderato il trono né ho desiderato l'esilio di Rama. Se
Rama insiste a voler rimanere nella foresta, io mi offro umilmente
come suo sostituto. Che Rama ritorni ad Ayodhya".
Ma Rama rispose: "Oh, no! Un impegno preso da nostro padre non può
essere annullato né da te né da me. E trovare un sostituto significherebbe
non attenersi sinceramente a quell'impegno. Io farò la mia parte,
Bharata: e tu dovresti adempiere la tua".
Sia i saggi che erano presenti sul terreno dell'eremo di Rama, sia
i saggi che assistevano a quest'evento divino dai loro reami invisibili,
tutti lodarono la giusta condotta d'entrambi i fratelli. Quindi
essi si rivolsero a Bharata e lo pregarono d'accettare il consiglio
di Rama: "Anche noi desideriamo che Rama adempia la promessa che
suo padre ha fatto a Kaikeyi". Rama si sentì immensamente incoraggiato
da questo consiglio dei saggi e cantò le loro glorie.
Bharata fece un ultimo tentativo, e reiterò i punti fondamentali:
"Rama, tu sei ugualmente obbligato a seguire le tradizioni della
famiglia, e ad ascoltare le preghiere mie e di tua madre. Inoltre,
io non posso governare il regno. Tutti i cittadini vogliono che
tu sia il loro re". Ancora una volta Bharata cadde ai piedi di Rama
e se li posò strettamente sulla testa. E ancora una volta Rama prese
Bharata in grembo e gli disse con affetto: "Tu sei dotato di un'umiltà
genuina e naturale, Bharata, con la quale potrai governare il mondo
intero. La luna potrebbe rimanere senza luce, l'Himalaya potrebbe
rimanere senza neve e l'oceano potrebbe rompere i suoi argini, ma
io non disonorerò la promessa fatta da nostro padre. E questa è
la preghiera che ti faccio: qualunque sia stato il motivo per cui
madre Kaikeyi ha fatto il suo gesto, non dartene pensiero, e continua
a trattarla come madre".
Il saggio Vasishtha suggerì un compromesso! Rama avrebbe fatto dono
a Bharata dei suoi sandali di legno, che sarebbero stati installati
sul trono al posto di Rama. Bharata pose immediatamente i sandali
di fronte a Rama e lo pregò di benedirli. Dopo che Rama li benedì,
Bharata si prostrò dinanzi ad essi e disse: "La conduzione degli
affari di stato sarà affidata a questi sandali, Rama; e vivendo
di frutti e radici, io vivrò fuori Ayodhya, attendendo con ansia
il tuo ritorno. Se tu non tornerai il giorno dopo la scadenza dei
quattordici anni, io mi getterò nel fuoco". Rama fu d'accordo.
I due fratelli e le madri si congedarono da Rama con gli occhi pieni
di lacrime; e con gli occhi pieni di lacrime Rama rientrò nella
sua capanna.
Ponendosi con riverenza i sandali di Rama sulla testa, Bharata s'avviò
verso Ayodhya. Lungo la strada incontrò di nuovo il saggio Bharadvaja
e gli raccontò tutto quello ch'era successo a Citrakuta. Il saggio
Bharadvaja fu felice e pronunciò con gioia le seguenti parole di
benedizione: "Non c'è da meravigliarsi che in te risiedano tutte
le nobili qualità, o Bharata, come l'acqua cerca i punti più bassi
della terra. Tu sei davvero umile. Beato quel padre che ha un figlio
come te".
Bharata rientrò ad Ayodhya, che sembrava completamente priva di
vita, di gioia e di qualunque segno di prosperità. Era un città
in lutto. Lutto per il defunto re Dasaratha, e lutto per l'esilio
di Rama. Bharata sospirò e disse: "Certamente la città ha perso
tutto il suo splendore perché mio fratello l'ha lasciata".
Non appena le sue madri entrarono nei loro appartamenti, Bharata
annunciò la sua decisione: "Partirò immediatamente per Nandigrama,
e là vivrò sopportando questo grande dolore causatomi dalla separazione
da Rama".
I consiglieri furono d'accordo con la sua proposta. Sumantra aveva
il cocchio già pronto. Tutti i precettori, i consiglieri, i capi
delle varie amministrazioni, e anche l'esercito, accompagnarono
Bharata a Nandigrama.
Lungo tutto il tragitto per Nandigrama, Bharata tenne devotamente
i sandali di Rama sulla sua testa.
Arrivati a Nandigrama, Bharata annunciò di nuovo: "Questo regno
mi è stato dato sulla fiducia da mio fratello, che mi ha anche dato
questi suoi preziosi sandali, che si prenderanno cura del benessere
del regno. Durante il periodo dell'assenza di Rama, io amministrerò
il regno come suo fiduciario, aspettando con ansia il giorno benedetto
del suo ritorno ad Ayodhya. Subito dopo il suo ritorno gli passerò
le redini del regno e gioirò quando metterà ancora una volta questi
sandali ai suoi piedi. Così lascio fin d'ora l'onere dello stato
a Rama, ai suoi sandali benedetti; e quindi m'assolvo dal peccato
di usurpare il trono".
Il nobile Bharata stabilì la sua residenza a Nandigrama, vivendo
vestito di corteccia d'albero e coi capelli intrecciati e raccolti
sulla testa. Egli stesso teneva il parasole reale sui sandali di
Rama. E prima di emettere qualsiasi editto reale, lo offriva ai
sandali per l'approvazione. Egli installò sul trono e incoronò i
sandali di Rama e, rimanendo subordinato ad essi, portò avanti l'amministrazione
del regno.
Qualunque attività bisognasse intraprendere, qualunque decisione
dovesse essere presa, e qualunque tributo fosse stato ricevuto -
Bharata offriva tutto per prima cosa ai sandali di Rama e quindi
faceva quant'era necessario fare.
Un giorno, avvicinatosi ad un anziano eremita, Rama gli chiese umilmente:
"Signore santo, noto una certa inquietudine tra gli eremiti che
vivono qui; e dal loro comportamento intuisco che noi ne siamo la
causa. Vi prego di dirmi: sono stato colpevole di azioni indegne
dell'onore della mia famiglia? Oppure mio fratello più giovane Lakshmana
ha fatto qualcosa che ha offeso i saggi? O forse la giovane Sita
ha commesso un atto d'indiscrezione?".
L'anziano saggio rispose prontamente: "Oh no, Rama, tutti noi non
abbiamo visto altro che la condotta più esemplare in te, Lakshmana
e Sita. Ma è vero che c'è dell'inquietudine tra noi. E questa ci
viene causata da un demone chiamato Khara, che è uno dei fratelli
minori di Ravana. Egli è cannibale, e ha già molestato ripetutamente
i saggi che vivono a Janasthana. Ora da qualche tempo a questa parte
egli ha rivolto la sua attenzione verso questo posto. Noi pensiamo
che egli abbia in odio la tua presenza qui. E fino a quando tu vivrai
qui, questi demoni continueranno a molestare gli asceti. Essi dissacrano
i nostri altari e inquinano la stessa atmosfera. E per questo motivo
oggi stesso desideriamo lasciare questo posto e andarcene altrove.
Questi demoni non hanno alcuna simpatia per te, Rama: e anche tu
faresti bene a spostarti da qui". Quindi gli eremiti lasciarono
Citrakuta.
Qualche tempo dopo, Rama pensò tra sé: "Anch'io lascerò questo posto,
ma per altri motivi. È stato qui che abbiamo incontrato Bharata,
le mie madri e i cittadini di Ayodhya. Il ricordo di quell'incontro
si protrae e disturba il nostro equilibrio mentale. Inoltre, gli
elefanti e i cavalli che accompagnavano Bharata hanno inquinato
il posto. È meglio per noi muoverci".
Prendendo questa decisione, Rama lasciò Citrakuta, insieme a Sita
e a Lakshmana, e si diresse verso la foresta Dandaka.
Ben presto raggiunsero il sacro eremitaggio del saggio Atri, che
li ricevette calorosamente. Egli chiamò sua moglie, l'illustre Anasuya,
e le chiese d'accogliere Sita. Allora Anasuya fece entrare Sita
nella capanna. Sita s'inchinò alla venerabile donna, che a sua volta
la benedì e poi le disse: "Seguendo il tuo nobile marito, e abbandonando
parenti e amici, hai fatto la cosa giusta, Sita. Quella nobile donna
che ama suo marito, sia che questi viva in una città o in una foresta,
sia egli buono o non tanto buono, eredita i mondi gloriosi. Anche
se fosse un uomo di cattiva condotta, lussurioso e povero, per le
nobili donne il marito soltanto è il dio supremo. Servi tuo marito,
nobile Sita, trattandolo come fosse il tuo dio; e allora otterrai
fama qui e il paradiso nell'aldilà".
Felice di udire il saggio consiglio di Anasuya, Sita le rispose:
"Ti sono grata per le tue parole piene di saggezza, adorabile signora!
È proprio vero quello che hai detto, che una nobile donna deve trattare
il marito come dio, anche se egli avesse un cattivo carattere. E
quanto più se egli è divino come lo è Rama! In verità il modo in
cui dovevo comportarmi con lui mi fu indicato chiaramente da mia
suocera: anzi no, da mia madre stessa, ancor prima del matrimonio.
Quello che tu hai detto ha confermato e ribadito la loro esortazione:
che eccetto il servizio al marito, la donna non ha altre forme d'adorazione
o d'ascetismo. Io ho bene in mente le vite esemplari di quelle donne
che hanno incarnato questo grande principio: la grande Savitri,
e Rohini, e tu stessa".
Anasuya fu compiaciuta dalle parole pronunciate da Sita e le disse:
"Ho accumulato molto merito con le mie austerità. Ti prego, Sita,
chiedi qualunque cosa desideri: ti darò tutto quello che vuoi".
Che cosa avrebbe potuto chiedere o desiderare Sita? Perciò rimase
in silenzio, dopo aver detto: "Le tue benedizioni sono più che sufficienti
per me". Ammirando la sua modestia e la sua mancanza di desideri,
Anasuya continuò: "Bene, allora sceglierò io stessa qualcosa per
te! Qui ci sono ghirlande divine, abiti, gioielli e cosmetici che
metteranno ancor più in risalto la bellezza del tuo corpo. Queste
cose ti faranno godere di una bellezza che non sfiorisce e accresceranno
la delizia del tuo nobile marito, Rama.
Sita accettò umilmente i doni della nobile donna. Poi Anasuya le
chiese di narrarle come avvenne il suo matrimonio con Rama. Con
grande gioia Sita le raccontò la storia della sua nascita immacolata,
della sua infanzia a corte come figlia di re Janaka, del proclama
del re riguardo i suoi pretendenti, dell'arma divina del Signore
Shiva, della visita di Rama a Mithila insieme a Lakshmana e al saggio
Visvamitra, e infine della prodezza di Rama nell'usare la possente
arma.
"Quindi - concluse Sita - mio padre mi offrì subito in sposa a Rama;
che però esitò, non sapendo quale sarebbe stata la reazione di suo
padre! Ben presto arrivò anche re Dasaratha, che approvò l'alleanza;
e così ottenni la mano di Rama".
Più tardi gli eremiti della foresta dissero a Rama: "Ci sono molti
demoni in quella foresta laggiù. Sono cannibali, e hanno molte e
differenti forme. Bevono sangue. Si nutrono di asceti o brahmachari
che sono stati impuri o poco vigilanti. O Rama, ti preghiamo di
distruggerli. Se prenderai quel sentiero, entrerai in quella densa
foresta".
FINE DELL'AYODHYA KANDAM
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Libro
Terzo: ARANYA KANDAM - La vita nella foresta
Rama entrò nella densa e paurosa foresta chiamata Dandaka. Eppure
anche là essi trovarono eremi di saggi che avevano fatto della foresta
la loro dimora. Intorno a ciascuno di questi eremitaggi si potevano
vedere dappertutto seggi di stuoie e di pelli di daino. Le piccole
capanne erano ancora molto ben tenute. L'ambiente circostante era
pulito. Gli altari per la celebrazione del rito del fuoco proclamavano
la santità del luogo. La tranquillità con la quale gli uccelli e
gli animali selvaggi giocavano intorno agli eremitaggi testimoniava
l'amore cosmico che irradiava dal cuore dei saggi. Gli stessi saggi
riempivano tutta l'atmosfera col suono benedetto del canto degli
inni vedici.
Rama s'avvicinò a loro con riverenza e umiltà, con le armi scariche
e inguainate. Anche i saggi ricevettero Rama, Lakshmana e Sita con
grande gioia e affetto. Dopo averli accolti e avere offerto loro
frutti, radici, ecc., i saggi si rivolsero a Rama con amore e riverenza:
"Tu sei nostro re, Rama, sia che tu viva in una città o nella foresta;
e a noi spetta la tua protezione. Il re che tiene lo scettro è degno
d'adorazione in quanto è considerato una manifestazione parziale
del Signore stesso. Noi eremiti abbiamo rinunciato alla violenza
e alla collera, e siamo totalmente dediti alla conquista della nostra
mente e dei nostri sensi: perciò è tuo compito proteggere le nostre
persone".
Rama trascorse una notte nell'eremitaggio che era situato proprio
all'inizio della densa foresta. La mattina seguente si congedò dai
saggi e continuò per la sua strada. La foresta diventava sempre
più cupa e spaventosa. Ben presto Rama vide un terribile demone
di forma indescrivibilmente sgraziata e terrificante. Anche il demone
vide Rama, Lakshmana e Sita, e urlò forte.
Il mostro scattò verso Sita, la prese, e dopo essersi allontanato
ad una certa distanza disse a Rama e a Lakshmana: "Ehi voi! Che
cosa avete a che fare con questa giovane donna - voi che sembrate
asceti? Voi siete un disonore per il sacro ordine degli asceti.
Io mi porterò via questa donna e la sposerò. Io, il demone Viradha,
ucciderò voi due peccatori e berrò subito il vostro sangue".
Sita era sconvolta dalla paura. Profondamente afflitto, Rama disse
a Lakshmana: "Che tragedia, mio caro Lakshmana, proprio all'inizio
della nostra vita nella foresta! Certo madre Kaikeyi sarà molto
contenta di sentire che tutti noi siamo stati uccisi ancor prima
di stabilirci nella foresta. Per me non c'è nulla di più doloroso
che vedere l'amata Sita toccata da un altro uomo".
Il coraggioso Lakshmana consolò Rama con queste parole: "Non preoccuparti,
Rama! Tra pochi istanti la terra berrà il sangue di questo demone".
Il mostro urlò di nuovo: "Ehi, voi due! Ditemi chi siete e dove
state andando". Rama rispose garbatamente: "Noi siamo principi di
nascita e apparteniamo alla famosa dinastia di Ikshvaku. Ora ti
preghiamo, dicci chi sei tu e che cosa fai in questa foresta".
Il demone rispose: "O nobile re! Ti dirò chi sono. Mio padre si
chiama Jiva e mia madre Shatahrada. Qui mi conoscono come Viradha.
Con le mie austerità propiziai il Signore Brahma, il Creatore, e
ottenni da lui il dono di essere invulnerabile alle armi e quello
di non morire a causa di ferite o fratture agli arti. Perciò non
puoi uccidermi! Lascia questa donna e fuggi via da qui!".
Sfidandolo, Rama lo colpì con parecchi missili. Ma benché trafitto,
il demone non morì. Però lasciò Sita e si lanciò contro i due fratelli
con una lancia. Rama spezzò la lancia con i suoi missili, ma le
sue armi non avevano potere contro Viradha: lo colpivano, ma non
appena egli apriva bocca cadevano a terra! Viradha afferrò Rama
e Lakshmana, e sollevandoli con una mano ciascuno li portò via.
Lakshmana cercò di fermarlo, ma Rama gli disse: "Lascia che ci porti
dove vuole: sta andando nella stessa direzione in cui vogliamo andare
noi".
Sita però era atterrita, e gridò: "O migliore dei demoni! Ti prego,
prendi me e gettami alle bestie feroci; ma lascia stare i principi".
Udendo questo, Rama e Lakshmana decisero di liberarsi del demone.
Mentre erano ancora seduti sulle sue spalle, i due principi gli
ruppero un braccio ciascuno. Viradha cadde a terra; ed essi, che
ora stavano in piedi vicino a lui, cominciarono a colpirlo con i
pugni. Poi Rama disse a Lakshmana: "È protetto dal dono che ha ricevuto;
non possiamo ucciderlo in questo modo Scava una fossa nel terreno.
Lo seppelliremo: questa è l'unica maniera in cui potrà morire".
In quel momento il mostro Viradha parlò: "Sono stato sconfitto da
te, Rama, e la mia fine è vicina. A causa dell'influsso della qualità
demoniaca dell'ignoranza non ho riconosciuto la tua gloria. Io ero
un essere celeste chiamato Tumburu; ma incorsi nella collera di
Kubera, che mi maledì, e quindi diventai un demone. Però dopo averlo
supplicato egli mi disse: "Quando Rama ti ucciderà in combattimento,
allora tornerai in cielo". Liberato da quella maledizione, ora tornerò
in cielo. Laggiù vive il saggio Sarabhanga; ti prego, passa a trovarlo,
dopo avermi seppellito in quella fossa. Questa è infatti l'antica
tradizione con la quale si trattano i demoni".
Lakshmana finì presto di scavare un'enorme buca, nella quale seppellirono
il mostro Viradha. Riunitisi a Sita, i due principi continuarono
il loro cammino.
Quindi Rama disse a Lakshmana: "Questa è davvero una foresta terribile
e abbiamo già avuto un assaggio della sua vera natura. Affrettiamoci
verso l'eremitaggio del saggio Sarabhanga".
Avvicinandosi all'eremitaggio, Rama vide una cosa meravigliosa davanti
ai suoi occhi: un radioso veicolo spaziale stava sospeso senza toccare
terra. In esso c'era il capo degli dèi, lo stesso Indra, che rifulgeva
con lo splendore del sole. Mentre Indra parlava con il saggio Sarabhanga,
angeli e saggi lo servivano in molti modi. Indicando al fratello
questo prodigio, Rama gli disse: "Guarda che meraviglia, Lakshmana!
Indra, il dio degli dèi, che visita personalmente l'eremo del saggio
Sarabhanga. Ho sentito dire che egli visita così il rito del fuoco
dei saggi; ma ora l'ho visto. Guarda quegli esseri celesti che l'accompagnano.
Hanno tutti le sembianze di giovani di venticinque anni: infatti
ho sentito dire che gli esseri celesti hanno sempre venticinque
anni! Ti prego, rimani qui con Sita, mentre io vado a vedere se
si tratta proprio di Indra". Ma non appena Rama s'avvicinò di più
all'eremitaggio, Indra disse al saggio: "Sta venendo Rama. Questa
però non è l'occasione giusta perché io lo veda. Lo vedrò dopo che
avrà ucciso in battaglia il malvagio Ravana. Rama deve compiere
molte grandi meraviglie qui. Ora vado via. E anche tu, muoviti e
vagli incontro". Il veicolo spaziale di Indra si levò nel cielo.
Rama permise poi a Lakshmana e a Sita di accompagnarlo, e tutti
e tre s'inchinarono al saggio Sarabhanga. Spinto dalla curiosità,
Rama chiese perché Indra aveva visitato l'eremitaggio. Il saggio
rispose: "Egli era venuto a prendermi per portarmi nel regno supremo
conosciuto come Brahma Loka, che io ho guadagnato con le mie austerità.
Ma sapendo che tu eri nei dintorni, non sono voluto andare nel Brahma
Loka senza prima vederti e servirti come bisogna servire un ospite.
Ora che ti ho visto, ascenderò una dopo l'altra le regioni supreme.
Le ho guadagnate a forza di austerità; e oggi le offro umilmente
a te, Rama. Degnati di accettarle".
Profondamente commosso dall'amore e dall'affetto del potente saggio,
Rama rispose: "Invero posso offrirti tutti i mondi, o saggio! Ma
ora ti prego, indicaci un posto in questa foresta dove possiamo
stabilirci". Il saggio rispose: "Passate per l'eremo del saggio
Sutikshna, che di certo saprà indicarvi dove potete stabilirvi".
Dopo aver detto questo, mentre Rama guardava, il saggio accese il
fuoco sacro e vi entrò dentro. Il fuoco consumò il suo corpo fisico,
e quindi il saggio risplendette della luce del fuoco e riacquistò
il corpo di un giovane di venticinque anni. Quindi ascese al Brahma
Loka e fu accolto dal Creatore.
Poco dopo l'ascensione al cielo del saggio Sarabhanga, i saggi e
gli asceti dei dintorni si rivolsero a Rama. Questi saggi appartenevano
a diversi ordini ascetici. C'erano dei Vaikhanasa e dei Valakhilya,
che si dice siano usciti dalle unghie e dai capelli del Creatore,
Brahma. Gli altri ordini includevano coloro che dopo aver mangiato
l'unico pasto quotidiano non volevano che rimanesse nulla per quello
successivo, coloro che si nutrivano dei raggi del sole e della luna,
coloro che vivevano di foglie o di pietre polverizzate, coloro che
usavano solo i denti per tagliare, triturare o ammorbidire il cibo,
coloro che restavano immersi nell'acqua, coloro che si stendevano
senza un letto, quelli che non si stendevano affatto, quelli che
dedicavano tutto il tempo solo alle loro pratiche spirituali, quelli
che vivevano d'acqua, quelli che vivevano d'aria, quelli che avevano
per tetto solo il cielo, quelli che giacevano sull'altare, quelli
che vivevano in cima agli alberi, quelli che indossavano solo vestiti
bagnati, quelli pieni d'autocontrollo e dediti alla ripetizione
del nome divino, e quelli che si circondavano di fuochi sotto il
sole cocente. Tutti erano raggianti della luce dell'autorealizzazione.
Essi salutarono Rama e gli dissero: "Signore, il re riceve un sesto
delle entrate dei sudditi, e in cambio egli deve proteggerli, trattandoli
come figli. Se non lo fa, incorre nel peccato. Il re riceve un quarto
della ricchezza spirituale acquisita dai saggi; ma in cambio deve
proteggerli. È in questo spirito che veniamo da te, nostro re e
protettore. In questa foresta ci sono esseri diabolici che terrorizzano
i saggi e gli asceti. Ti preghiamo di proteggerci da loro". Rama
rispose subito: "Lo farò certamente! Di sicuro è per questo che
il mio nobile padre mi ha mandato nella foresta".
Congedatosi dai saggi, Rama procedette fino all'eremo di Sutikshna.
Il saggio sedeva serenamente nella posizione di meditazione. Rama
si presentò a lui, che gli rispose benignamente: "Ero in attesa
del tuo arrivo, Rama. Ho saputo tutto da Indra, che mi ha appena
fatto visita per dirmi che ora posso ascendere ai mondi superiori
guadagnati con le mie austerità. E con la forza di quelle austerità
io prego che voi tre possiate godervi la permanenza nella foresta".
Quindi Rama chiese al saggio d'indicargli una dimora adatta a loro.
Il saggio rispose: "Rimanete in quest'eremitaggio. A parte i daini,
nessun'altra creatura vi disturberà". Ma Rama disse: "Se vivessi
qui, potrei uccidere dei daini, e so che questo vi dispiacerebbe
molto. Perciò non credo di dovermi stabilire qui".
Godendo dell'ospitalità di Sutikshna, Rama passò la notte nell'eremo,
insieme a Lakshmana e a Sita.
La mattina seguente di buon'ora Rama si congedò dal saggio Sutikshna:
"Signore, abbiamo trascorso una notte beata nella tua santa compagnia,
godendo della tua ospitalità. È ora che procediamo, prima che il
sole diventi troppo caldo". Rama, Lakshmana e Sita si prostrarono
dinanzi al saggio, che a sua volta li tirò su e li abbracciò, come
segno della sua benedizione. Egli augurò loro ogni bene e li invitò
a tornare nel suo eremitaggio.
Mentre camminavano nelle profondità della foresta, Sita trovò l'occasione
di aprire il suo cuore a Rama, e gli disse: "Signore, tu conosci
bene le basi del Dharma, e non hai bisogno di alcun consiglio o
istruzione. Però io so che quella che sembra una leggera negligenza
iniziale può spesso condurre a una grave violazione del Dharma.
L'adharma può essere evitato solo da chi riesce a resistere agli
effetti dolorosi del desiderio. Questi effetti sono tre: il più
spaventoso è la falsità di parola, quindi l'adulterio, e infine
c'è la crudeltà non provocata. Certamente tu sei incapace dei primi
due. Mi preoccupo però che tu possa soccombere al terzo. Gli asceti
ti hanno chiesto di uccidere i demoni che vivono nella foresta Dandaka,
e tu hai acconsentito. Perciò, armato con le tue armi e i tuoi missili,
hai premura d'entrare nella terribile foresta Dandaka. Io non sono
affatto contenta di ciò. Tu sei armato, e senza volerlo veramente
potresti uccidere qualcuno.
"Signore, ho udito questa storia: In una certa foresta viveva un
asceta estremamente pacifico, del quale neanche gli uccelli e gli
animali feroci avevano paura. Volendo ostacolare le austerità di
questo sant'uomo, Indra andò da lui nelle sembianze di un guerriero,
e con un pretesto gli lasciò la sua spada, pregandolo di custodirla
durante la sua assenza. L'asceta custodiva con zelo la spada, portandola
persino con sé quando vagava per la foresta. Per far la storia breve,
dopo un po' di tempo l'asceta cominciò ad impugnare la spada, dimenticando
il suo voto di non-violenza. Tenere con sé un'arma letale è come
giocare con il fuoco.
"Sono preoccupata, Signore, che questo possa accadere anche a te.
C'è contraddizione in un asceta che porta un'arma: in uno che vuole
condurre una vita da eremita, ma si comporta come un guerriero.
Maneggiare un'arma perverte la mente. Sono sicura che i tuoi genitori
sarebbero contenti se noi vivessimo secondo il Dharma. E il Dharma
non è per chi cerca il piacere. Il Dharma porta alla prosperità;
esso stesso dà grande felicità. Tutto si ottiene con il Dharma.
Il mondo intero è stabilito nel Dharma. Però ci vuole una volontà
di ferro e autocontrollo per preservare il Dharma".
Rama fu felice di udire quell'amorevole e giusto consiglio scaturito
dal tenero cuore di Sita, e rispose:
"Certamente, Sita, tu stessa desideri che nessuno sia sottoposto
a sofferenze nella foresta Dandaka; e questo è anche il mio desiderio.
I saggi e gli asceti che vivono nella foresta si sono rivolti a
me. Come principe io sono il loro giusto asilo, ed essi hanno cercato
rifugio in me. Quando hanno chiesto di vedermi, io mi sono offerto
di servirli ed aiutarli secondo le mie possibilità. Quindi mi hanno
raccontato di essere tormentati in vari modi dai demoni cannibali
che vivono nella foresta Pur essendo loro i santi brahmana che avremmo
dovuto avvicinare con venerazione, eppure sono stati loro a venire
da me, per chiedere il mio aiuto. Come avrei potuto rifiutare la
loro preghiera? Perciò ho promesso d'esaudirla. Invero loro stessi
sarebbero capaci di combattere i demoni, che potrebbero distruggere
col potere accumulato con il loro ascetismo. Ma se facessero un'azione
del genere, sarebbe una violazione del loro voto d'ascetismo e,
in un certo senso, quest'azione stessa distruggerebbe il frutto
delle loro austerità. Per questo non desiderano intraprendere direttamente
l'opera di punizione dei demoni malvagi. Perciò ripeto che è mio
dovere assolvere questo compito.
"Considerando tutto questo, ho dato loro la mia parola che li proteggerò.
E ora, dopo aver dato la mia parola, non potrò tirarmi indietro
finché vivrò. Potrei abbandonare la mia vita, potrei abbandonare
Lakshmana e anche te, mia cara Sita; ma non potrò ritrattare la
parola che ho dato a qualcuno, specialmente ai santi brahmana, ai
saggi e agli asceti. Mi sono spiegato chiaramente, Sita? Come principe
è mio dovere proteggere il popolo dai malfattori, perciò anche senza
la loro richiesta dovrei offrire loro la mia protezione. Ora questi
asceti hanno espressamente chiesto la mia protezione, e io l'ho
promessa. Perciò non c'è possibilità di rompere questa promessa,
a qualunque costo. Però terrò in mente le sagge parole che mi hai
detto, spinta dal tuo grande amore per me. È giusto che tu mi consigli
in questo modo, perché invero tu sei realmente la mia compagna nel
Dharma".
Continuando a parlare in questo modo, Rama e Sita proseguirono verso
gli eremi dei saggi della foresta Dandaka.
Rama camminava davanti, Sita lo seguiva, e dietro a loro stava Lakshmana.
Essi ammiravano le cime dei monti, i laghi, gli alberi, i fiori
e gli animali che vedevano lungo la strada. Una sera, mentre camminavano,
videro un grande lago in cui c'era un folto gruppo di elefanti che
si bagnava e giocava, e dove gru, cigni ed altre creature acquatiche
vivevano senza paura, in grande delizia. Avvicinatosi al lago, Rama
udì una musica meravigliosa, che sembrava provenire dal lago stesso.
Ma nei dintorni non si vedeva nessuno. Perplesso davanti a questo
fenomeno straordinario, egli chiese al saggio Dharmabhrit - che
in quel momento si trovava con loro - di raccontare qualcosa di
più sul lago.
Allora il saggio narrò a Rama la seguente storia: "Questo lago fu
di fatto creato da un famoso asceta col solo potere delle sue austerità.
Per moltissimi anni il saggio - chiamato Mandakarni - continuò a
praticare le sue austerità nel lago, vivendo solo d'aria. Persino
gli dèi erano turbati: pensando che il saggio volesse usurpare i
loro poteri. E per distogliere la sua attenzione dalle austerità,
gli dèi inviarono un gruppo scelto di cinque apsara (ninfe celesti).
Le ninfe vennero qui e fecero uso della loro bellezza per attirarlo.
Il saggio sapeva la verità e, per così dire, s'innamorò di loro
per adempiere lo scopo degli dèi. Quindi creò un grandioso palazzo
dentro il lago, nel quale vive ancora con le cinque ninfe. Perciò
questo lago è chiamato Pancapsara. La musica che hai udito è proprio
quella delle ninfe".
Rama rimase stupito dal potere delle austerità. In questo modo continuarono
a girare per la foresta, visitando un eremitaggio dopo l'altro:
trascorrendo alcune settimane in uno, alcuni mesi in un altro, godendo
sempre della compagnia e dell'ospitalità dei saggi della foresta.
Vagando così felicemente nella foresta insieme a Sita e a Lakshmana,
passarono dieci anni.
Poi tornarono ancora una volta nell'eremo del saggio Sutikshna e
passarono alcuni mesi in sua compagnia. Un giorno Rama disse a Sutikshna:
"Sant'uomo, ho sentito dire che il famoso saggio Agastya vive in
questa foresta. Vi prego, ditemi come possiamo raggiungere il suo
eremitaggio. Desidererei incontrarlo". Sutikshna rispose: "Sì, Rama,
io stesso stavo per chiederti d'incontrare Agastya, insieme a Sita
e a Lakshmana. È una fortuna che tu abbia espresso lo stesso desiderio".
Quindi Sutikshna spiegò a Rama nei dettagli come raggiungere l'eremitaggio
di Agastya, e concluse: "Se desideri incontrare il saggio Agastya
è bene che tu parta oggi stesso".
Rama, Lakshmana e Sita giunsero in un luogo circondato da alti monti
e dense foreste. L'odore pungente dei frutti dell'albero pipal confermava
che il posto indicato da Sutikshna si trovava nelle vicinanze. L'eremitaggio
del fratello del saggio Agastya era vicino.
A questo punto Rama narrò a Lakshmana la storia del saggio Agastya:
"C'è una storia interessante relativa al saggio Agastya; ora te
la racconterò. Tanti anni fa questa zona era abitata da due demoni,
che si chiamavano Vatapi e Ilvala. Ilvala si travestiva da brahmana
e parlava la lingua colta (il sanscrito). Mascherato così attirava
l'attenzione dei brahmana, che invitava a partecipare alla cerimonia
sraddha per la propiziazione degli antenati defunti. Egli cucinava
gustosamente il fratello maggiore Vatapi, che per l'occasione assumeva
le sembianze di un caprone, e poi ne offriva la carne ai brahmana,
secondo le ingiunzioni del rito. Ma dopo che avevano mangiato quella
carne, Ilvala chiamava a gran voce: "Vatapi, vieni fuori". E Vatapi
veniva fuori, lacerando il corpo dei brahmana. Infine gli dèi pregarono
il saggio Agastya di porre termine a queste atrocità.
Agastya si prestò a mangiare a casa di Ilvala. Dopo il consueto
pasto, Ilvala gridò: "Vatapi, vieni fuori". Ma Agastya disse serenamente:
"Come può venir fuori Vatapi, visto che l'ho già digerito!". Infuriato
Ilvala si scagliò contro il saggio, ma Agastya lo privò della vita
con un semplice sguardo.
"Ora Lakshmana, liberata da loro e da quelli come loro, questa terra
meridionale ha ripreso a prosperare".
Presto essi raggiunsero l'eremitaggio del fratello di Agastya, e
ricevuti calorosamente dal saggio vi trascorsero la notte. Il giorno
dopo Rama disse al fratello di Agastya: "Vorrei incontrare il tuo
illustre fratello". E congedatisi da lui, i tre si diressero verso
l'eremitaggio di Agastya.
Rama fece notare a Lakshmana: "Guarda questa terra prosperosa. Tutto
ciò è dovuto alla grazia del saggio Agastya. Da quando egli ha liberato
il paese dai demoni, la gente vive felice, senza paura. Perfino
persone di disposizione diabolica sono diventate tranquille e amanti
della pace. Questo è dovuto alla grazia del saggio Agastya. Tale
è il suo potere spirituale che ora nessun peccatore può più vivere
nella regione meridionale. Grazie alla gloria del saggio, gli dèi
vengono facilmente compiaciuti dagli adoratori ed esaudiscono i
loro nobili desideri". Così parlando, essi raggiunsero l'eremitaggio
di Agastya; e Rama inviò Lakshmana ad informare il saggio del loro
arrivo.
Lakshmana avvicinò umilmente un discepolo del saggio Agastya e gli
disse: "Rama, figlio di re Dasaratha, è arrivato qui insieme alla
sua sposa Sita e a me, suo servo e fratello. Egli attende d'essere
ricevuto dal saggio Agastya secondo il suo piacere".
Entrando nel santuario, Rama vide gli altari sacri dedicati alle
varie divinità invocate nei riti vedici. Quindi vide lo stesso saggio
Agastya che gli stava venendo incontro. Rama, Lakshmana e Sita si
prostrarono ai piedi del saggio, e poi rimasero in piedi con le
mani giunte. Il saggio li fece accomodare e chiese gioiosamente
come stavano; poi offrì loro dell'acqua per lavarsi mani e piedi,
e del cibo da mangiare. Infine Agastya disse: "Questo è il sacro
dovere di un asceta, Rama: dedicarsi all'adorazione del fuoco sacro
e quindi offrire acqua e cibo all'ospite; altrimenti commette un
grave peccato, il cui frutto sarà quello di mangiare la propria
carne nell'altro mondo".
Quando terminarono di mangiare, Agastya portò molte armi e missili
rari e li donò a Rama: erano stati tutti creati dall'inventore celeste
Visvakarma. Uno era stato usato dallo stesso Signore Vishnu, un
altro da Brahma, un altro ancora da Mahendra, ecc. Dopo aver spiegato
le glorie di ognuno, il saggio li donò tutti a Rama.
Poi il saggio disse: "Sono felice che tu sia venuto a trovarmi,
Rama. Trovo però che siete tutti molto stanchi; cosa ovvia dopo
un lungo viaggio. Vedo che anche Sita ha bisogno di riposo. Sono
felice che lei t'accompagni. In genere le donne sono volubili e
possono anche rinnegare il marito che ha perso la propria fortuna.
Dicono che la donna combini in sé l'irriverenza del fulmine, l'incisività
distruttrice di un'arma, e la rapidità di un uccello. Ma tua moglie
è libera da tutti questi difetti; invero ella è lodevole e il suo
stato è pari a quello di grandi donne come Arundhati.
Rama era felice che lui, suo fratello e anche Sita godevano della
stima del potente saggio. Poi si rivolse al saggio con questa preghiera:
"Signore, indicateci benignamente un posto dove possiamo costruire
un eremitaggio e trascorrere il periodo che rimane del nostro esilio".
Il saggio Agastya rispose: "Rama, non molto lontano da qui c'è un
luogo chiamato Pancavati. Quello è il posto migliore dove potete
sistemarvi, per trascorrere il resto del vostro esilio. Naturalmente
so già per intuizione tutto ciò che è successo ad Ayodhya. Penso
che Sita sarebbe felice di vivere a Pancavati, che si trova vicino
al fiume Godavari. Vivendo là, potrai mantenere la promessa fatta
a tuo padre e offrire anche protezione ai deboli e agli indifesi,
ai saggi e agli asceti".
Mentre Rama, Lakshmana e Sita procedevano verso Pancavati, lungo
il cammino videro un enorme avvoltoio. Il primo pensiero di Rama
fu che si trattasse di un demone camuffato. Ma l'avvoltoio disse:
"Sono un amico di tuo padre". Fidandosi della sua parola, Rama gli
chiese ulteriori notizie sulla sua nascita e sui suoi antenati.
L'avvoltoio disse: "Tu sai che Daksha Prajapati ebbe sedici figlie
e che il saggio Kasyapa ne sposò otto. Un giorno Kasyapa disse alle
sue mogli: "Darete alla luce figli che saranno potenti nei tre mondi".
Aditi, Diti, Danu e Kalaka ascoltarono con attenzione; ma le altre
rimasero indifferenti. Di conseguenza le prime quattro diedero alla
luce figli potenti di natura sovrumana: Aditi diede alla luce trentatré
dèi; Diti diede alla luce dei demoni; Danu diede alla luce Ashvagriva,
e Kalaka ebbe Naraka e Kalika. Infine gli uomini nacquero da Manu,
e le specie subumane dalle altre mogli di Kasyapa. Tamra ebbe per
figlia Suki, la cui nipote, Vinata, ebbe due figli: Garuda e Aruna.
Mio fratello Sampati ed io siamo figli di Aruna. Ora io offro i
miei servigi a te, Rama. Se tu ti degnerai d'accettarli, io proteggerò
Sita quando tu e Lakshmana v'allontanerete dall'eremitaggio. Come
hai visto, questa spaventosa foresta è piena d'animali feroci e
anche di demoni".
Rama accettò questa nuova amicizia, e tutti insieme si diressero
verso Pancavati in cerca di un luogo adatto per costruire un eremitaggio.
Quando arrivarono a Pancavati, che Rama riconobbe grazie alla descrizione
che gli aveva fatto Agastya, Rama disse a Lakshmana: "Ti prego,
scegli un luogo adatto per la costruzione di un eremitaggio. Esso
deve avere una bella foresta, acqua buona da bere, legna da ardere,
fiori ed erba sacra". Lakshmana rispose umilmente: "Anche se vivessimo
insieme per centinaia di anni, io continuerò ad essere il tuo servo.
Perciò, signore, scegli tu il posto ed io farò quanto è necessario.
Gioendo dell'attitudine di Lakshmana, Rama indicò il luogo adatto
che aveva tutti i requisiti di un eremitaggio. Rama disse: "Questo
terreno è sacro; è incantevole; ed è popolato da animali e uccelli.
Dimoreremo qui". E subito Lakshmana si mise al lavoro per costruire
l'eremitaggio nel quale poter vivere.
Abbracciando calorosamente Lakshmana, Rama gli disse: "Sono deliziato
dal tuo ottimo lavoro e dal tuo servizio devoto: t'abbraccio in
segno della mia ammirazione. Fratello, tu intuisci il desiderio
del mio cuore, tu sei pieno di gratitudine, tu conosci il Dharma;
avendo per figlio un uomo come te, nostro padre non è morto, ma
è eternamente vivo".
In quell'eremitaggio Rama, Lakshmana e Sita vissero con grande gioia
e felicità.
Passò del tempo. Un giorno Lakshmana andò da Rama di buon mattino
per descrivergli ciò che aveva visto fuori dell'eremitaggio, e gli
disse: "Rama, è arrivato l'inverno, la stagione che tu ami di più.
C'è un freddo secco dappertutto. La terra è coperta di cereali.
L'acqua è poco invitante e il fuoco è piacevole. I primi frutti
della messe sono stati raccolti e gli agricoltori hanno debitamente
offerto le primizie agli dèi e ai Mani (gli antenati), ribadendo
così il debito di riconoscenza nei loro confronti. L'agricoltore
che offre i primi frutti agli dèi e ai Mani viene purificato dal
peccato.
"Il sole si muove nell'emisfero meridionale; e il nord non appare
più illuminato. L'Himalaya, la dimora delle nevi, lo diventa ancora
di più! E anche a mezzogiorno è piacevole fare una passeggiata.
L'ombra di un albero, che tanto ci piaceva d'estate, ora non ci
attrae. La mattina presto la terra, con i suoi campi ricchi di grano
e di orzo, è coperta di nebbia. E così anche i campi di riso. Il
sole, anche quando sorge, è debole e fresco come la luna. Persino
gli elefanti che s'avvicinano all'acqua, la toccano con la proboscide
ma la ritirano subito indietro, perché l'acqua è troppo fredda.
"Rama, il mio pensiero va naturalmente al nostro amato fratello
Bharata. Anche in questo freddo inverno, lui che potrebbe avere
gli agi di un re preferisce dormire per terra e condurre una vita
ascetica. Certamente anche lui si sarà alzato presto stamattina,
e forse ha fatto un bagno freddo nel fiume Sarayu. Che uomo nobile!
Posso immaginarlo adesso davanti a me: con gli occhi simili ai petali
di un loto, con la pelle scura, longilineo e quasi senza pancia.
Egli conosce il Dharma. Dice sempre la verità. È modesto e autocontrollato;
parla sempre in maniera piacevole; è dolce, ha braccia possenti
e tutti i suoi nemici gli sono pienamente sottomessi. Quel nobile
Bharata ha rinunciato a tutti i suoi piaceri ed è devoto a te. Egli
si è già conquistato il suo posto nel cielo. Pur vivendo in città,
egli ha adottato un tipo di vita ascetica e segue te nello spirito.
"Ci è stato detto che un figlio assomiglia alla madre nella sua
natura: ma nel caso di Bharata questo s'è dimostrato falso. Mi chiedo
come mai Kaikeyi, pur avendo nostro padre come marito e Bharata
come figlio, si sia dimostrata tanto crudele".
Quando Lakshmana pronunciò queste parole, Rama lo fermò dicendo:
"Non parlare male di nostra madre Kaikeyi, Lakshmana. Parla solo
del nostro amato fratello Bharata. Sebbene cerchi di non pensare
ad Ayodhya e ai nostri cari che vivono là, quando penso a Bharata
desidero vederlo".
Dopo il bagno e le preghiere mattutine, Rama, Lakshmana e Sita tornarono
nel loro eremitaggio. Mentre sedevano fuori della capanna, una terribile
demonessa si presentò davanti a loro. Guardò Rama e subito s'innamorò
di lui! Il volto di Rama era bello; quello di lei era orribile.
Lui aveva i fianchi snelli; lei aveva una pancia enorme. Lui aveva
occhi grandi e dolci; lei aveva occhi sgraziati. Lui aveva capelli
morbidi e graziosi; lei aveva i capelli rossi. Lui aveva una forma
attraente; lei aveva una forma orribile. Lui aveva una voce dolce;
quella di lei somigliava al latrare di un cane. Lui era giovane;
lei era arrogante. Lui aveva grandi capacità; mentre il parlare
di lei era contorto. Lui era di spirito nobile; lei era malvagia.
Lui era amabile; lei aveva un aspetto ripugnante. Rivolgendosi a
Rama questa demonessa disse: "Chi siete, giovanotti; e che cosa
fate in questa foresta, con questa donna?".
Rama le raccontò tutta la sua storia, di Lakshmana e Sita, dell'esilio
dal regno, ecc.; e infine le chiese: "O donna incantevole, ora dimmi
chi sei tu". Subito la demonessa rispose: "Oh Rama! Adesso ti racconterò
tutto di me. Io sono Surpanakha, sorella di Ravana. Sono sicura
che hai sentito parlare di lui. Egli ha altri due fratelli, Kumbhakarna
e Vibhishana. Due altri fratelli, Khara e Dushana, vivono qui nelle
vicinanze.
Appena ti ho visto mi sono innamorata di te. Cos'hai a che fare
con questa brutta ed emaciata Sita? Sposa me, ed entrambi vivremo
in questa foresta. Non preoccuparti di Sita e Lakshmana: li divorerò
in un baleno". Ma Rama le rispose sorridendo: "Vedi, ho già mia
moglie qui con me. Perché non fai la proposta a mio fratello Lakshmana,
che non ha moglie?". Surpanakha - che era tormentata dalla passione
- non trovò male il suggerimento, e rivolgendosi a Lakshmana disse:
"Va bene. Allora sposami tu, e ce ne andremo in giro felici".
Lakshmana le rispose scherzando: "Non vedi che sono solo lo schiavo
di Rama e Sita? Perché scegli di essere la moglie di uno schiavo?
Così diventerai soltanto una serva. Convinci Rama a scacciare quella
brutta moglie e a sposare te". Surpanakha si rivolse nuovamente
a Rama: "Incapace di lasciare Sita, tu rifiuti la mia offerta. Guarda,
la divoro subito. Quando lei non ci sarà più sposerai me, e ce ne
andremo insieme felici per questa foresta". E così dicendo si scagliò
contro Sita. Rama la fermò in tempo, e disse a Lakshmana: "Che hai
fatto? Non è giusto scherzare con persone crudeli e indegne. Guarda
come sta Sita. A stento è riuscita a salvarsi la vita. Vieni, deforma
subito questa demonessa e mandala via".
Lakshmana fece guizzare la sua spada e recise il naso e le orecchie
di Surpanakha. Ella fuggì sanguinante e in lacrime, andò da suo
fratello Khara e cadde a terra davanti a lui.
Il demone Khara fu molto addolorato nel vedere la sorella Surpanakha
cadere priva di sensi davanti a lui, con il sangue che le usciva
profusamente dalle ferite causatele da Lakshmana al naso e alle
orecchie. Inginocchiatosi accanto a lei, Khara disse pieno di collera:
"Chi ti ha fatto questo? O sorella, il tuo valore è pari a quello
degli dèi e dei semidèi. Quale folle ha perpetrato questa stupida
azione, autoinvitandosi a una rapida morte per mano mia? Di certo
neanche Indra, il dio degli dèi, oserebbe offendermi. Surpanakha,
riprendi i sensi e dimmi chi è quel folle che oggi ha deciso di
morire per mano mia".
Ancora stordita, Surpanakha riprese i sensi e disse a Khara: "Oggi
ho visto nella foresta due giovani belli e potenti che hanno occhi
che somigliano a petali di loto. Sono coperti di corteccia e pelli
di daino, e vivono di frutti e radici come gli asceti, dediti all'autocontrollo,
alle austerità e al celibato. Essi sono figli di re Dasaratha, e
si chiamano Rama e Lakshmana. Con loro ho anche visto una giovane
donna bellissima e ornata di gioielli. E questo ne è il risultato.
Fratello, mi farai un grande favore se li farai uccidere: desidero
bere il loro sangue".
Terribilmente inferocito, Khara ordinò a quattordici dei suoi guerrieri
demoniaci: "Due uomini si sono permessi di entrare nella foresta
Dandaka. Andate ad ucciderli, e uccidete anche la donna che si trova
con loro. Così propizierete mia sorella: portatele da bere il sangue
di quegli esseri umani".
I quattordici demoni partirono subito insieme a Surpanakha, e quando
giunsero nell'eremitaggio videro Rama.
Anche Rama li vide, e disse a Lakshmana: "Proteggi Sita, Lakshmana!
Io mi libererò velocemente di questi demoni e sarò di ritorno".
Rama disse ai demoni: "Noi siamo asceti che vivono di frutti e radici.
Perché ci molestate? Sappiate inoltre che su richiesta dei saggi
e degli asceti che voi tormentate costantemente, noi siamo venuti
qui per uccidere i peccatori come voi".
I demoni replicarono: "Avendo provocato il nostro grande condottiero
Khara, vi siete giocati la vita. Con queste nostre armi vi uccideremo
in un istante". Dicendo questo, si lanciarono contro Rama con le
lance e le spade in pugno.
Rama spezzò le loro armi con i suoi missili, e poi li colpì con
quattordici missili contundenti, che trafissero i loro cuori. Essi
caddero a terra morti.
Atterrita dalla vista di questa fulminea strage, Surpanakha tornò
di corsa da Khara.
Vedendo ancora una volta Surpanakha rotolare a terra davanti a lui,
Khara le chiese bruscamente: "Perché ti comporti così? Ho appena
inviato i più formidabili eroi del mio esercito, che certamente
uccideranno quegli esseri umani in brevissimo tempo. Quei quattordici
eroi mi sono fedelissimi e sono invincibili in battaglia. Abbi un
po' di pazienza e smettila con quest'inutile emotività".
Surpanakha rispose: "È vero! Poco fa hai mandato quei quattordici
eroi insieme a me. Ma ora essi non esistono più! Facendo uso di
tutta la loro potenza, essi hanno attaccato Rama e Lakshmana. Hanno
scagliato le loro armi con tutta la loro forza. Ma sono morti! Con
i cuori trafitti dai missili di Rama, ora essi giacciono morti.
Dopo averli visti morti là per terra, e dopo aver visto lo straordinario
valore di Rama, sono tornata qui da te profondamente afflitta dal
dolore. Se vuoi salvare in tempo i demoni della foresta Dandaka,
devi agire con la massima rapidità. Ma il mio intelletto mi dice
che tu non hai la forza d'affrontare Rama. Tu pensi di essere potente,
mentre in realtà non lo sei. Se non riuscirai a tener testa a questi
esseri umani, per te sarà una disgrazia e una grave calamità. Perché
di certo essi distruggeranno presto tutti i demoni; incluso te,
fratello mio".
Punto sul vivo dalle sue parole, Khara le rispose: "Ti farò vedere
quanto sono potente. Non prendo neppure in considerazione l'essere
umano chiamato Rama. Dopo avermi provocato a combattere con le sue
malvagie azioni, ora può considerarsi già morto. Lo abbatterò in
un istante con la mia ascia; e tu berrai il suo sangue".
Surpanakha fu contenta di udire questa rassicurante promessa, e
cominciò a lodare e ad ispirare il fratello.
Quindi Khara diede istruzioni al suo comandante in capo Dushana:
"Ordina ai miei quattordicimila demoni di prepararsi a marciare
immediatamente. Porta subito anche il mio cocchio; desidero guidare
le gloriose armate di Pulastya, per distruggere quegli umani che
si sono permessi di sfidarci".
Ben presto portarono il cocchio, risplendente come il sole stesso,
e Khara vi montò. In poco tempo il potente esercito dei demoni fu
pronto. Quest'esercito era equipaggiato di ogni sorta di armi: mazze
di ferro, lance, clave, ecc.
Preceduto da questa potente armata, il grande e valoroso demone
Khara andò incontro a Rama, desideroso di combattere contro il nemico
umano.
Tutta la natura sembrava essere contro i demoni. Ovunque apparivano
cattivi presagi che preannunciavano la loro distruzione. Gli animali
gemevano. Nel cielo si videro nuvole spaventose e dall'aspetto minaccioso.
Il sole fu circondato da un anello rosso. Un'oscurità paurosa s'impossessò
della terra. La gente era confusa e non distingueva una direzione
dall'altra. Ci fu una lunghissima eclisse solare. La terra tremava.
Ci furono tempeste di polvere e di grandine.
Cattivi presagi apparvero anche sul corpo di Khara. Il braccio sinistro
cominciò a pulsargli. Gli venne un dolore nella fronte. Però nessuno
di questi segni ebbe il minimo effetto su di lui! Egli era troppo
sicuro della propria forza! Diceva infatti: "Io non mi preoccupo
come i deboli, perché sono molto forte. Potrei anche abbattere le
stelle. Non tornerò indietro, se non dopo avere ucciso Rama, Lakshmana
e Sita. Io sono invincibile; non sono mai stato sconfitto in battaglia
da nessuno. Darò soddisfazione a mia sorella, che è stata sfigurata
da Rama e Lakshmana". Circondato da dodici demoni di grande valore,
Khara marciava verso l'eremitaggio di Rama continuando a urlare.
Dushana era scortato da quattro potenti demoni.
Sentendo tutto questo, i saggi e i semidèi pregarono per la vittoria
di Rama.
Anche Rama notò i cattivi presagi, e disse a Lakshmana: "Guarda
questi sconvolgimenti nella natura, che predicono la distruzione
dei demoni. I miei missili si stanno scaldando, prevedendo che oggi
saranno usati propriamente. Vedo che il tuo viso è raggiante: e
da ciò capisco che saremo vittoriosi; poiché l'uomo che ha il volto
senza lustro alla vigilia di una battaglia perirà. Ah, Lakshmana,
odo il tumulto provocato dalle forze dei demoni che avanzano. Un
saggio deve prendere le giuste precauzioni anche contro una calamità
che non si è ancora abbattuta su di lui. Perciò desidero che tu
e Sita prendiate riparo in quella grotta, mentre io mi occupo di
queste orde di demoni. Lo so che saresti capace di ucciderli tutti:
ma stavolta desidero farlo io stesso. Ora ti prego, va'". Lakshmana
si rifugiò immediatamente nella grotta con Sita. Rama si compiacque
della sua totale ubbidienza.
Rama preparò le sue armi e i suoi missili. Gli dèi e i saggi che
assistevano alla scena lo benedirono. Alcuni di essi erano però
preoccupati: "Come potrà Rama, da solo, affrontare quattordicimila
demoni?". Presto le orde demoniache furono in vista. Rama si guardò
intorno e osservò attentamente i demoni. Nel suo furore, l'incantevole
apparenza di Rama prese l'aspetto di Rudra quando s'apprestava a
distruggere il sacrificio rituale di Daksha.
Khara e il suo potente esercito raggiunsero l'eremitaggio di Rama.
Vedendo Rama in piedi con le sue armi, pronto a colpire, Khara ordinò
al suo auriga: "Porta il mio cocchio proprio davanti a Rama". Giunto
vicinissimo a Rama, Khara cominciò ad attaccarlo con una raffica
di proiettili leggeri. Fatto questo, il demone lanciò un urlo. I
seguaci di Khara, crudeli per natura, cominciarono a scagliare contro
Rama un gran numero di armi convenzionali, compreso rami, tronchi
e pietre. A grandi frotte, i demoni si precipitarono verso l'eremitaggio
per colpire e uccidere Rama. Circondato da tutte le parti, Rama
appariva come il grande dio Rudra circondato dai suoi servi!
Il corpo di Rama aveva subito molte ferite, ma niente di serio.
Eppure egli somigliava al sole del tramonto, la cui luce è parzialmente
velata dalle nuvole della sera. Vedendo questo, gli dèi, i semidèi
e i saggi si preoccuparono. Estremamente adirato dal loro attacco
improvviso, Rama brandì la sua arma rotante, dalla quale partirono
centinaia e migliaia di missili. Egli usò i missili Nalika (quelli
con la punta d'acciaio), Naraca (fatti completamente d'acciaio)
e Vikarni (missili con il corpo spinato).
I demoni cadevano come mosche. I missili di Rama infrangevano le
armi convenzionali dei demoni. Colpiti dai missili, le teste dei
demoni si spaccavano, i loro scudi e i loro archi venivano spazzati
via, ed essi cadevano a terra come alberi abbattuti. A loro volta
essi scagliavano contro di lui lance, asce e altre armi del genere,
che però nulla potevano contro le armi di Rama. Sopraffatti da Rama,
i demoni sopravvissuti batterono in ritirata e andarono a cercare
rifugio da Khara.
Fortemente turbato dal fatto che Rama da solo avesse potuto uccidere
migliaia di demoni, Dushana si fece avanti. Anche le forze che s'erano
ritirate tornarono a dar battaglia a Rama, scagliando pietre e grossi
pezzi di legno. Rama lanciò un urlo di trionfo e usò il più potente
missile Gandharva, che gettò i demoni nella più totale confusione.
Subito dopo egli tornò alla sua arma rotante e lanciò contemporaneamente
centinaia di missili in tutte le direzioni. Tale fu l'effetto del
missile Gandharva e la velocità con cui Rama lanciava gli altri
missili, che i demoni non riuscivano a vedere i missili ma solo
Rama che impugnava l'arma. Sembrava che lui non facesse nulla: i
lanci sembravano automatici. E lo stesso Rama era nascosto dal fuoco,
che offuscava anche il sole.
Il terreno era tutto ricoperto dei corpi dei demoni morti. Le loro
armi erano spezzate; persino le pietre che avevano lanciato erano
state ridotte in polvere. Essi erano stati sconfitti completamente.
[NOTA: I demoni, con la possibile eccezione di Khara, avevano armi
non balistiche; Rama invece aveva armi balistiche sofisticate. 'Frecce
e archi' non trovano affatto posto qui.]
Affranto dalla vista dei suoi uomini caduti a migliaia, Dushana
ordinò a un battaglione di gruppi d'assalto particolarmente scelti
di combattere e uccidere Rama.
Questi attaccarono, usando come armi picche di ferro, spade, lastre
di pietra, alberi e alcuni tipi di frecce. Ma Rama intercettò e
distrusse tutte le loro armi con i suoi missili.
Infine si fece avanti Dushana in persona. Rama lo tempestò di missili,
ma Dushana restituì colpo su colpo.
Con straordinaria destrezza, Rama distrusse l'arma di Dushana. Nello
stesso tempo Rama spaccò la testa all'auriga di Dushana e abbatté
i cavalli.
Ora sia Rama che Dushana erano senza cocchio. Brandendo un'arma
pesante con innumerevoli punte fatte d'acciaio, oro e diamanti,
Dushana si scagliò contro Rama. Ma con straordinaria precisione
Rama tagliò le due braccia di Dushana, che caddero impugnando ancora
la clava d'acciaio.
Allora si fecero avanti contro Rama i tre comandanti delle forze
di Dushana. Uno brandiva una picca dal terribile aspetto, l'altro
una scimitarra, e il terzo un'ascia. Ma Rama li distrusse mentre
ancora si stavano avvicinando a lui: a Mahakapala spaccò il cranio;
con numerosi missili sconfisse Pramathi, e a Sthulaksha trafisse
gli occhi.
Il demone Khara impazzì dalla rabbia e gridò alle forze rimastegli:
"Guardate che disgrazia! Avete visto come il potente Dushana è stato
ucciso da un piccolo essere umano! E voi non fate altro che guardare.
Via, attaccate questo Rama e distruggetelo subito".
Tutti i demoni rimasti si scagliarono contro Rama, che si liberò
subito di loro usando missili che somigliavano al fuoco e che erano
adornati con oro e diamanti.
I suoi missili non andavano mai sprecati. Se c'erano cento demoni,
usava cento missili. Se c'erano mille demoni, usava mille missili
e li distruggeva tutti.
Così, da solo, combattendo a piedi come un fante, quest'essere umano
- Rama - uccise quattordicimila demoni che avevano commesso terribili
azioni. Soltanto Khara e un altro demone chiamato Trisira sopravvissero.
[NOTA: Questo capitolo menziona l'uso di oro e diamanti per la preparazione
dei missili.
Il testo originale usa un gioco di parole per descrivere l'uccisione
di questi tre eroi. Mahakapala vuol dire 'Grande Testa' e il suo
cranio viene spaccato. Pramathi è uno che sconfigge: e viene sconfitto.
Sthulaksha è 'la cavità degli occhi': e gli viene sparato nelle
cavità degli occhi.]
Quando Khara si fece avanti per combattere contro Rama, il demone
Trisira lo avvicinò e gli chiese il permesso di andare al posto
suo. Egli disse a Khara: "Ti giuro che lo ucciderò, oppure sarà
lui a uccidermi. Ti assicuro che o tu ritornerai a Janasthana felice
perché ho ucciso Rama oppure, vedendo che lui ha ucciso me, tu stesso
lo affronterai. Ma lasciami andare per primo?". Khara approvò la
sua idea.
Il demone Trisira era molto potente e fu rapido nel cominciare la
sua offensiva. Con la sua arma egli colpì Rama sulla fronte. Tuttavia
benché ferito, Rama continuò a combattere come se fosse stato colpito
con dei fiori.
Mosso da un'immensa furia, con la sua arma Rama lanciò quattro missili
che avevano le punte ricurve e che si occuparono dei cavalli. Con
otto missili, egli abbatté l'auriga. E mentre Trisira stava saltando
dal cocchio, Rama lo colpì al cuore e lo uccise.
Per ultimo si fece avanti Khara. Egli possedeva delle armi molto
potenti, e inoltre era stato istruito sull'uso di missili estremamente
potenti. Seduto sul suo cocchio, Khara scagliò molti missili contro
Rama.
Giudicando correttamente la forza del nemico, anche Rama si munì
di un'arma più potente. Quindi ebbe inizio un cruentissimo scontro
tra Rama e Khara. La potenza di fuoco sprigionata da ambedue le
parti oscurava lo stesso sole che splendeva nel cielo. Khara lanciò
contro Rama i missili Nalika, Naraca e Vikarni.
Rama sembrava veramente stanco e gravemente ferito. Approfittando
di questa situazione, Khara gli si avvicinò con l'intento di ucciderlo.
Con grandissima abilità, con un colpo solo egli abbatté l'arma di
Rama. E mentre Rama era disarmato, Khara approfittò immediatamente
per colpirlo con vari missili. L'impatto di questi missili fu così
forte che lo scudo protettivo che Rama indossava si spezzò e cadde
a terra. Alcuni missili raggiunsero anche le parti vitali del corpo
di Rama.
Con irrefrenabile ira, a questo punto Rama prese 'l'arma di Vishnu'
che il saggio Agastya gli aveva recentemente donata. Afferrandola
saldamente, Rama si scagliò contro Khara e lo colpì sei volte.
Con un colpo prese la testa di Khara, con altri due colpì le sue
braccia, e tre li diresse nel suo petto.
Nello stesso tempo Rama colpì il cocchio con un tiro che ne spezzò
il giogo; quattro colpi furono mirati ai cavalli, e il sesto s'occupò
dell'auriga.
Il demone Khara però non era ancora morto. Privato del suo cocchio,
egli saltò giù e con la clava in mano si scagliò contro Rama.
Mentre Khara avanzava con la clava in mano, Rama gli disse: "Tu
sei colpevole di un peccato incommensurabile: il peccato di tormentare
e uccidere eremiti e asceti innocenti. Anche se fosse il signore
dei tre mondi, è giusto che un peccatore di questo tipo sia scansato
da tutti. Ora stai per raccogliere il frutto del tuo peccato; poiché
in questo mondo i frutti dolorosi del peccato maturano rapidamente,
come le conseguenze di avere ingerito del cibo avvelenato. Penso
che il vero scopo per cui mio padre mi ha mandato nella foresta
è stato per permettermi di sterminare i demoni crudeli e peccatori
come te. Presto ti spazzerò via da questo mondo. Presto vedrai quegli
stessi asceti che hai torturato e ucciso: essi staranno in cielo,
mentre tu sarai precipitato nell'inferno".
Khara rispose in tono, dicendo: "Finora hai ucciso solo demoni di
forza comune; perciò pensi d'essere tanto potente! Non vantarti.
Gli eroi e i forti non si vantano, ma le azioni che fanno parlano
per loro". Detto ciò, Khara scagliò lesto la sua terribile clava
contro Rama. Bruciando tutto ciò che incontrava sul suo cammino,
la clava s'avvicinò a Rama, che però la intercettò e la distrusse
con un missile antimissile.
Rama chiese a Khara: "E questo tutto quello che puoi fare? La clava
è stata distrutta. Ora preparati ad andare incontro al tuo destino.
Quando sarai messo a dormire per sempre, la foresta Dandaka tornerà
ad essere ancora una volta la dimora dei santi che sono il rifugio
di tutte le persone del mondo?". Khara rispose: "Credo che avvicinandosi
la tua fine, tu non sappia cosa dire e cosa non dire. Durante l'ultima
ora di vita, l'uomo perde il potere di discriminare e non sa cosa
fare e cosa non fare". Tuttavia Khara era disarmato, poiché la sua
clava era stata distrutta da Rama; allora egli si guardò intorno,
in cerca di un'arma da usare: sradicò un grosso albero e lo scagliò
contro Rama. Ma questi intercettò l'albero con un suo missile. Con
una scarica di mille colpi, Rama crivellò il corpo di Khara. Nonostante
ciò il demone malvagio non morì, ma s'avvicinò ancora di più a Rama.
Rama indietreggiò di due o tre passi, e prese il missile più micidiale
che gli aveva dato il saggio Agastya. Colpito da questo, Khara cadde
a terra morto.
I saggi cantarono la gloria di Rama: "In un'ora e mezza tu hai distrutto
quattordicimila terribili demoni. Meravigliosa è la tua forza".
E continuarono: "Fu solo per questo motivo che i saggi Sarabhanga
e Sutikshna suggerirono sagacemente che tu vivessi qui. Liberati
dalla paura, i saggi riprenderanno a praticare qui le loro austerità".
Infine essi benedirono Rama. Felicissima d'essere stata testimone
delle sue gesta, Sita abbracciò Rama.
Tra i demoni che erano fuggiti all'inizio, uno (di nome Akampana)
andò direttamente a Lanka e informò Ravana.
Pieno di stupore e di collera, Ravana interrogò Akampana: "Chi ha
osato fare un gesto tanto folle? Chi è quel pazzo, essere umano
o sovrumano, che può permettersi di contrastarmi? Né Indra né Kubera,
figlio di Visrava, e neppure lo stesso Signore Vishnu può essere
felice dopo avermi contrastato! Io sono la morte per la stessa morte.
Persino il vento e il fuoco hanno paura di me. Dimmi invero: chi
ha perpetrato questo crimine?".
Tremante, Akampana disse: "Signore, è stato il giovane figlio di
re Dasaratha. Rama è così potente che davanti a lui le orde demoniache
sono cadute a centinaia e migliaia. I demoni erano talmente atterriti
che lo vedevano in qualunque direzione cercassero di fuggire per
paura d'affrontarlo! I missili che lanciava s'abbattevano sui demoni
come serpenti dalla testa infuocata che sputavano fuoco".
Ravana saltò in piedi dicendo: "Ah, è così? Andrò immediatamente
a Janasthana e ucciderò questo Rama".
Akampana continuò: "Non è così facile, Signore. Tu non conosci il
potere di Rama. Non puoi vincerlo in battaglia. Egli è capace di
squarciare il firmamento e portare giù le stelle, la luna e i pianeti.
E può sollevare la terra intera. Non solo, ma può distruggere l'intera
creazione e rifare tutto daccapo. Ti dirò io come può essere sopraffatto.
Egli ha una bellissima moglie di nome Sita, che eccelle anche gli
esseri celesti per la sua bellezza: non esiste alcuna mortale bella
come lei. Se con un tranello riuscissi ad allontanare Rama e a rapire
Sita, potresti causare la morte di Rama. Perché Rama non vivrebbe
senza Sita".
Questo piano piacque a Ravana, che la mattina seguente salì sul
suo cocchio e partì per Janasthana; là incontrò il demone Marica,
al quale disse: "Amico, mio fratello Khara e tutti i demoni di Janasthana
sono stati uccisi da Rama, il figlio di re Dasaratha. Per vendicarmi,
ho deciso di rapire Sita e provocare così la morte di Rama. Ho bisogno
del tuo aiuto".
Marica tremò al solo pensiero. "O capo dei demoni, chi ti ha dato
questo consiglio che mira alla distruzione? Certamente non un amico.
Chi ti ha dato questo consiglio e ti ispira a rapire Sita è il tuo
peggior nemico: è ovvio che egli vuole che tu prenda i denti velenosi
del cobra di cui lui ha paura! Ti prego, lascia perdere Rama e non
provocarlo. Lascia stare Sita: goditi la compagnia delle tue mogli,
e lascia che Rama si goda la compagnia di sua moglie Sita".
Ravana fece ritorno a Lanka.
Surpanakha aveva assistito alla distruzione totale dei demoni di
Janasthana, compresa quella del loro comandante supremo Khara. Scossa
dal terrore, si precipitò a Lanka, da suo fratello Ravana - che
era il re dell'isola - e lo trovò seduto con i suoi ministri in
un palazzo il cui tetto sfiorava il cielo.
Ravana aveva venti braccia e dieci teste, aveva un petto massiccio
ed era dotato di tutte le qualità fisiche di un monarca. In passato
egli aveva combattuto contro gli dèi, e anche contro il loro capo
Indra. Era espertissimo nella scienza della guerra e conosceva l'uso
dei missili celesti in battaglia. Era stato colpito dagli dèi, e
persino dal disco (l'arma rotante) del Signore Vishnu, ma non era
morto. Aveva infatti praticato austerità indicibili per un periodo
di diecimila anni, e aveva offerto in oblazione le sue stesse teste
al Creatore Brahma, ottenendo da questi il dono che non sarebbe
stato ucciso da alcun essere subumano o sovrumano (eccettuato l'uomo).
Reso spavaldo da questa invulnerabilità, il demone aveva tormentato
gli dèi e soprattutto i saggi.
Surpanakha si presentò a Ravana mostrando palesemente le amputazioni
fisiche che le aveva causato Lakshmana, e gridò al fratello davanti
all'assemblea: "Ravana, sei diventato tanto rammollito e dedito
ai piaceri dei sensi che non sei più degno di essere il re. Il popolo
perde ogni rispetto per quel re che si occupa solo dei propri piaceri
e trascura i suoi doveri reali. Il popolo s'allontana da quel re
che non ha informatori, che ha perso il contatto con il popolo e
che il popolo non riesce a vedere, e che è incapace di fare ciò
che è buono per la gente. È l'impiego di spie che rende il sovrano
'lungimirante', perché tramite loro egli vede molto lontano. Tu
hai sbagliato a non mettere le giuste spie che raccogliessero informazioni
per te. Perciò non sai che quattordicimila dei tuoi sudditi sono
stati trucidati da un essere umano. Persino Khara e Dushana sono
stati uccisi da Rama. E Rama ha assicurato agli asceti di Janasthana
- che è un tuo territorio - che d'ora in poi i demoni non faranno
loro alcun male. Ora essi sono sotto la sua protezione. Ma nonostante
tutto questo, eccoti qua: a gozzovigliare in piccoli piaceri!
"Fratello, anche un pezzo di legno, una zolla di terra o la semplice
polvere servono a qualcosa; ma quando un re decade dalla sua posizione
diventa totalmente inutile. Invece quel monarca che rimane vigile,
e che attraverso le sue spie è a conoscenza di tutto, ed è autocontrollato,
pieno di gratitudine e retto nella sua condotta - questi governa
a lungo. Svegliati e agisci, prima di perdere la tua sovranità".
Questo indusse Ravana a riflettere.
E quando la sua ira fu destata, Ravana chiese a Surpanakha: "Dimmi,
chi ti ha sfigurata in questo modo? Cosa pensi di Rama? Perché è
andato nella foresta Dandaka?".
Surpanakha diede una descrizione precisa e pittoresca dell'aspetto
fisico di Rama. Ella disse: "Rama è pari in bellezza allo stesso
Cupido; e nello stesso tempo è un guerriero formidabile. Quando
combatteva contro i demoni di Janasthana, non riuscivo neanche a
vedere cosa faceva; vedevo solo i demoni che cadevano morti sul
terreno. Tanto per darti un'idea, ti dico che in un'ora e mezza
ha ucciso quattordicimila demoni. Ha salvato me forse perché non
voleva uccidere una donna. Egli ha un fratello chiamato Lakshmana,
che è potente come lui; è il braccio destro di Rama e il suo alter-ego:
la stessa forza vitale di Rama che si muove al di fuori del suo
corpo.
"Ah, devi vedere Sita, la moglie di Rama. Non ho mai visto neanche
una ninfa celeste che le possa esser pari in bellezza. Colui che
ce l'ha per moglie e che lei abbraccia amorevolmente, sarà certamente
il re degli dèi. Lei sarebbe la moglie adatta a te; e tu saresti
davvero il pretendente più adatto a lei. Volevo infatti portarti
qui la bellissima Sita, ma Lakshmana è intervenuto e ha mutilato
crudelmente il mio corpo. Se tu la guardassi solo per un attimo,
t'innamoreresti immediatamente di lei. Se questa proposta t'interessa,
fai subito qualcosa e portala qui".
Ravana fu subito tentato, e diede ordine di preparare immediatamente
il suo veicolo anfibio. Questo veicolo, riccamente decorato d'oro,
poteva muoversi liberamente dovunque volesse il pilota. La sua parte
frontale aveva l'aspetto di muli dalle teste diaboliche. Ravana
prese posto nel veicolo e si diresse verso il mare.
La costa di Lanka era cosparsa d'eremitaggi abitati sia da saggi
che da esseri celesti e semidivini. Inoltre era luogo di villeggiatura
di ninfe ed esseri celestiali, che andavano là a fare sport e a
divertirsi. Guidando a velocità elevata in mezzo a loro, Ravana
attraversò interi campeggi pieni di veicoli spaziali dei celestiali.
Attraversò anche dense foreste d'alberi di sandalo, e piantagioni
di banane e di palme da cocco. In quelle foreste c'erano anche spezie
e piante aromatiche. Lungo la costa si potevano trovare perle e
pietre preziose. Poi attraversò delle città che avevano un'aria
opulenta.
Ravana attraversò l'oceano nel suo veicolo anfibio e raggiunse l'eremitaggio
dove Marica viveva da asceta, sostenendosi con una dieta disciplinata.
Marica diede il benvenuto a Ravana e gli chiese la ragione della
sua visita.
Ravana disse a Marica: "Tu sai che quattordicimila demoni, incluso
mio fratello Khara ed il grande guerriero Trisira, sono stati uccisi
senza pietà da Rama e Lakshmana, che hanno ora promesso la loro
protezione agli asceti della foresta Dandaka, burlandosi così della
nostra autorità. Scacciato dal suo paese dal padre adirato, ovviamente
per aver commesso qualche azione deplorevole, questo principe ingiusto
e crudele ha ucciso i demoni senza alcuna giustificazione. E i due
fratelli hanno osato persino sfigurare la mia amata sorella Surpanakha.
Devo fare immediatamente qualcosa per vendicare la morte di mio
fratello e per riaffermare il nostro prestigio e la nostra autorità.
Ho bisogno del tuo aiuto; ti prego di non rifiutare questa volta.
"Prendendo le sembianze di un cervo dorato di grande bellezza, avvicinati
all'eremitaggio di Rama. Sita verrà sicuramente attratta, e chiederà
a Rama e a Lakshmana di catturarti. E mentre essi correranno dietro
a te, lasciando Sita da sola nell'eremitaggio, riuscirò facilmente
a rapirla". Mentre Ravana stava ancora spiegando il suo piano, la
bocca di Marica inaridì per la paura.
Trepidante, Marica disse a Ravana: "In questo mondo è facile trovare
un consigliere che ti dice ciò che ti piace; ma è assai difficile
trovare un saggio consigliere che ti dica la spiacevole verità che
è bene per te; e ancora più difficile è trovare uno che segua tale
consiglio. Sicuramente il tuo sistema informativo è carente, perciò
non hai idea del valore di Rama. Altrimenti non penseresti di rapire
Sita. Mi chiedo: forse Sita è venuta al mondo per porre termine
alla tua vita, o forse a causa sua dovrà esserci molto dolore, o
forse reso folle dalla lussuria tu vuoi distruggere te stesso, i
demoni e la stessa Lanka. Oh no, ti sei sbagliato nella stima che
hai fatto di Rama. Egli non è malvagio, ma è la giustizia incarnata.
Non ha il cuore crudele, ma è generoso fino all'eccesso. Non è stato
destituito ed esiliato dal regno, ma è venuto qui dopo aver rinunciato
gioiosamente al suo regno per onorare la promessa che suo padre
fece a sua madre Kaikeyi.
"O re, quando covi l'idea di rapire Sita, stai scherzando davvero
col fuoco. Ti prego di ricordare: quando starai di fronte a Rama,
sarai faccia a faccia con la tua morte. Sita è l'amatissima moglie
di Rama, il quale è estremamente potente. Abbandona quest'idea pazzesca.
Cosa guadagneresti mettendo a repentaglio la tua sovranità sui demoni
e la tua stessa vita? Ti prego, prima d'imbarcarti in questi folli
progetti, consulta il nobile Vibhishana e i tuoi virtuosi ministri.
Sono sicuro che essi ti consiglieranno di non seguirli".
Marica continuò: "Ti voglio raccontare dei miei incontri personali
con Rama Molto tempo fa ero giovane ed energico, potente e orgoglioso
della mia forza. Avevo assunto la terribile forma di una nuvola
enorme. Ero il terrore degli asceti della foresta, perché dissacravo
i loro riti sacri. Un giorno il saggio Visvamitra s'apprestava a
compiere un rito sacro, e per proteggerlo dalle nostre molestie
si recò da re Dasaratha e chiese l'aiuto di Rama perché custodisse
l'altare. Dasaratha lo implorò dicendo che Rama era troppo giovane
per questo. Però Visvamitra assicurò il re che, benché giovane,
Rama era l'unico capace di far fronte ai demoni, e ottenne che Rama
l'accompagnasse nel suo eremitaggio.
"Mentre si svolgeva il rito sacro, mi recai come al solito all'eremitaggio.
Vedendo fuori il giovane Rama, cercai d'entrare; ma egli mi tirò
un missile, dal quale fui scagliato lontanissimo, nell'oceano! Rama
era capace di tanto anche quand'era appena un bambino! Come possiamo
avere un'idea della sua forza attuale? E come puoi affrontarlo in
battaglia? Se deciderai di portare avanti il tuo piano, sicuramente
tutti ne soffriremo. In questo mondo la gente soffre anche a causa
dei peccati altrui, come soffrono i pesci che vivono in uno stagno
infestato di serpenti. È un grande peccato commettere adulterio.
Desisti e goditi le tue mogli, o re.
"Ascolta pure del secondo incontro che ho avuto con Rama, più recentemente.
Giravo per la foresta con un paio di altri demoni, molestando e
uccidendo asceti e bevendo il loro sangue. Nel corso del nostro
vagare giungemmo dove viveva Rama in quel tempo. Assunta la forma
di un cervo, mi precipitai verso Rama, pensando che vivendo nella
foresta come un asceta egli sarebbe stato debole e impotente. Invece
egli prese la sua arma e ci tirò un paio di missili. Conoscendo
già il frutto della sua ira, mi dileguai ed egli non m'inseguì.
Ma gli altri furono uccisi.
"Così salvato miracolosamente per la seconda volta, ho abbandonato
la crudeltà e ora vivo qui da asceta, praticando lo yoga e l'autocontrollo.
In ogni albero io vedo Rama soltanto, con la sua arma in mano. L'intera
foresta mi appare come Rama. Persino le parole che iniziano con
la sillaba 'ra' - come ratna, ratha - mi fanno tremare. Egli può
uccidere facilmente tutti i tuoi soldati e generali; su questo non
devi avere alcun dubbio. Conosco personalmente il suo valore. Se
tu ti opporrai a lui, soffriranno anche molte persone innocenti.
Di certo Rama sterminerà completamente la razza dei demoni. Se ha
ucciso Khara è stata colpa sua, perché ha provocato Rama e ha causato
il combattimento. Se non accetterai il mio consiglio, o re, periremo
tutti".
Il consiglio di Marica non piacque a Ravana. Egli non l'accettò,
come uno che vuole morire si rifiuta di prendere una medicina salutare.
Al contrario, egli rimproverò severamente Marica, dicendo: "Il tuo
consiglio è mal concepito ed inutile. Tu non m'impedirai di rapire
Sita, che a Rama è più cara della vita stessa e senza la quale non
potrebbe vivere. Quello che hai detto sarebbe stato appropriato
se ti avessi chiesto un consiglio: ma in questo momento io non voglio
il tuo consiglio, voglio assoluta obbedienza ai miei ordini. Mi
duole, Marica, che tu non sappia come comportarti con il tuo re.
Al re ti devi rivolgere con dolcezza dicendo cose non sfavorevoli,
ma benefiche, dette umilmente ed educatamente. I re sono come il
fuoco, Indra, la luna, Yama (il dio della morte) e Varuna (il dio
delle acque). Perciò i re posseggono l'impeto del fuoco, la magnificenza
di Indra, la gentilezza della luna, l'imparzialità di Yama e la
fluidità dell'acqua. Per questo bisogna comportarsi cautamente con
i re. Non ho chiesto il tuo consiglio, ma ti sto chiedendo di fare
un lavoro per me. Se lo farai, ti darò metà del regno di Lanka;
se rifiuterai, ti ucciderò subito. Ti conviene decidere d'obbedire.
Assumi la forma di un cervo dorato e tenta Sita. Dietro sua richiesta,
certamente Rama t'inseguirà. Dopo averlo allontanato, grida: "O
Sita, o Lakshmana". Udendo ciò anche Lakshmana andrà in cerca di
Rama, lasciando Sita da sola. Allora mi sarà facile portarla via.
Può darsi che questo metta a repentaglio la tua vita, ma la tua
morte è certa se mi disubbidisci".
Malgrado la minaccia, impavidamente Marica consigliò ancora a Ravana:
"Chi ti ha dato questo consiglio è un grande peccatore. È dovere
dei ministri dare giusti consigli al re: i tuoi ministri hanno fallito
in questo e devono essere giustiziati. Quando un re prende una malvagia
direttiva, i suoi ministri devono frenarlo: i tuoi ministri non
l'hanno fatto. Il ministro che lo fa ottiene la grazia del Signore,
e da questa ottiene prosperità e felicità. Se egli non lo fa, e
il re persiste nella sua via malvagia, tutti, incluso i ministri,
ne soffriranno. I ministri che incoraggiano il re ad indulgere nella
violenza e nel male vengono distrutti insieme al re. Infatti tutto
ciò che il re fa coinvolge inevitabilmente tutti i suoi sudditi,
che ne subiscono ugualmente le conseguenze. Se farò quello che vuoi,
di certo Rama mi ucciderà prontamente; e poco dopo ucciderà anche
te. In questo caso mi considererò beato, perché andrò incontro alla
morte per mano di Rama stesso, che è da preferirsi. Se invece riuscirai
a portare Sita a Lanka, stai pur sicuro che sarà la tua fine. Né
i demoni né Lanka sopravviveranno".
Ravana era determinato, e Marica sapeva bene che era inutile discutere
con lui. Perciò, dopo l'ultimo tentativo d'evitare la catastrofe,
Marica rassegnato disse a Ravana: "Cosa posso fare se sei tanto
malvagio? Sono pronto a recarmi nell'ashram di Rama. Che Dio ti
aiuti!".
Senza badare al rimprovero, Ravana espresse freddamente la sua gioia
per il consenso ottenuto. Egli lodò Marica dicendo: "Questo è lo
spirito giusto, amico mio: ora sei tornato il vecchio Marica che
conoscevo prima. Penso che pochi minuti fa eri posseduto da qualche
spirito maligno, e a causa sua avevi cominciato a predicare un vangelo
diverso. Presto, montiamo su questo veicolo e raggiungiamo la nostra
destinazione. Appena avrai fatto la tua parte, sarai libero d'andartene
e di fare quel che più vorrai!".
Quindi Marica e Ravana salirono sul veicolo anfibio, che ora funse
da velivolo, e lasciarono rapidamente l'eremitaggio di Marica. Ancora
una volta attraversarono foreste, colline, fiumi e città: e presto
raggiunsero i dintorni dell'eremitaggio di Rama.
Scesero dal velivolo decorato d'oro. Tenendo Marica per mano, Ravana
gli disse: "Laggiù c'è l'eremitaggio di Rama, circondato da piantagioni
di banane. Bene, ora vai e comincia a fare il lavoro per cui siamo
venuti qui".
Immediatamente Marica si trasformò in un cervo attraente. Era straordinario,
totalmente diverso da qualunque altro cervo che abitasse la foresta.
Era unico. Risplendente come una gemma enorme. Ogni parte del suo
corpo era di colore diverso. I colori avevano uno splendore e un
fascino soprannaturale.
Abbellito e decorato dai colori splendenti di tutte le pietre preziose,
il cervo - che in realtà era il demone Marica mascherato - cominciò
ad andare in giro nei pressi dell'eremitaggio di Rama, brucando
l'erba di tanto in tanto.
Ad un tratto s'avvicinò a Sita; poi corse via e si unì agli altri
cervi che pascolavano ad una certa distanza. Era molto giocoso,
saltellava e si rincorreva la coda roteando.
Sita era uscita a raccogliere dei fiori, quando vide di sfuggita
quel cervo straordinario e fuori del comune. Notando il suo sguardo,
anche il cervo s'avvicinò a lei, sentendo così vicino il compimento
della sua missione. Poi scappò via, fingendosi timoroso.
Sita rimase stupefatta alla sola vista di quel cervo inconsueto
di cui non aveva mai visto alcun pari e i cui colori sembravano
tanti gioielli.
Dal luogo in cui stava raccogliendo fiori, Sita, piena di meraviglia
nel vedere quel cervo straordinario, chiamò forte Rama: "Vieni presto
a vedere, Signore; vieni con tuo fratello. Guarda questa creatura
straordinaria. Non ho mai visto un cervo così bello".
Rama e Lakshmana guardarono il cervo, e in Lakshmana sorse il sospetto:
"Sono diffidente; penso che si tratti del solito demone Marica mascherato.
Ho sentito dire che Marica può assumere qualunque forma desideri,
e che con questo trucco ha causato la morte e la distruzione di
molti asceti in questa foresta. Sicuramente questo non è un vero
cervo: non si è mai sentito parlare di un cervo con i colori dell'arcobaleno,
con ognuna delle sue parti che brilla dello splendore di una gemma
diversa! Già questo dovrebbe farci capire che è un demone, e non
un animale".
Sita interruppe il discorso di Lakshmana e disse: "Non importa,
una cosa è certa; questo cervo ha accattivato la mia mente. È così
caro. Non ho mai visto un tale animale vicino al nostro eremitaggio!
Ci sono tanti tipi di cervi che girano intorno all'eremitaggio,
ma questo è straordinario e fuori del comune. È superlativo in tutti
i sensi: i suoi colori sono meravigliosi, la sua forma è affascinante
e anche la sua voce è deliziosa. Sarebbe fantastico se si potesse
prenderlo vivo. Potremmo tenerlo come nostro beniamino, per distrarci
la mente. Poi potremmo portarlo ad Ayodhya: sono sicura che i tuoi
fratelli e le tue madri lo adorerebbero. Se non fosse possibile
catturarlo vivo, allora lo si potrebbe uccidere; amerei tanto averne
la pelle. Lo so che non mi sto comportando bene con voi due: ma
non posso farci niente; ho perso il mio cuore per quel cervo. Sono
terribilmente curiosa".
In realtà anche Rama era curioso! Perciò parteggiò per Sita, e disse
al fratello: "È bellissimo Lakshmana. È fuori del comune. Non ho
mai visto una creatura come questa. I principi vanno a caccia di
animali e conservano le loro pelli. Con lo sport e la caccia essi
acquistano molte ricchezze! Si dice che la vera ricchezza sia quella
che uno persegue senza premeditazione. Perciò cerchiamo di prendere
il cervo o la sua pelle. Se, come dici tu, è un demone mascherato,
allora sarà mio dovere ucciderlo; come Vatapi, che tormentava e
uccideva saggi e asceti, fu giustamente ucciso dal saggio Agastya.
Vatapi si fece beffe degli asceti finché non incontrò Agastya. Anche
questo Marica si è fatto beffe degli asceti finora: ma oggi è venuto
da me! La bellezza stessa del suo manto è la sua morte. E tu Lakshmana,
ti prego, custodisci Sita con estrema attenzione, finché non avrò
ucciso questo cervo con un colpo solo e non avrò riportato la sua
pelle".
Rama si armò e inseguì quello strano cervo, che vistosi cacciato
cominciò a scappare lontano. Ora scompariva, ora sembrava molto
vicino; ora correva veloce, ora sembrava confuso - in questo modo
però condusse Rama molto lontano dall'eremitaggio. Rama era stanco
e aveva bisogno di riposare.
Fermatosi sotto un albero, Rama rimase perplesso dal comportamento
dello strano cervo; mentre questi s'avvicinò insieme ad altri cervi
e cominciò a pascolare non lontano da lui. Quando Rama riprese l'inseguimento,
esso scappò lontano. Ma Rama non voleva più andare oltre, né perdere
altro tempo, e presa l'arma, la caricò con il missile di Brahma
e tirò. Il missile penetrò le sembianze illusorie di cervo e trafisse
il cuore stesso del demone.
Marica gridò forte, saltò alto nel cielo e poi cadde a terra morto.
Cadendo, però, ricordò le istruzioni di Ravana e, imitando la voce
di Rama, gridò ad alta voce: "Ehi Sita! Ehi Lakshmana!".
Rama vide il terribile corpo del demone. Ora sapeva che Lakshmana
aveva ragione. Ma ciò che lo sconcertò di più fu il modo in cui
il demone aveva gridato prima di morire. Pieno d'apprensione, egli
s'affrettò verso l'eremitaggio.
Nell'eremitaggio, Sita e Lakshmana udirono quel grido. Credendo
che si trattasse della voce di Rama, Sita fu presa dal panico e
disse a Lakshmana: "Presto va', tuo fratello è in pericolo. E io
non posso vivere senza di lui. Il mio respiro e il mio cuore sono
molto agitati".
Ma ricordando l'ammonimento di Rama di proteggere Sita e non lasciarla
mai sola, Lakshmana le disse di non preoccuparsi.
Sita però divenne sospettosa e furiosa, e gli disse: "Ah, adesso
capisco la tua trama! Tu hai posto gli occhi su di me e aspettavi
che accadesse questo. Quale tremendo nemico di Rama sei tu, che
ti fingi suo fratello!".
Addolorato dalle sue parole, Lakshmana rispose: "Nessuno nei tre
mondi può sconfiggere Rama, o donna beata! Non era affatto la sua
voce. Questi demoni sono capaci di simulare qualsiasi voce. Avendo
ucciso quel demone mascherato da cervo, Rama sarà presto qui. Non
aver paura!".
Ma la sua calma turbò ancora di più Sita, che esplose letteralmente
di rabbia e disse: "Tu sei il peggiore nemico che Rama potesse avere.
Lo so che tu ci hai seguiti, fingendoti astutamente fratello e amico
di Rama. Ora so che il tuo vero scopo è avere me, oppure sei un
complice di Bharata. Ma non riuscirai. Adesso stesso mi toglierò
la vita, perché non posso vivere senza Rama".
Profondamente ferito dalle terribili parole di Sita, Lakshmana le
disse: "Per me tu sei degna d'adorazione: perciò non posso risponderti.
Non c'è da meravigliarsi che le donne si comportino in questo modo:
esse infatti sviano facilmente dal Dharma; sono volubili e hanno
la lingua tagliente. Non posso sopportare quello che hai appena
detto. Perciò andrò. Gli dèi sono testimoni di quanto è successo
qui. Possano gli dèi proteggerti. Ma dubito che quando Rama ed io
torneremo, ti troveremo qui". E inchinandosi a lei, Lakshmana partì.
Ravana stava aspettando quest'occasione d'oro. Egli prese le sembianze
di un asceta. E ricoperto di vestiti color ocra, portando con sé
una conchiglia come ciotola per l'acqua, un bastone e un ombrello,
egli si avvicinò a Sita che stava ancora in piedi fuori della capanna,
aspettando ansiosamente il ritorno di Rama.
La presenza stessa di Ravana in quella foresta faceva presagire
una disgrazia. Persino gli alberi e le acque dei fiumi avevano,
per così dire, paura di lui. Mascherandosi da uomo santo, Ravana
si presentò davanti a Sita: come un pozzo profondo coperto di paglia,
una trappola mortale.
Guardando fisso la nobile Sita, che si era ritirata nella capanna
con gli occhi grondanti di lacrime, Ravana le si avvicinò; e sebbene
il suo cuore fosse colmo di lussuria, egli cantava degli inni vedici.
Usando un tono dolce, tenero e affettuoso, Ravana disse a Sita:
"Giovane donna! Dimmi, sei tu la dea della fortuna o la dea della
modestia, o sei forse la consorte dello stesso Cupido?". Poi Ravana
descrisse l'incomparabile bellezza di Sita in termini apertamente
immodesti, assolutamente indegni di un anacoreta, di cui aveva assunto
la forma. E continuò: "O donna incantevole! Tu mi hai rubato il
cuore. Non ho mai visto una donna così bella, né tra gli esseri
divini né tra quelli semidivini. La tua forma straordinaria, la
tua giovinezza, e il fatto che vivi in questa foresta, tutte queste
cose messe insieme turbano la mia mente. Non è giusto che tu debba
vivere in questa foresta. Dovresti vivere in una reggia. Nella foresta
ci vivono le scimmie, i leoni, le tigri e gli altri animali selvatici.
La foresta è l'ambiente naturale dei demoni, che ci si muovono liberamente.
Tu vivi da sola in questa foresta spaventosa: non hai paura, amabile
donna? Ti prego, dimmi, perché vivi in questa foresta?".
Ravana aveva l'apparenza esteriore di un brahmana. Perciò Sita gli
offrì la venerazione e l'ospitalità che era suo dovere offrire a
un brahmana. Lo fece accomodare e gli diede dell'acqua per lavarsi
i piedi e le mani. Quindi mise del cibo davanti a lui.
Tutto quello che lei faceva aumentava soltanto la lussuria di Ravana
e il suo desiderio di rapirla e portarla con sé a Lanka.
Allora Sita rispose alle sue domande. Egli sembrava un brahmana
e, se non avesse risposto alle sue domande, avrebbe potuto adirarsi
e maledirla. Sita disse: "Sono figlia del nobile re Janaka; il mio
nome è Sita. Sono l'amata consorte di Rama. Dopo il nostro matrimonio,
Rama ed io abbiamo vissuto nel palazzo di Ayodhya per dodici anni".
Quindi gli narrò sinceramente tutto quello che successe prima dell'esilio
di Rama nella foresta; e continuò: "Perciò, quando Rama aveva venticinque
anni e io diciotto, lasciammo il palazzo reale e cominciammo la
vita nella foresta. Ora noi tre viviamo in questa foresta. Mio marito,
Rama, tornerà presto portando della selvaggina e vari frutti selvatici.
Ora vi prego di dirmi chi siete voi, brahmana, e cosa fate in questa
foresta tutto solo".
Ravana non perse tempo e, rivelando la sua vera identità, disse:
"Io non sono un brahmana, Sita: io sono Ravana, il signore dei demoni.
Il mio stesso nome incute terrore nel cuore degli dèi e degli uomini.
Appena t'ho vista, ho perso il mio cuore per te; e non traggo più
alcun piacere dalla compagnia delle mie mogli. Vieni con me e sii
la mia regina, Sita. Amerai Lanka, la mia capitale, circondata dal
mare e situata in cima a un monte. Là vivremo insieme, e ti godrai
la vita, e non penserai più nemmeno una volta a questa miserabile
vita nella foresta".
Udendo questo, Sita s'infuriò e disse: "Io ho deciso fermamente
di seguire Rama, che è pari al dio degli dèi, potente, leggiadro
e devoto alla giustizia. O re dei demoni, nutrire un desiderio per
me che sono sua moglie equivale a legarsi un macigno intorno al
collo e cercare d'attraversare a nuoto l'oceano: si è condannati
a morte. Non puoi neanche paragonarti a lui: tu sei come uno sciacallo,
mentre lui è il leone; tu sei come un metallo comune, e lui è l'oro".
Ravana però non rinunciò al suo desiderio, anzi ripetè: "Neanche
gli dèi osano stare davanti a me, o Sita! Timoroso di me persino
Kubera, il dio della prosperità, abbandonò il suo veicolo spaziale
e scappò sul Kailash. Se gli dèi, comandati da Indra, hanno solo
un presentimento della mia ira, si dileguano. Anche le forze della
natura mi obbediscono. Lanka è circondata da mura possenti. Le case
sono costruite d'oro, con le porte incastonate di pietre preziose.
Dimentica questo Rama, che vive come un asceta, e vieni con me.
Lui non ha neppure la forza del mio dito mignolo!". Sita era su
tutte le furie: "Certo comportandoti così tu vuoi la distruzione
di tutti i demoni. E non potrebbe essere altrimenti, visto che hanno
un re tanto indegno, privo di autocontrollo. Potresti sopravvivere
dopo aver rapito la moglie di Indra, ma non dopo aver rapito me,
la moglie di Rama".
Ravana fece crescere enormemente il suo corpo e disse a Sita: "Tu
non ti rendi conto di quanto io sia potente. Posso fare un passo
nello spazio e sollevare la terra con le mie braccia; posso bere
le acque degli oceani; e posso uccidere la stessa morte. Posso lanciare
un missile e far scendere il sole. Guarda le dimensioni del mio
corpo".
Mentre egli espandeva la sua forma, Sita volse lo sguardo da lui.
Riprendendo la sua forma originaria con dieci teste e venti braccia,
Ravana si rivolse nuovamente a Sita: "Non ti piacerebbe diventare
famosa nei tre mondi? Sposami dunque, e io ti prometto che non farò
nulla per dispiacerti. Togliti dalla mente quel Rama mortale e insignificante".
Ravana non attese una risposta: afferrando Sita per i capelli e
sollevandola con le sue braccia, egli lasciò l'eremitaggio. Subito
l'aureo veicolo spaziale gli fu davanti, ed egli vi salì insieme
a Sita.
Mentre veniva portata via Sita gridò forte: "O Rama". Poi gemette
ad alta voce: "O Lakshmana, sempre devoto al tuo fratello maggiore,
non sai che Ravana mi sta portando via?". E a Ravana disse: "Vile
demone, tu raccoglierai i frutti di quest'azione malvagia, anche
se non si manifesteranno immediatamente". Poi disse come tra sé:
"Certamente Kaikeyi sarebbe felice oggi". E rivolta agli alberi,
al fiume Godavari, alle divinità della foresta, agli animali e agli
uccelli, disse: "Vi prego, dite a Rama che sono stata portata via
dal malvagio Ravana". Infine vide Jatayu e gridò forte: "Jatayu!
Guarda, Ravana mi sta portando via".
Udendo quel grido d'aiuto, Jatayu si svegliò e si precipitò da Ravana
dicendo: "Io sono Jatayu, il re degli avvoltoi. Ti supplico Ravana,
desisti da questa azione indegna di un re. Anche Rama è un re, e
la sua consorte è degna della nostra protezione. Un saggio non deve
indulgere in azioni che lo disonorano davanti agli altri. E la moglie
di un altro è degna di protezione quanto la propria. Sia gli eruditi
che la gente comune spesso emulano l'esempio del re; ma se lo stesso
re si rende colpevole d'indegna condotta, cosa sarà del popolo?
Se tu persisti nella tua malvagità, anche la prosperità di cui godi
ti lascerà presto.
"Perciò t'invito a lasciare andare Sita. Non bisogna accollarsi
un peso superiore a quello che si può portare; non bisogna mangiare
quello che non si riesce a digerire. Chi mai indulgerà in un'azione
che è causa di dolore e che non promuove la giustizia, la fama o
la gloria permanente? Io ho sessantamila anni e tu sei giovane.
Ti avverto. Se non lasci andare Sita, non riuscirai a portarla via
finché io sarò vivo e capace di fermarti! Ti abbatterò insieme al
tuo veicolo spaziale".
Non potendo tollerare quest'insulto, Ravana si volse contro Jatayu
pieno di collera. Jatayu colpì il velivolo e lo stesso Ravana, il
quale a sua volta restituì ferocemente il colpo a Jatayu.
Il combattimento aereo tra Ravana e Jatayu appariva come la collisione
tra due montagne alate. Ravana usò tutti i missili convenzionali:
i Nalika, i Naraca e i Vikarni. Ma il poderoso uccello se li scrollò
di dosso. Jatayu squarciò la calotta del velivolo e ferì lo stesso
Ravana.
Con grande veemenza Jatayu strappò l'arma (un cannone) dalle mani
di Ravana e la spezzò con i suoi artigli. Ravana prese un'arma ancora
più terribile, che lanciò letteralmente una pioggia di missili.
Contro di essi Jatayu usò le sue stesse ali come scudi efficaci.
Lanciandosi anche su quest'arma, Jatayu la distrusse con i suoi
artigli e lacerò perfino l'armatura di Ravana. Non solo, ma danneggiò
anche i propulsori dorati del velivolo spaziale di Ravana, che avevano
la forma di demoni; e così danneggiò il mezzo che avrebbe potuto
portare il suo occupante dovunque avesse desiderato. Il velivolo
prese fuoco. Con il suo potente becco, Jatayu dilaniò il collo del
pilota di Ravana.
Poiché il velivolo spaziale era stato messo temporaneamente fuori
uso, Ravana saltò fuori, trattenendo ancora Sita col suo braccio
poderoso.
Mentre Ravana era ancora sospeso in aria, Jatayu lo sfidò di nuovo:
"Essere malvagio, neanche adesso vuoi desistere dal male. Di certo
hai deciso di provocare la distruzione dell'intera razza dei demoni.
Inconsapevolmente o volontariamente tu stai ingoiando del veleno
che certamente ucciderà te e tutta la tua stirpe. Rama e Lakshmana
non tollereranno la tua azione peccaminosa: e tu non potrai contrastarli
sul campo di battaglia. L'azione indegna che stai commettendo è
riprovevole. Ti stai comportando come un ladro, non come un eroe".
Jatayu si lanciò su Ravana e gli lacerò il corpo con violenza.
Quindi ci fu un violento scontro frontale tra i due. Ravana colpì
Jatayu con un pugno, ma Jatayu riuscì a strappare le braccia del
demone. Immediatamente però gliene crebbero altre.
Ravana colpì Jatayu, prendendolo con un calcio. Dopo un po' Ravana
sguainò la sua spada e recise le ali di Jatayu. Privato delle sue
ali, Jatayu cadde morente.
Vedendo Jatayu a terra, Sita si precipitò da lui piena d'angoscia,
come sarebbe accorsa al fianco di un parente intimo. Affranta da
un'inconsolabile dolore, Sita cominciò a lamentarsi a gran voce.
Mentre Sita gemeva vicino a Jatayu, Ravana le si avvicinò. Guardandolo
con infinito disprezzo, Sita gli disse: "Vedo presagi terribili,
Ravana. Sia i sogni che il comportamento e le grida degli animali
e degli uccelli sono chiari segni delle cose a venire, ma tu non
li noti! Ahimè, ecco Jatayu, il caro amico di mio suocero che sta
morendo per me. O Rama, o Lakshmana salvatemi, proteggetemi!".
Ravana l'afferrò di nuovo con la forza e la portò dentro il velivolo,
che era stato rimesso in condizioni di volare. Il Creatore, gli
dèi e gli esseri celesti che avevano assistito a tutta la scena
esclamarono: "Evviva! Il nostro scopo verrà sicuramente raggiunto".
Anche i saggi della foresta Dandaka gioirono interiormente al pensiero:
"Ora che questo demone malvagio ha toccato Sita, la sua fine e quella
di tutti i demoni è vicina". Mentre veniva portata via da Ravana,
Sita gridava piangendo: "O Rama, o Lakshmana".
Tenuta stretta in grembo da Ravana, Sita era nella tristezza più
assoluta. Il suo volto esprimeva angoscia e dolore. I petali dei
fiori caduti dalla sua testa si sparsero un po' sul corpo di Ravana.
Lei aveva una bella carnagione dorata, mentre lui era scuro. Seduta
sul suo grembo, ella sembrava un fiocco d'oro indosso a un elefante,
o come la luna che splende in mezzo ad una nube tenebrosa, o come
il bagliore di un fulmine in una densa nuvola nera.
Il veicolo spaziale balenava nel cielo rapido come una meteora.
Sulla terra sottostante, gli alberi ondeggiavano come per rassicurare
Sita dicendo: "Non temere". Le cascate sembravano lacrime che uscivano
dalle montagne, e le persone dicevano tra loro: "Davvero il Dharma
non esiste più, visto che Ravana sta portando via Sita".
Ancora una volta Sita rimproverò Ravana: "Dovresti vergognarti di
te stesso. Ti vanti del tuo valore; ma mi stai portando via come
un ladro! Tu non mi hai vinta in duello, cosa che sarebbe stata
considerata eroica. Ora per moltissimo tempo a venire si parlerà
della tua ignominia, e il tuo atto ingiusto e deplorevole sarà ricordato
dalla gente. Mi stai portando via a tale velocità che nessuno può
fare qualcosa per fermarti. Se solo avessi il coraggio di fermarti
per qualche attimo, ti ritroveresti morto. Il mio Signore Rama e
suo fratello Lakshmana non ti risparmieranno. Lasciami andare, demone!
Ma tu non vuoi ascoltare ciò che è bene per te. Proprio come chi
è arrivato alla soglia della morte ama solo cose dannose. Rama scoprirà
presto dove sono e tu sarai mandato nel mondo dei morti".
Ravana continuò il suo volo, benché di tanto in tanto la paura lo
facesse trepidare.
Il veicolo spaziale volò su colline e foreste e s'avvicinò all'oceano.
In quel momento Sita vide sul terreno sottostante cinque forti vanara
seduti a guardare con curiosità il velivolo. Con un rapido movimento,
Sita si tolse i gioielli, li avvolse nello scialle che aveva sulle
spalle e gettò il tutto in mezzo ai vanara, nella speranza che se
per caso Rama fosse passato di là, essi avrebbero potuto dargli
un'indicazione della direzione in cui era stata portata via.
Ravana non s'accorse di nulla e continuò a volare. Ora il velivolo,
che si muoveva nello spazio a forte velocità, stava sorvolando l'oceano.
Poco dopo Ravana atterrò a Lanka insieme alla prigioniera Sita.
Quindi Ravana fece stabilire Sita nei suoi appartamenti privati,
affidandola alle cure di alcune delle sue ancelle principali. E
disse loro: "Prendetevi grande cura di Sita; che nessun maschio
s'avvicini a questi appartamenti senza un mio preciso permesso;
fate in modo che Sita possa avere tutto ciò che desidera. Qualsiasi
negligenza da parte vostra vorrà dire morte immediata".
Ravana stava tornando nei suoi appartamenti, e camminando pensava
cos'altro poteva essere fatto per assicurare il successo del suo
piano. Fece chiamare otto dei suoi demoni più feroci e li istruì
dicendo: "Andate immediatamente a Janasthana. Prima quel territorio
era dominato da mio fratello Khara, ma ora è stato devastato da
Rama. Sono furibondo al pensiero che un semplice essere umano abbia
potuto uccidere Khara, Dushana e tutte le loro forze. Non importa;
distruggerò presto Rama. Tenetelo d'occhio e informatemi dei suoi
movimenti. Siete liberi di provocare la sua distruzione". I demoni
partirono immediatamente.
Ravana tornò da Sita e l'obbligò a visitare gli appartamenti. Il
palazzo era sostenuto da pilastri d'avorio, oro, cristallo e argento,
ed era tutto costellato di diamanti. Il pavimento, le pareti, le
scale - tutto era fatto d'oro e diamanti.
Poi disse di nuovo a Sita: "In questo palazzo ci sono più di mille
demoni sempre pronti ad eseguire i miei ordini. Io pongo ai tuoi
piedi i loro servigi e l'intera Lanka. Io offro a te la mia vita.
Tu hai per me più valore della mia stessa vita. E ai tuoi ordini
saranno pure tutte le gentildonne che ho sposato. Diventa mia moglie.
Lanka è circondata da ogni lato da ottocento miglia di oceano. Nessuno
vi si può avvicinare, e meno di tutti Rama. Dimentica il debole
Rama. Non preoccuparti delle definizioni che le Scritture danno
della giustizia: ci sposeremo secondo i riti nuziali dei demoni.
La giovinezza vola via presto. Sposiamoci subito e godiamoci la
vita".
Ponendo un filo d'erba tra sé e Ravana, Sita disse: "O demone! Rama,
il figlio di re Dasaratha, è il mio Signore, l'unico che io adoro.
Lui e suo fratello Lakshmana porranno certamente fine alla tua vita.
Se essi t'avessero visto mettere le tue mani su di me, t'avrebbero
ucciso all'istante, così come hanno mandato Khara al riposo eterno.
Forse tu non puoi essere ucciso da demoni e dèi; ma non puoi sfuggire
alla morte per mano di Rama e Lakshmana. Il tuo fato è segnato,
senza ombra di dubbio. Tu hai già perso la vita, la fortuna, l'anima
stessa e i sensi, e a causa delle tue malvagie azioni Lanka è già
rimasta vedova. Anche se tu non la senti, la morte sta bussando
alla tua porta. O peccatore, in nessuna circostanza potrai mai mettere
le tue mani su di me. Puoi legare questo corpo, o puoi distruggerlo:
dopotutto non è altro che materia inanimata, e non reputo importante
preservarlo, come non considero importante vivere qui... una vita
che mi darebbe solo obbrobrio".
Trovandosi impotente, Ravana fece ricorso alle minacce: "T'avverto,
Sita. Ti do dodici mesi di tempo per decidere d'accettarmi come
tuo marito. Se entro questo lasso di tempo non prenderai questa
decisione, i miei cuochi ti faranno a pezzi e ti mangerò a colazione".
Poi, non avendo più altro da dirle, si rivolse alle ancelle che
la circondavano e ordinò loro: "Conducete Sita nel boschetto di
asoka e tenetela là. Per farla cedere al mio desiderio, usate tutti
i metodi di persuasione che conoscete. Sorvegliatela attentamente.
Prendetela e piegate la sua volontà come domereste un elefante selvaggio".
Le demonesse portarono via Sita e la confinarono nel boschetto di
asoka, al quale esse stesse fecero la guardia giorno e notte. In
quel posto Sita non trovava pace nella mente, e sopraffatta dalla
paura e dall'angoscia pensava costantemente a Rama e a Lakshmana.
Si dice che in quel periodo Brahma, il Creatore, sentendosi turbato
dalla sofferenza di Sita, così parlò a Indra, il capo degli dèi:
"Sita è prigioniera nel boschetto di asoka. Languendo per il marito,
ella potrebbe togliersi la vita. Va' dunque a rassicurarla, e portale
il cibo celeste che la sosterrà finché Rama non giungerà a Lanka".
Allora Indra apparve davanti a Sita. Per dimostrarle la sua identità
le mostrò che i suoi piedi non toccavano per terra e le sue palpebre
non battevano. Poi le diede il cibo celeste dicendo: "Mangia questo,
e non avrai più fame o sete, né sarai mai più presa dalla fatica".
Mentre Indra parlava con Sita, la dea del sonno (Nidra) aveva preso
possesso delle demonesse.
Marica, il demone che aveva preso le sembianze di un cervo singolare,
era stato ucciso. Ma Rama era rimasto perplesso e ansioso per la
maniera in cui era morto, gridando 'O Sita, o Lakshmana'. Rama intuì
l'esistenza di un terribile complotto. Perciò s'affrettò a tornare
al suo eremitaggio.
Nel frattempo vide molti cattivi presagi, che aggravarono la sua
ansietà. E pensò: "Se Lakshmana ha udito quella voce, forse sarà
corso ad aiutarmi, lasciando Sita da sola. I demoni vogliono sicuramente
fare del male a Sita, e tutto questo potrebbe essere proprio un
complotto per raggiungere tale scopo".
Mentre procedeva preoccupato verso l'eremitaggio, egli vide Lakshmana
che veniva verso di lui. L'angosciato Rama incontrò il triste Lakshmana;
l'afflitto Rama vide l'addolorato Lakshmana
Prendendo Lakshmana per il braccio, Rama gli chiese con tono pressante:
"Perché hai lasciato Sita da sola e sei venuto qui? La mia mente
è piena d'ansietà e di grande timore. Quando vedo tutti questi cattivi
presagi intorno a noi, temo che qualcosa di terribile sia successo
a Sita. Sono certo che Sita è stata rapita o uccisa"
Il silenzio di Lakshmana e il suo volto angosciato aumentarono il
fuoco dell'ansietà nel cuore di Rama, che continuò a chiedergli:
"Sta bene Sita? Dov'è la mia Sita, la vita della mia vita, senza
la quale non posso vivere neanche per un'ora? Oh, che cosa le è
successo? Ahimè, il desiderio di Kaikeyi oggi è stato esaudito.
Se vengo privato di Sita, certamente morirò. Cos'altro potrebbe
volere Kaikeyi? Come potrò sopravvivere, se entrando nell'eremitaggio
non troverò Sita viva?
"Dimmi, Lakshmana. Parla. Certamente quando quel demone ha gridato
'O Lakshmana' con la mia voce, avrai temuto che mi fosse successo
qualcosa. Sicuramente anche Sita avrà udito quel grido e, in uno
stato di grande agonia mentale, ti avrà mandato da me. È doloroso
che Sita sia stata lasciata sola. Immensamente angustiati dall'uccisione
del demone Khara, tutti i demoni non aspettavano altro che l'opportunità
di vendicarsi, e oggi l'hanno avuta. Sono sicuro che approfittando
della nostra assenza hanno fatto molto male a Sita. Che posso fare
adesso? Come posso affrontare questa terribile disgrazia?".
Ancora Lakshmana non riusciva a pronunciare una parola su quanto
era accaduto. Infine i due fratelli arrivarono vicino all'eremitaggio.
Tutto ciò che vedevano faceva riaffiorare in loro il pensiero di
Sita.
Prima d'arrivare all'eremitaggio, pieno d'apprensione per Sita,
Rama disse ancora una volta a Lakshmana: "Non dovevi venire via,
lasciando Sita da sola nell'eremitaggio. Io l'avevo affidata alla
tua protezione".
E siccome Rama continuava a ripeterlo tante volte, Lakshmana rispose:
"Non sono venuto da te, lasciando Sita da sola, semplicemente perché
ho udito il demone Marica gridare 'O Lakshmana, o Sita' imitando
la tua voce; ma sono venuto solo perché sono stato letteralmente
spinto da Sita a farlo. Quando udì quel grido, fu presa subito dall'angoscia
e mi chiese di correre ad aiutarti. Io cercai di calmarla dicendole:
"Non è la voce di Rama! È impensabile che Rama, che è all'altezza
di proteggere persino gli dèi, pronunci la parola 'salvatemi'".
Ma ella interpretò male il mio atteggiamento, e disse qualcosa di
molto crudele, qualcosa di molto strano, qualcosa che odio perfino
ripetere. Disse: "O tu sei un agente di Bharata oppure hai intenzioni
indegne verso di me, e perciò sei felice che Rama sia in pericolo
e non corri ad aiutarlo". Solo allora fui costretto a partire".
Nella sua ansia per Sita, Rama non prestò attenzione alla spiegazione
di Lakshmana, e disse al fratello: "Sviato dalle parole di una donna
adirata, tu non hai eseguito i miei ordini; non sono molto contento
di quello che hai fatto".
Rama si precipitò nell'eremitaggio, ma non vi trovò alcuna traccia
di Sita. Confuso e disperato oltremisura, mentre continuava a cercare
Sita, Rama si ripeteva: "Dov'è Sita? Ahimè, forse è stata divorata
dai demoni, o forse è stata portata via da qualcuno, o forse si
è nascosta da qualche parte, o forse è andata nella foresta". Ma
le loro ricerche non diedero frutto. La sua angoscia superò ogni
limite. Non trovandola, Rama fu completamente sopraffatto dal dolore
e cominciò a comportarsi come un pazzo.
Incapace di controllarsi, egli chiese agli alberi, agli uccelli
e agli animali della foresta: "Dov'è la mia Sita?". Gli occhi dei
cervi, le proboscidi degli elefanti, i rami degli alberi, i fiori
- tutto lo faceva pensare a Sita. "Di certo voi sapete dov'è la
mia amata Sita. Sicuramente avete un suo messaggio per me. Non me
lo direste? Non alleviereste il dolore del mio cuore?". Così gemeva
Rama. A volte gli sembrava di vedere Sita in lontananza e, avvicinandosi
a 'lei', diceva: "Mia amata, non scappare. Perché ti nascondi dietro
quegli alberi? Non vuoi parlarmi?". Poi diceva tra sé: "No, non
era Sita. Ah, è stata divorata dai demoni. L'ho lasciata sola nell'eremitaggio
per farla mangiare dai demoni?". Lamentandosi così, in preda al
dolore, Rama passò un po' di tempo vagando e correndo in giro.
Rama tornò nuovamente all'eremitaggio e, vedendolo vuoto, diede
ancora sfogo al suo dolore. Egli chiese a Lakshmana: "Dov'è andata
la mia amata Sita? O forse è stata davvero portata via da qualcuno?".
Di nuovo, immaginando che fosse tutto un gioco e uno scherzo preparato
da Sita, diceva: "Basta giocare, Sita! Vieni fuori. Vedi, anche
i cervi sono tristi perché non ti vedono".
Poi, volgendosi ancora a Lakshmana, diceva: "Io non posso vivere
senza la mia Sita. Presto mi riunirò a mio padre nell'altro mondo.
Ma egli potrebbe adirarsi con me e dirmi: "Ti ho detto di vivere
nella foresta per quattordici anni; come mai sei venuto qui prima?".
Ah Sita, non abbandonarmi".
Lakshmana cercava di consolarlo: "Non angosciarti. Tu sai che Sita
ama la foresta e le grotte sulla montagna. Dev'essere andata là.
Cerchiamola nella foresta. Questa è la cosa giusta da fare, non
dolerti".
Queste coraggiose parole allontanarono per un momento la tristezza
da Rama. Pieno di zelo ed impazienza, Rama cominciò a setacciare
la foresta insieme a Lakshmana. Poi Rama piombò di nuovo nello scoraggiamento:
"È strano, Lakshmana, non riesco a trovare Sita da nessuna parte".
Ma Lakshmana continuò a consolarlo: "Non temere, fratello; ritroverai
presto la nobile Sita".
Ma stavolta le sue parole ebbero meno significato per Rama. Sopraffatto
dal dolore, egli prese a lamentarsi: "Dove troveremo Sita, e quando?
L'abbiamo cercata dappertutto nella foresta e sulle colline, ma
non l'abbiamo trovata". Gemendo in tal modo, afflitto dal dolore,
con il cuore e l'intelletto sconvolti dalla perdita di Sita, Rama
spesso sospirava angosciato, mormorando: "Ah, mia amata".
Ad un tratto credette d'averla vista, mentre si nascondeva dietro
dei banani, e poi dietro degli alberi di karnikara. E rivolgendosi
a 'lei' disse: "Mia amata, ti ho vista dietro i banani! Ah, ora
ti vedo nascosta dietro l'albero di karnikara. Mia cara, basta,
basta con questo gioco; il tuo scherzo aumenta la mia angoscia.
Lo so che questo gioco ti piace; ma ti prego, adesso smetti e vieni
da me".
Quando Rama si rese conto che era solo una sua allucinazione, si
rivolse di nuovo a Lakshmana lamentandosi: "Ora sono certo che qualche
demone ha ucciso la mia amata Sita. Come posso tornare ad Ayodhya
senza Sita? Come posso presentarmi davanti a Janaka, suo padre?
Oh, no! Lakshmana, anche il paradiso è inutile senza Sita. Io continuerò
a vivere nella foresta; tu puoi tornare ad Ayodhya. E puoi dire
a Bharata che egli deve continuare a governare il paese".
[NOTA: L'espressione di dolore di Rama è vivida, altamente poetica
e piena di sringara-rasa (amore). Ma non sono riuscito a rendergli
giustizia; e questo vale anche per le descrizioni delle stagioni
in questa sezione.]
Rama era inconsolabile, e la sua angoscia contagiò persino il prode
Lakshmana. Piangendo profusamente, Rama continuò a parlare a Lakshmana,
che a questo punto era stato preso anche lui dal dolore: "Nessuno
in tutto il mondo è colpevole di tanti errori quanto lo sono io.
Ed è per questo, caro Lakshmana, che subisco un dispiacere dopo
l'altro, un dolore dopo l'altro, che mi spezzano il cuore e mi rendono
demente. Persi il mio regno, e fui strappato via da parenti e amici.
E dopo essermi rassegnato alla sfortuna, persi mio padre e fui separato
da mia madre. Venendo in questo eremitaggio, mi stavo rassegnando
per l'ennesima volta alla sfortuna; ma non potevo restare in pace
a lungo. Ora sono stato visitato da questa terribile disgrazia,
la peggiore di tutte.
"Ahimè, quanto amaramente avrà pianto Sita mentre veniva trascinata
via da qualche demone. Forse è stata ferita; forse il suo amabile
corpo è stato ricoperto di sangue. Perché mai, mentre lei pativa
tutte quelle sofferenze, il mio corpo non è esploso in mille pezzi?
Ho paura che il demone abbia squarciato la sua gola e bevuto il
suo sangue. Quali atrocità deve aver sofferto mentre veniva trascinata
dai demoni.
"Lakshmana, questo fiume Godavari era il suo luogo preferito. Ricordi
com'era solita venire qui, e sedendo su questa lastra di pietra
ci parlava e rideva? Forse era venuta al fiume Godavari a raccogliere
dei fiori di loto? Ma no! Non sarebbe mai venuta in questi posti
da sola.
"O sole! Tu sai quello che la gente fa e quello che non fa. Tu sai
cos'è vero e cos'è falso. Tu sei testimone di tutto. Ti prego, dimmi,
dov'è andata la mia amata Sita. Perché con questo dolore sono stato
privato di tutto. O vento! Tu sai tutto quello che succede nel mondo,
perché sei dappertutto. Ti prego, dimmi, in quale direzione è andata
Sita?".
Poi Rama disse a Lakshmana: "Guarda se Sita è da qualche parte vicino
al fiume". Dopo avere cercato, Lakshmana tornò e riferì di non averla
trovata.
Rama stesso andò dal fiume e gli chiese: "O Godavari, ti prego,
dimmi: dov'è andata la mia amata Sita?". Ma il fiume non rispose.
Era come se, temendo l'ira di Ravana, il Godavari mantenesse il
silenzio.
Rama era scoraggiato. Chiese ai cervi e agli altri animali della
foresta: "Dov'è Sita? Vi prego, ditemi in quale direzione è stata
portata via".
Allora egli osservò che tutti i cervi e gli altri animali si volsero
verso sud, e alcuni di loro andarono perfino verso sud. Quindi Rama
disse a Lakshmana: "Guarda, indicano tutti che Sita è stata portata
via in direzione sud".
Anche Lakshmana interpretò il comportamento degli animali come un
segno sicuro che Sita era stata portata via in direzione sud, e
suggerì a Rama che anche loro dovevano procedere in quella direzione.
Mentre andavano videro dei petali di fiori caduti a terra. Rama
li riconobbe e disse a Lakshmana: "Guarda! Questi petali appartengono
a dei fiori che avevo dato a Sita. Di sicuro, nel loro zelo d'aiutarmi,
il sole, il vento e la terra hanno fatto in modo di mantenere freschi
questi fiori".
Continuarono a camminare, e Rama vide delle orme sul terreno: due
le riconobbe immediatamente come quelle di Sita. Le altre due erano
grandi - ovviamente erano le orme di un demone. Vari pezzetti d'oro
erano disseminati per terra. Ma ecco, Rama vide anche del sangue
che, egli concluse, doveva essere il sangue di Sita. Di nuovo gemette:
"Ahimè, qui il demone ha ucciso Sita per mangiarne la carne". Vide
anche i segni di una lotta, e disse: "Forse c'erano due demoni,
che hanno lottato per impadronirsi della carne di Sita".
Poi Rama vide sul terreno i resti di un'arma spezzata e di un'armatura
d'oro, una calotta rotta, ed anche i propulsori e altre parti di
un velivolo. Vide inoltre qualcuno che giaceva morto e che aveva
l'aspetto del pilota del velivolo. Da tutte queste cose concluse
che due demoni avessero combattuto per appropriarsi della carne
di Sita, prima che uno riuscisse a portarla via.
Rama disse a Lakshmana: "Ora i demoni hanno suscitato la mia ira
e si sono guadagnati il mio odio inestinguibile. Li distruggerò
tutti. Anzi, distruggerò tutte le potenze che rifiuteranno di restituirmi
Sita. Guarda l'ironia del fato, Lakshmana: noi aderiamo al Dharma,
ma il Dharma non ha potuto proteggere Sita, che è stata rapita in
questa foresta! Se le potenze che governano l'universo hanno assistito
alla malvagità con cui Sita è stata divorata dai demoni, senza far
nulla per arrestarla, chi mai farà ciò che per noi è piacevole?
Penso che la nostra mitezza venga scambiata per debolezza. Noi siamo
dotati d'autocontrollo e compassione, e siamo devoti al benessere
di tutti gli esseri: eppure queste virtù sono ora diventate come
dei vizi per noi. Adesso metterò da parte tutte queste virtù e l'universo
vedrà la mia gloria suprema che causerà la distruzione di tutte
le creature, inclusi i demoni. Se Sita non mi viene riportata immediatamente,
distruggerò i tre mondi; gli dèi, i demoni e le altre creature periranno,
perché diventeranno bersagli dei miei missili più potenti. Quando,
pieno di collera, prendo in mano la mia arma, nessuno può affrontarmi,
o Lakshmana, nello stesso modo in cui nessuno può sfuggire alla
vecchiaia e alla morte".
Vedendo l'umore distruttivo di Rama, Lakshmana cercò di consolarlo
dicendogli:
"Ti prego, Rama, non andare contro la tua natura. La bellezza nella
luna, lo splendore nel sole, il moto nell'aria e la resistenza nella
terra: queste cose fanno parte della loro natura essenziale. Ma
tutte queste cose si trovano in te, e in più la gloria eterna. La
tua natura non può abbandonarti; come neanche il sole, la luna e
la terra possono abbandonare la loro natura! Inoltre, come re, non
puoi punire tutte le creature per il peccato di una sola persona.
"I sovrani miti e pacifici danno al crimine la giusta punizione.
Ma soprattutto tu sei il rifugio e la mèta di tutti gli esseri.
Senza dubbio io troverò il vero criminale che ha rapito Sita, scoprirò
di chi sono quest'armatura e queste armi; e tu darai la giusta punizione
al colpevole. Oh no, nessun dio ti farebbe un dispiacere, o Rama;
né questi alberi, queste montagne e questi fiumi. Sono sicuro che
essi ci aiuteranno con zelo nella nostra ricerca di Sita. Certo,
se non riuscissimo a riavere Sita con mezzi pacifici, allora prenderemo
in considerazione altri mezzi.
"O Rama, chi non viene visitato dalla sventura in questo mondo?
Però la sventura lascia l'uomo con la stessa rapidità con la quale
lo ha visitato. Perciò, ti prego, riacquista la calma. Se tu che
sei dotato d'intelligenza divina mostri mancanza di sopportazione
di fronte a questa disgrazia, che cosa dovrebbero fare gli altri
in simili circostanze?
"Re Nahusha, che era potente quanto Indra, fu colpito dalla sventura.
Il saggio Vasishtha, il nostro precettore, ebbe cento figli e li
perse tutti in un giorno! La terra è sconvolta da eruzioni vulcaniche
e terremoti, il sole e la luna sono oscurati dalle eclissi, la sventura
colpisce i grandi uomini e anche gli dèi.
"Giacché in questo mondo la gente compie azioni i cui risultati
non sono manifesti; e le azioni, che possono essere buone o cattive,
portano i loro frutti. Naturalmente questi frutti sono evanescenti.
Le persone dotate d'intelligenza illuminata sanno ciò che è buono
e ciò che non è buono; le persone come te non s'addolorano di fronte
alle sventure, né si fanno ingannare da esse.
"Perché ti sto dicendo tutto questo, Rama? Chi è più saggio di te
in questo mondo? Però ti sto dicendo queste cose perché, com'è naturale,
il dolore sembra aver velato la tua saggezza. Queste cose le ho
imparate da te: adesso sto solo ripetendo ciò che tu stesso mi hai
insegnato prima. Perciò, Rama, conosci il tuo nemico e combattilo".
Allora Rama chiese a Lakshmana: "Dimmi, che cosa dobbiamo fare adesso?".
E Lakshmana rispose: "Di sicuro dobbiamo cercare Sita in questa
foresta".
Questo consiglio piacque a Rama, che fissò immediatamente la baionetta
alla sua arma e con un'espressione di collera sul volto partì per
andare in cerca di Sita. Subito dopo, a poca distanza, Rama e Lakshmana
s'imbatterono in Jatayu, che era rimasto mortalmente ferito e sanguinava
profusamente.
Vedendo quell'enorme avvoltoio allungato per terra, il primo pensiero
di Rama fu: "Sicuramente questi è colui che ha divorato Sita". E
gli corse incontro con la baionetta in canna.
Vedendo Rama che gli si scagliava contro, e intuendo il suo stato,
Jatayu disse con flebile voce: "Sita è stata portata via da Ravana.
Io ho cercato di oppormi, combattendo contro il potente Ravana.
Ho rotto la sua armatura, la calotta, i propulsori e altre parti
del suo veicolo spaziale. Ho ucciso il suo pilota e ho anche ferito
lui stesso, ma egli mi ha reciso le ali e mi ha abbattuto".
Udendo che l'avvoltoio aveva notizie di Sita, Rama gettò le sue
armi, gli si inginocchiò accanto e l'abbracciò.
Rama disse a Lakshmana: "Un'altra calamità da sopportare. Non c'è
dunque fine alla mia sventura? La mia sfortuna s'abbatte anche su
questa nobile creatura, amica dei miei padri". Rama chiese a Jatayu
altre informazioni su Sita e Ravana.
Jatayu rispose: "Portando Sita con sé, il demone è volato via con
il suo velivolo, lasciandosi dietro una nube e una tempesta misteriosa.
Io sono rimasto mortalmente ferito. Ah, i miei sensi si offuscano...
mi sento venir meno, Rama. Ma ti assicuro che ritroverai Sita".
Presto Jatayu fu senza vita, anzi senza corpo, perché la sua anima
ascese in cielo.
Preso nuovamente dall'angoscia, Rama disse a Lakshmana: "Jatayu
è vissuto molto a lungo, eppure oggi ha dovuto lasciare il corpo;
nessuno in questo mondo può sfuggire alla morte. Quale nobile fine!
Quale grande servigio mi ha reso questo nobile avvoltoio! Le anime
pie e nobili si trovano anche tra le creature subumane. Oggi ho
dimenticato tutte le mie sventure precedenti: sono così addolorato
per la perdita di questo caro amico che ha sacrificato la sua vita
per amor mio! Lo cremerò io stesso, perché possa raggiungere i reami
più sublimi".
Rama in persona celebrò i riti funebri, declamando quei mantra vedici
che si recitano in occasione della cremazione dei propri parenti
stretti. Subito dopo, Rama e Lakshmana continuarono il loro viaggio
in cerca di Sita.
[NOTA: La descrizione del coltello fissato 'all'arco' indica abbastanza
chiaramente qualcosa di simile alla baionetta.]
Procedendo verso sud-ovest, Rama e Lakshmana raggiunsero una densa
e profonda foresta vergine chiamata Kraunca. Quindi proseguirono
verso est e uscirono da quella foresta. Lungo il cammino attraversarono
l'eremitaggio del saggio Matanga. La foresta intorno all'eremitaggio
era ancora più terribile di quelle attraversate prima.
In questa foresta essi videro una grande caverna che non aveva mai
visto la luce del sole o della luna; e là vicino videro una demonessa
che aveva un orribile aspetto: aveva l'addome vistosamente sporgente,
i denti aguzzi e la pelle dura, ed era intenta a divorare animali
selvatici. Quando li vide arrivare, saltò rapidamente addosso a
Lakshmana e cominciò a trascinarlo dicendo: "Vieni, divertiamoci.
Io sono Ayomukhi. Ti amo, e sono sicura che ti rendi conto che sono
degna di te. Con me potrai dominare incontrastato tutta questa foresta
e goderti la vita". Ma con sveltezza e maestria egli le fece quello
che aveva già fatto a Surpanakha.
I due fratelli andarono avanti e arrivarono in una foresta ancora
più densa nella quale era difficile entrare. Intuendo il pericolo,
Lakshmana disse a Rama: "Tieni pronta la tua arma, Rama: vedo molti
cattivi presagi, benché ce ne sia anche uno buono che presagisce
il nostro successo". Mentre diceva questo, davanti a loro ci fu
un grande clamore, e presto videro un demone dall'aspetto terribile
e insolito.
Il demone aveva un torace possente e un corpo enorme, ma non aveva
né testa né collo; aveva la bocca nell'addome, e parlava come il
tuono. Aveva un solo occhio sulla fronte, che era nel torace. Era
dotato di lunghe braccia con le quali catturava le sue prede! Il
suo nome era Kabandha. Ora egli bloccava la via di Rama e Lakshmana.
Quando essi si avvicinarono, egli li afferrò, nonostante cercassero
di tornare indietro.
Stretti nella ferrea morsa di Kabandha, i due fratelli erano impotenti.
Rama affrontò coraggiosamente la terribile prova; mentre Lakshmana
fu preso dallo sconforto, e disse al fratello: "Per me è finita,
Rama. Che la mia vita sia offerta in sacrificio a questo demone;
ti prego, liberati dalla sua morsa e continua a cercare Sita. E
poi, riguadagnando il tuo regno, possa tu governare per sempre".
Stavolta toccò a Rama consolare il fratello e ridargli la fiducia
in se stesso. Kabandha disse loro: "Ero molto affamato. Mi siete
capitati tra le mani proprio per appagare la mia fame".
Rama fu preso nuovamente dall'angoscia e disse: "Certo il Tempo
e la Morte non risparmiano nessuno; prima che usciamo da una tragedia,
siamo sopraffatti da un'altra".
Kabandha chiese loro: "Vi prego di dirmi chi siete, voi che siete
arrivati al momento giusto per appagare la mia fame". Ma invece
di rispondergli, Lakshmana disse a Rama: "Ovviamente la forza di
questo demone sta nelle sue braccia. Tagliamogliele subito. È disarmato,
e quindi non è giusto che lo uccidiamo".
Kabandha fu infastidito dalla conversazione tra Rama e Lakshmana,
perciò s'apprestò a divorarli senza perdere altro tempo. Mentre
li stava avvicinando alla sua bocca, Rama e Lakshmana, che sapevano
cosa fare, e dove e quando farlo, tagliarono rapidamente le braccia
del demone con le loro spade. Il demone cadde a terra con un urlo
possente Poi guardò di nuovo i principi e domandò: "Chi siete?".
Lakshmana gli disse chi erano e che cosa li aveva portati nella
foresta; quindi chiese a sua volta al demone: "E tu chi sei?".
Kabandha narrò la sua storia con queste parole: "Nella mia vita
precedente possedevo una forma radiosa e gigantesca che rivaleggiava
con il sole e la luna. Ero molto potente; ed ebbro di potere, assalivo
i saggi e anche gli dèi.
"Propiziai il Creatore Brahma e ottenni da lui il dono di una vita
lunghissima. Inebriato da questo dono, attaccai briga con Indra,
il re degli dèi. Ma servendosi della sua potente arma - il fulmine
- Indra mi colpì privandomi delle gambe, della testa e della bocca,
che furono tutte spinte nel mio torace. Quando l'implorai di uccidermi,
piuttosto che lasciarmi in quello stato, egli rispose che non voleva
andare contro il dono concessomi dal Creatore. E quando lo supplicai:
"Come posso procurarmi il cibo, con questa forma?", Indra mi concesse
queste braccia eccezionalmente lunghe.
"Con questa forma una volta attaccai il saggio Sthulasira, che poi
mi maledì: "Continua a rimanere in questa forma". L'implorai di
modificare la sua maledizione, affinché potesse aver fine questa
mia terribile condizione. Allora egli mi benedì: "Quando Rama e
Lakshmana passeranno di qui e ti taglieranno le braccia, sarai liberato
da questa forma". Per il fatto stesso che mi avete tagliato le braccia,
io so che voi siete Rama e Lakshmana. Vi prego, eseguite la mia
cremazione. Dopo sarò in grado di aiutarvi in qualunque modo vorrete".
Rama pensò immediatamente a Sita! E chiese dunque a Kabandha: "Ti
prego, dimmi dov'è Sita. Mi è stato detto che è stata rapita da
Ravana, ma io non so chi sia costui, qual è il suo aspetto e dove
si trova. Ti prego di dirmi tutto questo". Il demone però ripeté:
"Non ho il potere di conoscere le risposte alle tue domande. Prima
di essere cremato da te, non posso sapere le risposte alle tue domande
su Sita".
Aiutato da Lakshmana, Rama cremò personalmente il demone Kabandha.
Mentre il fuoco ardeva, il corpo sgraziato di Kabandha sembrò dissolversi
tra le fiamme. E da quel fuoco emerse un essere radioso coperto
di candidi indumenti e adorno di gioielli. Sospeso nello spazio
con il suo corpo etereo, quest'essere divino disse a Rama:
"Adesso ti rivelerò in che modo ritroverai certamente Sita. In questo
mondo, quando si è di fronte ad una calamità, vi sono sei modi di
superarla: e uno di essi consiste nel coltivare l'amicizia di qualcuno
che si trova nella stessa situazione. Senza un tale amico, Rama,
non riuscirai nell'impresa di ritrovare Sita. Io ti dirò come e
dove trovare quest'amico.
"C'è un vanara chiamato Sugriva, il cui fratello - Vali - lo ha
scacciato dal regno. Sugriva ti aiuterà nella tua impresa. Nello
stesso tempo egli potrà essere aiutato nel suo desiderio di riottenere
il regno perduto. Così vi sarete d'aiuto l'uno all'altro. Ma anche
se tu non potessi aiutarlo, egli ti aiuterà certamente nella tua
impresa. Sugriva vive sul monte Rshyamuka: è molto intelligente
e conosce tutto di questo mondo; possiede grande cultura ed è fedele
alla parola data. Sotto di sé ha un gran numero di vanara, con il
cui aiuto Sita potrà essere facilmente ritrovata. Se necessario,
egli manderà le truppe vanara ad invadere Lanka, e dopo avere sconfitto
i demoni ti riporterà Sita".
Poi il trasformato Kabandha descrisse nei dettagli la strada per
raggiungere il monte Rshyamuka: "Procedendo verso occidente, da
un monte all'altro, da una foresta all'altra, raggiungerai il lago
Pampa, le cui acque sono limpide e senza alghe. Nel lago troverai
bellissimi cigni e pesci. Darai loro da mangiare e berrai le acque
del lago. E poi incontrerai i vanara, che vanno anch'essi al lago.
"Anticamente il saggio Matanga viveva in quella regione. I suoi
discepoli lo servivano portandogli il cibo dalla foresta. Le gocce
di sudore che cadevano dal loro corpo irrigavano le piante della
foresta; per questo i fiori là non appassiscono né muoiono. Il saggio
non c'è più, e anche i suoi discepoli hanno lasciato il corpo. Ma
un'anziana discepola del saggio è ancora viva. Il suo nome è Sabari:
e sta aspettando con ansia la tua visita, dopodiché ascenderà in
cielo. Quella foresta è chiamata Matangavana: a est della foresta
c'è il monte Rshyamuka, molto scosceso e molto difficile da scalare.
Ma all'eroe che riesce a scalarlo, esso riserva un compenso particolare:
i suoi sogni si avverano. Rama, quando raggiungerai quel monte,
scorderai sicuramente il tuo dolore. Sugriva dimora in una grotta
su un versante della montagna".
Rama e Lakshmana seguirono le indicazioni di Kabandha, e raggiunsero
la sponda occidentale del lago Pampa. Là videro l'incantevole eremitaggio
dell'ascetica Sabari.
Non appena Sabari li vide, li accolse con grande rispetto e devozione,
si prostrò ai loro piedi e adorò Rama. Rama le chiese come stava
e se era riuscita a conquistare tutti gli ostacoli lungo il sentiero
spirituale. Le chiese anche qual era il risultato delle sue pratiche
spirituali e se godeva della pace suprema.
Colma di sublime devozione, Sabari gli rispose: "Adesso ho raggiunto
la perfezione delle mie austerità, perché ho potuto vedere te! Oggi
la mia nascita ha dato il suo frutto, e l'adorazione che ho offerto
ai miei precettori ha assunto significato. Ora che ho visto te,
Rama, posso anche ascendere in cielo. I miei occhi ti hanno visto.
Il mio cuore è stato purificato; e con la tua grazia potrò ascendere
ai mondi della vita eterna".
E continuò: "Quando tu eri appena giunto a Citrakuta, gli altri
discepoli del saggio Matanga ascesero in cielo. Ma prima mi dissero:
"Presto Rama e Lakshmana verranno qui: rimani nell'ashram fino ad
allora e adorali! Dopo potrai raggiungerci". O Rama, ti offro i
frutti migliori di questa foresta. Ti prego di accettarli e di benedirmi".
Dopo avere accettato la sua ospitalità, Rama le chiese di mostrargli
tutte le cose associate con il saggio Matanga e i suoi discepoli.
Allora Sabari mostrò loro la foresta che prendeva il nome da Matanga;
il posto dove essi avevano praticato le austerità e dove avevano
lasciato il corpo; l'altare usato per i rituali; la confluenza dei
sette oceani; le vesti di corteccia che essi avevano lasciato (e
che si erano preservate intatte) e i fiori che restavano sempre
freschi.
Dopo aver mostrato loro tutto quanto, Sabari offrì il suo corpo
al fuoco sacro e, abbandonando il corpo fisico, assunse un risplendente
corpo astrale e ascese in cielo.
Poi Rama disse a Lakshmana: "Abbiamo visto il sacro eremo pieno
di meraviglie di questi saggi; abbiamo visto gli animali felici
che vivono liberamente in questo posto; abbiamo visto i sette mari,
e abbiamo anche offerto libagioni per i nostri antenati. Sento che
tutte le nostre cattive azioni passate sono state espiate e che
la nostra cattiva sorte è giunta al termine".
Lasciando l'eremitaggio di Sabari, andarono verso il monte Rshyamuka,
dopo essere passati vicino al lago Matangasara, sussidiario del
Pampa, pieno di alligatori e tartarughe e che, con i suoi loti e
ninfee dai molti colori, aveva l'aspetto di un bellissimo tappeto.
Raggiunta la montagna, Rama disse a Lakshmana: "Ti prego, va' a
cercare Sugriva".
FINE DELL'ARANYA KANDAM
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Libro
quarto: KISHKINDHA KANDAM - il soggiorno a Kishkindha
La primavera era nell'aria. La vita risorgeva dalla terra. Era il
tempo in cui si manifestano nuove cose: nuova crescita, nuova nascita.
L'amore era nell'aria. L'amore afferrava i cuori di tutti gli esseri.
La primavera penetrava in Rama passando attraverso le vie dei suoi
sensi. Tutto ciò che vedeva, tutto ciò che udiva, tutto ciò che
odorava, tutto ciò che toccava gli ricordava l'amata Sita. E il
ricordo di Sita rinnovava il suo dolore, facendolo lamentare per
la sua perdita:
"O Lakshmana, ammira questo meraviglioso lago Pampa; guarda come
splende, simile a una gemma immensa. E guarda questi alberi ricoperti
di fiori: tanto piacevoli agli occhi, essi agitano la mia mente
e rinnovano il mio dolore.
"Penso alla vita ascetica che Bharata sta facendo ad Ayodhya per
causa mia, e penso a Sita. Tutta la terra è ricoperta da un tappeto
di bellissimi fiori multicolori. Gli alberi sono pieni dei loro
fiori e dei fiori dei rampicanti che li avvinghiano.
"Guarda qui, Lakshmana, questi alberi di Karnikara non sembrano
più alberi. Con i fiori colorati che indossano mi fanno pensare
a dei nobiluomini vestiti di giallo e riccamente adorni. Però, malgrado
tutto questo, nel mio cuore c'è un peso. La primavera, che ha portato
gioia e voglia di cantare agli uccelli e a tutti gli altri animali,
non fa altro che intensificare il mio dolore, perché sono stato
separato dalla mia cara Sita. E Cupido, che porta amore e piacere
a tutte le creature, aggrava solo il mio dolore.
"Quando questi uccelli e animali cinguettavano e facevano vari versi,
Sita ne rimaneva deliziata, e veniva a cercare la mia compagnia
per condividere la sua gioia. Vedi, Lakshmana, come le api e anche
le femmine degli uccelli, quando si uniscono ai loro compagni, emettono
suoni deliziosi che esprimono la loro gioia. Tutte queste cose,
che mi entrano attraverso le percezioni dei sensi, risvegliano in
me l'amore.
"Ho paura, Lakshmana, che la stagione estremamente piacevole della
primavera mi consumi dal dolore, perché sono stato privato della
compagnia di Sita. La primavera che è qui, e la separazione da Sita
che è lontana dalla mia vista: queste due cose mi bruciano dentro.
Com'è strano che anche la piacevole brezza ravvivi il mio dolore.
Il pavone che danza con la sua compagna sembra beffarsi di me! Vedi,
Lakshmana, come questa pavonessa s'avvicina con amore al suo compagno:
l'amore è comune a tutti gli esseri, anche a quelli subumani. Ora
anche la mia amata Sita s'avvicinerebbe a me allo stesso modo, se
non fosse stata portata via da quel demone".
Rama continuò:
"Sicuramente dove vive la mia Sita ora è primavera. Se anch'io sono
tanto tormentato dall'arrivo della primavera e dall'assenza di Sita,
come potrebbe lei godersi la primavera o evitare il tormento causato
dalla primavera?
"O Lakshmana, comincio ad essere sempre più convinto che, consumata
dal fuoco della separazione da me, Sita non potrà sopravvivere.
Sita ed io siamo eternamente uniti l'una all'altro: ella in me ed
io in lei.
"Ma no! Guarda quel corvo: prima era solito lamentarsi, presagendo
il rapimento di Sita. Ora invece sembra trasmettere il gioioso messaggio
che presto sarò riunito alla mia amata
"Però quando vedo quell'albero di asoka che si agita mosso dal vento,
e lascia cadere i suoi fiori, mi sembra come se mi mostrasse i pugni
in segno di minaccia. Guarda il placido e bellissimo lago Pampa,
letteralmente coperto di ninfee e di loti che si riflettono meravigliosamente
sulle sue acque. Eppure esso non mi dona alcuna gioia, perché non
ho Sita con me.
"Quale strano potere possiede l'amore! Esso rende vivo e potente
il ricordo della persona amata che è andata via ed appare irraggiungibile.
Certo io riesco a sopportare il dolore causatomi dalla separazione
da Sita, ma la stagione primaverile rende lo strazio insopportabile.
Tutto ciò che insieme a Sita era piacevole, senza di lei diventa
insopportabile!
"In questo momento, tutto qui mi ricorda di Sita: il loto mi ricorda
i suoi occhi di loto, la brezza soave mi ricorda il suo respiro.
"Sono sicuro che il monte Rshyamuka dev'essere ricco di minerali:
anche la polvere che si solleva qui sembra avere tanti colori, che
fanno pensare a polvere minerale. Tutti gli alberi sono nel pieno
della fioritura. E gli arbusti rampicanti che si avvinghiano agli
alberi fanno pensare ad amanti che si abbracciano. Senti il vento,
come si diverte: soffiando da un albero all'altro, da foresta a
foresta, godendo della fragranza e della dolcezza dei diversi fiori.
"Sembra che gli alberi facciano a gara, in uno spirito di sana competizione,
a rivestirsi di vesti sempre più ricche di magnifici fiori. E quando
il vento soffia su di loro, mi sembra che ciascun albero voglia
rivendicare la propria supremazia sugli altri, muovendo la sua cima
in un gesto di autoaffermazione.
"Questo luogo è così bello, o Lakshmana, che se solo Sita fosse
qui con me, non invidierei neppure i piaceri e le gioie di cui gode
il re del cielo".
Rama continuò:
"Lakshmana, guarda quei due cervi: guarda come il maschio e la femmina
si divertono felicemente su quel monte. Ahimè, io ho perso la mia
amata Sita e sarò felice solo quando mi riunirò a lei. Senza la
mia Sita la vita è insopportabile; però so benissimo che quando
la ritroverò mi tornerà anche l'entusiasmo e la gioia di vivere.
Sono molto preoccupato per Sita: perché so che starà soffrendo terribilmente
per il fatto che è stata separata da me.
"Sono anche preoccupato per quello che dovrò fare quando tornerò
ad Ayodhya, dopo il completamento dei quattordici anni di esilio:
come potrò presentarmi davanti a re Janaka, e che cosa gli dirò
quando mi chiederà di Sita? E che cosa dovrò dire a mia madre Kausalya,
quando con amore mi chiederà notizie della sua amata nuora?
"Com'è terribile che colei che ha tanto insistito per seguirmi anche
nell'esilio mi sia stata portata via! Com'è terribile che colei
che ha voluto rimanere con me e servirmi anche nell'esilio, sia
stata rapita senza che io potessi impedirlo! Dov'è Sita? Quando
udrò di nuovo le sue dolci parole? O Lakshmana, ritorna ad Ayodhya
e riunisciti al nobile Bharata. Dimenticami. Io non posso vivere
senza Sita".
Il nobile e saggio Lakshmana disse a Rama: "Liberati da questo dolore,
che ti è causato dalla separazione da Sita! Anche uno stoppino asciutto
s'accende quando viene cosparso con molta resina. Allo stesso modo,
una mente calma viene agitata dall'eccessivo attaccamento affettivo.
Dovunque possa essere, Ravana non potrà vivere se non rilascerà
Sita immediatamente. Anche se si nascondesse all'inferno, anche
se si nascondesse nel grembo di Diti (la madre dei demoni), lo ucciderò
e libererò Sita.
"Mantieni quello stato mentale positivo che costituisce la tua vera
natura: un oggetto perduto non viene ritrovato, se non con uno sforzo!
Perché questo sia possibile dobbiamo coltivare l'entusiasmo. L'entusiasmo
è il potere più grande. Per l'uomo dotato d'entusiasmo non c'è nulla
in questo mondo che non sia possibile conseguire. L'uomo pieno d'entusiasmo
non si fa prendere dalla disperazione. Ritroveremo Sita facendo
guidare le nostre azioni dall'entusiasmo. O Rama, liberati da questo
dolore originato dall'affetto, che sfortunatamente ha velato la
tua gloria suprema".
Incoraggiato da Lakshmana, Rama ritrovò la sua serenità. Poi i due
fratelli cominciarono a scalare il monte Rshyamuka.
Un giorno Sugriva vide due uomini potenti che salivano su per la
montagna; e preso dallo spavento si rifugiò nell'eremo del saggio
Matanga.
Quando Sugriva vide i due potenti eroi, Rama e Lakshmana, si sentì
in pericolo: aveva paura che fossero stati inviati dal fratello
maggiore per ucciderlo. Circondato dai suoi ministri, Sugriva si
spostò continuamente da una collina all'altra, cercando d'evitare
il confronto con gli stranieri.
Vedendo Sugriva così agitato, uno dei suoi ministri - Hanuman -
gli disse: "Ti prego, abbandona questa paura irrazionale. Siamo
ancora sul monte Malaya (Rshyamuka), che è inaccessibile a Vali.
Qui non vedo Vali da nessuna parte. Un re come te non deve permettere
che la sua mente venga turbata. Noi dobbiamo osservare i movimenti
e le azioni degli altri, e sapere che cosa passa nella loro mente!
Questa è la vera abilità di governo!".
Il discorso di Hanuman fu ben accolto da Sugriva, che gli rispose:
"È naturale che uno sia apprensivo quando vede guerrieri potenti
come quelli. Quando i re come Vali vogliono distruggere i loro nemici,
ricorrono a molti stratagemmi ingannevoli: perciò, non bisogna fidarsi
dei re. E nemmeno possiamo fidarci del loro aspetto, Hanuman, perché
spesso i nemici uccidono mascherandosi. Vali è scaltro, e anche
noi dobbiamo ricorrere all'astuzia per sventare i suoi tentativi
di uccidermi. Ti prego, mascherati come si deve e va' da loro; e
per amor mio, cerca di scoprire chi sono con l'aiuto delle gesta
che faranno e delle parole che diranno mentre tu mi loderai".
Hanuman si travestì da mendicante, si presentò umilmente ai due
principi, e dopo essersi inchinato chiese loro: "Pur essendo vestiti
da asceti, voi avete l'aspetto di saggi reali o dèi. Vi prego di
dirmi chi siete e che cosa fate qui. Avete braccia potenti da principi,
ma non portate ornamenti! Le vostre armi sono magnifiche, e riccamente
rivestite d'oro e pietre preziose.
"Adesso vi dirò chi sono io. Un grande capo dei vanara (gli abitanti
della foresta) Si è rifugiato qui, dopo essere stato scacciato dal
suo regno dal suo crudele fratello Vali. Il suo nome è Sugriva;
e io sono Hanuman, un suo ministro. Sugriva desidera la vostra amicizia.
Anch'io sono un vanara, anche se ho assunto le sembianze di un mendicante".
Rama ammirò moltissimo il discorso di Hanuman, e disse a Lakshmana:
"Di certo nessuno può parlare come lui se non è maestro dei tre
Veda. Non c'è una sola pecca nel suo linguaggio, nel suo modo di
esprimersi, o nella scelta delle parole o dei gesti. Ne sono rimasto
favorevolmente impressionato. Ti prego, dagli una risposta appropriata".
Allora Lakshmana disse ad Hanuman: "Abbiamo già sentito parlare
del nobile Sugriva! Anche noi saremmo felici d'incontrarlo e coltivare
la sua amicizia per il bene reciproco".
Felice di ascoltare le parole di Lakshmana, Hanuman chiese a Rama:
"Vi prego di dirmi perché siete in questa foresta e in che modo
noi possiamo aiutarvi".
Lakshmana raccontò tutta la loro storia nei dettagli, fino al rapimento
di Sita; e aggiunse: "Non sappiamo dove vive il demone che ha rapito
Sita e non conosciamo neanche i suoi poteri. Ma poco tempo fa abbiamo
incontrato il demone Danu (Kabandha), che mentre ascendeva ai mondi
superiori ci ha predetto che Sugriva ci avrebbe aiutati a trovare
il demone che ha portato via Sita. Quindi siamo giunti fin qui seguendo
le sue istruzioni. Questo è un evento straordinario, Hanuman! Colui
che è il rifugio del mondo intero cerca rifugio in Sugriva. Colui
la cui gratificazione porta gratificazione a tutti, cerca il favore
di Sugriva, il capo dei vanara. Sugriva dovrebbe aiutare Rama a
realizzare la sua impresa".
Dopo questo discorso Hanuman fu ancora più felice, e disse: "Siamo
stati veramente fortunati che voi due, che siete maestri della vostra
mente e dei vostri sensi, siate venuti qua da noi. Anche Sugriva
ha bisogno del vostro aiuto. Privato di sua moglie e del suo regno
dal fratello Vali, Sugriva vive qui in esilio, in preda al terrore.
Egli darà certamente a Rama tutto l'aiuto che potrà".
Hanuman si spogliò del travestimento da mendicante e scortò i principi
in presenza di Sugriva. Poi mise Sugriva al corrente dell'identità
di Rama e Lakshmana, e concluse: "O re, ricevi Rama e Lakshmana
con l'onore dovuto, e coltiva la loro amicizia".
Dopo avere dato il benvenuto a Rama e a Lakshmana, Sugriva disse
loro: "Hanuman mi ha raccontato ogni cosa. Se accettate la mia amicizia,
ecco qua la mia mano!". A queste parole, Rama strinse la mano di
Sugriva e abbracciò il re in un gesto genuino d'affetto e amicizia.
Poi Hanuman accese il fuoco sacro che doveva rendere testimonianza
a questa nuova e significativa alleanza. Girando intorno al fuoco,
Sugriva disse a Rama: "Adesso tu sei il mio carissimo amico; d'ora
in poi noi divideremo le nostre gioie e le nostre tristezze".
Dopo la cerimonia del fuoco, quando tutti si rimisero seduti, Sugriva
disse a Rama: "Mio fratello Vali mi ha privato del regno, e anche
mia moglie mi è stata portata via da lui. Io mi sono rifugiato qui,
su questo monte, che è di difficile accesso a Vali; ma vivo costantemente
nel terrore. Ti prego, Rama, fa' in modo che la causa della mia
paura sia rimossa".
Rama rispose immediatamente: "Guarda questi miei missili, Sugriva!
Ben presto io ucciderò quel malvagio Vali".
Sugriva disse a Rama: "Hanuman mi ha spiegato il motivo per cui
sei venuto qui. Io non so dove vive Ravana né conosco i suoi poteri,
ma presto scoprirò tutto. Sia che egli viva su questa terra o negli
inferi, Ravana non ci sfuggirà! Stai pur certo. A proposito, mi
ricordo di qualcosa che accadde non molto tempo fa. Penso si trattasse
proprio di Sita, che veniva portata via da un demone, che ovviamente
era Ravana. Vedendoci seduti su questo monte, quella donna gettò
un fagottello che cadde vicino a noi. Ella gridava ad alta voce:
'O Rama, o Lakshmana'. Il fagottello conteneva dei gioielli, che
noi abbiamo conservato".
Rama era impaziente di vedere i gioielli! Quando Sugriva li portò
vedendoli, Rama cominciò di nuovo a gemere forte, e disse al fratello
"Vedi Lakshmana, guarda quest'indumento di Sita che lei ha gettato
giù mettendo dentro i gioielli che portava nel momento in cui Ravana
la rapì. Per fortuna sono caduti su un terreno morbido, sono intatti".
Osservandoli, Lakshmana disse: "Non riconosco gli ornamenti che
Sita portava sulla testa o sul corpo, ma riconosco quelli che adornavano
i suoi piedi, perché li notavo ogni giorno, quando m'inchinavo a
lei".
Rama chiese nuovamente a Sugriva: "Dove vive il demone che ha rapito
Sita, causandomi tutta questa infelicità? Egli ha decretato la distruzione
dell'intera razza dei demoni per mano mia "
Ancora una volta Sugriva rispose: "Non so ancora dove vive. Ma non
preoccuparti, Rama! Ti prometto che farò tutto il necessario per
riportarti Sita. Basta con il dolore, abbandona la debolezza mentale.
Vedi, anch'io sono stato privato del mio regno e di mia moglie.
E sebbene appartenga ad una tribù primitiva della giungla, non m'addoloro.
L'angoscia e la disperazione non si addicono a te, che appartieni
ad una famiglia reale civilizzata. Io ti prego con le mani giunte:
riacquista la tua virilità e non lasciare che il dolore entri nel
tuo cuore. Infatti non c'è felicità per coloro che si affliggono
e si angosciano, anzi essi vengono ulteriormente privati delle loro
energie. Perciò non devi rattristarti. Anche la vita diventa incerta
per chi si lascia andare alla tristezza. Abbandona la tristezza
e sii coraggioso, Rama. Non pensare per favore che io stia predicando!
Ti sto solo dicendo queste cose da amico, per il tuo bene";
Così incoraggiato, Rama riacquistò immediatamente la sua serenità
e disse a Sugriva: "Amico mio, fa' ciò che un vero amico deve fare
per sollevare l'altro dal suo dolore! L'amicizia che c'è tra noi
è davvero rara oggigiorno nel mondo. Io non ho mai proferito menzogna,
né mai sarò reo di falsità. Porterò a compimento il tuo scopo".
Sugriva fu immensamente felice di udire le parole di Rama, e disse:
"Con la tua amicizia e il tuo aiuto, Rama, uno può guadagnare anche
il paradiso: figuriamoci il proprio regno. Anch'io potrò darti il
mio aiuto, sebbene non mi sia possibile dartelo subito a causa della
sventura nella quale sono caduto. La tua amicizia ha per me un valore
inestimabile. Essa accrescerà la mia reputazione davanti al mio
popolo. Le persone buone abbandonano ogni senso di proprietà privata
quando coltivano l'amicizia di altre persone buone: gli amici tengono
in comune l'oro, l'argento e anche i gioielli inestimabili, senza
sentire 'Questo è mio, non tuo'. Così sarà la nostra amicizia. E
ancora, per amore dei propri amici uno rinuncia alle ricchezze,
ai piaceri e anche al proprio paese".
Rama fu pienamente d'accordo con la dichiarazione di Sugriva sulle
caratteristiche dell'amicizia. Tagliando uno degli alberi là vicino,
Sugriva permise a tutti di avere un posto a sedere.
Quando tutti sedettero, Sugriva continuò, rivolgendosi a Rama: "Scacciato
dal mio regno e privato di mia moglie, io vivo nella paura e nell'angoscia.
Ti prego di liberarmi da questo dolore".
Rama rispose: "Il servizio utile è sicuramente frutto del senso
dell'amicizia, mentre dall'inimicizia deriva il danno. Ucciderò
quanto prima quel peccatore che ti ha defraudato di tua moglie.
Non vedi i potenti missili che possiedo? Presto essi priveranno
Vali della sua vita".
Felicissimo di questa rassicurante dichiarazione, Sugriva lodò Rama
e continuò a dirgli umilmente: "Io sono affranto dal dolore, e tu
sei il solo rifugio degli afflitti. Considerandoti un mio caro amico,
io prendo rifugio in te e ti disturbo". Mentre parlava, gli occhi
gli si riempirono di lacrime.
Asciugandosele, egli si sforzò di mantenere la sua compostezza,
e poi continuò: "Vali è un potente vanara. Egli non solo ha usurpato
il mio trono, ma mi ha scacciato dal regno dopo avermi insultato.
Poi si è impossessato di mia moglie e ha incarcerato i miei parenti.
Ora sta sempre a progettare di uccidermi. Per questo ero terrorizzato
quando all'inizio vi ho visti arrivare qui. Questi pochi vanara
sono gli unici compagni che ho; ma ora che tu sei diventato mio
amico, sono sicuro che il mio dolore è finito. Perché nella gioia
e nel dolore, gli amici sono l'unico soccorso che abbiamo".
Infine Rama chiese a Sugriva: "Raccontami gentilmente tutta la storia.
Come mai sei incorso nell'odio di Vali, e perché egli ha usurpato
il tuo regno e si è preso tua moglie?".
Sugriva disse: "Vali è il mio fratello maggiore. Egli è eccezionalmente
forte. Nostro padre lo amava molto, e anch'io lo amavo. Quando nostro
padre morì, Vali fu giustamente installato sul trono del nostro
territorio chiamato Kishkindha.
"Vali aveva un nemico di nome Mayavi, figlio di Maya. Un giorno
Mayavi venne da noi e sfidò Vali a duello. Le donne di corte e io
stesso cercammo di far desistere Vali dall'accettare la sfida, per
impedire uno spargimento di sangue; ma Vali non ci ascoltò.
"Quando Vali uscì per combattere contro Mayavi, quest'ultimo fu
improvvisamente sopraffatto dalla paura e cominciò a correre. Vali
lo inseguì, e anch'io andai con lui. Il demone Mayavi entrò in una
spaventosa caverna sotterranea; e Vali lo inseguì, dopo avermi ordinato:
"Rimani all'ingresso di questa caverna, Sugriva, mentre io inseguo
il demone e lo uccido". Lo implorai che portasse anche me con lui,
ma Vali rifiutò.
"Per un anno aspettai all'ingresso della caverna. Sentivo suoni
terribili provenire dal suo interno, ma Vali non tornava. Infine
del sangue uscì a fiotti dalla caverna, ma non riuscivo a sentire
l'urlo di vittoria di Vali. Conclusi che egli fosse stato ucciso
dal demone. Col cuore infranto tornai nel nostro regno. Quando i
ministri vennero in qualche modo a sapere la verità, mi installarono
sul trono.
"Dopo un certo tempo Vali ritornò. Io lo salutai, ma egli non se
ne curò. Era furioso. Io gli dissi umilmente: "Siamo tutti molto
fortunati a riaverti vivo tra noi. Ecco il tuo trono: ti prego,
riprendilo! Pieno d'ansia, aspettai un anno all'ingresso della caverna.
Poi vidi il sangue e pensai che fossi stato ucciso. Mosso dalla
paura e dall'angoscia, chiusi la grotta con una grande roccia e
tornai qui. I ministri insistettero per installarmi sul trono, per
non mettere in pericolo la sicurezza dello stato lasciandolo senza
un sovrano. Io non lo desideravo. Ti prego di perdonarmi. Tu sei
il re sempre adorato, e io sono quello che ero prima".
"Ma quantunque lo implorassi, egli si rifiutava di ascoltarmi. Era
infuriato; e mi accusò ingiustamente, dicendo: "T'avevo chiesto
di rimanere all'ingresso della caverna. Dopo avere ucciso il demone
Mayavi ho cercato di uscire dalla caverna, ma non vedevo neanche
la strada, perché tu avevi chiuso la grotta con una roccia. Infine
sono riuscito a rimuovere la roccia e sono venuto qui, solo per
scoprire che tu sei diventato re!". Pieno di collera, Vali mi scacciò
dal regno lasciandomi solo un panno. Poi ho trovato rifugio su questo
monte che, per un altro motivo, è fuori dalla sua portata".
Rama ribadì la sua promessa: "Il tuo dolore finirà presto; non appena
sarò davanti al malvagio Vali che si è preso tua moglie".
[NOTA: Nel testo è specificato 'un unico panno': deve forse una
scimmia vestirsi?]
Sugriva disse: "Sono sicuro, Rama, che quando sei adirato puoi distruggere
anche i mondi con i tuoi missili, come potrebbe fare il sole alla
fine di un'epoca. Comunque ascolta con attenzione la descrizione
dei poteri di Vali, e poi farai quanto necessario.
"C'era una volta un demone chiamato Dundubhi, che aveva l'aspetto
di un bufalo ed era estremamente potente. Un giorno questo demone
andò in riva all'oceano e sfidò in combattimento lo stesso oceano!
"L'oceano però gli rispose: "Ti prego, non sfidarmi! La mia potenza
non è pari alla tua, però ti dirò chi potrebbe accettare la tua
sfida. È il suocero dello stesso Signore Shiva: Himavan. Per favore
vai da lui e metti alla prova la tua forza".
"Dundubhi non perse tempo e andò subito da Himavan. Cominciò a scuotere
i picchi delle montagne e a distruggere le colline. Vedendosi così
tormentato, Himavan disse a Dundubhi: "Ti prego, non tormentarmi
in questo modo. Io non sono abile in battaglia, perché sono la dimora
degli asceti. Tuttavia ti dirò chi è pari a te in forza ed eroismo,
così che potrai sfidarlo a duello: è Vali, il figlio di Indra, che
vive nel territorio Kishkindha. Se desideri incontrare e combattere
uno che ti è pari, lui è il tipo al quale devi rivolgerti".
"Dundubhi arrivò nel territorio Kishkindha e non perse tempo nel
far sentire la sua presenza. Egli fece tremare la terra, devastò
la foresta e si mise a urlare forte. Vali sfidò Dundubhi a combattere.
Ma quando Vali uscì dal palazzo era circondato da un certo numero
di donne e appariva anche ubriaco.
"Dundubhi rifiutò di combattere con lui, e gli disse: "Stanotte
divertiti, Vali, e torna da me domani. Ti stai vantando davanti
a quelle donne e inoltre sei ubriaco. Non è morale combattere e
uccidere una persona ubriaca o che ha un arto spezzato, o che è
disarmata o emaciata. Un'azione del genere è tanto grave quanto
uccidere un bimbo non ancora nato. Tu sei ubriaco e la tua mente
è offuscata dalla passione. Perciò goditi questa serata e poi congedati
dai tuoi amici, dai tuoi parenti e dal tuo regno, perché non li
vedrai più!".
"Vali però non si tirò indietro! Egli afferrò il demone, lo sollevò,
lo fece roteare e lo sbatté a terra con forza. Quindi lo colpì con
pugni e calci, e infine il demone morì. Tuttavia quando Vali scagliò
Dundubhi a quattro miglia di distanza con un calcio, del sangue
del demone cadde in prossimità dell'eremitaggio del saggio Matanga".
"Quando il saggio Matanga scoprì che la zona circostante il suo
eremitaggio era stata dissacrata dal sangue e che gli alberi dei
dintorni erano stati distrutti o spogliati delle foglie, rimase
molto contrariato. Sapendo che era stata opera degli abitanti della
foresta (vanara), il saggio uscì dal suo eremitaggio, e vedendo
i vanara pronunciò una maledizione: "Colui che ha ucciso questo
demone-bufalo (Dundubhi), e che ha causato la caduta del suo sangue
vicino al mio eremitaggio, e che è responsabile della distruzione
di questa foresta che io ho nutrito come se fosse mia figlia, non
vi entrerà più; e se lo farà, morirà istantaneamente. Neanche i
suoi compagni potranno entrare in questa foresta: se lo faranno,
diventeranno subito rocce e resteranno pietrificati per migliaia
d'anni. Questo è l'ultimo giorno in cui possono stare in questa
foresta; se non ne escono subito, da domani saranno pietrificati".
Udendo questa maledizione e questo ultimatum, i vanara corsero da
Vali e, rispondendo alle sue domande, lo informarono della maledizione
e dell'ultimatum. Vali stesso si recò dal saggio e chiese scusa
con le mani giunte; ma il saggio non gli prestò ascolto.
"Da quel tempo, questa foresta è inaccessibile a Vali e ai suoi
compagni. Perciò per me è un posto sicuro, e mi sono rifugiato qui.
Guarda là, Rama, l'enorme scheletro che rimane del demone Dundubhi.
E questi sono gli alberi che Vali scosse a mani nude e privò delle
foglie! Tale è la sua forza e tali sono i suoi poteri".
Lakshmana fu divertito da questo racconto, che esprimeva chiaramente
l'ansietà di Sugriva e la sua incertezza sul risultato dell'incontro
di Rama con Vali. Quindi Lakshmana chiese a Sugriva: "Bene! Dimmi
dunque: come potresti essere convinto del valore di Rama?". Sugriva
propose: "Con un calcio Vali scagliò Dundubhi a quattro miglia di
distanza. Se con un calcio Rama potrà lanciare questo scheletro
alla distanza di trecento metri, mi convincerò. O Rama, io non sminuisco
la tua potenza né voglio impaurirti; ma dopo aver visto il valore
di Vali sono diventato un pusillanime".
Rama s'avvicinò allo scheletro, lo sollevò con il suo alluce e lo
scagliò alla distanza di ottanta miglia. Sugriva ne fu entusiasta;
ma un dubbio entrò nella sua mente: Vali aveva calciato l'intero
corpo di Dundubhi, mentre Rama aveva scagliato solo le ossa! Allora
Sugriva propose a Rama un'altra prova: "Vali poteva abbattere questi
alberi con un solo missile della sua arma. Puoi farlo anche tu?
Sono sicuro di si, ma voglio vedertelo fare. Come il sole è il più
splendente degli esseri radiosi, come l'Himalaya è la più alta delle
montagne e il leone è il re degli animali, così tu sei il supremo
tra gli uomini".
Dopo avere ascoltato le parole di Sugriva, Rama preparò divertito
la sua arma, la caricò con un missile e tirò. Questo missile placcato
d'oro trafisse gli alberi giganteschi, trafisse la stessa montagna
e la terra intera e, meraviglia delle meraviglie, tornò da Rama.
Vedendo questo, Sugriva s'inchinò dinanzi a Rama, e con le mani
giunte in segno di saluto gli disse: "Tu sei davvero eccelso, Rama,
e potresti uccidere anche Indra, il dio dei cieli. Su questo non
ho alcun dubbio. Ora la mia angoscia è svanita, e io sono immensamente
felice, avendo la fortuna di avere per amico te che sei pari agli
dèi. O Rama, apprestati ad uccidere il mio nemico, che vive nelle
sembianze di mio fratello".
Anche Rama era ansioso di farlo; e rivolto ai presenti egli disse:
"Andiamo". Allora tutti partirono verso Kishkindha, dove viveva
Vali. Con urla e grida, Sugriva sfidò Vali a venire fuori. Vali,
che aveva una forza indubbiamente superiore, rimase sorpreso dalla
sfrontatezza del fratello e uscì ad affrontare la sfida di Sugriva.
Rapidamente incrociarono le mani in un duello.
I due fratelli si colpivano reciprocamente a pugni e a calci. Il
combattimento era terribile. Rama, Lakshmana e gli altri osservavano
questa lotta feroce da dietro gli alberi che si trovavano a una
certa distanza. Benché Rama stesse in piedi con l'arma pronta a
sparare il missile più micidiale, egli non tirò perché non riusciva
a distinguere chi fosse Vali e chi Sugriva!
Si somigliavano così tanto che Rama era indeciso. Naturalmente Sugriva
fu ferito in maniera grave, ma riuscì a scappare e a rifugiarsi
sul monte Rshyamuka. Vali lo inseguì fino ai piedi della montagna
e poi si ritirò.
Rama andò subito a cercare Sugriva, e lo trovò terribilmente sconcertato
e scoraggiato. Sugriva disse a Rama: "Sono rimasto molto deluso
da te. Potevi dirmelo prima che non volevi uccidere Vali, e io non
mi sarei avventurato contro di lui".
Rama gli spiegò: "Non riuscivo a distinguervi l'uno dall'altro!
Non ho voluto tirare, per non rischiare di uccidere te. Uccidere
uno al quale ho appena dato rifugio sarebbe un grande peccato. Ti
prego, va' di nuovo, ma stavolta indossa qualcosa che ti faccia
distinguere da Vali! Così potrò distinguere l'uno dall'altro quando
sarete avvinghiati nel duello".
Seguendo l'ordine di Rama, Lakshmana raccolse dei fiori selvatici
chiamati gajapushpi, ne fece una ghirlanda e la mise intorno al
collo di Sugriva. Poi tutti si diressero ancora una volta verso
Kishkindha.
Sugriva faceva strada. Lakshmana lo seguiva alle calcagna. Dietro
a loro c'era Rama, e poi Hanuman e infine tutti gli altri compagni
di Sugriva. Procedendo verso Kishkindha essi videro numerosi alberi
stracarichi di fiori. Passarono vicino a grotte e a montagne, e
videro animali selvatici e uccelli. Videro molti cervi che vagavano
liberamente per la foresta; e videro anche degli elefanti.
Poi essi entrarono in un incantevole boschetto che destò l'attenzione
di Rama. Intuendo che si trattava di un posto che aveva un particolare
significato, egli chiese a Sugriva di raccontargli qualcosa che
riguardasse quel luogo. Allora Sugriva narrò a Rama la seguente
storia: "Quest'eremo è la dimora dei sette saggi noti collettivamente
con il nome di Saptajana. Essi erano dei saggi di grandissimo autocontrollo
che restavano perennemente sospesi con la testa in giù e giacevano
sull'acqua Essi mangiavano una volta la settimana. Dopo aver praticato
questo tipo di austerità per settemila anni, essi ascesero in cielo
con i loro corpi. Nessun uccello o animale selvatico osa entrare
in questo boschetto, dal quale emana incessantemente una fragranza
divina e una musica celestiale. Coloro che qui s'inchinano devotamente
a questi sette saggi, non soffriranno di alcun male fisico. Perciò
è bene che anche tu e Lakshmana v'inchiniate a questi saggi, ricevendo
le loro benedizioni". Rama e Lakshmana lo fecero.
Con le loro armi e i loro missili, Rama, Lakshmana e il gruppetto
di vanara entrarono a Kishkindha. Sugriva era ansioso di combattere,
e disse a Rama: "Siamo giunti a Kishkindha, dove vive Vali. Questa
volta ti prego di ucciderlo senza indugio".
Rama lo riassicurò con queste parole: "Tu sei stato inghirlandato
da Lakshmana con questi fiori di gajapushpi che splendono intorno
al tuo collo, distinguendoti da Vali. Basterà che io lo veda una
volta ed egli cadrà subito morto. La fine della tua sventura, la
fine della tua paura e del tuo dolore è vicina, Sugriva. Se io fallissi
nell'adempiere la mia promessa, allora potrai accusarmi. Non mi
vanto, perché non voglio trasgredire il Dharma; ma in verità ti
dico che oggi adempirò la mia promessa. Vai pure avanti e grida
forte. Questo attirerà sicuramente l'attenzione di Vali, che allora
uscirà per accettare la tua sfida; poiché gli eroi non ammettono
una sfida senza ricambiare il favore".
Sugriva avanzò verso il palazzo di Vali e urlò. Quel suono era così
potente e straziante che gli uccelli e gli animali s'allontanarono.
Questo incoraggiò ulteriormente Sugriva, che andò ancora più vicino
alla dimora di Vali, continuando a urlare!
Udendo di nuovo l'urlo di Sugriva, Vali fu terribilmente contrariato.
La sua vanità fu offesa, e la sua ira si destò. Per questo il suo
splendore fu, per così dire, eclissato. Vali, il potente eroe dalla
forza incomparabile, non poté tollerare quell'insulto al suo valore,
e si precipitò fuori del suo alloggio.
Sua moglie Tara, però, intervenne e gli disse garbatamente: "Signore,
desidererei che tu non andassi ad incontrare Sugriva in questo modo.
Sarebbe meglio riflettere sulla nuova situazione, valutarla attentamente
e poi combattere, se necessario, dopo un po'. Sugriva era gravemente
ferito ed è stato costretto a fuggire poco tempo fa. Ora è tornato.
Sicuramente ha qualcuno che lo aiuta. Egli è astuto, e non si fiderebbe
di un alleato del quale non avrebbe ben provato la forza. Questa
è una cosa da considerare.
"Inoltre poco tempo fa ho sentito delle voci - poi confermate dalle
spie mandate da tuo figlio Angada - che Rama e Lakshmana, figli
di re Dasaratha sono arrivati nel nostro territorio. Rama e Sugriva
sono diventati amici. Rama è potente, ed è anche la dimora del Dharma.
Per questo penso che non sia saggio essere ostili a Rama. Ti do
questi consigli per l'affetto che nutro per te, e non perché io
trovi in te delle colpe, o mio signore. Fa' che non vi sia inimicizia
tra te e tuo fratello Sugriva. Fa' che ci sia il perdono, e stringi
amicizia anche con Rama. Dai a Sugriva l'incarico di principe reggente
e fate tornare l'amore tra voi fratelli. Sicuramente tuo fratello
merita il tuo amore e il tuo affetto".
Questo saggio consiglio non piacque a Vali, che aveva raggiunto
il termine della sua vita. Egli disse aspramente a Tara: "Grazie
per il tuo consiglio. Hai fatto il tuo dovere. Mi hai mostrato il
tuo affetto; ora puoi tornare a casa. Io tornerò dopo aver sottomesso
l'arrogante Sugriva. Non posso tollerare il suo comportamento insolente".
A Tara non rimase altro che invocare le benedizioni di Dio su Vali.
I due potenti fratelli diedero inizio ad una cruenta battaglia.
Vali colpì Sugriva, e Sugriva vomitò sangue profusamente. Poi Sugriva
colpì Vali con un grande albero, e Vali rotolò per l'impatto. Ben
presto però Vali ebbe la meglio e colpì Sugriva con tutte le sue
forze. Tempestato di colpi, Sugriva continuava a combattere, guardandosi
in giro come se cercasse aiuto.
Rama sapeva che per lui era arrivato il momento d'intervenire. Caricò
quindi la sua arma con un missile terrificante e sparò. Il missile
si staccò dall'arma producendo il rumore del tuono e colpì Vali
al petto. Colpito da questo missile, Vali - il potente guerriero
che risplendeva del suo valore - cadde a terra.
Vali però non morì. Egli portava una collana celestiale donatagli
da Indra che preservava la sua forza vitale, il suo splendore e
la sua bellezza. Tuttavia il missile di Rama, con il quale era stato
colpito, gli aveva illuminato la strada che porta in cielo e lo
aveva portato allo stato supremo.
Rama e Lakshmana si fecero avanti sul luogo dove lui giaceva. Guardandoli,
e usando parole cortesi ma con tono aspro, Vali si rivolse a Rama:
"Nato dal grande imperatore Dasaratha, tu Rama hai commesso un atto
ingiusto. Mi hai colpito mentre combattevo con un altro; mi hai
colpito tirando da un luogo in cui ti eri nascosto. La gente ti
glorifica dicendo che sei giusto, devoto alla verità, compassionevole,
ecc. Io pensavo che tutto ciò fosse vero. Perciò benché mia moglie
Tara avesse sentito che tu eri qui come alleato di Sugriva, io ho
combattuto con lui. Nessuno si sarebbe aspettato che tu mi colpissi
in maniera poco cavalleresca.
"Rama, io non ti ho arrecato nessuna offesa: non mi sono intromesso
nel tuo territorio, non ho invaso la tua capitale né ho commesso
un atto d'aggressione contro di te. Eppure tu hai voluto uccidermi,
mentre combattevo con un altro! Nonostante questo però tu vesti
da persona giusta, portando i capelli intrecciati e vestendoti di
pelle di daino e corteccia. La negoziazione pacifica, la carità,
il perdono, il Dharma, la verità, la fermezza, il valore e anche
la punizione dei criminali - queste sono le qualità dei re. Noi
siamo un popolo primitivo della foresta che vive di frutti e radici
come gli animali. La gente in genere combatte per la terra, l'oro
e le belle donne; ma noi qui non abbiamo nulla di tutto ciò! Eppure
tu hai cercato di uccidermi, senza alcun motivo apparente. Avendo
perpetrato questo crimine d'omicidio premeditato, che cosa dirai
di te agli uomini santi?
"Né la mia pelle né la mia carne sono di alcuna utilità. Cinque
animali muniti di zampe possono essere mangiati dai brahmana e dagli
kshatriya (principi e guerrieri): il rinoceronte, il porcospino,
l'iguana, la lepre e la tartaruga. Ma la mia pelle e la mia carne
non vengono neanche toccate dalla gente, e mangiare la carne del
mio corpo è proibito. Eppure io, che ho cinque dita alle mani e
ai piedi, sono stato ucciso. Tu hai trasgredito i limiti del Dharma;
tu hai infranto il codice della moralità.
"Mia moglie Tara mi ha detto del tuo arrivo qui e della tua amicizia
con Sugriva per adempiere la tua missione. Se mi avessi detto della
tua sventura, ti avrei riportato tua moglie in poco tempo! Avrei
incatenato Ravana e te lo avrei portato vivo: Penso che la mia fine
sia vicina; nessuno può sfuggire alla morte. Ma per quale motivo
hai causato la mia fine?".
Rama rispose:
"Tu non conosci il Dharma, né le cose del mondo, né le leggi che
governano il piacere, né il comportamento della gente nelle condizioni
e nelle circostanze più diverse: e tuttavia tu accusi me. Tutta
la terra appartiene ai re che discendono da Manu e quindi dal mio
antenato Ikshvaku. L attuale regnante della dinastia di Ikshvaku
è il mio nobile fratello Bharata, che è il monarca supremo di tutta
la terra: io ho ricevuto da lui il mandato di accertare che tutti
i sudditi del nobile imperatore osservino le leggi della virtù.
"Io ti considero il peggiore dei peccatori, e ti dirò perché. Secondo
il codice di rettitudine, il fratello maggiore, il padre e il maestro
devono essere trattati come il proprio padre. Similmente, il fratello
minore, il figlio e il discepolo devono essere considerati come
il proprio figlio. Invece, ecco: tu vivi con la moglie di tuo fratello
minore che per te è come una figlia! Il Dharma è estremamente sottile
e difficile da comprendere, e la condotta del virtuoso è difficile
da comprendere; solo il Sé che dimora nel cuore di ognuno conosce
ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. La prima e più importante
ragione per la quale ti ho colpito è perché tu vivi nel peccato
con la moglie di tuo fratello minore, e come rappresentante dell'imperatore
ho considerato mio dovere darti una punizione. A questo proposito
c'è il famoso comandamento: "Sottostando alla giusta punizione inflittagli
dal re, il criminale viene purificato e va in cielo. Ma se il criminale
non viene punito, il re è colpevole del crimine . Per questo anche
dei potenti sono stati puniti: mentre altri hanno fatto opere di
espiazione per liberarsi dei peccati.
"In secondo luogo, Sugriva è mio amico, così come lo è Lakshmana.
Io gli diedi la mia parola d'onore che il suo regno e sua moglie
gli sarebbero stati restituiti. Perciò era mio dovere onorare la
promessa fatta.
"Tu mi potresti chiedere perché non ho combattuto direttamente con
te per ucciderti. Io ti rispondo: la gente uccide gli animali selvatici
o quelli che servono come carne da mangiare stando in un luogo nascosto
e senza alcuna provocazione. Perciò era giusto da parte mia ucciderti
anche se non stavi combattendo con me, poiché tu appartieni alla
stessa specie degli animali che dimorano nella foresta. O vanara,
liberato dal tuo peccato con l'accettazione della giusta punizione,
ora tu ascenderai in cielo".
Vali ritirò le sue accuse e chiese perdono per le dure parole proferite;
poi implorò Rama: "Ti prego, fa' che si prendano giusta cura di
Angada. So che sotto la tua guida Sugriva regnerà bene e rettamente;
la mia unica ansietà è per mio figlio Angada". Ma Rama lo rassicurò
al riguardo.
Quando il potente Vali cadde, i vanara fuggirono. Ma quando Tara
seppe la terribile notizia, si precipitò dov'era il corpo del marito.
Vide i vanara che fuggivano e chiese loro: "Perché voi vanara state
scappando, abbandonando il potente re che fino a poco fa seguivate?".
In tutta fretta i vanara misero in guardia Tara: "Ti preghiamo,
cara regina, non avvicinarti al luogo dove ora giace il corpo del
re. Vali è morto, ma tuo figlio Angada è vivo. Sarebbe meglio proteggerlo
dai missili micidiali di quel potente Rama di cui abbiamo visto
il valore. Ah, con i suoi missili ha incenerito rocce e alberi.
I suoi missili sono come fulmini e hanno lo stesso potere dei fulmini.
Non avevamo mai visto né sentito dire di tali missili. Torniamo
presto a difendere Kishkindha! Ora da un momento all'altro il vittorioso
Sugriva, insieme ad Hanuman e ad altri, potrebbe prendere d'assalto
il territorio".
La nobile Tara non ebbe paura, e disse: "No, io andrò dove giace
il mio nobile marito. Ho perso lui: che cosa dovrei fare con il
regno o con Angada?". Presto ella vide Vali steso sul terreno -
quello stesso Vali che rivaleggiava in valore con il re dei cieli,
Indra. In piedi vicino a lui vide anche Rama, Lakshmana e Sugriva.
Tara s'accasciò accanto al corpo di Vali e gemette: "Signore, perché
oggi non mi parli? Perché mi hai abbandonata? Certo la terra ti
è più cara di me, o sovrano della terra; perciò oggi hai abbandonato
me e con le tue membra abbracci la terra. O potente eroe, hai pagato
la pena per aver vissuto con la moglie di Sugriva. No, io non trovo
colpe in te, né ti accuso. Solo il tempo ti ha ucciso: la tua ora
è venuta, e tu che non potevi essere sottomesso da nessuno sei caduto
nel tranello di Sugriva. Non ho mai conosciuto il dolore, perché
ero protetta amorevolmente da te; ma ora dovrò vivere come una miserabile
vedova. E tuo figlio Angada: chissà quale sarà il suo fato adesso?
Ah, Rama ha adempiuto la promessa fatta a Sugriva, di ucciderti
e restituirgli il regno e la moglie. Ora Sugriva sarà certamente
felice e si rallegrerà. Noncurante del mio avvertimento, sei voluto
andare velocemente incontro alla tua fine. E adesso che faremo noi,
tue devote mogli?". Tutte le mogli di Vali si unirono al suo lamento;
e insieme pregarono per il marito defunto: "Signore, se mai abbiamo
fatto qualcosa che possa averti dispiaciuto, ti preghiamo di perdonarci".
Poi esse toccarono devotamente i piedi di Vali e piansero profusamente.
Mentre piangeva la morte di Vali, insieme alle altre mogli dell'eroe,
Tara decise di digiunare fino alla morte rimanendo nello stesso
luogo in cui era stato ucciso il marito.
[NOTA: Uno dei sinonimi di vanara usati nel testo è 'vanacarina',
che letteralmente significa 'uno che vaga per la foresta'.]
Il saggio Hanuman disse a Tara: "Nobile donna, dopo aver lasciato
questo mondo ogni essere ottiene il giusto compenso per le buone
e le cattive azioni fatte qui. Uno che merita compassione s'addolora
per un altro. Chi dovrebbe addolorarsi e per chi - il morto o il
vivo - quando la vita fisica qui è come una bolla! Perciò allontana
la tua mente da quest'inutile dolore e applicala alla protezione
di Angada e all'esecuzione del rito funebre dell'eroe defunto. Vali
ha compiuto il suo dovere in questo mondo e sicuramente ha raggiunto
lo stato beato dei giusti monarchi. Ora tocca a te compiere i doveri
che ti competono! Fa' incoronare re Angada e disponi perché si compiano
i riti funebri per Vali".
Tara però era inconsolabile, e rispose: "Cento Angada non eguaglieranno
ai miei occhi un solo Vali, il mio amato signore. Potete andare
per la vostra strada: il mio posto è qui, dov'è caduto il mio signore".
Naturalmente, Vali non era morto, perché indossava ancora la catena
d'oro che proteggeva la sua forza vitale. Egli aprì gli occhi, guardò
Sugriva e disse: "Fratello, non biasimarmi per tutto quello che
è successo. Penso che non eravamo destinati ad essere felici insieme:
perciò è successo tutto questo. Presto io lascerò questo corpo e
questo mondo. Desidero che tu sia re dopo di me. Ti prego d'ascoltare
le mie richieste e di accettarle. Per prima cosa: ti prego di prenderti
cura di mio figlio Angada. Egli è pari a me in forza e valore. Ha
avuto una vita comoda: fa' che non sia soggetto all'infelicità.
Secondo, non disprezzare il consiglio di Tara. Ella non ha mai torto.
Terzo, impegnati a portare a termine l'impresa di Rama; il non farlo
equivarrebbe a infrangere una promessa e potrebbe costarti la vita
stessa. Per ultimo: voglio darti questa divina collana d'oro come
mio dono d'addio. Indossala. Il suo splendore e il suo potere protettivo
potrebbero svanire con la mia morte, perciò voglio trasferirtelo
ora stesso". Vali si tolse la collana e la diede a Sugriva. Egli
sapeva che la sua morte era vicina.
Infine egli si rivolse ad Angada: "Figlio mio, prima di fare qualcosa
considera bene il tempo e il luogo. Sopporta ugualmente le cose
piacevoli e quelle spiacevoli, la felicità e l'infelicità. Obbedisci
a Sugriva. Non approfittare di lui, come potevi fare con me. Sii
cordiale con i suoi amici e tratta i suoi nemici come fossero i
tuoi. Evita però l'affetto e l'odio eccessivo verso chiunque: perché
sono entrambi dei mali; mantieni la via di mezzo".
L'anima di Vali lasciò il corpo. Tutti i vanara gemettero forte,
raccontando le sue potenti imprese: specialmente il suo duello con
Golabha, un essere celeste che lo combatté per quindici anni, ma
che infine fu ucciso da Vali. Tara s'accasciò vicino al corpo di
Vali.
Tara continuò a lamentarsi: "Grande eroe! Il tuo corpo è completamente
ricoperto di sangue e fango, e la presenza del missile che ti ha
trafitto il cuore non mi permette d'abbracciarti. Ora il fato è
favorevole a Sugriva, ed egli è vittorioso. Il mio dolore mi fa
pensare che una ragazza non debba mai essere data in sposa ad un
eroe, perché prima o poi dovrà soffrire l'agonia della separazione
da lui. Potrà essere ricca e avere molti figli, ma resterà vedova.
Ti ho implorato di desistere da questa battaglia, ma non hai gradito
la mia preghiera. Non ho potuto impedirti di combattere. Ora che
sei morto, siamo tutti morti".
Quando Sugriva vide tutto ciò, rimase terribilmente scosso. Si avvicinò
a Rama e, con la voce soffocata dal dolore, gli disse: "Invero tu
hai mostrato un valore e una potenza sovrumana, e hai ucciso il
potente Vali. Ma ora che egli è morto, il mio cuore s'allontana
dal regno. Spinto dall'odio e da una grande rabbia io ho desiderato
la morte di mio fratello, ma ora che è morto il mio cuore è tormentato
dal dolore. Egli non mi avrebbe mai ucciso; anche quando avrebbe
potuto farlo, mi diceva soltanto: "Vattene, e non farlo più". Io
invece sono stato la causa della sua morte. Egli era nobile, io
sono ignobile. Egli era virtuoso, io sono un peccatore. Chi m'assolverà
da questo peccato, Rama? Io non merito la stima del popolo; io non
merito il trono. Come potrei regnare, dopo aver commesso questo
terribile crimine, ingiusto e deleterio per l'intera razza? Concedimi
il permesso di andare, Rama, lasciami entrare nel fuoco. Gli altri
vanara t'aiuteranno certamente a realizzare la tua impresa e troveranno
Sita per te". Queste parole causarono a Rama tristezza e preoccupazione.
Nello stesso tempo Tara vide Rama, s'avvicinò a lui, e gli disse:
"La tua gloria è incommensurabile, Rama. Tu sei un'incarnazione
del Dharma. Ho solo una preghiera da offrirti. Ti prego di esaudirla.
Nello stesso modo in cui hai ucciso mio marito, uccidi anche me;
così che possa riunirmi a lui. Tu conosci il dolore della separazione
dalla propria moglie; fa' in modo che mio marito non lo soffra.
Tu non farai peccato uccidendo me, una donna: perché io sono solo
l'altra metà di mio marito. Questo è quanto affermano i testi vedici:
che la moglie è una sola cosa con il marito".
Dissuadendola dal desiderio di morire, Rama le disse: "O eroina,
non permettere alla mente d'intrattenere questi erronei pensieri.
L'universo è stato creato dal Signore, che ha pure ordinato che
la felicità e l'infelicità siano inseparabili dal mondo. Questa
è la legge universale. Perciò abbandona quest'angoscia indegna delle
mogli degli eroi". Questo rasserenò Tara.
Rama parlò a tutti i presenti:
"Mostrare dolore non aiuta, ma ostacola il progresso dell'anima
del defunto verso la propria libertà. Tuttavia è bene osservare
il lutto tradizionale. Avete versato lacrime a sufficienza. Adesso
si facciano i riti funebri come si conviene.
"Niyati (il Tempo, il controllore interiore delle cose o il principio
del moto cosmico) è la sola causa di tutto nel mondo. Inoltre questa
forza misteriosa è il solo strumento d'azione. E questo principio
del moto cosmico che provoca tutte le attività. Nessuno fa qualcosa
in questo mondo; e nessuno spinge un altro a fare qualcosa; tutti
gli esseri manifestano la loro natura, e la natura è radicata nella
legge eterna del Tempo, che è l'unico suggeritore interiore. Il
Tempo non trascende se stesso; aderendo fermamente alla sua natura,
esso non oltrepassa i suoi confini. Il Tempo (o il principio del
moto) non ha amici o parenti, non è spinto da motivi né cerca di
sopraffare alcuno: esso non ha relazione con alcuno e non è soggetto
alla volontà di nessuno. Tuttavia la persona saggia e intelligente
può facilmente discernere i cambiamenti portati dal tempo: e ci
si può rendere conto di come nel corso del tempo uno ottiene il
Dharma, la prosperità materiale e i piaceri.
"Vali ha adempiuto il suo dovere e ha raggiunto la dimora suprema.
Ora è bene che voi tutti smettiate di addolorarvi e organizziate
il suo funerale: è bene che sia fatto al momento giusto".
Lakshmana s'incaricò di dirigere il funerale. Sotto la sua guida,
i diversi gruppi di vanara raccolsero tutti gli articoli necessari,
incluso un bellissimo palanchino con il quale trasportare il corpo
di Vali nel campo crematorio. Uno dei vanara corse dentro una grotta
enorme e ne uscì subito fuori con il palanchino. Sugriva e Angada
sollevarono il corpo di Vali e lo posero sopra al palanchino. Quindi
il corpo fu portato al campo crematorio. Dei vanara precedevano
il palanchino, coprendo la strada di gioielli anziché dei soliti
petali di fiori. Tutte le donne-vanara gemevano a voce alta, e il
loro lamento dava l'impressione che tutta la foresta stesse piangendo
l'eroe.
Il corpo fu poggiato nel luogo prescelto per la cremazione. Tara
si gettò ancora una volta sul corpo del marito e pianse in maniera
inconsolabile, poggiando la testa di Vali sul suo grembo. Infine
posero il corpo sulla pira. Secondo la tradizione Angada diede fuoco
alla pira e fece umilmente il giro della pira accesa. Dopo la cremazione,
tutti i vanara fecero il bagno nel fiume, offrirono libagioni all'anima
del defunto e poi tornarono nelle loro abitazioni. Sugriva si avvicinò
a Rama.
[NOTA: Nessuna traduzione è adeguata per 'niyati'. È 'quella entità
che tiene in moto il mondo'. Nel suo significato vi è il suggerimento
di una legge immutabile, di un destino inalterabile, di libero arbitrio
entro certi limiti, ecc.]
Hanuman disse a Rama: "Per grazia tua, Rama, Sugriva ha ottenuto
il regno di Kishkindha. Quando tu lo permetterai, egli farà il suo
ingresso trionfale nel nostro territorio e sarà incoronato re. Sono
certo che il territorio Kishkindha ti piacerà molto". Ma Rama gli
rispose subito: "Non entrerò a Kishkindha, Hanuman. Il comando di
mio padre implica che io non debba entrare in un villaggio o in
una città. Fate incoronare immediatamente Sugriva".
E a Sugriva Rama disse: "Appena sarai stato incoronato, installa
pure Angada sul trono come principe ereditario. Vedo che la stagione
delle piogge è appena cominciata; e durerà quattro mesi. Non è la
stagione adatta per l'impresa che abbiamo davanti; perciò puoi passare
questi quattro mesi a Kishkindha, dedicandoti agli affari di stato.
Io passerò questo periodo qui, in una grotta. Ma subito dopo la
stagione delle piogge, ti prego di agire prontamente per distruggere
Ravana e riportare Sita da me".
Sugriva entrò a Kishkindha. I vanara lo accolsero con ovazioni e
lo applaudirono. I loro capi raccolsero tutti gli articoli necessari
per l'incoronazione, accesero il fuoco sacro intonando i canti vedici,
e lo incoronarono re. In conformità agli ordini di Rama, Sugriva
installò Angada sul trono come principe ereditario. Sugriva andò
nuovamente da Rama e gli comunicò la notizia dell'incoronazione.
Quindi, dopo avere riottenuto sua moglie Ruma, egli rientrò nei
suoi alloggi a Kishkindha.
Rama e Lakshmana si stabilirono sul vicino monte Prashravana, e
scelsero una grotta spaziosa e ben ventilata, sul pendio della montagna.
A settentrione c'era una bella montagna la cui cima aveva l'aspetto
di una nuvola. Verso sud c'era un'altra montagna la cui cima era
coperta di neve. C era un fiume che scorreva nelle vicinanze. La
grotta non era neanche lontana da Kishkinda: potevano udire la musica
e il suono dei tamburi dei felici vanara, che danzavano per esprimere
la loro gioia. Tuttavia in quel luogo Rama non trovava pace senza
Sita, che a lui era più cara della sua stessa vita.
Quando Rama espresse la sua angoscia, Lakshmana cercò di consolarlo,
e aggiunse: "Ti sto solo ricordando il tuo potere e la tua saggezza,
non ti sto insegnando".
Rama rispose: "Ho allontanato questo tipo d'angoscia, che è un ostacolo
a qualsiasi azione. Sto aspettando con impazienza l'arrivo dell'inverno,
quando potremo sconfiggere Ravana e potrò riavere Sita. Sono sicuro
che Sugriva farà questo per me. Un eroe ripaga l'aiuto restituendolo.
L'essere ingrato che non ripaga il suo debito viene evitato dai
virtuosi".
Era giunta la stagione delle piogge. Per mitigare il dolore della
separazione da Sita, Rama descrisse poeticamente a Lakshmana la
bellezza e la grandiosità della stagione:
"Guarda, cominciano i monsoni. Durante questa stagione nulla si
potrà fare per liberare Sita. Il cielo, che ha ricevuto il vapore
acqueo dagli oceani, lo ha trattenuto per così dire per nove mesi,
e ora si sgrava dell'acqua! Nubi nere sono ammassate nel cielo:
e appaiono come gradini, sui quali ci si potrebbe arrampicare e
andare ad inghirlandare il sole! Le nuvole della sera sono rosse,
e hanno intorno delle nuvole bianche: sembrano come ferite sanguinanti
che sono state fasciate con bende bianche. La terra è calda e nello
stesso tempo bagnata da torrenti d'acqua: e questo mi fa pensare
a Sita, arsa dal dolore e in lacrime per me. I monti mi sembrano
dei brahmachari: le nuvole scure sono come le pelli di daino intorno
ai loro fianchi, i torrenti sono il cordone sacro, e il suono che
proviene dalle caverne è come l'Om. Guarda quel fulmine circondato
da nubi nere: mi sembra Sita che lotta nella morsa di Ravana.
"Quegli alberi coperti di fiori e gli altri grondanti d'acqua, come
se versassero lacrime, risvegliano in me l'amore per Sita. I tori
e le vacche che si cercano mi fanno desiderare Sita. Ascolta l'orchestra
della giungla, Lakshmana: le api con gli strumenti a corda, le nuvole
cariche di pioggia che suonano i tamburi e le rane che ne vocalizzano
i battiti. Guarda i pavoni che danzano allegramente. Le nuvole oscurano
il sole per tutto il giorno, e solo dal comportamento degli uccelli
e degli animali si capisce che il sole è tramontato. Le piogge torrenziali
hanno posto fine alle ostilità tra sovrani rivali e anche al movimento
del traffico sulle strade.
"Altrove, ad Ayodhya, Bharata deve aver completato tutti i preparativi
per la stagione delle piogge e starà ora osservando i voti connessi
alla stagione. Il Sarayu sarà probabilmente in piena. A Kishkindha,
Sugriva si gode la vita, dopo avere riavuto la moglie e il regno.
Ma la mia angoscia è senza limiti; la stagione dei monsoni sembra
interminabile; Ravana è un terribile nemico, difficile da sconfiggere:
ecco come tutto mi appare. Spero che Sugriva, dopo essersi riposato
per un po', mi offra spontaneamente il suo aiuto. Questa infatti
è la caratteristica di un vero amico. Spero che non si mostri ingrato.
Io non l'ho spinto a intraprendere subito l'impresa perché so le
difficoltà che s'incontrano durante la stagione delle piogge. Ora
attendo con ansia la volontà di Sugriva e la fine delle piogge".
Lakshmana consolò Rama, rassicurandolo che Sugriva avrebbe senz'altro
mantenuto la sua promessa.
La stagione delle piogge era terminata. Il cielo era tornato limpido,
e i tuoni e i lampi erano cessati. Ma Hanuman vedeva che re Sugriva
era totalmente preso dai piaceri dei sensi e aveva dimenticato il
suo dovere, compiendo il quale avrebbe guadagnato prosperità e Dharma.
Invero egli aveva trascurato anche gli affari di stato, che aveva
delegato ai suoi ministri, e si era isolato dal popolo: dedicandosi
completamente all'indulgenza dei sensi. Ora la sua sovranità non
era più minacciata, visto che Vali era stato ucciso grazie al valore
di Rama. Ma Hanuman era consapevole del pericolo dell'iniquità,
di trascurare il proprio dovere.
Hanuman, che conosceva l'arte della persuasione e l'uso delle parole,
avvicinò Sugriva con umiltà e delicatezza e, cantando le sue lodi,
lo allietò portando gioia alla sua mente. Infine egli ricordò al
re ciò che è benefico, veritiero e appropriato, usando parole che
descrivevano saggiamente un misto di piacere e dispiacere, e che
portavano impresso lo stampo della fedeltà e della certezza:
"O re, tu hai riottenuto il tuo regno e tua moglie: in questo modo
il tuo scopo è stato raggiunto. Ora rimane da compiere l'opera del
tuo amico. In questo mondo, chi aiuta gli amici al momento giusto
prospera; la sua fama aumenta, e con essa anche il suo potere. Quel
re per il quale il suo tesoro, le sue forze armate e i suoi amici
sono ugualmente importanti come la propria persona, governerà un
potente regno. Perciò bisogna abbandonare ogni altra cosa e servire
i propri amici; altrimenti, si invita il disastro. Questo servizio
però dev'essere dato in tempo: un servizio spettacolare, reso ad
un amico dopo che è passato il tempo in cui il servizio stesso si
rendeva necessario, non raggiunge lo scopo. Perciò ti prego, ordina
che si cominci il lavoro per Rama e che si usino modi e mezzi per
scoprire e salvare Sita. Rama non viene a ricordarti il tuo compito,
anche se sarà certamente ansioso che lo si faccia al più presto,
perché ora egli è nelle tue mani. Inoltre non dobbiamo dimenticare
che Rama è potentissimo e perfettamente in grado di distruggere
anche dèi e semidèi, figuriamoci i demoni: eppure egli sta aspettando,
per vedere se tu manterrai la tua promessa. Il fatto stesso di servire
Rama è un bene, e anche se egli non avesse fatto nulla per te, sarebbe
stato lodevole servirlo. E quanto più lo è dopo che ti ha reso un
servizio inestimabile! Ti prego perciò di ordinare ai vanara d'andare
in cerca di Sita. Noi tutti obbediremo ai tuoi ordini e non avremo
riposo finché non troveremo Sita".
Sugriva lodò questo consiglio e ordinò la coscrizione generale di
tutti i vanara a Kishkindha. E decretò: "Chi non si presenterà qui
entro quindici giorni da oggi, perderà la vita".
Vivendo nella grotta insieme a Lakshmana, Rama contava i giorni
della stagione delle piogge. Ogni giorno gli sembrava interminabile,
come fosse stato un anno intero, a causa della sua separazione da
Sita.
Finalmente egli notò che la stagione delle piogge era davvero terminata.
L'inverno s'avvicinava rapidamente. Ora Sugriva avrebbe dovuto accingersi
a inviare i suoi vanara in cerca di Sita.
Rama pensò: "Quando eravamo insieme nell'eremitaggio, Sita amava
il modo in cui la gru chiamava il suo compagno: ella stessa aveva
la dolce voce della gru! Come può trovare gioia adesso? L'albero
di ashana è carico di fiori e mi fa pensare a lei. Quando anche
lei vedrà che l'albero di ashana è in fiore, che cosa farà, non
potendomi vedere? L'amabile Sita, la cui voce era dolce come quella
del cigno, si svegliava ogni mattina per ascoltare il canto dei
cigni: ma ora, in che modo si divertirà? Come sarà triste, adesso
che è senza di me, quando vedrà gli uccelli cakravaka che volano
a coppie, ricordandole di me e del mio amore per lei? Senza di lei,
senza la mia amata Sita non trovo alcuna gioia nel passeggiare per
la foresta, o lungo le sponde dei fiumi o dei laghi. Con il suo
amore e il suo desiderio per me ulteriormente intensificato dal
sopraggiungere della stagione invernale, ella è sicuramente tormentata
da questa crudele separazione da me".
Tornando dopo essere andato in cerca di frutti, Lakshmana vide che
Rama sedeva con l'espressione abbattuta. Trovarlo così non era cosa
nuova, ed egli sapeva che cosa tormentava suo fratello.
Avvicinandosi a Rama, Lakshmana gli disse: "Nobile fratello! Perché
ti lasci andare così alla passione, negando in tal modo il tuo vigore?
Il dolore ti deruba della tua equanimità mentale. Non puoi allontanare
questi tristi pensieri per mezzo dello yoga? Ti prego, riacquista
la serenità e la pace mentale, riacquistando in tal modo la tua
forza interiore, grazie alla pratica dello yoga (kriya yoga) e al
conseguimento dello yoga (unione) del samadhi (estasi). Allora godrai
dell'abilità di fare ciò che bisogna fare.
"Non stare a preoccuparti di Sita: perché nessuno nei tre mondi
potrà tenerla lontana da te! Senza dubbio, dobbiamo fare tutto ciò
che è necessario; e dobbiamo farlo con straordinaria efficienza
e diligenza. E tutto questo dev'essere fatto senza farsi prendere
dall'ansia riguardo al risultato".
Rama disse a Lakshmana: "Guarda, fratello, la stagione delle piogge
è terminata. Indra, il dio della tempesta, ha completato il suo
lavoro e ora si è ritirato. Le nuvole hanno compiuto con successo
la loro opera e riposano anch'esse. I venti che spingevano qui e
là le nuvole cariche di pioggia, e le facevano svuotare, si sono
placati. I tuoni e i rimbombi che riempivano il cielo hanno ceduto
il posto a un estremo silenzio. Le foreste e le cime delle montagne
luccicano dallo splendore, dopo essere state completamente ripulite
dalle piogge.
"Il fragore dei torrenti, il gracidare delle rane e le grida dei
pavoni sono cessati. I serpenti escono dai loro buchi. Le strade
sono state liberate dal fango e sono di nuovo percorribili, invitando
i re a marciarvi. Le acque dei fiumi e dei laghi sono tornate chiare
e trasparenti. Cupido, il dio dell'amore, vaga di nuovo per il mondo
pronto a risvegliare la passione nel cuore di uomini e donne.
"Per ogni re questo è il tempo di dare inizio a spedizioni contro
i propri nemici. E questo è il tempo che si era stabilito perché
Sugriva inviasse i vanara in cerca di Sita. Eppure non ho visto
alcun segno da parte sua. I quattro mesi della stagione delle piogge
sono trascorsi; e a me sono sembrati cent'anni, affranto com'ero
per la separazione da Sita. Ma Sugriva non mi ha mostrato clemenza.
Penso che mi stia trascurando, sentendo che sono 'un indigente,
esiliato dal regno, ingannato da Ravana, lontano da casa, povero,
tormentato dalla passione', e che io sia completamente dipendente
da lui. Fu lui stesso che si offrì di iniziare la ricerca di Sita
non appena la stagione delle piogge fosse terminata: ora, quel folle,
ha completamente dimenticato. Penso sia meglio che tu vada a dirgli:
"L'uomo ingrato che riceve favori da un amico promettendo di ricambiare,
e poi manca di onorare la promessa è il peggiore dei malvagi. Mentre
è veramente un eroe chi mantiene la sua promessa, sia che essa appaia
buona o cattiva. Vuoi forse provocarmi ad usare ancora una volta
il mio missile, come ho fatto per uccidere Vali?". Ora che il suo
scopo è stato raggiunto, Sugriva ha convenientemente dimenticato
la sua promessa. Ovviamente si è abbandonato ai piaceri dei sensi;
sicuramente non si rende conto di cosa accadrebbe se la mia ira
si destasse e fosse diretta contro di lui! È meglio che tu vada
a dirgli: "La via che Vali ha preso per lasciare questo mondo non
è chiusa: Attento!". Digli che distruggerò lui e tutta la sua gente.
Digli tutto ciò che riterrai necessario per fargli intraprendere
immediatamente la ricerca di Sita".
Lakshmana vide che Rama era adirato; e la sua collera contro Sugriva
si destò pienamente.
L'ira e il dolore di Rama sollevarono la furia di Lakshmana, che
disse al fratello: "È malvagio da parte di Sugriva non mantenere
la sua promessa. E i malvagi come lui non devono essere posti sul
trono. Oggi stesso lo spedirò nel regno della morte, dove ritroverà
suo fratello Vali. Dopo potremo chiedere ad Angada di mandare i
vanara in cerca di Sita".
Rama pacificò Lakshmana con queste parole: "Gli uomini nobili come
te non contemplano un'azione tanto malvagia! Colui che annienta
la collera è un eroe, il migliore tra gli uomini. Ti prego, tratta
con Sugriva come ci si comporta con un amico. Mostragli amorevolmente
l'urgenza della cosa e la giustezza della causa".
Allora Lakshmana, che faceva sempre come gli veniva detto, considerò
cosa doveva dire a Sugriva, la sua possibile reazione, e l'ulteriore
risposta da dare. Lakshmana era saggio quanto lo stesso guru. Tuttavia
egli partì per Kishkindha pieno dell'ira generata dall'ira del fratello,
a sua volta originata dal suo amore per Sita.
Nel vederlo arrivare, i vanara che erano in giro per le foreste
di Kishkindha furono terrorizzati: essi percepirono la sua ira e
capirono quanto fosse pericoloso incontrarlo. Rapidamente afferrarono
ogni sorta di rocce e alberi a loro vicini, pronti a difendersi.
Ma l'ira di Lakshmana crebbe ancora di più e, temendo per loro,
i vanara si dispersero e andarono a cercare rifugio in Sugriva.
Il comandante dei vanara cercò di farsi ascoltare da Sugriva per
comunicargli la notizia dell'arrivo di Lakshmana, ma Sugriva era
troppo ebbro per poter prestare attenzione a qualsiasi cosa.
Non potendo decidere esattamente che cosa fare, i ministri ordinarono
ai vanara di difendere Kishkindha da Lakshmana. Essi tornarono indietro
per affrontare Lakshmana. Angada si fece avanti per accertare qual
era la causa della sua ira. Ancora infuriato, Lakshmana ordinò ad
Angada di annunciarlo immediatamente a Sugriva.
Angada valutò la situazione, fece ritorno al palazzo e afferrò i
piedi di suo zio e di sua moglie Ruma. Sugriva era ancora inebriato.
Ora tutti i vanara impauriti fuori del palazzo cominciarono a urlare
dalla paura. Questo fece tornare Sugriva alla sobrietà.
Allora alcuni dei suoi ministri gli dissero: "Rama e Lakshmana,
che sono devoti alla verità e hanno sembianze umane, sono degni
d'essere sovrani, pur avendo dato a te il regno. Lakshmana è alla
tua porta; per questo i vanara impauriti gridano. Fa' come Rama
ha fatto per te, e fallo presto, o re; adempi la promessa fattagli".
Sugriva disse: "Io non ho offeso né Rama né Lakshmana. Non ho fatto
nulla per offenderli. Allora perché Lakshmana è in collera con me?".
Hanuman rispose molto gentilmente: "Penso che la ragione sia ovvia,
o re. Tu avevi promesso di organizzare la ricerca di Sita non appena
fosse terminata la stagione delle piogge; ora la stagione è terminata,
ma la ricerca di Sita non è ancora iniziata. Tu non t'accorgi che
il tempo passa! Lakshmana è venuto sicuramente a ricordarti questo.
Penso sia meglio che tu porga loro le tue scuse e adempia immediatamente
la tua promessa".
Angada invitò Lakshmana ad entrare nel palazzo. Il palazzo - che
aveva sette mura, ognuno con una propria porta - mostrava segni
di grande ricchezza.
Lakshmana, che aveva un carattere integerrimo, non entrò negli appartamenti
privati di Sugriva: ancora fumante di rabbia, egli attese fuori
da solo. Sugriva udì il suono dell'arma di Lakshmana, ed ebbe la
conferma che egli era lì come aveva detto Angada. Quindi disse a
Tara: "Ti prego, va' e informati sul motivo della collera di Lakshmana;
di certo egli non si comporterà male con te. Poi torna e riferiscimi
la verità".
Tara s'avvicinò a Lakshmana e gli chiese: "Dimmi, ti prego; per
quale motivo sei adirato con noi". Lakshmana gradì l'approccio conciliativo
di Tara e disse: "Sugriva è immerso nei piaceri dei piaceri dei
sensi e ha perso di vista la promessa che ci aveva fatto. È sempre
ubriaco e non è mai sobrio. Tutto questo bere è contrario al Dharma
e al raggiungimento del proprio benessere. Il bere è un ostacolo
al Dharma, al benessere materiale e anche al godimento dei giusti
piaceri. L'ingratitudine è nemica del Dharma; e la perdita di un
amico è nemica del benessere materiale. Ora Sugriva sta invitando
queste due cose, trascurando la sua obbligazione nei confronti di
Rama".
Tara volle subito informare Lakshmana: "In realtà Sugriva ha già
preso provvedimenti per adempiere la promessa fatta a Rama. Molti
vanara sono già arrivati qui in obbedienza al suo comando. Però
so che egli è stato negligente, e ne conosco pure la ragione: tu
non conosci il potere della lussuria, anche se conosci bene quanto
sia potente la collera. La persona soggetta alla lussuria è inconsapevole
del tempo e del luogo, del Dharma e del benessere materiale. Anche
i saggi sono caduti vittime della lussuria. E allora come puoi aspettarti
che la vinca un incolto vanara? Ti prego, entra e incontra Sugriva".
Lakshmana entrò e vide Sugriva seduto sul divano, con la moglie
Ruma tra le braccia. E questo lo rese ancor più furente.
Profondamente scosso dalla vista di Lakshmana fiammeggiante d'ira,
Sugriva riacquistò la sua sobrietà. Seguito dalle sue regine e da
altri, egli s'accostò umilmente a Lakshmana con le mani giunte.
Lakshmana disse, ancora furente: "Un re giusto viene onorato da
tutti. Il re ingiusto che fa false promesse viene evitato da tutti.
Si dice che chi promette di dare un cavallo e non adempie la promessa,
subisce le conseguenze del peccato di uccidere cento cavalli. Non
mantenere la propria promessa equivale al suicidio, Sugriva. Chi
promette d'aiutare un amico in cambio dell'aiuto ricevuto, e non
mantiene la promessa, è un peccatore degno dell'esecuzione. E non
è stata prescritta alcuna espiazione per l'ingratitudine. Sebbene
i saggi abbiano prescritto espiazioni anche per l'uccisione di una
mucca, per l'uso dei liquori e per la trasgressione di un voto,
non ne hanno data una per l'ingratitudine. L'ingratitudine è un
peccato imperdonabile. Tu sei un vanara ingrato, che ha dimenticato
la sua promessa e si è dato, al contrario, all'indulgenza dei sensi.
Vergogna! Invece d'impegnarti al servizio di Rama, ti sei perso
nell'indulgenza dei piaceri dei sensi. Desideri fare anche tu la
fine di Vali? Tu non hai provato la potenza dei missili di Rama,
perciò ti comporti in questo modo".
Tara si fece avanti in difesa di Sugriva e rispose: "Ti prego, Lakshmana,
non parlare così a Sugriva, egli non merita le dure parole che hai
detto né è colpevole di quanto lo accusi. Sugriva non ha dimenticato
il suo debito verso il valoroso Rama. È vero che essendo stato privato
dei piaceri dei sensi per lunghissimo tempo, ora è caduto nella
loro trappola. Dicono che il saggio Visvamitra trascorse dieci anni
con la ninfa Ghritaci come fossero stati un solo giorno! Il piacere
dei sensi ha il potere d'indebolire le proprie percezioni. Certo,
la lussuria è molto potente. Ma tu non dovresti accusare Sugriva
prima di accertare la verità, e non dovresti adirarti tanto. Le
persone nobili come te non si fanno prendere dall'ira senza prima
comprendere pienamente i fatti. Sono certa che Sugriva rinuncerà
al regno, alle ricchezze, a sua moglie Ruma, a me e persino ad Angada
per fare piacere a Rama. Egli ucciderà Ravana e riporterà Sita a
Rama. Vali ci diceva che a Lanka ci sono cento milioni trecentonovantanovemila
e seicento demoni. E devono essere tutti uccisi prima che si possa
uccidere Ravana e salvare Sita. Tutto ciò non può essere fatto senza
un considerevole aiuto e un'organizzazione adeguata. Sugriva ha
già ordinato che tutti i vanara e tutte le altre tribù della foresta
si presentino presto a rapporto da lui. Perciò ti prego, lascia
cadere la tua ira".
[NOTA: Nella descrizione di 'altre tribù' ci sono parole che possono
essere certamente tradotte come 'orsi', ecc.; ma potrebbero anche
essere nomi di tribù di persone - come i 'naga' dell'odierno Nagaland,
che non sono 'serpenti' come vorrebbe dire la parola.]
Udendo l'umile e cortese deferenza di Tara, Lakshmana si sentì placato
e gratificato; e fece un cenno con la testa. Sugriva disse a Lakshmana:
"Tutto ciò che oggi ho, lo devo alla grazia di Rama. Non potrò mai
ripagare il debito che ho con lui, né lui ha bisogno dei miei umili
servigi. Con il suo valore egli può uccidere Ravana e riprendersi
Sita. Io considero una benedizione poterlo assistere in questa impresa.
Non ho dimenticato che con un solo missile egli trafisse i sette
alberi giganti, quella montagna laggiù e la terra stessa! Se ho
fatto qualcosa di sbagliato nei vostri confronti, per amore o per
negligenza, io vi supplico di poter essere perdonato".
Compiaciuto dal contegno e dalle parole di Sugriva, Lakshmana disse:
"In te, Sugriva, mio fratello ha un eccellente amico e alleato.
Tu hai un cuore puro. Tu sei certamente degno di essere il re dei
vanara. Con il tuo aiuto, Rama distruggerà Ravana e riavrà Sita;
poiché tu sei pari allo stesso Rama come forza ed energia. Ti prego
di perdonare le dure parole che ho pronunciato prima a causa del
mio dolore e della mia impazienza".
Poi Sugriva si rivolse ad Hanuman, e ordinò: "Fai venire qui rapidamente
i vanara che dimorano nelle seguenti catene montuose: Mahendra,
Himalaya, Vindhya, Kailash e Mandara. Fa' chiamare tutti i vanara
di colore nero e dalla forza elefantiaca che vivono sul monte Anjana
e che possono correre come il vento. E poi gli altri vanara che
vivono sui monti orientali e occidentali, sui monti Padma, Mahasaila,
Meru, Dhumra e Maharuna. Se essi non obbediranno al mio ordine o
tarderanno ad arrivare, perderanno la vita. Fa' partire subito dei
veloci messaggeri".
L'ordine fu eseguito immediatamente, e tutte le orde di vanara che
ricevettero il comando di Sugriva arrivarono rapidamente a Kishkindha.
Trenta milioni di vanara di colore nero, cento milioni di vanara
di colore dorato dalle montagne occidentali, milioni di vanara dal
colore della criniera del leone dalle catene montuose del Kailash,
molti milioni di più dalla catena montuosa himalayana, molti altri
dai monti Vindhya e innumerevoli vanara dalle coste 'dell'oceano
di latte' e da un distante continente chiamato Tamalavana. Tutti
arrivarono a Kishkindha portando vari doni a re Sugriva. Alcuni
si fermarono nel luogo dove in precedenza era stato celebrato un
rito sacro per propiziare il Signore Shiva; e là mangiarono i frutti
e le radici eteree che avevano il potere di liberare dalla fame
per un mese! Infine essi dissero a Sugriva: "I vanara provenienti
da tutte le montagne e le foreste sono arrivati qui". Compiaciuto,
Sugriva accettò le loro offerte.
Sugriva era felice. Con l'aiuto dei vanara che erano arrivati, la
missione di Rama poteva considerarsi pressoché compiuta. Lakshmana
disse a Sugriva: "Andiamo da Rama".
Sugriva acconsentì pieno d'entusiasmo e ordinò alle guardie del
corpo di portare il suo magnifico veicolo. Questo era placcato d'oro
e aveva una bellissima cappotta bianca. Quando arrivò, Lakshmana
vi montò insieme a Sugriva.
Circondato solo dai capi delle orde vanara, Sugriva si recò da Rama.
Quando lo vide, da lontano, Sugriva scese dal veicolo e si fermò
in piedi umilmente con le mani giunte in segno di saluto. Anche
i capi vanara fecero la stessa cosa. Rama vide davanti a sé ciò
che appariva come un oceano di vanara, e ne fu molto felice.
Sugriva cadde ai piedi di Rama. Rama lo sollevò amorevolmente e
lo abbracciò, e quindi gli disse gentilmente, con affetto: "C'è
il momento del Dharma, d'acquisire dei meriti religiosi, e c'è il
momento di lavorare per la prosperità materiale e il momento di
dedicarsi al godimento dei piaceri dei sensi. Ma chi trascura il
Dharma e i doveri terreni per il godimento dei piaceri dei sensi
si sveglia troppo tardi, come l'uomo che dorme sui rami di un albero
e si sveglia dopo che è caduto. Questo è il momento di fare i passi
necessari per cercare Sita".
Sugriva ripeté quello che aveva già detto a Lakshmana. "Tutto ciò
che ho oggi lo devo a te, Rama. Come posso dimenticare il debito
che ho nei tuoi confronti? Chi dimentica il proprio debito verso
l'amico è un vile peccatore. Guarda questi guerrieri: essi sono
i comandanti dei vanara, e sono venuti da tutto il mondo con milioni
di vanara per combattere contro Ravana e liberare Sita per ridarla
a te".
Rama fu molto felice, e disse di nuovo: "Tu sei il mio migliore
amico, Sugriva; e con il tuo aiuto mi libererò di tutti i miei nemici".
Mentre conversavano così tra loro, sentirono un grande tumulto.
Sollevando una nube di polvere, i vanara si misero in marcia verso
il luogo dove stava Rama. Milioni e milioni di vanara di ogni tipo,
di ogni colore e statura, appartenenti alle più svariate tribù degli
abitanti della giungla erano là.
Sugriva li presentò a Rama. Stando in piedi con le mani giunte in
segno rispettoso di saluto, Sugriva disse a Rama: "Che questi eserciti
di vanara si accampino confortevolmente sui fianchi delle montagne
e nelle foreste, e che i loro comandanti mi diano informazioni precise
sul loro numero e la loro forza".
In seguito Sugriva disse a Rama: "Sono arrivati innumerevoli vanara,
ciascuna tribù con i propri capi. Ognuno di essi possiede forza
e coraggio immensi. Essi attendono i tuoi ordini: perché sono il
tuo esercito".
Rama rispose: "Penso che la prima cosa da fare sia quella di scoprire
se Sita è ancora viva, dove si trova, e dov'è la terra in cui vive
Ravana. Tu sei più qualificato di me per dare a questi condottieri
vanara gli incarichi appropriati per questa ricerca. Tu sai quello
che c'è nella mia mente e sai che cosa bisogna fare. Per me tu sei
secondo solo a Lakshmana per ciò che riguarda la comprensione della
missione e per la tua saggezza riguardo al modo migliore di compierla".
Felice della fiducia che Rama aveva riposto in lui, Sugriva chiamò
Vinata, un capo tribù, perché conducesse la ricerca nella 'regione
orientale'.
Dando le sue istruzioni a Vinata, Sugriva disse: "Recati nella regione
orientale della terra, e cerca minuziosamente la dimora di Ravana
e il posto dove si trova Sita. Attraversa i numerosi grandi fiumi,
il Gange, lo Yamuna, il Sarayu, e gli altri. Ricerca intensamente
nei grandi territori di Brahmamala, Videha, Kosala e altri ancora.
Cerca nei territori dei Kirata dalla carnagione dorata. Vai nel
Yavadvipa; e ancora oltre, fino al monte Sisira. Continua fino all'altra
costa, dove troverai il Mar Rosso. Cerca Sita nelle foreste là intorno
e sulle montagne. Cerca in tutte le isole di quella regione.
"Attraversando il Mar Rosso, raggiungerai un'isola abitata da demoni
di tipo insolito. Essi sono chiamati Mandeha e rimangono sospesi
sui pendii delle montagne. Ogni mattina sono arsi dallo splendore
del sole e dal fulgore dei saggi che offrono preghiere, e cadono
nell'acqua, riacquistando la loro vitalità e il loro vigore. Quindi
tornano sui pendii delle montagne, dove si riappendono di nuovo
capovolti. Superato questo luogo, vedrai un oceano bianco, che sembra
l'oceano di latte. Nel mezzo di quest'oceano vedrai una montagna
bianca chiamata Rshabha. Oltre quell'oceano ne troverai un altro
d'acqua dolce, nelle cui regioni sotterranee troverai un terribile
fuoco ardente conosciuto come Vadavamukha. A sud della costa settentrionale
di quest'oceano troverai una grande montagna splendente come l'oro.
Davanti ad essa vedrai un serpente dalle mille teste, bianco come
la luna, e vestito per così dire con un abito blu: esso è il sostegno
del mondo. Poi vedrai la montagna che rappresenta l'estremità orientale
della terra. Oltre, vi è l'inaccessibile oscurità totale. Cerca
Sita giungendo fin là. Torna a riferirmi tutto entro un mese".
Per fare cercare Sita nella regione meridionale, Sugriva scelse
i migliori vanara. Nila, il figlio di Agni, Hanuman, il figlio di
Vayu, il potentissimo Jambavan e molti altri potenti vanara furono
scelti per questa spedizione.
Egli pose Angada, figlio di Vali e principe reggente, come comandante
delle forze vanara che costituivano questo contingente di ricerca.
Nelle istruzioni che impartì loro, Sugriva li invitò a cercare soprattutto
nei luoghi più inaccessibili.
Egli disse: "Iniziate dai monti Vindhya e proseguite cercando nelle
pianure dei fiumi Narmada, Krishna, Godavari e Varada. Cercate minuziosamente
nelle regioni Mekhala, Utkala, Vidarbha, Vanga, Kalinga, Andhra,
Cola, Pandhya e Kerala. Quindi continuate a cercare nei monti Malaya,
con le benedizioni del saggio Agastya che troverete là.
"Da lì procedete verso la città dalle porte d'oro dei Pandhya, le
cui mura di cinta sono costellate di pietre preziose. Tra la città
e l'eremitaggio di Agastya si trova il monte Mahendra, che è pieno
d'oro e che Agastya fece affondare nell'oceano. Lo stesso Indra
visita questa montagna ogni quindici giorni.
"Al di là di questo monte si trova l'isola inaccessibile che è larga
ottocento miglia e alla quale gli esseri umani non possono accedere.
Cercate quest'isola attentamente; sicuramente quello è il territorio
del potente Ravana, che merita la morte. Prima di lasciare quel
territorio, accertatevi che Sita non sia là: non lasciate che ci
sia il minimo dubbio.
"Ottocento miglia oltre quell'isola, nell'oceano, si trova l'isola
parzialmente sommersa di Pushpitaka, con le sue alte montagne che
appaiono come oro e argento. Centododici miglia oltre Pushpitaka
c'è il monte Suryavan, dopo di questo c'è il Vaidyuta e ancora al
di là c'è il monte Kunjara, dove il saggio Agastya ha un eremitaggio
largo ottanta miglia e lungo altrettanto, fatto d'oro e gemme preziose.
Là c'è pure la dimora dei serpenti conosciuta come Bhogavati. Ispezionate
attentamente questo luogo spaventoso. Cercate anche nella montagna
che si trova oltre questo luogo e nota col nome di Rishabha.
"Al di là di quel monte c'è il mondo dei Mani: non andateci. Dovunque
andate, cercate Sita attentamente. Chi di voi tornerà per primo,
entro un mese, e dirà d'avere scoperto Sita, godrà dei miei stessi
privilegi, poiché sarà a me molto caro".
Dopo aver inviato i vanara nei territori meridionali, Sugriva si
rivolse a Sushena, che aveva la carnagione e l'apparenza di una
nuvola. Sushena era il padre di Tara, il suocero del re, ed era
molto valoroso. Sugriva si rivolse a Sushena e ad altri capi vanara,
tra cui il vanara chiamato Marica e il gruppo di vanara chiamati
Marici (perché erano figli del saggio Marici):
"Procedete verso occidente, attraversando i territori Saurashtra
e Candracitra, Bahlika e Kukshi. Perlustrate tutti questi territori
in cerca di Sita. Quindi arrivate fino alla confluenza del fiume
Sindhu con l'oceano. Là troverete una grande catena montuosa chiamata
Somagiri, che ha un centinaio di vette. Sulle coste delle montagne,
nelle incantevoli foreste vivono leoni alati che afferrano e portano
via grossi pesci e anche elefanti. Perlustrate attentamente tutte
quelle foreste.
"Quando giungerete in riva al mare vedrete una montagna dalla cima
dorata e grande ottocento miglia, nota come la montagna Pariyatra.
Laggiù vive una tribù di esseri celesti che sono potenti; perciò
non provocateli disturbando la foresta, ma cercate Sita anche là.
Nelle vicinanze di quella montagna, ma nell'oceano, troverete un'altra
montagna chiamata Vajra, che splende come fosse ricoperta di diamanti
e altre pietre preziose. Cercate attentamente Sita nelle sue grotte.
"In una parte dell'oceano c'è la montagna Cakravan: dove Visvakarma
pose il Sahasrara Cakra, una ruota con mille raggi (o un revolver
con mille camere di proiettile). Una volta il Signore Vishnu uccise
i demoni Pancajana e Hayagriva e prese la conchiglia dal primo e
il cakra dal secondo. C'è anche l'immensa montagna chiamata Varaha,
lunga cinquecentododici miglia, sulla quale si trova la città dorata
di Pragjyotishapura, dimora del demone Naraka. Al di là di questa
c'è la montagna d'oro massiccio chiamata Megha, sulla quale Indra,
re del cielo, fu incoronato dagli dèi. Ancora più in là ci sono
i sessantamila monti dorati, compreso il monte Meru, sul quale dimora
il saggio Merusavarni. Inchinatevi davanti a lui e chiedetegli di
Sita; ma non procedete oltre quel punto.
"Non state via più di un mese. Insieme a voi, o eroi, invio anche
mio suocero. Egli è un valoroso guerriero, e voi tutti dovete obbedirgli
Certo voi siete tutti comandanti delle vostre forze, ma in questo
caso dovete trattarlo come la vostra autorità suprema. Andate dunque
verso occidente in cerca di Sita. Quando Sita verrà trovata e restituita
a Rama, avremo fatto il nostro dovere. Se nel corso della spedizione
penserete che sia utile fare altre cose, fatele pure!".
Dopo la partenza di Sushena e del suo gruppo verso occidente, Sugriva
si rivolse a un altro potente vanara di nome Satabali e gli disse:
"Seguito da una grande schiera di vanara e dai tuoi stessi consiglieri,
che sono tutti discendenti del sole, vai verso nord, o potente vanara!
E insieme fate una meticolosa e diligente ricerca di Sita. Quando
ritroveremo Sita e la riconsegneremo a Rama, avremo compiuto la
più grande impresa della nostra vita. Soltanto la vita di chi si
mette al servizio di un bisognoso è fruttuosa, anche se questi non
gli ha reso alcun servizio: e quanto più è vitale quando il servizio
è reso in cambio di un grande favore!
"Andate dunque nelle terre dei Mlecca, dei Pulinda, dei Surasena,
dei Prasthala, dei Bharata, dei Kuru, dei Madra, dei Camboja e degli
Yavana, che si trovano tutte a nord. Perlustrate quelle terre e
cercate nelle montagne himalayane. Continuate fino all'eremo del
saggio Soma, oltre al quale c'è il monte Kala: cercate Sita nelle
grotte. Ancora oltre c'è il monte Sudarshana e poi il Devasakha:
cercate anche là.
"Andando ancora oltre troverete una terra desolata priva di montagne,
fiumi e alberi. Attraversatela velocemente, e infine vedrete il
monte Kailash. Oltre il monte Kraunca c'è il monte Mainaka. Valicando
questa montagna vedrete gli eremi dei siddha (saggi). Vedrete anche
donne con i volti di cavalli. Nelle vicinanze vedrete il lago Vaikhanasa.
"Oltre questo lago il cielo stesso è illuminato dallo splendore
dei saggi che vi dimorano. Procedete in quella direzione, e raggiungerete
il fiume Sailoda. Lungo le rive di quel fiume c'è il territorio
conosciuto come Uttara Kuru. In quel paese gli alberi sono carichi
di fiori e frutti, alcuni dei quali sembrano pietre preziose! Da
questi alberi, gli uomini e le donne che vivono là ottengono indumenti,
letti e gioielli. Gli uomini e le donne di quel paese sono molto
fortunati, e vivono godendosi la vita. Là nessuno è infelice, e
ogni giorno tutti sviluppano qualità che appagano la mente.
"Ancora più in là di quel territorio c'è la montagna chiamata Somagiri:
coloro che hanno raggiunto il mondo di Indra, il mondo di Brahma
e il mondo celeste vedono quella montagna. Anche quando il sole
non vi risplende, tutta la regione è illuminata dallo splendore
della montagna! Il Signore Vishnu, il Signore Shiva e Brahma vivono
là, circondati dai saggi. Non avventuratevi in quella regione, ma
perlustrate tutti gli altri territori e sforzatevi più che potete
di trovare Sita".
Sugriva era certo che soltanto Hanuman sarebbe stato in grado di
portare a termine l'impresa!
Perciò, pur avendo impiegato milioni di vanara per formare i gruppi
che dovevano andare in cerca di Sita, egli aveva un messaggio speciale
per Hanuman; e prima che quest'ultimo partisse, Sugriva gli disse:
"Non c'è nulla che io possa immaginare come ostacolo per te, Hanuman,
né su questa terra né nell'aria né nell'acqua, e neanche nei cieli.
Tu conosci tutti gli esseri dei tre mondi, e ne conosci sia la forza
che la debolezza. Non è ancora nato in questo mondo uno che ti possa
essere pari in forza e splendore! Per questo, solo tu puoi escogitare
un piano per scoprire Sita. Solo in te c'è la forza, la potenza
e l'intelligenza, come pure il vero giudizio".
Rama fu molto felice di sentire elogiare il valore di Hanuman. Egli
si tolse l'anello con il suo sigillo e glielo diede, aggiungendo
queste parole: "Ti prego, Hanuman, porta con te quest'anello. Quando
troverai Sita e le mostrerai l'anello, lei capirà immediatamente
che vieni da parte mia e che io stesso ti ho inviato a cercarla.
Il tuo entusiasmo e la tua dedizione al compito che ti è stato affidato,
la tua forza e il tuo valore, come pure la stima che Sugriva ha
di te - tutte queste cose insieme mi convincono che il tuo sforzo
sarà coronato dal successo. O Hanuman! Io dipendo da te. Tu sei
dotato di una forza immensa. Ti prego, fai tutto ciò che è necessario
per trovare Sita".
Dopo avere ricevuto ognuna le proprie indicazioni, tutte le schiere
di vanara guidate dai rispettivi capi partirono nelle direzioni
loro assegnate.
Quindi Rama e Lakshmana ritornarono nella loro dimora, nella grotta
sul monte Prashravana.
Mentre le schiere vanara marciavano ciascuna nella propria direzione,
gli armati cantavano pieni d'entusiasmo: "Io troverò Sita". "Sarò
io ad uccidere Ravana". "Per trovare Sita, possiamo arrivare perfino
nel mondo degli inferi". "Per cercare Sita, possiamo attraversare
anche l'oceano". "Per potere trovare Sita, possiamo attraversare
perfino il terribile oceano". "Nessuno può sbarrarmi la strada,
e sopravvivere".
Grande era il loro entusiasmo. Grande era il loro desiderio di compiere
la loro parte per aiutare la missione di Rama.
Mentre Sugriva dava istruzioni ai condottieri delle truppe inviate
per cercare Sita, Rama rimase meravigliato dalla conoscenza dettagliata
e accurata che Sugriva possedeva della geografia del mondo. Preso
dall'ammirazione e dalla curiosità, egli chiese a Sugriva come avesse
fatto ad apprendere la geografia del mondo cosi bene e in maniera
tanto completa.
Sugriva rispose: "O Rama, tu sai come Mayavi, il figlio di Dundubhi,
avesse sfidato mio fratello maggiore Vali, e come Vali lo inseguì
nella grotta. Io rimasi fuori della grotta per un anno intero, aspettando
che Vali venisse fuori dopo aver ucciso il demone. Sai pure che
poi vidi uscire del sangue fuori della grotta e che da questo trassi
la conclusione che Vali fosse stato ucciso. Dopo di questo tu sai
che ritornai a Kishkindha e i ministri mi installarono sul trono
come loro re.
"Poi Vali ritornò dopo un certo tempo, dopo essere riuscito a rimuovere
la grande roccia che io avevo posto all'ingresso della caverna.
Tu sai che nonostante gli chiedessi infinitamente scusa e l'implorassi
di ascendere al trono, Vali pieno di collera cominciò ad inseguirmi
con l'intenzione di uccidermi.
"Allora, o Rama, cominciai a correre per salvarmi la vita. Arrivai
fino all'estremità orientale della terra, e mi accorsi che Vali
m'inseguiva ancora. Quindi scappai allo stesso modo in tutte e quattro
le direzioni. Durante quella fuga, vidi ogni angolo della terra,
che naturalmente m'appariva come l'impronta di un vitello. Fu in
quel periodo che acquisii una conoscenza profonda e dettagliata
della terra. Quando ritornai a Kishkindha, perplesso e incapace
di decidere cosa fare, Hanuman mi disse: "Adesso ricordo che Vali
suscitò la collera del saggio Matanga, che lo maledì e gli proibì
per sempre di mettere piede sul monte Rshyamuka. Se andassimo là,
Vali non potrebbe inseguirti". Allora andai velocissimo sul monte
Rshyamuka, dove ho continuato a vivere fino a poco tempo fa".
I vanara, che erano andati nelle diverse direzioni, fecero una diligente
ricerca seguendo le istruzioni di Sugriva. Essi cercarono dappertutto;
senza tralasciare nulla, esplorando ogni luogo. Ma non ebbero successo.
Passato un mese dal giorno in cui erano partiti, essi ritornarono
a Kishkindha tristi e disperati, e riferirono a Sugriva: "O re,
abbiamo cercato dappertutto. Quando vedevamo qualcuno prepotente,
sospettando che si potesse trattare di Ravana l'inseguivamo, lo
sfidavamo e a volte lo uccidevamo anche. Ma non abbiamo potuto trovare
Sita. Siamo certi, però, che Hanuman avrà successo. Egli è andato
nella direzione in cui Sita è stata portata via".
Angada, Hanuman ed altri andarono verso sud. Essi cercarono accuratamente
nella regione dei monti Vindhya e in ogni luogo che attraversavano,
ma non riuscirono a trovare Sita. Nel corso della loro ricerca giunsero
in un luogo completamente desolato dove non cresceva nulla e dove
non si vedevano né animali né uccelli. Un tempo in quella regione
aveva vissuto un grande saggio chiamato Kandu, un asceta pieno di
grande potere spirituale. Era accaduto che suo figlio, che aveva
appena dieci anni, era morto durante la loro permanenza in quella
regione. Pieno di collera, il saggio aveva lanciato una terribile
maledizione contro quella terra che non aveva potuto mantenere in
vita suo figlio! Da allora quella terra era diventata desolata.
I vanara penetrarono in una foresta terrificante, e là videro un
demone spaventoso. Angada pensò che si trattasse di Ravana, e lo
uccise in una cruenta battaglia. Ma, ahimè, non si riuscì a trovare
Sita. Il morale dei vanara era molto basso, e il loro entusiasmo
era calato.
Angada disse loro: "Vi prego, amici, non lasciatevi prendere dalla
tristezza, dalla disperazione, dall'apatia e dall'ozio. I mezzi
per raggiungere il proprio scopo sono: l'entusiasmo che non conosce
disperazione, l'efficienza, e una mente che non si lascia sopraffare
dall'apatia o dalla depressione. Dobbiamo continuare la nostra ricerca
senza allentare minimamente il nostro sforzo. Se v'impegnerete assiduamente,
il frutto del vostro lavoro sarà certo. Inoltre è bene ricordare
che cosa significherebbe arrecare dispiacere al nostro re Sugriva,
e che terribile delusione sarebbe per Rama". Il vanara Gandhamadana
applaudì l'esortazione di Angada.
Allora tutti i vanara scalarono la Montagna Argentata in cerca di
Sita, ma non riuscirono a trovarla. Mentre esploravano le grotte
nel versante sud-occidentale, essi scoprirono una caverna inaccessibile
che era custodita da un demone. Avevano fame e sete, e videro che
la grotta conteneva piante, alberi, uccelli e oche; da ciò dedussero
che doveva esserci anche dell'acqua. Inoltratisi nella caverna,
che era immensa e molto profonda, dopo qualche tempo videro un punto
chiaro e visibile. Tenendosi l'un l'altro, s'avvicinarono a quel
punto luminoso, pieni di gioia e di speranza.
E là essi videro oro, gioielli e pietre preziose, e palazzi e appartamenti
lussuosi. Pieni di stupore, andarono ancora avanti e poco dopo s'imbatterono
in una radiosa asceta, vestita di cortecce e pelle di daino. Avvicinandosi
umilmente a lei, Hanuman le chiese: "O santa donna, chi siete? Che
cos'è questa strana caverna, e a chi appartengono quei gioielli?".
In risposta alla domanda di Hanuman, l'asceta disse: "O potente
vanara, c'era una volta un grande mago chiamato Maya, il quale fece
costruire questa grotta. Anticamente egli era stato un grande costruttore
per i demoni. Egli praticò grandi austerità e così propiziò Brahma,
il Creatore. Brahma concesse a Maya le immense ricchezze del saggio
Sukra. Avendo ottenuto ciò che voleva, Maya si dedicò al godimento
dei piaceri sensuali con la ninfa celeste Hema. Una volta che fu
indebolito da questo, Indra brandì la sua arma mortale e lo uccise.
Poi Indra disse a Hema di ereditare la grande fortuna di Maya. Io
sono Swayamprabha, figlia del saggio Merusavarni, e custodisco il
palazzo di Hema, che è una mia cara amica. Vi prego, placate la
vostra fame e soddisfate la vostra sete con questa frutta e queste
bevande; e poi ditemi chi siete voi".
Dopo che lui e tutti i vanara si furono ristorati, Hanuman narrò
a Swayamprabha la storia di Rama fino al suo incontro con Sugriva,
e come tutti loro erano in cerca di Sita. Infine concluse dicendo:
"Mentre eravamo completamente esausti e affaticati, e tormentati
dalla fame e dalla sete, abbiamo visto degli uccelli acquatici uscire
in volo da questa grotta e abbiamo concluso che doveva esserci dell'acqua
all'interno. Con la vostra ospitalità ci avete salvato la vita.
Diteci, come possiamo ripagare il nostro debito?".
Swayamprabha rispose cortesemente: "Io sono un'asceta e non ho bisogno
del servigio di alcuno".
Allora Hanuman disse ancora: "Vi prego, diteci come uscire da qui!
Abbiamo molta fretta e abbiamo già superato il tempo che ci era
stato concesso". Volendoli aiutare, Swayamprabha chiese a tutti
loro di chiudere gli occhi: e in un batter d'occhio si ritrovarono
tutti fuori della grotta. Ora Swayamprabha indicò ad Hanuman: "Da
quella parte c'è il monte Prashravana e nella direzione opposta
c'è l'oceano". Detto questo, ella tornò nella grotta.
Tutti i vanara si riunirono per decidere cosa fare. Essi erano molto
preoccupati, perché già quand'erano nella caverna avevano superato
il limite di tempo stabilito da Sugriva. Angada disse: "Per noi
la morte è certa, se torniamo dopo il tempo stabilito e senza notizie
di Sita. Perciò è meglio che ci sediamo qui e digiuniamo fino alla
morte. In realtà io non sono stato incoronato principe da Sugriva,
ma da Rama. E Sugriva, che non mi ama molto, potrebbe approfittare
di questa occasione per farmi uccidere". Tutti i vanara furono d'accordo:
"Abbiamo mancato con Sugriva, e ora non è né saggio né salutare
tornare da lui. Continuiamo a cercare Sita e torniamo da Sugriva
dopo avere ottenuto notizie di lei; altrimenti cercheremo d'entrare
nella dimora della Morte".
Uno dei capi vanara suggerì che tutti loro si rifugiassero nella
caverna per sfuggire alla collera di re Sugriva. Angada non respinse
la proposta, e Hanuman vide in questo la nascita di un complotto
che avrebbe potuto portare ad una lotta tra Sugriva e Angada. Quest'ultimo
era molto intelligente ed era un maestro nell'arte della politica.
Allora il saggio Hanuman usò allo scopo la terza delle quattro strategie
politiche studiate per trattare con gli oppositori: egli fece sorgere
differenze di opinioni tra i capi vanara. E infine disse ad Angada:
"Tu sei invero un grande e potente eroe, ma la mente dei vanara
è incostante ed essi potrebbero non rimanerti fedeli. Nessuno di
questi capi vanara, me compreso, volterà le spalle a Sugriva e seguirà
te. Tu ti stai mettendo contro un potentissimo eroe, e questo non
è saggio. E ancora peggio, tu credi che questa grotta sia un rifugio
sicuro; ma non lo è. Anche Indra riuscì ad entrarvi e uccise Maya.
I missili di Lakshmana potrebbero ridurre rapidamente la grotta
in frantumi. Presto tutti i vanara ti abbandoneranno, per mancanza
di viveri e di altre cose necessarie. Il piano che è stato suggerito
è denso di pericoli. Io penso che sia più saggio tornare a Kishkindha
e pregare Sugriva di perdonare il ritardo. Egli è un giusto e non
ti farà del male".
Angada andò su tutte le furie: "Chi chiami giusto? Sugriva? Colui
che ha sedotto la moglie del fratello maggiore che per lui doveva
essere come una madre? Quello che ha bloccato l'uscita del fratello
dalla grotta? Quello che una volta ottenuto il suo scopo aveva completamente
dimenticato il bene fattogli da Rama, e stava pensando solo a divertirsi?
Non dimenticare che è stato solo per paura dell'ira di Lakshmana
che egli ci ha mandati in cerca di Sita, e non perché pensava che
fosse una giusta causa! Credi che Sugriva tollererà come principe
me, che sono il figlio del suo nemico Vali? È probabile che egli
non mi farà del male o non mi ucciderà pubblicamente, ma di certo
escogiterà per me qualche punizione segreta. Ed è meglio morire
adesso che passare il resto della vita in una prigione solitaria.
No, io non vengo. Tu puoi ritornare; salutalo da parte mia e raccontagli
tutto. Quindi parla a mia madre e anche alla regina Ruma".
Così dicendo, Angada si buttò a terra. Tutti i vanara fecero altrettanto
e decisero di digiunare fino alla morte. In preda alla disperazione
e allo sconforto, essi maledirono persino il giorno in cui Rama
e Sugriva s'erano incontrati. Cominciarono a parlare ad alta voce
dell'esilio di Rama, del rapimento di Sita, della morte di Jatayu,
dell'uccisione di Vali, e così via. Ma mentre stavano parlando,
un grande pericolo si librava sulle loro teste.
Il rumore, le folate di vento e la polvere precedettero l'approssimarsi
alla grotta di un enorme avvoltoio. I vanara che erano seduti su
uno spiazzo fuori della grotta videro l'avvoltoio appollaiato su
una grande roccia. Il suo nome era Sampati ed era il fratello di
Jatayu. L'avvoltoio disse tra sé: "Di certo la Provvidenza invisibile
controlla il mondo intero. E la Provvidenza benevola ha decretato
che il cibo mi arrivi, per così dire, davanti alla soglia di casa.
Non appena ognuno di questi vanara morirà, io ne mangerò la carne".
I vanara, però, udirono queste parole e ne rimasero profondamente
turbati.
Con la mente sconvolta dall'intensa paura, Angada disse ad Hanuman:
"La morte è venuta a trovarci nelle sembianze di un avvoltoio. Ma
come prima il nobile Jatayu ha dato la sua vita per servire Rama,
così anche noi moriremo al suo servizio. Almeno Jatayu ha subito
il martirio mentre cercava d'aiutare concretamente Sita; invece
noi sfortunatamente non siamo riusciti a scoprire dove è stata portata".
Udendo queste parole, la mente di Sampati venne turbata. E chiese:
"Chi di voi ha menzionato il nome del mio amatissimo fratello Jatayu?
Non ho sue notizie da moltissimo tempo; e sentendo parlare del suo
assassinio tutto il mio essere è sconvolto. Com'è successo?".
A questo punto i vanara erano increduli, tuttavia aiutarono Sampati
a scendere dalla roccia. Poi Angada raccontò tutta la storia di
Rama, inclusa la sua amicizia con Sugriva e l'uccisione di Vali.
E infine concluse: "Siamo stati mandati in cerca di Sita, ma non
siamo riusciti a trovarla, e il limite di tempo stabilito da Sugriva
è scaduto. Per paura d'affrontare la sua collera, abbiamo deciso
di rimanere qui e digiunare fino alla morte.
Sampati disse: "Jatayu era mio fratello. Io e lui stavamo volando
verso la dimora di Indra, dopo che questi aveva ucciso il demone
Vritra. Quand'eravamo vicini al sole Jatayu stava per svenire, ed
io lo riparai. Ma le mie ali furono bruciate dal calore del sole,
e caddi quaggiù. Anche se sono rimasto senza ali e senza potere,
per amore di Rama vi aiuterò come posso. Qualche tempo fa ho visto
una bellissima donna che veniva portata via da Ravana, e gridava:
'O Rama, o Lakshmana'. Ravana vive a Lanka, un'isola a ottocento
miglia da qui. Grazie anche al potere della mia vista, riesco a
vedere che sia Ravana che Sita vivono a Lanka. Con l'intuizione
posso anche vedere che troverete Sita, prima di tornare a Kishkindha.
Ora portatemi in riva al mare, in modo che possa offrire libagioni
per la pace dell'anima di mio fratello". I vanara furono lieti d'aiutare
Sampati.
Quando sentì dire a Sampati che aveva visto Sita, Jambavan gli si
avvicinò e gli chiese: "Ti prego, dimmi più precisamente dov'è Sita
e chi l'ha vista?".
Sampati rispose: "Di fatto mio figlio Suparsva ha avuto un incontro
ancora più diretto con Sita e Ravana. Vi racconterò tutta la storia;
ascoltate.
"Vi ho detto che in uno sconsiderato tentativo di volare fino al
sole le mie ali furono bruciate, e io caddi senz'ali su questa montagna.
Come gli esseri celesti sono estremamente lussuriosi, i serpenti
sono pieni di terribile ira, i daini s'impauriscono facilmente,
così noi avvoltoi siamo molto voraci. Come potevo appagare la mia
fame insaziabile senza le ali? Mio figlio Suparsva s'impegnò a procurarmi
regolarmente del cibo. Un giorno, di recente, egli non arrivò all'ora
abituale e io cominciavo a essere tormentato dalla fame. Quando
lo rimproverai per il ritardo, egli mi raccontò che cosa era successo
quel giorno. E disse: "Mentre stavo cercando della carne da portarti
da mangiare, ho visto un grande demone che volava tenendo una donna
tra le braccia. Io l'ho bloccato, desiderando portarteli entrambi
per il tuo pasto di oggi. Ma egli mi ha implorato di lasciarlo andare:
e come potevo rifiutare la sua richiesta? Allora l'ho lasciato andare.
Poco dopo ho udito alcuni saggi della regione esclamare: 'Per puro
caso oggi Sita si è salvata'. Dopo che si erano allontanati, ho
continuato a seguirli con lo sguardo per molto tempo e ho visto
che quella donna lasciava cadere degli ornamenti sulle colline.
Per tutto questo sono in ritardo, o padre!". È stato da mio figlio
Suparsva che per la prima volta ho sentito dire del rapimento di
Sita. Io non potevo sfidare e uccidere Ravana, perché non avevo
né le ali né la forza di combattere. Ma a modo mio offrirò il mio
servizio a Rama.
"Su questa montagna viveva un grande saggio chiamato Nisakara. Il
giorno in cui io e Jatayu volavamo verso il sole e le mie ali furono
completamente bruciate, caddi quaggiù e rimasi privo di sensi per
qualche tempo.
"Quando ripresi conoscenza, con grande difficoltà raggiunsi l'eremo
del saggio, perché desideravo molto vederlo. Aspettai lì e dopo
un certo tempo lo vidi arrivare all'eremitaggio, circondato da orsi,
daini, tigri, leoni e serpenti! Quand'egli varcò la soglia dell'eremitaggio,
essi ritornarono nella foresta. Il saggio mi salutò soltanto ed
entrò. Ma ben presto tornò dov'ero e mi disse: "Non sei forse Sampati?
Jatayu non è tuo fratello? Voi due eravate soliti venire qui in
forma umana per salutarmi. Sl, ti riconosco. Ma dimmi: chi ha bruciato
le tue ali e perché sono state bruciate?".
Sampati continuò: "Le mie condizioni fisiche e la perdita delle
ali e della vitalità m'impedivano di fornire un completo resoconto
della nostra disavventura. Comunque, dissi al saggio: "Determinati
a raggiungere il sole, cominciammo a volare verso di esso. Ci librammo
alti nel cielo e da lassù guardammo la terra: le città apparivano
come dei carri! Udivamo rumori strani nello spazio. Le montagne
sulla terra sembravano ciottoli; e i fiumi apparivano come lacci
che legavano la terra! L'Himalaya e i monti Vindhya sembravano elefanti
che si bagnavano in uno stagno. Il senso della vista ci giocava
brutti scherzi. Sembrava che la terra fosse in fiamme. Poi ci concentrammo
sul sole per avere il giusto orientamento. Il sole sembrava grande
quanto la terra. Jatayu decise di tornare giù. Io lo seguii, cercando
di proteggerlo contro i raggi cocenti del sole, e le mie ali si
bruciarono. Penso che Jatayu sia caduto a Janasthana. Io sono qui
sui Vindhya. Che devo fare adesso? Ho perso tutto. Il mio cuore
desidera la morte, che mi procurerò gettandomi da una rupe".
"Il saggio, però, rimase un po' in contemplazione e quindi disse:
"Non disperare. Tu riavrai le ali, la vista, la forza vitale e l'energia.
Ho udito una predizione: presto la terra sarà governata dal re Dasaratha,
il cui figlio Rama andrà nella foresta in obbedienza al comando
di suo padre; là Rama perderà la moglie Sita e invierà dei vanara
a cercarla. Quando tu informerai i vanara sul luogo in cui Sita
è tenuta prigioniera, allora riavrai nuove ali. Invero potrei farti
ricrescere le ali anche adesso: ma è meglio che tu le riottenga
dopo aver reso un grande servizio a Rama". Non molto tempo dopo
il saggio lasciò questo mondo.
"Ho atteso impazientemente tutti voi, per qualche centinaia d'anni.
Ho spesso pensato di commettere suicidio; ma ogni volta ho abbandonato
l'idea, sapendo d'avere una missione importante nella vita. L'altro
giorno ho rimproverato mio figlio per aver lasciato andare Ravana
con Sita; ma io personalmente non potevo inseguire Ravana".
Mentre Sampati stava parlando, delle nuove ali spuntarono ai suoi
fianchi, sotto gli occhi dei vanara. I vanara gioirono e Sampati
continuò: "È per grazia del saggio Nisakara che ho riavuto queste
ali, o vanara; e, la crescita di queste nuove ali è prova sicura
che riuscirete a trovare Sita".
Sampati si alzò in volo, per vedere se poteva ancora volare! Nel
frattempo i vanara avevano abbandonato l'idea di digiunare a morte
e avevano riacquistato l'entusiasmo e il morale. E ancora una volta
partirono in cerca di Sita.
Le parole di Sampati ridiedero fiducia ai vanara, ma l'entusiasmo
durò solo fino a quando non si trovarono di fronte allo stesso oceano.
Raggiunsero la costa a nord dell'oceano meridionale, e là si fermarono
Quando videro l'immensità dell'oceano i loro cuori s'avvilirono.
Tutti esclamarono all'unisono: "Come possiamo attraversare quest'oceano
e cercare Sita?".
Angada disse loro: "Non disperate, o vanara! Chi si fa prendere
dallo scoraggiamento è derubato della sua forza e del suo valore,
e non raggiunge il suo scopo". Udendo queste parole, tutti i vanara
attorniarono Angada in attesa del suo piano. Ed egli continuò: "Chi
potrà attraversare quest'oceano? Chi realizzerà il desiderio di
Sugriva? Sarà sicuramente per grazia di quel vanara che riuscirà
ad attraversare quest'oceano che potremo tornare a casa e rivedere
le nostre mogli e i nostri figli: sarà per grazia sua che Rama e
Lakshmana riceveranno grande gioia". Ma nessuno rispose. Angada
continuò: "Certamente siete consapevoli d'avere una forza incommensurabile.
Nessuno può ostruire il vostro cammino. Orsù, parlate: ditemi a
che distanza ognuno di voi può andare".
Uno dopo l'altro i più potenti vanara risposero: "Io posso fare
ottanta miglia". "Io posso percorrere una distanza doppia". "Io
posso coprire tre volte quella distanza". E così via, finché non
giunse il turno di Jambavan, che disse: "Molto tempo fa avevo una
grande forza e avrei potuto facilmente attraversare l'oceano e ritornare,
ma a causa della mia età avanzata sono diventato debole. Tanto tempo
fa, quando il Signore Vishnu assunse la sua forma gigantesca (per
misurare tutta la terra con un piede e il cielo con l'altro), io
gli girai intorno. Ma ora, ahimè, sono incapace d'attraversare questo
piccolo oceano".
Angada stesso dichiarò: "Io potrei sicuramente attraversare l'oceano
e raggiungere Lanka, ma non sono certo di riuscire a fare il viaggio
di ritorno. E se non tornassi, sarei andato invano". Ma Jambavan
intervenne dicendo: "Oh, no: tu non devi intraprendere questo compito;
quando si organizza una spedizione, il comandante in persona non
deve mai andare. Tu sei la radice stessa di tutta la spedizione.
E i saggi dicono che bisogna proteggere sempre la radice, perché
conservando la radice ci si può sempre aspettare di raccogliere
il frutto. Tu sei il nostro stimato capo, perciò non devi rischiare
la tua vita in questa avventura".
Angada rispose: "Se nessun altro può attraversare l'oceano, e io
non devo, allora siamo destinati a morire qui. Che cosa dobbiamo
fare?". Ma Jambavan aveva altre idee, e disse: "O principe, c'è
qualcuno tra noi che può compiere quest'impresa".
Jambavan si rivolse ad Hanuman: "E tu, o potente eroe, perché non
parli? La tua potenza è pari a quella di Sugriva, anzi pari a quella
di Rama e di Lakshmana; eppure te ne stai in silenzio.
"Voglio ricordarti la tua nascita e i tuoi antenati. La ninfa Anjana
rinacque con il corpo di una donna umana come figlia di un capo
vanara chiamato Kunjara. Si dice che un giorno, mentre riposava
in cima ad un colle, il dio del vento, che aveva sollevato le sue
vesti scoprendo le sue gambe attraenti, s'innamorò di lei. Il suo
corpo fu come abbracciato dal dio del vento. Ma lei esclamò infuriata:
"Chi osa violare la mia castità?". Il dio del vento rispose: "No,
non ti violerò, donna! Ma poiché come vento sono entrato in te,
darai alla luce un figlio che sarà mio pari in potenza".
"Anjana diede alla luce te, Hanuman! Quand'eri un bambino, un giorno
hai visto il sole nel cielo, e pensando che fosse un frutto ti sei
lanciato per coglierlo. Ma Indra t'abbatté con il suo fulmine e
tu ricadesti sulla terra. Sbattendo, il lato sinistro del tuo mento
si ruppe, e per questo sei stato chiamato hanu-man. Si dice che
vedendoti ferito, il dio del vento s'arrabbiò; e nel mondo non ci
fu più movimento di vento. Gli dèi impauriti propiziarono il dio
del vento; e quindi Brahma il Creatore ti concesse il dono dell'invincibilità
in battaglia. Quando Indra venne a sapere che non eri morto dopo
essere stato colpito dal suo fulmine, ti conferì il dono che potrai
morire solo quando lo vorrai. Non c'è nessuno pari a te in potenza
o nell'abilità d'attraversare non solo quest'oceano, ma un oceano
ancora più grande. Tutti gli altri sono scoraggiati. Di certo la
missione dipende da te".
Man mano che gli venivano decantate le sue glorie e gli veniva ricordata
la sua potenza, Hanuman per così dire cresceva in statura. Vedendolo
pieno d'entusiasmo, gli altri vanara saltavano di gioia.
Hanuman cresceva in statura e muoveva la coda dalla grande gioia.
Infine disse: "Ma certo che posso attraversare quest'oceano! Con
la forza delle mie braccia posso anche spingerlo da parte. Agitato
dalle mie gambe, l'oceano romperà i suoi argini. Io posso frantumare
le montagne, posso lanciarmi nello spazio e solcarlo. Sono pari
al dio del vento in forza e valore. Nessuno mi è pari all'infuori
del divino Garuda. Potrei anche sollevare l'isola di Lanka e portarla
via".
Immensamente ispirati da queste parole, i vanara esclamarono all'unisono:
"Bravo, Hanuman. Tu ci hai salvati tutti. Pregheremo per il successo
della tua missione, rimanendo in piedi su una sola gamba fino al
tuo ritorno". Hanuman scalò la montagna pronto a lanciarsi.
FINE DEL KISHKINDHA KANDAM
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Libro
quinto: SUNDARA KANDAM - La magnifica impresa
Hanuman si stava preparando per saltare sull'oceano e attraversarlo
per raggiungere Lanka. Prima di cominciare quest'avventura importante
e vitale, egli rivolse preghiere al dio del sole, a Indra, al dio
del vento, al Creatore e agli elementi. Poi si volse a est e s'inchinò
al dio del vento, Vayu, suo padre. Infine volse lo sguardo a sud,
per iniziare la sua grande missione.
Mentre stava là, con tutto il suo essere che si gonfiava d'entusiasmo,
fervore e determinazione, nel momento in cui spinse il piede contro
la montagna prima di prendere il volo, l'intera montagna tremò.
E a causa della scossa i fiori caddero dagli alberi, gli uccelli
e gli animali lasciarono i loro nidi e le loro tane, e le acque
sotterranee sgorgarono all'esterno. Perfino gli esseri celesti amanti
dei piaceri, e gli asceti amanti della pace, furono costretti a
lasciare le loro dimore sulla montagna, e volarono nel cielo per
osservare da lì l'avventura di Hanuman.
Dando prova della loro abilità e della loro conoscenza scientifica,
i saggi e gli esseri celesti rimasero sospesi nell'aria sopra la
montagna, desiderosi di assistere alla partenza di Hanuman per Lanka.
E si dicevano l'un l'altro: "Il potente Hanuman, che è il figlio
divino dello stesso dio del vento, attraverserà facilmente quest'oceano;
perché egli desidera attraversarlo solo per adempiere la missione
di Rama e quella dei vanara".
Hanuman si rannicchiò sulla montagna, pronto a partire come un lampo.
Egli tese il suo corpo cercando così di radunare tutta l'energia
che possedeva. Poi trattenne il respiro nel cuore, caricandosi ancora
di maggiore energia.
Quando fu pronto si rivolse ai vanara che gli stavano intorno e
disse: "Procederò verso Lanka con la velocità di un missile lanciato
da Rama. Se nell'isola non troverò Sita, con la stessa velocità
andrò a cercarla in cielo. E se non la trovassi neanche lì, prenderò
Ravana, lo legherò e lo porterò davanti a Rama. Tornerò di sicuro
coronato dal successo. E se fosse difficile legare Ravana e portarlo
con me, sradicherò la stessa Lanka e la porterò a Rama".
Dopo avere rassicurato in questo modo i vanara, Hanuman si levò
nel cielo. I grandi alberi radicati sulla montagna furono violentemente
risucchiati dalla sua scia.
Alcuni alberi seguirono in volo Hanuman; altri caddero nell'oceano;
e altri ancora fecero cadere i loro fiori sulle cime dei monti,
formandovi vivaci tappeti. Altri fiori caddero sulla superficie
dell'oceano, dove apparivano come stelle nel firmamento.
Il potente Hanuman si dirigeva verso Lanka, volando in direzione
sud, con le braccia allargate. A volte sembrava che da un momento
all'altro stesse per bere l'oceano; in un altro momento sembrava
che volesse bere lo stesso cielo azzurro. Egli seguiva il corso
del vento, e aveva gli occhi che luccicavano come il fuoco, come
il fulmine.
Hanuman che volava nell'aria, con la coda raggomitolata all'insù,
sembrava una meteora che con la sua coda attraversava il cielo da
nord a sud. La sua ombra cadeva sulla superficie dell'oceano: e
questo dava l'impressione che sull'oceano ci fosse una grande nave.
Poiché volava sulla superficie del mare, lo spostamento d'aria causato
dalla sua velocità agitava grandemente le acque.
Con il suo possente torace egli in effetti toccava la superficie
dell'acqua. E così mentre ci volava sopra, il mare veniva agitato,
e dietro la sua scia si sollevavano delle onde gigantesche. Sollevandosi
fragorosamente, l'acqua si espandeva in un'infinità di bollicine
sottili che alla fine sembravano formare tante nuvole.
Volando in questo modo nello spazio, senza alcun sostegno visibile,
Hanuman aveva l'aspetto di una montagna alata.
E poiché Hanuman era impegnato in una missione al servizio di Rama,
anche il sole era con lui e non lo bruciava. E poi Rama era un discendente
della dinastia solare. Tutti i saggi che erano là presenti nelle
loro forme eteree fecero piovere abbondantemente le loro benedizioni
su Hanuman.
Vedendolo volare sopra le acque, Sagara - la divinità che presiedeva
all'oceano - pensò tra sé: "Molto tempo fa gli antenati di Rama,
i figli del re Sagara, mi resero un favore inestimabile. Perciò
è mio dovere aiutare questo messaggero di Rama che è impegnato a
rendergli un grande servizio. Devo far si che Hanuman non si stanchi
durante il tragitto, col pericolo che fallisca nella sua missione.
Devo fare in modo che abbia un po' di riposo, prima che proceda
oltre".
Dopo avere deciso questo, Sagara chiamò Mainaka - la divinità che
presiedeva alle montagne e che Indra aveva sommerso in fondo all'oceano
- e le disse: "O Mainaka, Indra il capo degli dèi ti ha posta qui
per impedire agli abitanti delle regioni sotterranee di venire su.
Tu hai il potere di estenderti da tutti i lati. Ti prego, innalzati
ed offri come un seggio ad Hanuman, che è impegnato in una importantissima
missione per conto di Rama. In questo modo fa' che Hanuman possa
riposarsi prima di procedere oltre".
[NOTA: Gli occhi che emettono fuoco e luce, un oggetto volante che
si lascia dietro una scia (che sembra una coda), ecc., suggeriscono
un razzo o un aereo a reazione.]
Acconsentendo prontamente alla richiesta di Sagara, la montagna
Mainaka si sollevò dal letto dell'oceano. Mentre Hanuman volava
verso Lanka vide emergere concretamente dall'oceano questa montagna,
che gli si presentava davanti. Tuttavia egli pensò che si trattasse
di un ostacolo che voleva impedire il suo avanzamento verso Lanka,
un'ostruzione sul suo cammino da superare presto.
In effetti Hanuman passò a volo radente, sfiorando quasi la vetta
della montagna; ma a causa dell'impeto del suo moto, la cima della
montagna si spezzò.
Assumendo forma umana, la divinità che presiedeva alla montagna
Mainaka si rivolse ad Hanuman, che intanto continuava il suo volo:
"Ti prego, Hanuman, accetta la mia ospitalità. Riposati un po' sulla
mia cima. Riprendi fiato. L'oceano fu ulteriormente esteso dai figli
di re Sagara, un antenato di Rama. Perciò la divinità che presiede
all'oceano desidera rendere in cambio questo servizio in segno di
gratitudine: perché mostrare la propria gratitudine è il Dharma
esterno. A tal fine il dio dell'oceano mi ha comandato di sollevarmi
in superficie per offrirti un posto dove riposare. È nostra tradizione
accogliere e onorare gli ospiti, anche se sono persone comuni; e
quanto più importante è per noi onorare persone come te! C'è ancora
un'altra ragione per la quale t'imploro d'accettare la mia ospitalità!
Anticamente tutte le montagne erano dotate di ali. Esse andavano
in giro volando e atterravano dove volevano; ma così esse terrorizzavano
i saggi e tutti gli altri esseri. Rispondendo alle loro preghiere,
Indra - il capo degli dèi - impugnò il suo fulmine e recise le ali
delle montagne. Poi accadde che quando Indra stava per colpirmi,
il dio del vento mi spinse violentemente e mi nascose nell'oceano.
Fu così che mi salvai dalla furia di Indra. Perciò ho un debito
di gratitudine con il dio del vento, che è tuo padre. Ti prego,
permetti che mi possa sdebitare servendoti".
Hanuman rispose gentilmente: "Accetto volentieri la tua ospitalità,
in spirito. Il tempo passa, e io ho una missione urgente da compiere;
inoltre ho promesso che non mi sarei riposato finché non avessi
portato a termine la mia impresa. Perciò perdona la mia rudezza
e scortesia, ma devo continuare per la mia strada".
Come segno d'accettazione dell'ospitalità di Mainaka, Hanuman toccò
la montagna con la mano e continuò subito il suo volo. Gli dèi e
i saggi che assistettero a questa scena rimasero straordinariamente
impressionati dal gesto di buona volontà di Mainaka e dallo zelo
e dalla determinazione indefessa di Hanuman. Altamente compiaciuto
dalla montagna Mainaka, Indra le conferì il dono dell'impavidità.
Gli dèi e i saggi che sorvegliavano il volo di Hanuman verso Lanka
erano stati testimoni della sua prima dimostrazione di forza, quand'egli
si era lanciato dal monte Mahendra, e della sua seconda dimostrazione
di forza e d'entusiasmo: quando aveva rifiutato persino di riposarsi,
insistendo sulla priorità del compimento della missione. Adesso
essi volevano essere completamente certi della sua capacità di portare
a compimento l'impresa che aveva cominciato.
Gli dèi e i saggi andarono da Surasa (la madre dei Naga) e le dissero:
"Ecco Hanuman, il figlio del dio del vento, che sta attraversando
in volo l'oceano. Per favore, ostacola il suo cammino solo per un
po'. Assumi una spaventosa forma demoniaca, con il corpo grande
come una montagna, con denti e occhi dall'aspetto terrificante,
e con una bocca grande quanto lo spazio. Desideriamo accertarci
della forza di Hanuman; perciò vogliamo vedere se, quando dovrà
confrontarsi con te, egli avrà la meglio oppure si scoraggerà".
Obbedendo al loro comando, Surasa assunse una forma terrificante
e si mise davanti ad Hanuman con la bocca spalancata. Mentre Hanuman
continuava a volare, avvicinandosi alla sua bocca, Surasa gli disse:
"Il fato ha decretato che oggi tu debba essere il mio cibo! Entra
nella mia bocca e ti divorerò".
Hanuman però le rispose: "Donna, sto compiendo un'importante missione.
Rama, il figlio di re Dasaratha, è andato nella foresta per onorare
la promessa di suo padre. Mentre viveva nella foresta con sua moglie
Sita e suo fratello, Sita è stata rapita da Ravana, il re di Lanka.
Ora sto andando a Lanka per ritrovarla; perciò non ostruire il mio
cammino. Lasciami andare! Se gli dèi hanno ordinato che io debba
entrare nella tua bocca, ti prometto che non appena avrò scoperto
Sita e informato Rama, tornerò qui ed entrerò nella tua bocca".
Surasa però era ben decisa, e ripeté: "Nessuno può sfuggirmi; ed
è stato decretato che tu debba entrare nella mia bocca". E spalancò
di nuovo la bocca.
Con il suo potere yogico Hanuman si rese piccolissimo, ed entrò
rapidamente nella sua bocca e altrettanto rapidamente ne uscì! Poi
le disse: "Donna, fammi continuare. Ho appagato il tuo desiderio
ed ho onorato il decreto degli dèi: sono entrato nella tua bocca!
Saluti a te! Ora andrò dove Sita è tenuta prigioniera".
Surasa abbandonò quella forma demoniaca e riacquistò la propria
forma, che era d'aspetto piacevole. Quindi benedisse Hanuman: "Va'!
Sicuramente riuscirai a trovare Sita e la riunirai a Rama". Gli
dèi e i saggi furono entusiasti di questo terzo trionfo di Hanuman.
Hanuman continuò a volare verso Lanka, lungo la via aerea che contiene
le nuvole cariche di pioggia e lungo la quale si rincorrono gli
uccelli, là dove i maestri di musica si muovono liberamente e lungo
la quale volano macchine aeree somiglianti a leoni, elefanti, tigri,
uccelli e serpenti. Egli volava nel cielo che è anche la dimora
di uomini e donne di saggezza che hanno accumulato molte opere meritorie,
e che è come una calotta - adornata dal sole e dalla luna, dai pianeti
e dalle stelle - creata dal Creatore Brahma per proteggere gli esseri
viventi sulla terra.
Mentre volava egli lasciava dietro di sé una scia nera che somigliava
alle nuvole scure, e a tratti lasciava anche scie rosse, gialle
e bianche. Spesso volava attraverso formazioni di nubi.
Una demonessa di nome Simhika vide Hanuman che volava impavido nel
cielo e decise di attaccarlo. Ella pensò: "Ho fame. Oggi ingoierò
questa enorme creatura e appagherò la mia fame per un po' di tempo".
E subito ella afferrò l'ombra di Hanuman proiettata sulla superficie
dell'oceano.
Immediatamente la corsa di Hanuman fu arrestata ed egli venne spinto
violentemente verso il basso. Hanuman si chiese: "Come mai mi sento
improvvisamente tirare giù con tanta forza?". Guardandosi intorno
egli vide l'orribile demonessa Simhika; si ricordò della descrizione
che Sugriva gli aveva dato di lei e fu certo oltre ogni dubbio che
si trattava di Simhika.
Hanuman aumentò il volume del suo corpo e la demonessa spalancò
la bocca. Egli guardò nella sua bocca e attraverso di essa vide
gli organi vitali interni. In un batter d'occhio Hanuman divenne
piccolissimo e si lanciò nella sua enorme bocca, dove scomparve.
Gli dèi e i saggi che guardavano quanto stava accadendo inorridirono.
Ma con le sue unghie adamantine, Hanuman squarciò le parti vitali
della demonessa ed uscì rapidamente dal suo corpo.
Così, con l'aiuto della buona fortuna e della sua abilità e determinazione,
Hanuman trionfò sulla demonessa. Gli dèi lodarono la sua impresa
e dissero: "Colui nel quale si riscontrano (come in te) queste quattro
virtù (fermezza, intuizione, saggezza e abilità) non dispera in
nessuna circostanza".
Hanuman aveva quasi coperto le ottocento miglia del suo viaggio.
A poca distanza egli vide le coste di Lanka. Vide le dense foreste.
Vide le montagne chiamate Lamba. E vide la capitale Lanka, costruita
sulle montagne. Per non destare allarmi, egli fece un morbido atterraggio
sui monti Lamba, che erano ricchi di alberi di ketaka uddalaka e
noci di cocco.
Nonostante avesse attraversato l'oceano, coprendo una distanza di
ottocento miglia, Hanuman non sentiva la minima fatica o stanchezza.
Dopo essere atterrato sulla catena montuosa vicino al mare, per
un po' egli vagò per le foreste, dove vide alberi di vario tipo,
con fiori e frutti. Poi vide la città di Lanka: situata in cima
a una montagna, circondata da larghi fossati e sorvegliata dalle
forze di sicurezza dei demoni. Hanuman s'avvicinò all'ingresso settentrionale
della città e lo ispezionò senza farsi notare. La porta era sorvegliata
da demoni dall'aspetto ferocissimo e armati fino ai denti con armi
potentissime.
Mentre stava a guardare, Hanuman pensava a Ravana, il rapitore di
Sita, e intanto rifletteva: "Anche se le forze vanara arrivassero
qui, a che servirebbe? Perché l'isola di Lanka non può essere conquistata
neanche dagli dèi. E poi solo quattro di noi sono in grado d'attraversare
l'oceano e giungere fin qui: Angada, Nila, Sugriva ed io. E questo
sarebbe completamente inutile. Con questi demoni non si può negoziare
e convincerli con mezzi pacifici. Comunque, per prima cosa devo
scoprire se Sita è viva oppure no; solo allora potrò prendere in
considerazione il passo successivo".
Per scoprire dove Sita era tenuta prigioniera, egli doveva entrare
a Lanka. Il saggio Hanuman considerò quest'aspetto della sua missione:
"Certo, devo stare molto attento, ed essere cauto e vigile. Se non
lo fossi, potrei rovinare l'intera missione. Anche quando è stata
escogitata e decisa attentamente, un'impresa fallisce se viene condotta
male da un messaggero maldestro o inefficiente. Perciò devo considerare
bene il da farsi, valutando diligentemente tutti i pro e i contro.
Devo stare attento a non fare cose che non devono essere fatte.
Devo entrare in città in maniera tale che la mia presenza e i miei
movimenti non siano scoperti; e noto che le guardie di Ravana sono
così efficienti che non sarà facile passare inosservato".
Stabilito questo, Hanuman ridusse le sue dimensioni fino a diventare
piccolo quasi quanto un gatto, e al calar delle tenebre si diresse
verso la città. Anche da lontano si rese conto della prosperità
di cui godeva Lanka. C'erano edifici di molti piani, e strade soprelevate
fatte d'oro. Era illuminata splendidamente e decorata con gusto.
La città era di una bellezza e uno splendore difficili da immaginare.
Quando Hanuman la vide, il suo cuore si riempì di sentimenti contrastanti
di gioia e scoraggiamento: gioia al pensiero di vedere Sita, e scoraggiamento
al pensiero delle difficoltà che l'aspettavano.
Senza che le guardie s'accorgessero di nulla, Hanuman entrò per
la porta della città.
Hanuman stava ancora valutando le difficoltà dell'imminente campagna
per liberare Sita.
Conquistare Lanka con la forza gli sembrava fuori questione. E così
pensava: "Forse solo Kumuda, Angada, Sushena, Mainda, Dvivida, Sugriva,
Kusaparva, Jambavan ed io siamo in grado d'attraversare l'oceano
e giungere fin qui. Tuttavia, malgrado tutti gli ostacoli, abbiamo
dalla nostra parte il valore incommensurabile di Rama e Lakshmana:
certamente essi possono distruggere i demoni senza la minima difficoltà".
Mentre stava per entrare in città, Hanuman fu intercettato da Lanka,
una demonessa che era stata posta a guardia della città.
Appena lo vide, ella gli chiese: "Chi sei, o vanara? A te non è
permesso entrare nella città di Lanka!".
Hanuman non voleva assolutamente rivelare la propria identità, e
perciò le rispose chiedendole a sua volta: "E tu chi sei, donna?
E perché ostruisci il mio cammino?".
Lanka rispose: "Per ordine del potente Ravana, io sorveglio questa
città. Nessuno può ignorarmi ed entrare in città: e tu, vanara,
entrerai presto nel sonno eterno, ucciso dalle mie stesse mani!".
Hanuman le disse: "Io sono venuto in questa città per visitarla,
per vedere tutto ciò che c'è da vedere. Una volta che avrò visto
quello che desidero vedere, me ne ritornerò puntualmente nel luogo
dal quale sono venuto. Ti prego, lasciami passare".
Lanka era irremovibile: "Non puoi passare senza prima sconfiggermi
o senza ottenere il mio permesso", e dicendo questo levò la sua
mano e colpì Hanuman sul petto.
L'ira di Hanuman si destò. E tuttavia egli si controllò, perché
non riteneva giusto uccidere una donna! Allora strinse il suo pugno
e colpì Lanka. Ella cadde a terra sconfitta, e quindi svelò il suo
segreto:
"Fermati, o vanara! Non uccidermi. I veri potenti non violano il
codice cavalleresco, e non uccidono una donna. Io sono Lanka, e
chi ha conquistato me ha conquistato Lanka. Questo è quello che
un giorno mi disse Brahma, il Creatore: "Quando un vanara ti sconfiggerà,
sappi che allora i demoni avranno motivo di temere un grande pericolo".
Sono sicura che la profezia si riferiva a te, o vanara! Ora mi rendo
conto che l'inevitabile distruzione dei demoni di Lanka è cominciata
nel momento in cui in quest'isola è entrata Sita, che è stata portata
qui con la forza da Ravana. Adesso va', entra in città. Sono certa
che troverai Sita e porterai a termine tutto ciò che desideri fare".
Hanuman non entrò in città attraverso la sorvegliatissima porta
principale, ma scavalcò le mura di cinta. Poi raggiunse la strada
principale e s'avviò verso la sua destinazione: la dimora di Ravana.
Lungo la strada Hanuman vide molti bei palazzi, dai quali provenivano
il suono della musica e le allegre risate dei cittadini. Vide anche
delle ricche abitazioni costruite con stili diversi, fatte per portare
maggiore felicità e prosperità a chi vi abitava. Udì le urla di
combattimento dei campioni di lotta libera che gareggiavano tra
loro.
Qui e là poté sentire dei bardi che cantavano le glorie di Ravana,
e notò che i bardi venivano circondati da un gran numero di cittadini
che bloccavano la strada.
Nel cuore stesso della città, nella piazza principale, Hanuman vide
numerose spie di Ravana. Queste spie avevano l'aspetto di persone
religiose, con i capelli intrecciati o la testa rasata, ed erano
ricoperti di pelli di vacca oppure non portavano alcun indumento.
Nelle loro mani tenevano ogni sorta di armi, da pochi fili d'erba
a clave e bastoni. Avevano fisionomie e stature differenti, e anche
il loro aspetto e la loro carnagione differiva.
Hanuman vide anche la fortezza, che aveva una guarnigione di centomila
soldati e si trovava proprio di fronte agli appartamenti privati
di Ravana.
Hanuman s'avvicinò al palazzo di Ravana, che era veramente una dimora
celestiale. Nel cortile del palazzo e intorno all'edificio vi erano
numerosi cavalli, cocchi e anche carri aerei. Il palazzo era costruito
con puro oro massiccio e l'interno era decorato con molte pietre
preziose; la fragranza dell'incenso e della pasta di sandalo s'avvertiva
dappertutto. Hanuman entrò nel palazzo.
Era quasi mezzanotte, e la luna splendeva chiara nel cielo. Dal
palazzo emanavano le melodie degli strumenti musicali a corda; le
donne di buona natura dormivano con i loro mariti. Mentre i violenti
cacciatori nottambuli uscivano dalle loro dimore per andare a divertirsi.
In alcuni posti Hanuman vide dei lottatori che si allenavano. In
altri posti vide delle donne che si truccavano usando diversi tipi
di cosmetici. Altre donne ancora si divertivano con i loro mariti;
mentre altre, i cui mariti erano lontani, apparivano pallide e infelici
nonostante fossero ugualmente belle.
Hanuman vide tutto questo: ma non riuscì a vedere Sita da nessuna
parte.
Non potendo vedere Sita, l'amata moglie di Rama, Hanuman si sentì
molto addolorato e infelice e divenne depresso e di cattivo umore.
Hanuman fu molto colpito dalla bellezza e dalla grandiosità del
palazzo di Ravana che considerò come il vanto supremo di tutta Lanka.
Ma egli non entrò subito negli appartamenti privati di Ravana. Per
prima cosa esaminò i palazzi degli altri membri della famiglia reale
e dei capi dei demoni, come Prahasta. Poi esaminò i palazzi dei
fratelli di Ravana: Kumbhakarna e Vibhishana; e anche quello del
figlio di Ravana: Indrajit.
Fu molto colpito dai segni evidenti di prosperità che poteva vedere
ovunque. Dopo aver esaminato i palazzi di tutti questi eroi, Hanuman
raggiunse il palazzo dello stesso Ravana.
Gli appartamenti privati di Ravana erano sorvegliati da demoni dall'aspetto
terribile, muniti delle armi più micidiali. La magione privata di
Ravana era particolarmente sorvegliata da un numero maggiore di
soldati. E anche queste guarnigioni erano decorate con oro e diamanti.
Hanuman entrò nel palazzo e al suo interno vide palanchini, divani,
giardini e gallerie d'arte, stanze particolari per godere dei piaceri
sessuali e altre per indulgere in vari passatempi durante il giorno.
Vi erano anche altari speciali per compiere i rituali sacri. L'intero
palazzo risplendeva della luce emessa dalle pietre preziose che
si trovavano un po' dappertutto.
Ovunque andasse, i talami, i divani e le posate per il pranzo erano
d'oro. Il pavimento di tutto il palazzo era impregnato dell'odore
di vini e liquori. Effettivamente Hanuman pensò che il palazzo fosse
come un paradiso sulla terra, splendente della ricchezza delle pietre
preziose e fragrante del profumo di una grande varietà di fiori
che ne copriva la volta, dandogli l'aspetto di una collina coperta
di fiori.
Vi erano piscine con loti e ninfee; e in una di esse c'era scolpita
la figura di un elefante regale ritratto mentre offriva la sua adorazione
a Lakshmi, la dea della prosperità.
Proprio al centro del palazzo si trovava parcheggiato il migliore
di tutti gli aeromobili, chiamato Pushpaka. Esso era stato dipinto
con molti colori e ricoperto con molte pietre preziose. Inoltre
era decorato con pregevoli figure di serpenti, uccelli e cavalli
foggiati di gemme, argento e coralli. Ogni parte di quell'aeromobile
era stato progettato minuziosamente, e per farlo erano stati usati
solo i materiali migliori. In più possedeva delle caratteristiche
particolari che non avevano neanche i velivoli degli dèi; di fatto
raccoglieva in sé quanto di meglio si poteva immaginare! Ravana
lo aveva ottenuto dopo molti sforzi e austerità.
Hanuman vide tutto questo. Ma non vide Sita da nessuna parte!
Hanuman salì sull'aeromobile Pushpaka, dall'alto del quale poteva
facilmente guardare negli appartamenti privati di Ravana! Dall'aeromobile
stesso egli poteva sentire il forte odore che proveniva dalla sala
da pranzo di Ravana: odori di vini e liquori, e di cibo eccellente.
L'odore era allettante e Hanuman pensò che il cibo doveva essere
nutriente. Nello stesso tempo egli vide il bellissimo salone di
Ravana, che aveva i pavimenti di cristallo, con figure intarsiate
d'avorio, perle, diamanti, coralli, argento e oro. Il salone risplendeva
di pilastri di gemme. Per terra vi era un tappeto con un disegno
di una bellezza straordinaria. Sulle pareti c'erano dei murali che
rappresentavano paesaggi di varie nazioni. Questo salone era concepito
in maniera tale da dare a tutti i cinque sensi la massima gratificazione
possibile! Una luce soffusa illuminava tutto il salone.
Sul tappeto giacevano addormentate delle belle donne. Con la bocca
e gli occhi chiusi, s'erano addormentate esauste dopo aver bevuto
e danzato; dai loro corpi emanava la dolce fragranza dei fiori di
loto. Ravana era là che dormiva attorniato da tutte queste donne,
e sembrava come la luna circondata dalle stelle nel cielo notturno.
Tutte s'erano addormentate in uno stupendo disordine, alcune usando
le proprie braccia come guanciale, altre con il capo appoggiato
da qualche parte sul corpo delle compagne. I loro capelli erano
in disordine e così pure i loro vestiti; tuttavia nessuna di queste
condizioni attenuava la bellezza delle loro forme. Dall'alito di
tutte quelle donne proveniva un forte odore di alcolici.
Quelle donne provenivano da diversi ranghi della società. Alcune
di esse erano figlie di saggi reali, altre di brahmana, altre ancora
erano figlie di gandharva (artisti celesti), e naturalmente alcune
erano figlie di demoni: ma tutte avevano desiderato volontariamente
Ravana, perché l'amavano. Alcune egli le aveva conquistate con il
suo valore; altre si erano infatuate di lui. Nessuna di queste donne
era stata portata via da Ravana contro la propria volontà. Nessuna
di esse era stata sposata in precedenza; nessuna desiderava un altro
uomo. Ravana non aveva mai rapito un'altra donna, eccetto Sita.
Per un attimo Hanuman pensò che Ravana sarebbe stato certamente
una brava persona se avesse potuto ottenere per moglie anche Sita,
allo stesso modo delle altre: e cioè, prima che ella sposasse Rama,
e conquistandola o per mezzo del suo valore o facendola innamorare
di sé. Ma continuando a riflettere, Hanuman concluse che con il
rapimento della moglie di Rama, Ravana aveva commesso un'azione
davvero vile ed estremamente indegna.
Al centro di quel salone, Hanuman vide il letto più bello e lussuoso:
era celestiale nel suo aspetto, costruito interamente di cristallo
e costellato di gemme. Il signore dei demoni, lo stesso Ravana,
vi dormiva sopra.
La vista del demone fu dapprima ripugnante per Hanuman; perciò distolse
lo sguardo da lui. Ma poi lo guardò di nuovo. Vide che le due braccia
di Ravana erano forti e possenti, e adornate con splendidi gioielli.
Il suo volto, il suo petto, e invero tutto il suo corpo era forte
e raggiante. Le sue membra risplendevano come il lampo.
Intorno a questo letto ce n'erano altri sui quali dormivano le consorti
di Ravana. Parecchie di loro avevano ovviamente intrattenuto il
demone con la loro musica, e s'erano addormentate con gli strumenti
musicali tra le braccia. Su un altro letto ancora dormiva la più
affascinante di tutte le donne che si trovavano nella sala: infatti
ella sorpassava tutte le altre in bellezza, giovinezza e ornamenti.
Per un momento Hanuman pensò che si trattasse di Sita: e il pensiero
stesso d'aver visto Sita lo fece gioire.
Tuttavia quel pensiero non durò a lungo. Hanuman si rese conto:
"Non può essere! Perché separata da Rama, Sita non dormirebbe né
si divertirebbe, né s'adornerebbe né berrebbe. E neppure andrebbe
mai a vivere con un altro uomo, anche se si trattasse di un essere
celeste: perché in verità non c'è nessuno uguale a Rama". E non
avendovi trovato Sita, egli distolse il suo sguardo dal salone.
Quindi Hanuman ispezionò la sala da pranzo e la cucina, dove vide
una gran varietà di carni, condimenti e piatti prelibati, e molte
bevande. Il pavimento della sala da pranzo era pieno di coppe, frutti
e anche braccialetti e cavigliere, che probabilmente erano caduti
a coloro che avevano bevuto.
Mentre stava ispezionando il palazzo in cerca di Sita, un pensiero
attraversò la mente di Hanuman: era forse colpevole di trasgredire
i limiti della moralità, in quanto stava guardando le mogli altrui,
mentre dormivano liberamente nell'intimità con i vestiti in disordine?
Ma egli si consolò con questo pensiero: "È vero, ho visto tutte
queste donne nell'appartamento di Ravana. Ma nessun pensiero lussurioso
è entrato nella mia mente! Solo la mente è la causa delle buone
e delle cattive azioni compiute dai sensi; ma la mia mente è devota
alla rettitudine ed è stabilita in essa. Dove altro posso cercare
Sita, se non tra le donne che vivono nel palazzo di Ravana: potrei
forse cercare una donna che si è perduta in mezzo a un branco di
daini? Ho cercato Sita in questo posto con la mente pura; ma non
sono riuscito a vederla".
Hanuman aveva cercato per tutto il palazzo di Ravana, ma non aveva
potuto trovare Sita. E rifletteva: "Non devo scoraggiarmi. Perché
è stato ben detto che la perseveranza è il segreto della prosperità
e di una grande felicità; solo la perseveranza sostiene tutto e
corona ogni attività con il successo. Cercherò in tutti quei posti
dove non ho ancora cercato". Quindi si mise a cercare Sita nelle
altre zone del palazzo. Vide moltissime altre donne, ma non Sita.
Poi Hanuman cercò Sita fuori del palazzo, ma non la trovò. Ancora
una volta fu preso dallo scoramento, e pensò: "Non riesco a trovare
Sita da nessuna parte; eppure Sampati disse d'aver visto sia Ravana
che Sita. Forse c'è stato un errore di persona? Può essere che sfuggendo
a Ravana, Sita sia caduta in mare. O forse è morta per il colpo.
Oppure, non cedendo a Ravana, è possibile che questi l'abbia uccisa,
divorandone le carni. Ma è impossibile che Sita abbia acconsentito
a diventare la sposa di Ravana. E se è dispersa o è morta, come
posso informare Rama di questo? In tutti i casi, sia informare Rama
che non informarlo mi sembra ugualmente spiacevole. Che farò adesso?".
Poi Hanuman rifletté sulle conseguenze di un suo ritorno a Kishkindha
senza portare notizie di Sita. Egli era certo che: "Quando Rama
udrà queste brutte notizie, si toglierà la vita. E lo stesso farà
Lakshmana e poi i loro fratelli e le loro madri ad Ayodhya. E neppure
Sugriva potrà sopravvivere, dopo che Rama avrà lasciato questo mondo,
ed egli sarà seguito nell'aldilà da tutti i vanara di Kishkindha.
Quale terribile disgrazia s'abbatterebbe su Ayodhya e Kishkindha,
se tornassi senza portare buone notizie di Sita!". Perciò Hanuman
decise: "È bene che io non torni a Kishkindha. Vivrò qui sotto un
albero come un asceta. Oppure potrei commettere suicidio gettandomi
in mare. Però i saggi dicono che il suicidio è la radice di molti
mali, e che se uno vive può esser certo che prima o poi troverà
quel che cerca".
Improvvisamente riaffiorò in Hanuman la consapevolezza della sua
forza straordinaria! Si levò e pensò: "Ucciderò quel demone di Ravana;
anche se non potrò trovare Sita, almeno vendicherò il suo rapimento
uccidendo il rapitore. Oppure potrei catturarlo e portarlo da Rama".
Poi gli vennero in mente alcuni posti di Lanka dove non aveva ancora
cercato. Uno di questi era il boschetto di asoka. Decise d'andarci;
ma prima offrì una preghiera: "M'inchino a Rama, a Lakshmana e a
Sita, la figlia di Janaka. M'inchino a Rudra, a Indra, a Yama, al
dio del vento, alla luna, al fuoco e ai Marut". Egli si volse in
tutte le direzioni e invocò le benedizioni di tutti: sapeva d'averne
bisogno, perché intuiva che dei demoni di forza sovrumana erano
a guardia del boschetto di asoka.
Allora Hanuman scalò le mura del palazzo e saltò nel boschetto di
asoka. Era questo un luogo ameno e incantevole, con alberi e rampicanti
di innumerevoli specie.
In quel boschetto Hanuman vide il parco degli uccelli, gli stagni
e le piscine artificiali orlate da scalinate che erano state lastricate
con pregiatissime pietre preziose e semipreziose. Egli vide anche
una collina dal cui pendio scorreva una cascata. Non lontano da
lì vide un raro albero di asoka o simsapa che aveva un aspetto dorato.
Tutta la zona intorno a quest'albero era piena di altri alberi con
foglie e fiori dorati, che davano l'impressione di essere risplendenti.
Arrampicatosi su quell'eccezionale albero di simsapa, Hanuman ebbe
la netta sensazione che molto presto avrebbe veduto Sita. E così
pensò: "Secondo quello che mi ha detto Rama, Sita è amante delle
foreste e dei boschi. Perciò andrà di sicuro in quel laghetto di
loti laggiù. Rama disse che le piaceva molto camminare per la foresta:
è quindi certo che ella vorrà venire anche in questo boschetto.
Sono sicuro che Sita, affranta dal dolore, verrà qui a offrire le
sue preghiere della sera. Se è ancora viva, oggi sicuramente la
vedrò".
Seduto in mezzo a quell'albero di asoka o simsapa, Hanuman poteva
vedere l'intero boschetto. Egli rimase incantato dalla bellezza
degli alberi e dei loro fiori, che avevano dei colori così vivi
che davano l'impressione che tutto il posto fosse in fiamme.
Mentre osservava il paesaggio, non lontano da lui vide un magnifico
tempio che era sostenuto da mille colonne e appariva come il Kailash.
Il tempio era stato dipinto di bianco; aveva dei gradini ricavati
dal corallo e i suoi marciapiedi erano tutti d'oro puro.
Infine Hanuman vide una donna radiosa dall'apparenza ascetica, circondata
da demonesse che sembravano sorvegliarla. Nonostante i suoi abiti
fossero sudici, ella era luminosa. La sua forma era bella, anche
se emaciata dal dolore, dalla fame e dalle austerità. Hanuman fu
certo che si trattava di Sita e che era la stessa donna che aveva
visto per un attimo in volo sul monte Rshyamuka. Ella sedeva per
terra e singhiozzava di frequente, certamente a causa della sua
separazione da Rama.
Con grande difficoltà Hanuman riconobbe che si trattava di Sita:
e in questo fu aiutato solo dalla descrizione vivida che Rama gli
aveva fatto di lei.
Vedendola struggersi tanto per Rama, e ricordando il suo amore per
lei, Hanuman rimase meravigliato della pazienza di Rama che riusciva
a vivere senza Sita anche per poco tempo.
Hanuman contemplò la forma divina di Sita per alcuni minuti; ma
ancora una volta fu preso dallo scoramento e ponderò: "Se persino
Sita - altamente riverita dal nobile e umile Lakshmana, e l'amata
dello stesso Rama - può essere soggetta a tanto dolore, bisogna
davvero concludere che il Tempo è onnipotente. Certo Sita è fiduciosa
nella capacità che Rama e Lakshmana hanno di liberarla; e perciò
è tranquilla anche in mezzo a questa sventura. Solo Rama merita
di essere suo marito, come solo lei merita di essere la sposa di
Rama".
Quanto era grande l'amore di Rama per Sita! E che persona straordinaria
era Sita! Hanuman continuò a 'ponderarla' sulla bilancia della sua
mente: "Fu per amore di Sita che Rama uccise migliaia di demoni
nella foresta Dandaka. Fu solo per amor suo che Rama uccise Vali
e Kabandha. Khara, Dushana, Trisira: quanti demoni furono uccisi
per lei. Sì! Sita è una persona talmente speciale che se, per amor
suo, Rama mettesse tutto il mondo sottosopra, sarebbe giusto. Infatti
la sua nascita è stata straordinaria, la sua bellezza è straordinaria
e il suo carattere è straordinario. Ella non ha eguali; e quale
amore straordinario ha per Rama, sopportando pazientemente ogni
tipo di privazione, vivendo da prigioniera a Lanka.
"Rama si strugge per lei e attende impazientemente di vederla e
riaverla. E lei è qui, che pensa costantemente a Rama: ella non
vede né queste demonesse che la sorvegliano né gli alberi o i fiori
o i frutti. Con il suo cuore immerso in Rama, ella vede continuamente
solo lui". Ora Hanuman era certo che quella donna era Sita.
La luna s'era levata. Il cielo era limpido e il chiarore della luna
permetteva ad Hanuman di vedere distintamente. Egli vide le demonesse
intorno a Sita: avevano un aspetto ripugnante ed erano deformi in
varie parti del corpo. Le loro labbra, i seni e l'addome erano sproporzionatamente
grandi e cadenti. Alcune erano altissime e altre molto basse. Erano
perlopiù di carnagione scura. Alcune avevano orecchie e altre parti
che le facevano assomigliare ad animali. Erano lamentevoli e chiassose,
e amavano la carne e gli alcolici. Avevano i corpi imbrattati di
carne e sangue, perché mangiavano carne e sangue. Il solo vederle
era ripugnante e faceva paura. Là in mezzo a loro c'era Sita.
L'abito e l'aspetto di Sita riflettevano il suo dolore. Ai piedi
dell'albero asoka, il cui nome significa libero dal dolore, Sita
era seduta immersa in un oceano di dolore e circondata da quelle
orribili demonesse! Solo la sua fede nel coraggio e nel valore del
suo signore Rama la sosteneva in vita. Hanuman s'inchinò mentalmente
a Rama, a Lakshmana e a Sita, e si nascose tra i rami dell'albero.
La notte volgeva al termine. Nel suo palazzo, Ravana veniva svegliato
dalla recita dei Veda da parte di demoni-brahmana che ben conoscevano
le sacre Scritture, e anche dai musicisti e dai bardi che cantavano
le sue glorie. Ancor prima di finire d'adornarsi propriamente, il
pensiero di Ravana andò a Sita, e desiderò intensamente vederla.
Mettendosi subito i migliori ornamenti e vestito splendidamente,
egli entrò nel boschetto di asoka, accompagnato da cento dame scelte
che portavano fiaccole d'oro, ventagli, cuscini ed altre cose. Esse
erano ancora sotto l'effetto dell'alcool: e Ravana, pur forte e
potente, era sotto l'influenza della passione per Sita.
Hanuman riconobbe la persona che aveva visto dormire nel palazzo
la notte precedente.
Vedendolo venire verso di lei, Sita, intimorita, si coprì il petto
con le gambe e le mani, e pianse amaramente. Afflitta per la sua
separazione da Rama, e sconvolta dal dolore, la bellissima e radiante
Sita era l'immagine della fama eclissata, della fede negletta, dell'intelligenza
offuscata, della vana speranza, degli orizzonti distrutti, del comando
trascurato e del culto impedito, della luna eclissata, dell'esercito
decimato della lampada senz'olio e del fiume in secca. Ella pregava
costantemente che Rama trionfasse presto su Ravana e venisse a salvarla.
Nel suo approccio con Sita, Ravana si mostrò galante e proferì parole
dolci e sensate: "Ti prego, non aver paura di me, donna incantevole!
Per un demone è naturale godere delle mogli altrui e rapirle con
la forza: fa parte del Dharma del demone. Ma io non ti violerò contro
la tua volontà. Infatti voglio conquistare il tuo amore, voglio
guadagnarmi la tua stima. Sono forte abbastanza da sapermi controllare.
Però mi si spezza il cuore nel vederti soffrire così, nel vedere
una principessa come te indossare abiti luridi e laceri.
"Tu sei nata per far uso dei migliori cosmetici, per indossare abiti
reali e per essere adornata con i gioielli più preziosi. Tu sei
giovane, e questo è il momento di divertirti; perché il tempo passa.
Non c'è nessun'altra nei tre mondi che sia bella quanto te, perché
dopo aver fatto te il Creatore s'è ritirato. Tu sei così bella che
nessuno nei tre mondi, neanche Brahma, potrebbe non soccombere alla
passione. Se tu mi accetterai, tutto quello che ho sarà tuo: anche
le mie prime mogli diventeranno tue serve. Voglio dirti che nessuno
nei tre mondi mi è pari in forza e valore. Anche se è vivo, Rama
non sa neppure dove sei; e non ha alcuna speranza di riaverti. Abbandona
questa tua sciocca idea. Fa' che io possa vederti vestita e adornata
come si deve, e godiamoci la vita a tuo piacimento.
Le parole di Ravana furono estremamente penose alla già angosciata
Sita. Non desiderando neanche parlare direttamente a Ravana, ella
pose un filo d'erba davanti a sé e disse: "Tu non puoi aspirare
a me più di quanto un peccatore possa aspirare alla perfezione!
Io non farò ciò che è indegno agli occhi di una moglie casta. Certo
tu non conosci il Dharma e ovviamente non ascolti i consigli dei
saggi. Dai l'esempio ai tuoi sudditi, o demone, e unisciti solo
con le tue mogli. Il desiderio per le mogli altrui conduce all'infamia.
Il mondo gioisce alla morte di un peccatore: e presto gioirà alla
tua morte. Non nutrire desideri per me. Tu non puoi conquistarmi
offrendomi potere e ricchezze: poiché io sono inseparabile da Rama
come la luce lo è dal sole. Egli è l'incarnazione della giustizia
e del Dharma; riportami da lui e chiedigli perdono. Egli ama coloro
che prendono rifugio in lui. Se non lo farai, dovrai certamente
soffrire: perché nessun potere al mondo potrà salvarti dalle armi
di Rama. I suoi missili distruggeranno certo l'intera Lanka. E se
tu non m'avessi rapita approfittando dell'assenza di Rama e Lakshmana,
oggi non saresti vivo. Tu non hai avuto il coraggio di affrontarli,
codardo!".
L'ira di Ravana si destò, ed egli rispose: "Normalmente le donne
rispondono al piacevole approccio di un uomo. Ma tu sembri diversa,
Sita. Tu susciti la mia collera; ma il mio desiderio per te doma
la mia ira. Il mio amore per te m'impedisce di ucciderti subito;
anche se meriteresti la morte, per tutte le parole oltraggiose e
impudenti che pronunci. Bene, avevo stabilito un anno come limite
di tempo per una tua decisione. Da allora sono trascorsi dieci mesi;
hai ancora due mesi per decidere di acconsentire al mio desiderio.
Se non lo farai, i miei cuochi mi prepareranno un bel pasto con
la tua carne.
Sita però rimase indifferente, e disse a Ravana: "Non parlare a
vanvera, demone malvagio! Io potrei ridurti in cenere con la mia
sola energia spirituale, ma non lo faccio perché non mi è stato
ordinato da Rama e perché non voglio sprecare i miei poteri spirituali".
A queste parole di Sita, il terribile demone andò su tutte le furie
e la minacciò: "Aspetta, ti distruggerò ora stesso". Ma non lo fece.
Invece disse alle demonesse che la sorvegliavano: "Usate tutti i
vostri poteri per convincere Sita ad accettare la mia proposta.
Immediatamente le spose di Ravana lo abbracciarono implorandolo:
"Perché non godi della nostra compagnia, abbandonando il tuo desiderio
per Sita? L'uomo che desidera la compagnia di chi non lo ama conosce
il dolore, mentre chi cerca la compagnia di chi lo ama si gode la
vita".
Udito questo, Ravana si allontanò ridendo forte.
Dopo che Ravana ebbe lasciato il boschetto, le demonesse dissero
a Sita: "Come mai non apprezzi la mano di Ravana? Forse non sai
chi è lui. Dei sei Prajapati figli del Creatore, il quarto era Pulastya.
Da Pulastya nacque il saggio Vishravas, pari in gloria allo stesso
Pulastya. Ravana è figlio di Vishravas. Il suo nome è Ravana perché
fa piangere i suoi nemici. È un grande onore accettare la sua proposta.
Inoltre Ravana sconfisse in battaglia le trentatré divinità che
presiedono all'universo; perciò è superiore anche agli dèi. Ma la
cosa più importante è che egli ti ama così tanto da essere pronto
a rinunciare alle sue mogli preferite e a darti tutto il suo amore".
Profondamente addolorata dalle parole delle demonesse, Sita disse:
"Basta con questi consigli volgari e peccaminosi. Un essere umano
non deve sposare un demone. Ma anche questo è irrilevante. In nessun
caso io abbandonerò mio marito e cercherò un altro". Le demonesse
andarono in collera e cominciarono a minacciare Sita. Intanto Hanuman
osservava tutto questo.
Le demonesse continuarono: "Hai già mostrato troppo affetto per
l'indegno Rama; ogni eccesso è indesiderabile e porta a risultati
non voluti. Finora hai agito secondo le regole della condotta umana.
È tempo che tu abbandoni quel codice, che abbandoni l'essere umano
Rama e acconsenti ad essere la moglie di Ravana. Finora abbiamo
sopportato le tue dure e aspre parole e ti abbiamo offerto consigli
amorevoli e salutari, preoccupate del tuo benessere. Ma tu sembri
troppo stupida per accettare la verità. Sei stata portata qui da
Ravana! Hai attraversato l'oceano! Nessun altro può attraversare
l'oceano per venire a salvarti. Te l'assicuriamo, Sita: nemmeno
Indra potrebbe salvarti da qui. Perciò, nel tuo interesse, fa' come
ti diciamo. Basta piangere! Metti da parte il dolore, che ti distrugge.
Abbandona questa vita miserabile: scegli l'amore e il piacere. Decidi
presto, Sita: perché la giovinezza, soprattutto per una donna, è
solo momentanea e passa velocemente. Deciditi a diventare moglie
di Ravana. Se tuttavia sarai ostinata, noi stesse dilanieremo il
tuo corpo e divoreremo il tuo cuore".
Altre demonesse presero a loro volta a minacciare Sita, dicendo:
"Quando vidi per la prima volta questa donna graziosa portata qui
da Ravana, sorse in me il desiderio di divorarle il fegato e la
milza, i seni e il cuore. Sto aspettando quel giorno... Perché indugiamo?
Riferiamo al re che è morta, e sicuramente ci chiederà di mangiare
la sua carne!... Dobbiamo dividerci equamente la sua carne e mangiarla,
non dobbiamo litigare tra noi... Dopo il pasto danzeremo davanti
alla dea Bhadrakali".
In preda alla disperazione totale, Sita diede sfogo al suo dolore
pensando a voce alta: "I saggi hanno giustamente detto che nessun
uomo o donna ottiene la morte prima del tempo. Perciò malgrado io
soffra un'angoscia intollerabile dovuta alla separazione dal mio
amato marito, non riesco a togliermi la vita. Questo dolore mi sta
consumando lentamente. Io non posso vivere, e neppure posso morire.
Di certo questo è il frutto amaro di un terribile peccato commesso
in una vita passata. Sono circondata da queste demonesse: e come
potrebbe raggiungermi qui Rama? Che vergogna è la vita umana, e
che vergogna è lo stato di dipendenza dagli altri, a causa del quale
non posso neanche togliermi la vita.
"Che terribile sventura essere stata rapita da Ravana durante l'assenza
di Rama e Lakshmana, nonostante vivessi sotto la loro protezione.
E ancora più terribile è che, dopo essere stata separata dal mio
amato marito, sono stata confinata qui circondata da queste terribili
demonesse. E la cosa peggiore è che nonostante tutte queste disgrazie
il mio cuore non scoppia dal dolore, facendomi morire. Certo finché
vivrò non permetterò mai a Ravana di toccarmi.
"Mi chiedo perché Rama non ha fatto nulla per venire in mio soccorso.
Per amor mio egli uccise migliaia di demoni quand'eravamo nella
foresta. È vero, mi trovo su un'isola, ma i missili di Rama non
hanno difficoltà ad attraversare gli oceani e ad intercettare il
loro bersaglio. Sicuramente egli non sa dove sono. Ahimè, anche
Jatayu, che avrebbe potuto informare Rama dell'accaduto, è stato
ucciso da Ravana. Quando sapesse che sono qui, Rama distruggerebbe
Lanka e prosciugherebbe l'oceano con i suoi missili. E allora tutte
le demonesse di Lanka piangerebbero, come sto piangendo io ora.
Rama ucciderebbe tutti i demoni, e l'isola diventerebbe un immenso
campo crematorio.
"Vedo molti cattivi presagi. Mi riunirò con Rama. Egli verrà, e
distruggerà tutti questi demoni. Quando Rama verrà a sapere dove
sono, ridurrà Lanka in un luogo desolato, arso dai suoi missili.
Però il tempo sta passando rapidamente: il limite di tempo che Ravana
mi ha dato per decidere. Altri due mesi, e sarò tagliata a pezzi
come cibo per Ravana. Può essere che Rama è morto, stroncato dal
dolore della separazione da me? O forse è diventato un asceta? In
genere le persone che si amano si dimenticano dopo una lunga separazione;
ma non è così per Rama, il cui amore è eterno. Davvero beati sono
i saggi che hanno raggiunto l'illuminazione e per i quali le cose
piacevoli e spiacevoli non sono differenti. M'inchino ai saggi.
Caduta in questa terribile disgrazia, ora stesso mi toglierò la
vita".
Udendo le parole di Sita, alcune demonesse s'infuriarono terribilmente,
e la minacciarono: "Andremo a raccontare tutto a Ravana, e poi potremo
subito divorarti". Un'altra demonessa di nome Trijata si svegliò
proprio allora dal suo torpore e disse alle sue compagne: "Smettetela
con tutte queste chiacchiere di divorare Sita, sciocche che non
siete altro! Ho appena avuto un sogno che preannuncia una terribile
calamità in arrivo per noi". Tutte le demonesse le chiesero: "Raccontaci
il sogno".
Trijata narrò il sogno in ogni dettaglio: "Nel mio sogno ho visto
Rama e Lakshmana, alla guida di un velivolo spaziale bianco. Sita
era seduta su una montagna bianca, vestita di risplendenti abiti
bianchi. Rama e Sita erano stati riuniti. Allora Rama e Lakshmana
montarono su un enorme elefante, sul quale salì anche Sita. Poi
Sita aprì le braccia e le sue mani toccarono il sole e la luna.
Infine Rama, Lakshmana e Sita salirono sul velivolo spaziale Pushpaka
e volarono via verso nord. Da tutte queste cose io deduco che Rama
è divino e invincibile.
"Ascoltate ancora. In un altro sogno ho visto Ravana: la sua testa
era stata rasata; era unto d'olio; indossava abiti color cremisi;
era ubriaco ed era caduto dal velivolo spaziale Pushpaka. Poi l'ho
visto vestito di nero, coperto di un pigmento rosso e trascinato
da una donna che guidava un veicolo tirato da asini. L'ho visto
cadere dall'asino. Delirava come un pazzo. Poi egli entrò in un
luogo tenebroso e puzzolente. Quindi una donna scura con il corpo
ricoperto di fango legò una corda intorno al collo di Ravana e lo
trascinò via verso sud. Nello stesso sogno ho visto Kumbhakarna
e anche i figli di Ravana; ognuno di loro era stato sottoposto allo
stesso trattamento o ad un altro molto simile. Solo la sorte di
Vibhishana era differente: egli indossava degli abiti bianchi, con
delle ghirlande bianche, e sopra la sua testa tenevano un parasole
reale bianco.
"Inoltre nel sogno ho visto che l'intera Lanka era sprofondata nel
mare, totalmente distrutta e rovinata. Ho visto anche qualcosa di
piuttosto strano: ho visto Lanka divorata selvaggiamente dal fuoco.
Benché l'isola sia protetta da Ravana, che è forte e potente, un
vanara era stato capace d'incendiare Lanka, perché quel vanara era
un servo di Rama.
"Sciocche donne, in questo sogno io vedo un chiaro avvertimento!
Basta col trattare Sita crudelmente! Penso che sia meglio farle
piacere e conquistarsi il suo favore. Sono fermamente convinta che
Sita realizzerà il suo desiderio di riunirsi a Rama".
Udendo questo, Sita fu felice e disse: "Se sarà vero, vi prometto
che vi proteggerò tutte".
Le demonesse però non prestarono attenzione a Trijata, e Sita pensò:
"A ragione i saggi dissero che la morte non giunge mai ad una persona
prima dell'ora stabilita. La mia ora è venuta. Ravana ha stabilito
in maniera definitiva che se non acconsento al suo desiderio sarò
messa a morte. E poiché non potrò mai e poi mai amarlo, è certo
che sarò uccisa. Perciò sono già condannata. E quindi non farò peccato
se oggi stesso mi toglierò la vita volontariamente. O Rama! O Lakshmana!
O Sumitra! O Kausalya! O Madre! Rapita inesorabilmente e trascinata
in questo posto spaventoso, io muoio. Sono sicura che la 'sventura'
s'avvicinò a me nelle sembianze di un cervo dorato ed io, stupida
donna, mandai i due principi a cercarlo. Forse anche loro sono stati
uccisi da qualche demone. O forse sono vivi, ma non sanno dove sono.
"Ahimè, tutte le virtù che ho praticato e tutta la devozione con
la quale ho servito il mio signore e marito non sono servite a nulla.
Ora stesso abbandonerò questa mia vita sventurata. O Rama, dopo
aver completato i quattordici anni d'esilio, tu tornerai ad Ayodhya
e ti godrai la vita con le regine che forse sposerai. Ma io, che
ti ho amato e il cui cuore resterà sempre legato a te, presto non
ci sarò più.
"Come porrò fine a questa vita? Non ho armi, e nessuno qui mi darà
un'arma o del veleno. Ah, userò il cordoncino che mi lega i capelli
e mi appenderò a quest'albero".
Riflettendo così ad alta voce, Sita contemplò i piedi di Rama e
si preparò ad uccidersi. Nello stesso tempo, però, ella notò molti
buoni presagi che la dissuasero dall'idea di togliersi la vita.
Il suo occhio, il suo braccio e la sua gamba sinistra palpitarono;
il suo cuore ebbe un fremito, la sua tristezza per il momento la
lasciò, la sua disperazione fu alleviata, ed ella tornò ad essere
ancora una volta calma e radiosa.
Seduto sull'albero, Hanuman osservava tutto questo e pensava: "Se
mi presentassi a Sita in mezzo a tutte queste demonesse, ella potrebbe
spaventarsi e gridare; e potrei essere preso prima che le possa
parlare di Rama. Potrei anche combattere contro tutti i demoni;
ma poi potrei essere troppo debole per il volo di ritorno. Potrei
parlarle nella lingua dei brahmana, ma lei potrebbe insospettirsi
di un vanara che parla il sanscrito e scambiarmi per lo stesso Ravana!
Parlare ora a Sita sembra rischioso; ma se non lo facessi, ella
potrebbe commettere suicidio. Se non si agisce con la giusta considerazione
del luogo e del tempo, si può ottenere il risultato contrario. Canterò
le glorie di Rama a bassa voce, conquistandomi prima la fiducia
di Sita, e dopo le comunicherò il messaggio di Rama".
Dopo una profonda riflessione, Hanuman decise sul modo più saggio
e sicuro! A bassa voce, in maniera dolce e chiara e con accento
colto, egli narrò la storia di Rama: "L'imperatore Dasaratha, un
discendente del nobile Ikshvaku, era un saggio reale perché pur
continuando a governare il suo regno era devoto sia all'ascetismo
che alla giustizia. Il suo figlio primogenito Rama era a sua volta
potente, glorioso e giusto. Per onorare la promessa che suo padre
aveva fatto alla moglie, Rama andò nella foresta Dandaka insieme
al fratello Lakshmana e alla moglie Sita. Là Rama uccise migliaia
di demoni. Un giorno un demone mascherato da cervo fece allontanare
Rama e Lakshmana, e approfittando di ciò il malvagio Ravana rapì
Sita. Rama andò in cerca di lei, e mentre vagava per la foresta
coltivò l'amicizia del vanara Sugriva. Sugriva inviò milioni di
vanara in cerca di Sita. Dotato di un'energia straordinaria, io
ho attraversato l'oceano; e sono stato fortunato perché sono in
presenza di Sita".
Udendo queste parole, Sita fu piena d'immensa gioia. Ella guardò
da tutte le parti, e infine vide il vanara Hanuman. Ma vedendo quel
vanara seduto sull'albero, Sita fu presa dalla paura e dal sospetto,
e gridò "O Rama! O Lakshmana". Vedendo il vanara che le si avvicinava
fu presa dal terrore, ma fu piacevolmente sorpresa di notare il
suo atteggiamento d'umiltà e adorazione.
Ella pensò: "Sto sognando? Spero di no! Porta sfortuna sognare di
un vanara. No, non sto sognando. Forse è un'allucinazione. Ho pensato
costantemente a Rama, ho pronunciato continuamente il suo nome,
parlando di lui. E poiché tutto il mio essere è assorto in lui,
sto immaginando tutto. Eppure l'essere che mi sta davanti non solo
lo vedo, ma mi parla anche! Prego gli dèi che ciò che ho appena
visto sia vero".
Con le mani giunte sulla testa in segno di saluto, Hanuman s'avvicinò
umilmente a Sita e le chiese: "Chi siete, signora? Siete veramente
la moglie del beato Rama?".
Estremamente felice per la domanda, Sita raccontò tutta la sua storia:
"Io sono nuora di re Dasaratha e figlia di re Janaka. Sono la moglie
di Rama. Abbiamo vissuto felicemente ad Ayodhya per dodici anni
Ma prima che Rama fosse incoronato, la sua matrigna Kaikeyi chiese
in dono al marito che Rama fosse esiliato nella foresta. Udendo
questo, il re perse i sensi; ma Rama stesso prese l'impegno di soddisfare
quella promessa. Io lo seguii, e anche Lakshmana venne con noi.
Un giorno, mentre essi erano via, Ravana mi rapì con la forza e
mi trascinò qui. Ora mi ha dato altri due mesi di vita, dopo di
che vedrò la morte".
Inchinandosi di nuovo a Sita, Hanuman le disse: "Signora divina,
io sono un messaggero inviato da Rama. Lui e suo fratello Lakshmana
ti mandano i loro saluti e sperano che tu sia viva e stia bene".
Sita gioì e pensò tra sé: "Certamente, c'è molta verità nell'antico
adagio: 'La felicità arriverà all'uomo che vive, anche se dopo molto
tempo'". Ma quando Hanuman le si avvicinò, ella s'insospettì di
nuovo, e riflettendo gli disse: "Ravana! Prima ti sei camuffato
da mendicante e mi hai rapita. Ora vieni a tormentarmi sotto forma
di un vanara! Ti supplico, lasciami in pace". Ma nel frattempo ella
pensava tra sé: "No, non può essere così; perché vedendo questo
vanara il mio cuore gioisce".
Hanuman la rassicurò: "Beata Sita, io sono un messaggero inviato
da Rama, che molto presto ucciderà tutti questi demoni e ti libererà
dalla prigionia. Rama e Lakshmana pensano costantemente a te. E
così pure re Sugriva, del quale io, Hanuman, sono un ministro. Dotato
di un'energia straordinaria, io ho attraversato l'oceano. Non sono
chi hai sospettato che fossi!".
Su sua richiesta, Hanuman le raccontò le glorie di Rama: "In bellezza,
fascino e saggezza Rama è pari agli dèi. Egli è il protettore di
tutti gli esseri viventi, del suo popolo, della sua missione e del
suo Dharma. Egli è il protettore delle persone di buona condotta
impegnate nelle diverse occupazioni; lui stesso pratica la buona
condotta e fa in modo che la pratichino anche gli altri. Egli è
potente, amichevole, conosce bene le Scritture ed è devoto ai santi.
"Rama ha tutte le caratteristiche dell'uomo perfetto, e cioè: spalle
larghe, braccia forti, collo potente, viso grazioso, occhi di loto,
voce profonda, pelle bruna. Egli ha il petto, il polso e il pugno
saldo; le sopracciglia, le braccia e lo scroto sono lunghi; i capelli,
i testicoli e le ginocchia sono simmetrici; il torace, l'addome
e l'orlo dell'ombelico sono forti; il colorito dell'angolo degli
occhi, delle unghie, delle palme delle mani e delle piante dei piedi
è roseo; il suo glande, le linee dei piedi e dei capelli sono soffici;
l'andatura e l'ombelico sono profondi; tre pieghe gli adornano la
pelle del collo e dell'addome; i capezzoli, l'arco e le linee dei
suoi piedi sono profondi; l'organo generativo, il collo e gli stinchi
sono corti; tre spirali adornano i capelli sulla sua testa; ha quattro
linee alla base del suo pollice e quattro linee sulla sua fronte;
è alto quattro cubiti; le sue natiche, le braccia, gli stinchi e
le ginocchia sono simmetrici; così pure le altre quattordici paia
di membra; i suoi arti sono lunghi. Egli è eccellente in ogni aspetto.
Anche Lakshmana, il fratello di Rama, è pieno di fascino e di ottime
qualità".
[NOTA: In questo capitolo sono descritte le caratteristiche fisiognomiche
del migliore tra gli uomini.]
Poi Hanuman le narrò nei dettagli tutto ciò che era accaduto. E
menzionò in particolare come Rama pianse per la commozione quando
Hanuman gli mostrò i gioielli che Sita aveva lasciato cadere sul
monte. Hanuman concluse la narrazione affermando: "Io otterrò certo
la gloria d'averti vista per primo; e anche Rama verrà presto qui
a riprenderti" Infine egli rivelò a Sita la propria identità: "Kesari,
mio padre, viveva sulla montagna chiamata Malayavan. Una volta,
in ubbidienza al comando dei saggi, egli andò sul monte Gokarna
per combattere e uccidere un demone chiamato Sambasadana, che terrorizzava
la gente. Io sono figlio di Vayu (il dio del vento) e di mia madre
Anjana. Ti ripeto, divina signora, che io sono un vanara, un messaggero
inviato da Rama ecco, guarda l'anello con l'iscrizione del nome
di Rama. Qualunque sia stata la causa della tua dolorosa prigionia,
ormai è quasi finita".
Quando vide l'anello del sigillo, Sita avvertì la presenza dello
stesso Rama; e si sentì piena di gioia. Immediatamente anche il
suo comportamento nei confronti di Hanuman cambiò radicalmente,
ed esclamò "Tu sei eroico, abile e anche saggio, o migliore tra
i vanara. Che impresa eccezionale hai compiuto attraversando quest'immenso
oceano, per ottocento miglia. È evidente che non sei un comune vanara,
perché non hai paura neanche di Ravana. Sono felicissima di sapere
che Rama e Lakshmana stanno bene; ma perché non è ancora venuto
a liberarmi? Se volesse egli potrebbe prosciugare l'oceano, anzi
potrebbe perfino distruggere tutta la terra con i suoi missili.
Forse hanno dovuto attendere il momento propizio, e quel momento
che significherà la fine della mia sofferenza non è ancora giunto.
"O Hanuman, parlami ancora di Rama. In tutto quello che fa, continua
egli a fare affidamento sia sullo sforzo personale che sulla Provvidenza
Divina? E dimmi, mi ama ancora come prima? Spero anche che nel suo
penare per me non trascuri la sua salute. E poi dimmi come farà
Rama a salvarmi da qui? Forse Bharata invierà un esercito? Quando
rinunciò al trono e mi portò nella foresta, egli dimostrò una fermezza
straordinaria: è ancora così fermo nelle sue decisioni? Oh, lo so
che egli mi ama più di chiunque altro al mondo".
Hanuman rispose: "O Sita, presto tu stessa vedrai Rama! Affranto
dal dolore per la separazione da te, egli non mangia carne né beve
vino; e non si cura neanche di scansare le mosche e le zanzare che
lo assalgono. Egli pensa a te costantemente. Difficilmente dorme,
e quando ci riesce si sveglia gridando: "Ah, Sita". Quando vede
un frutto o un fiore, egli pensa a te".
Udendo le glorie di Rama, Sita si sentiva liberata dal dolore, ma
quando udiva del dolore di Rama, Sita lo sentiva a sua volta.
Sita rispose ad Hanuman: "La tua descrizione dell'amore che Rama
nutre per me mi giunge come nettare misto a veleno. In qualunque
condizione si possa essere, sia che uno goda d'immenso potere e
prosperità sia che uno viva in grande miseria, il fine della propria
azione trascina l'uomo come se questi fosse legato ad una corda.
Guarda in che modo Rama, Lakshmana ed io siamo stati assoggettati
al dolore. Di certo nessuno può vincere il destino. Mi chiedo quando
verrà il momento in cui sarò di nuovo unita a Rama. Ravana mi ha
dato un anno di tempo: dieci mesi sono già trascorsi e ne restano
solo due. Al termine di questi due mesi, Ravana mi ucciderà di sicuro.
Non c'è alternativa, perché l'idea di riportarmi da Rama non lo
sfiora neppure. Invero questo era stato suggerito da Vibhishana,
il fratello di Ravana: così mi ha detto sua figlia Kala. Ma Ravana
rimane sordo a questi saggi consigli".
Hanuman disse a Sita: "Sono sicuro che non appena gli dirò dove
sei Rama arriverà presto qui, con un esercito di abitanti della
foresta e di altre tribù. Però, signora divina, io avrei un'altra
idea: puoi riunirti a tuo marito oggi stesso; posso far cessare
il tuo dolore immediatamente. Ti prego, non esitare; sali sulla
mia schiena, e cerca l'unione (yoga) con Rama ora. Io ho il potere
di trasportare te, e perfino Lanka, Ravana e tutto il resto! Nessuno
sarà capace d'inseguirmi o di vincermi. Che grande trionfo sarebbe,
se tornassi a Kishkindha con te sulla mia schiena!".
Per un momento Sita s'entusiasmò all'idea; ma poi rispose quasi
scherzando: "Stai parlando davvero come un vanara, come un ignorante
primitivo. Sei così piccolo, e pensi di portarmi attraverso l'oceano!".
Allora Hanuman mostrò a Sita la sua forma reale.
Vedendolo come una montagna di fronte a lei, Sita fu certa che la
sua sicurezza era giustificata, tuttavia gli disse: "Potente Hanuman,
sono convinta che puoi fare come dici; ma non credo sia giusto che
io venga con te. Tu andrai a forte velocità, e io potrei scivolare
e cadere nell'oceano. Se venissi con te, i demoni sospetterebbero
la nostra relazione e le darebbero un'interpretazione immorale.
Inoltre, molti demoni t'inseguirebbero: e come potresti, disarmato,
disfarti di loro e nello stesso tempo proteggere me? Potrei cadere
di nuovo nelle loro mani. Sono certa che hai il potere di combatterli:
ma se tu li uccidessi tutti, questo toglierebbe a Rama la gloria
di ucciderli e di salvarmi. Sicuramente quando Rama e Lakshmana
verranno qui con te, essi uccideranno i demoni e mi libereranno.
Io sono devota a Rama, e di mia volontà non toccherò il corpo di
un altro. Perciò, Hanuman, fa' che Rama e Lakshmana vengano qui
il più rapidamente possibile".
Il saggio vanara Hanuman fu pienamente convinto della giusta risposta
di Sita; e dopo averla apprezzata, pregò: "Se senti che non devi
venire con me, ti prego di darmi un pegno che io possa portare con
me e che Rama potrà riconoscere".
Questo suggerimento ravvivò vecchi ricordi che commossero Sita fino
alle lacrime. Ella disse ad Hanuman: "Ti darò il pegno migliore.
Ti prego di ricordare al mio glorioso marito un bellissimo episodio
della nostra vita nella foresta che solo io e lui conosciamo. Il
fatto avvenne quando vivevamo nei pressi del monte Citrakuta. Avevamo
finito di fare il bagno, e c'eravamo divertiti tanto a giocare nell'acqua.
Rama era seduto sul mio grembo. Il corvo cominciò a disturbarmi,
ma io lo allontanai minacciandolo con dei sassi, ed esso si nascose.
Mentre mi vestivo, il mio abito scivolò un po', e il corvo m'attaccò
di nuovo. Ma stavolta mi difesi adirata. Osservando ciò Rama rise,
mentre mi rappacificava dolcemente.
"Eravamo ambedue stanchi. Per un po' dormii in grembo a Rama. Poi
Rama s'addormentò poggiando la testa sul mio grembo. Il corvo (che
era il figlio di Indra mascherato) m'attaccò di nuovo e causò delle
ferite sul mio corpo. Alcune gocce di sangue gocciolarono dal mio
petto e caddero su Rama, che si svegliò. Vedendo il corvo perverso
poggiato su un albero vicino, Rama prese il missile che porta il
nome del Creatore e lo tirò al corvo. Il corvo si mise a volare
per i tre mondi, ma non trovò rifugio da nessuna parte.
"Infine esso cercò rifugio dallo stesso Rama. Rama si calmò immediatamente;
ma il missile non poteva essere neutralizzato. Il corvo sacrificò
il suo occhio destro, ma ebbe salva la vita". Mentre raccontava
l'episodio, Sita avvertì la presenza di Rama, e gli disse: "Per
amor mio, Rama, tu fosti pronto ad usare il missile di Brahma contro
un semplice corvo. Allora perché sopporti pazientemente il mio rapimento?
Nonostante tu sia il mio signore e maestro, io vivo qui come una
poveraccia! Non hai compassione di me? Da te io ho imparato che
la compassione è la virtù più grande!" E rivolgendosi di nuovo ad
Hanuman disse: "Nessun potere sulla terra può rivaleggiare con quello
di Rama. Solo la mia cattiva sorte impedisce loro di venire in mio
aiuto".
Hanuman spiegò: "Solo il non sapere dov'eri ha causato questo ritardo.
Ora che sappiamo dove sei, la distruzione dei demoni è vicinissima".
Sita gli disse: "L'adempimento della missione dipende da te; con
il tuo aiuto Rama avrà sicuramente successo. Ti prego però di dire
a Rama che io sarò viva solo per un mese ancora". Poi, come pegno
ulteriore, Sita si tolse un gioiello e lo diede ad Hanuman. Egli
lo prese, insieme alle sue benedizioni, e fu pronto a partire.
Ancora una volta Sita ricordò ad Hanuman: "Avevo tenuto con me questo
gioiello, che per me significava la presenza stessa di Rama. Ogni
volta che lo guardavo era come se Rama fosse con me. Esso ricorderà
a Rama di me, di mia madre, e di re Dasaratha. Ti prego, riferisci
a Rama tutto ciò che hai visto qui, come vivo, come peno per lui,
e che rimango viva solo nella speranza di rivederlo. Di' tutto questo
in maniera tale che Rama mi liberi da viva; e così ti guadagnerai
il merito di aver fatto buon uso del potere della parola. Che cosa
Rama farà, e quando e come, ora dipende interamente da cosa gli
dirai e da come glielo dirai". Ma Hanuman la rassicurò.
Tuttavia la paura e il dubbio tormentavano Sita, che disse: "Un
dubbio mi assale, Hanuman: come faranno le orde dei primitivi ad
attraversare l'oceano e ad arrivare fin qui? Certo sarà una cosa
gloriosa se Rama ucciderà Ravana e i suoi fedeli demoni e tornerà
con me ad Ayodhya. Ma come pensi che si potrà fare questo?".
Per rassicurarla, Hanuman disse: "È cosa facile per noi vanara,
o signora divina. I vanara sono molto potenti. Essi sono andati
spesso intorno al mondo seguendo le rotte aeree. L'esercito di Sugriva
è composto di vanara simili a me e anche superiori a me: anzi, nessuno
di essi è meno potente di me. È ovvio che nessun saggio comandante
invierebbe come messaggero un eroe superiore: soltanto quelli di
minore importanza vengono mandati. Non avere alcun dubbio, Sita:
io stesso prenderò Rama e Lakshmana su di me e li porterò qui. Il
resto dell'impresa sarà facile".
Mentre Hanuman s'apprestava a partire, Sita gli ricordò di nuovo:
"Ti prego, dai il gioiello a Rama. L'ho tenuto molto a cuore, considerandolo
sempre come un preziosissimo ricordo. Ricordagli anche che una volta,
quando il fausto segno sulla mia fronte si era cancellato, lui stesso
me lo rimise ridendo. Ricordagli la storia del corvo che ti ho narrato,
e ti supplico di non dimenticare di dirgli che posso restare in
vita qui - e anche questo solo per amor suo - soltanto per un altro
mese".
Ancora una volta Hanuman disse a Sita: "Posso giurarti che come
tu pensi costantemente a lui, così anche Rama pensa costantemente
a te, Sita. Stai certa che non ci sarà assolutamente alcun ritardo
nella sua venuta qui".
Quando Hanuman si preparò a partire, Sita si sentì infelice e gli
rivolse le ultime parole: "Tu hai i migliori pegni del mio amore
per Rama. Ti prego, raccontagli tutto minuziosamente. Fa' che Rama
possa porre termine alla mia agonia nel più breve tempo possibile".
Hanuman si congedò da Sita, ma non lasciò Lanka. E pensò: "È venuto
il momento di dare una dimostrazione di forza militare. Con i demoni
non si può negoziare; non si possono vincere nemici ricchi e prosperosi
usando doni allettanti; né si può seminare la discordia tra i potenti,
perciò solo una dimostrazione di forza sembra essere adeguata.
Prima di lasciare Lanka devo dare a questi demoni un assaggio della
nostra forza; solo allora essi adotteranno l'atteggiamento giusto
quando li affronteremo in battaglia. Inoltre, il successo viene
solo se si utilizzano le opportunità che una spedizione offre per
raggiungere non solo l'obiettivo principale, ma anche molti di quelli
secondari. Sicuramente vi sono molti modi per avere successo in
un'impresa; chi conosce molte vie per raggiungere il suo scopo si
assicura il successo. Questo è il boschetto dei piaceri di Ravana,
ed è ricco e bello. Lo distruggerò! Così provocherò certamente Ravana,
che potrebbe venire qui con il suo esercito. Avrei allora l'opportunità
di giudicare la sua forza e dargli un saggio di quanto dovrà aspettarsi
da noi".
Con rapidità devastante, Hanuman liberò la sua energia e cominciò
a distruggere il boschetto di asoka. Gli animali e gli uccelli fuggirono
timorosi in tutte le direzioni. Le demonesse scapparono. Quelle
che erano a guardia di Sita, e che stavano dormendo, si svegliarono;
e vedendo quel vanara chiesero a lei chi fosse. Sita rispose: "Come
faccio a sapere chi è? Solo un serpente sa dove sono le gambe di
un serpente! Anch'io sono terrorizzata, non sapendo chi sia; anch'io
penso che forse è un demone".
Tutte le demonesse corsero a fare rapporto a Ravana: "Signore, un
potente vanara dall'aspetto terribile ha devastato il boschetto
di asoka! Alcune di noi l'hanno visto parlare a Sita, ma Sita non
vuole rivelare la sua identità. Noi non sappiamo chi sia. Potrebbe
essere un messaggero di Indra o di Kubera o dello stesso Rama, venuto
per scoprire dov'è Sita. È significativo che pur avendo distrutto
l'intero boschetto, egli non abbia toccato la zona sotto l'albero
simsapa dov'è confinata Sita)".
Ravana s'infuriò, e ordinò subito a un gran numero di schiavi (kinkara)
d'andare nel boschetto e catturare Hanuman. Essi lo assalirono,
armati con molte armi rozze. Hanuman lanciò un grido di guerra:
"Vittoria a Rama, a Lakshmana e a re Sugriva! Io sono il servo e
il messaggero di Rama, che distrugge tutti i suoi nemici. Il mio
nome è Hanuman. Neanche mille Ravana equivalgono la mia potenza!
Distruggerò Lanka, m'inchinerò davanti a Sita e poi andrò via".
Il contingente di schiavi fu presto annientato! E i demoni che osservarono
la battaglia raccontarono la tragedia a Ravana.
Il boschetto di asoka era stato distrutto e gli schiavi erano stati
uccisi, ma Hanuman non era soddisfatto. Egli prese di mira un importante
monumento, molto ben custodito dai soldati di Ravana. Estendendosi
a dismisura, e gonfiandosi d'entusiasmo, Hanuman s'arrampicò sul
monumento e cominciò a distruggerlo, riempiendo l'intera Lanka con
quel fragore. E dalla cima del monumento gridava trionfante: "Vittoria
a Rama! Vittoria a Lakshmana! Vittoria a Sugriva, che è protetto
da Rama! Io sono Hanuman, il messaggero di Rama. Neanche mille Ravana
possono affrontarmi in battaglia. Distruggerò Lanka, m'inchinerò
davanti a Sita e poi andrò via".
Vedendolo e udendo il suo grido, un centinaio di demoni posti a
guardia del monumento si scagliarono contro di lui con mazze di
ferro, clave e altre armi del genere. Il potente Hanuman fece tremare
il monumento: le colonne si spezzarono e la loro collisione provocò
un boato. Poi con una delle colonne uccise i demoni. Ancora una
volta Hanuman proclamò: "Ci sono migliaia di vanara ancora più potenti
di me. Sugriva verrà presto qui con i vanara, e vi ucciderà tutti.
E non rimarrà né Lanka né alcuno di voi, e neppure Ravana, che si
è procacciato l'inimicizia di Rama".
Tutte queste cose i demoni le riferirono debitamente a Ravana. Su
suo ordine, un potente demone chiamato Jambumali fu mandato a combattere
e a catturare Hanuman. Il duello fu terribile. Jambumali colpì Hanuman
con varie armi e lo ferì. Il vanara era bello a vedersi anche mentre
sanguinava. Hanuman sollevò una roccia enorme e la gettò su Jambumali,
che la spezzò con i suoi missili. Allora Hanuman raccolse dal campo
una mazza di ferro e la scagliò con grande forza contro il demone.
Jambumali rimase a terra morto.
Quindi Ravana mandò i sette figli dei suoi ministri, che erano degli
esperti nel combattimento aereo. I loro bombardieri tuonarono e
ruggirono quando arrivarono sul posto. Essi iniziarono a sparare
contro Hanuman ancora prima di raggiungerlo. Anche Hanuman si librò
nel cielo e schivò i colpi con successo.
Queste schermaglie furono seguite da un cruento combattimento frontale.
Nessuno dei sette eroi poté resistere all'impeto di Hanuman. In
breve tempo egli li uccise tutti. Tutta la zona era ricoperta dei
resti fracassati degli aerei e dei corpi dei demoni uccisi. Il sangue
scorreva a fiotti, come un fiume. Le grida dei feriti riempivano
Lanka.
Hanuman si ergeva trionfalmente sull'arco che portava al boschetto.
Poi Ravana inviò cinque potenti guerrieri, comandanti del suo esercito,
a disfarsi del vanara. I loro nomi erano Virupaksha, Yupaksha, Durdhara,
Praghasa e Bhasakarna. Prima di congedarli, egli li ammonì con queste
parole:
"Andate con un contingente adeguato. Siate vigilanti e fate tutto
il necessario, avendo la giusta considerazione del tempo e del luogo.
Io non credo che abbiamo a che fare con un vanara. Ho considerato
tutto ciò che questo vanara ha fatto, e sono giunto alla conclusione
che si tratta di un essere potente dotato di straordinario valore.
È ben possibile che gli dèi, nostri nemici, abbiano creato un essere
particolarmente potente per ucciderci. Finora voi avete sconfitto
esseri di ogni tipo: dèi, saggi, demoni e semidèi. E io ho conosciuto
molti potenti vanara: Vali, Sugriva, Jambavan, Nila, Dvivida ecc.
Ma nessuno tra loro ha l'abilità di questo vanara. Perciò fate il
massimo sforzo per prenderlo prigioniero. Io so che voi potete sconfiggere
qualsiasi essere sulla terra, e persino dèi e semidèi; ma state
in guardia e proteggetevi. Perché in una battaglia il successo è
imprevedibile".
I cinque comandanti si portarono al boschetto di asoka, dove videro
il potente Hanuman che risplendeva come il sole appena sorto. Essi
si resero subito conto che egli era eccellente e superbo da ogni
punto di vista: agilissimo e velocissimo, eccezionalmente coraggioso,
incredibilmente forte, molto saggio, alimentato da un entusiasmo
supremo e dotato di un corpo molto potente. Appena lo videro, gli
spararono tutti insieme nello stesso tempo. Hanuman rimase ferito:
ma le ferite sembravano fiori che gli incoronavano il capo.
Hanuman si alzò in volo, e fu inseguito da Durdhara. Nel corso del
combattimento aereo, mentre Durdhara volava a bassa quota, Hanuman
si lanciò in picchiata sul velivolo di Durdhara, come un fulmine
che Colpisce una montagna. Il velivolo andò in frantumi e Durdhara
morì.
Hanuman continuò a muoversi nell'aria. Virupaksha e Yupaksha decollarono
coi loro velivoli e cominciarono a sparare ad Hanuman. All'improvviso
Hanuman atterrò in una radura del boschetto, inseguito dai demoni.
Ma prima che questi potessero toccare terra, egli sradicò un grande
albero e con questo distrusse i loro velivoli. Ambedue i demoni
furono uccisi.
Ora Praghasa e Bhasakarna attaccarono Hanuman. Essi usarono una
lancia e un dardo, e ingaggiarono una lotta corpo a corpo. Hanuman
parò i loro attacchi, sollevò un masso enorme che sembrava il picco
di una montagna e lo scagliò su di loro. E fu la loro fine.
Ravana cominciò a preoccuparsi. Quando gli annunciarono la morte
dei suoi potenti comandanti per mano del vanara, egli si guardò
intorno e poi fissò lo sguardo sul giovane figlio Aksha. Questi
pur essendo giovane era già feroce e aggressivo.
Aksha capì che lo sguardo del padre era un ordine e scattò in piedi,
desideroso di combattere. Padre e figlio non scambiarono neanche
una parola, ma si capirono perfettamente.
Aksha saltò sul suo aereo, che era un velivolo eccezionale, ottenuto
con molto impegno e tanti sacrifici. Era placcato d'oro puro; aveva
delle torrette di pietre preziose; era azionato da otto propulsori,
e poteva raggiungere la velocità della mente! Non poteva essere
attaccato neanche da dèi e demoni. Sfrecciando nell'aria sembrava
un fulmine. Era equipaggiato con otto torrette per lanciare missili,
che puntavano nelle otto direzioni. Tutte le parti di questo velivolo
erano tenute insieme da cavi d'oro puro.
Hanuman fu sorpreso di vedere Aksha. Mentre stavano l'uno di fronte
all'altro, come emettendo un fuoco terribile, tutti quelli che stavano
osservando il combattimento tremarono dalla paura. Mirando accuratamente,
Aksha sparò tre colpi, che ferirono Hanuman alla testa.
Per un attimo Hanuman barcollò. Ma quando si rese conto che chi
gli stava davanti era lo stesso figlio di Ravana, gli ritornò l'entusiasmo.
Mentre Hanuman continuava a guardare Aksha con grande furore, quest'ultimo
continuava a sparare. Hanuman emise un feroce grido di battaglia
e s'alzò in volo. Aksha lo inseguì accanitamente, continuando a
lanciare missili. Ma Hanuman li schivò tutti con grande destrezza.
Hanuman pensò: "È vero, sembra un bambino, ma le sue azioni non
sono da bambino. Prima avevo pensato di non uccidere questo ragazzino.
Certamente è un bambino brillante, ma è anche potente e può affrontare
persino dèi e demoni. Se non lo tratto con la dovuta considerazione,
egli mi sconfiggerà; perciò devo ucciderlo. Un piccolo incendio
che si propaga non dev'essere trascurato".
Dopo aver preso questa decisione, Hanuman tirò agli otto propulsori
e li costrinse al silenzio.
Con il suo mezzo distrutto nelle parti vitali, Aksha cadde insieme
ad esso. Quindi impugnò la spada e si precipitò contro il vanara.
Ma Hanuman lo afferrò alle gambe, lo fece roteare nell'aria e lo
scaraventò per terra, dove Aksha rimase ucciso.
[NOTA: La descrizione del velivolo è bellissima! S'è scritto che
aveva otto cavalli: non usiamo forse anche noi l'espressione 'cavallo
motore' nello stesso contesto? L'aereo era coperto d'oro in maniera
tale da essere corazzato; perciò solo i motori erano vulnerabili.]
La morte di Aksha fu certamente un duro colpo per Ravana, che però
non mostrò il suo dolore. Egli si rivolse all'altro suo figlio,
Indrajit, di valore ineguagliabile, e gli disse: "Figlio mio, tu
hai combattuto contro gli dèi e sei stato vittorioso anche su Indra.
Tu sei mio pari da ogni punto di vista. Quando entri in battaglia,
io sono certo della tua vittoria. Ora questo vanara ha ucciso tutti
i nostri schiavi, e anche Jambumali, i figli dei nostri ministri
e persino tuo fratello Aksha. Ritengo che spetti a te affrontarlo.
Non serve a nulla prendere un grande esercito, perché gli uomini
sono presi dal panico o vengono uccisi. Neanche le armi e i missili
comuni sembrano avere un qualche effetto su questo vanara. Però
io so che tu farai uso di qualunque tipo di missile sarà necessario,
a seconda del tempo e del luogo. Forse qualcuno potrebbe dire che
non è saggio da parte mia mandare te, che sei il mio figlio maggiore.
Ma questo è il Dharma di un re. Anche tu devi imparare le tattiche
militari e acquisire abilità in guerra riportando vittorie sui tuoi
nemici".
Questo fu sufficiente per Indrajit, che si diresse dove si trovava
Hanuman. Il suo velivolo somigliava a Garuda, l'uccello divino,
e ne aveva la stessa agilità. Aveva quattro motori, ciascuno simile
a una tigre, dotati di 'denti' potenti. Indrajit, il cui valore
era pari a quello di Indra, montò a bordo del suo velivolo e partì
a velocità incredibile.
Hanuman fu contento quando vide lo stesso Indrajit. Il firmamento
era affollato di dèi e semidèi desiderosi d'assistere alla battaglia.
Hanuman cominciò a volare e schivò con successo tutti i missili
di Indrajit Indrajit realizzò che Hanuman non poteva essere ucciso,
perciò decise di prenderlo prigioniero. Ma anche a tal fine egli
dovette usare il missile più potente, quello dedicato al Creatore,
Brahma.
Colpito, Hanuman cadde: ma il missile non lo uccise, lo immobilizzò
soltanto. Hanuman godeva di un dono ricevuto dallo stesso Brahma
che persino quel missile avrebbe avuto effetto su di lui soltanto
per un ora circa. Comunque, egli pensò tra sé: Io non ho il potere
di spezzare i legami di questo missile supremo; devo quindi onorare
il missile e permettergli di legarmi". E pensò ancora tra sé: "Anche
questo è buono, perché certo potrò incontrare Ravana faccia a faccia".
Vedendo che era caduto, i demoni gli si affollarono intorno, lo
colpirono e lo legarono con delle funi. Questo liberò subito Hanuman
dall'effetto del missile: perché questa è la legge, che il potere
spirituale non può coesistere con il potere fisico.
Eppure Hanuman rimase docile. I demoni lo trascinarono alla presenza
di Ravana.
Hanuman guardò lo splendente Ravana, che era magnifico in ogni cosa.
Ravana era seduto su un trono di cristallo intarsiato di gioielli
e riccamente rivestito. Hanuman lo guardò e pensò: "Quale fascino,
quanto eroismo, quale nobiltà e quale splendore; Ravana è meravigliosamente
dotato di ogni cosa eccelsa. Se solo non fosse devoto all'ingiustizia,
potrebbe essere benissimo il regnante del cielo, o anche del suo
sovrano".
Ravana fu colpito dalla maestà dell'aspetto di Hanuman e dalla sua
forza, che era evidente. Egli ordinò ai suoi ministri di accertare
lo scopo della sua visita a Lanka e scoprire per quale motivo aveva
distrutto il boschetto di asoka.
I ministri posero ad Hanuman delle domande, ma prima l'ammonirono:
"Dicci la verità, e sarai liberato. Se dirai menzogne non avrai
salva la vita!".
Hanuman rispose: "Non sono un messaggero degli dèi o dei semidèi.
Sono un messaggero di Sugriva. Poiché desideravo incontrare Ravana
in persona, ho sradicato gli alberi nel suo giardino preferito.
E quando i demoni mi hanno attaccato, li ho uccisi per autodifesa".
Rivolgendosi allo stesso Ravana, Hanuman disse: "Ho un messaggio
da parte di Sugriva. Tu lo conosci ed egli è come un fratello per
te". Poi Hanuman narrò la storia della nascita e dell'esilio di
Rama, la perdita di Sita nella foresta, l'amicizia di Rama con Sugriva,
e la ricerca di Sita organizzata da Sugriva.
"O re! Io posso dirti ciò che è buono nel passato, nel presente
e nel futuro. Accetta il mio consiglio: restituisci Sita a Rama.
Un re glorioso come te non dovrebbe abbassarsi ad una condotta tanto
indegna e rapire la moglie di un altro. Nessuno nei tre mondi può
affrontare il terribile potere di Rama e di suo fratello Lakshmana:
Rama uccise il potente Vali con un solo colpo. Io ho compiuto un'impresa
difficile: ho scoperto dove si trova Sita. Presto Rama completerà
l'impresa.
"Tu non puoi convincere Sita ad accettarti, più di quanto non sia
possibile digerire un potentissimo veleno. Ascoltami! Non giocarti
il frutto dei meriti che hai acquisito nella tua vita precedente.
Sita è certamente la terribile Kalaratri, che è stata portata qui
per la tua distruzione. Restituiscila a Rama. In caso contrario
vedrai Lanka bruciare e tutti i demoni perire. Nessuno, neanche
tu, e neppure Indra, può sfuggire all'ira di Rama. Rama può distruggere
tutti i mondi e crearli di nuovo! Io sono un umile servo di Rama
ed il suo messaggero: quanto ti ho detto è la verità, ascoltami".
Udendo le parole di Hanuman, Ravana fu preso da un'ira incontrollabile,
e ordinò la sua immediata esecuzione. Ma Vibhishana - il fratello
di Ravana - intervenne e diede questo consiglio a Ravana:
"Potente re! Se anche tu puoi essere sopraffatto dall'ira, allora
certamente la conoscenza delle Scritture è un inutile fardello.
Sii ragionevole; e fa' che la giusta punizione sia inflitta a questo
vanara dopo la dovuta deliberazione.
"Le Scritture proibiscono l'uccisione di un messaggero o di un ambasciatore,
perché questi sta semplicemente sostenendo la causa del suo padrone
ed è interamente dipendente da lui. Però è anche vero che questo
vanara ha distrutto il boschetto e ha ucciso molti dei tuoi soldati.
"La giusta punizione per tali crimini è la mutilazione del corpo,
la frusta, la rasatura della testa e il marchio a fuoco - un disonore
peggiore della morte. Tuttavia, coloro che hanno mandato qui questo
messaggero meritano la pena capitale. Se tu uccidessi questo vanara
allora l'episodio potrebbe finire lì, perché nessun altro dal lato
nemico sarà capace d'attraversare l'oceano e raggiungere Lanka,
e tu non potresti distruggere il tuo nemico".
Il potente Ravana apprezzò il consiglio, che ponderò e accettò.
Quindi modificò il suo ordine: "Si dice che la coda sia l'ornamento
più importante di un vanara: datele fuoco. Poi fatelo tornare. Con
la coda in fiamme portatelo in giro per la città, in modo che lui
e i suoi camerati sappiano che un'offesa come quella fatta da lui
non rimane impunita a Lanka".
I demoni legarono Hanuman, bagnarono la sua coda nell'olio e le
diedero fuoco. Hanuman pensò: "Per amore della causa di Rama sopporterò
anche questo. Quando mi trascineranno per la città, potrò vedere
meglio la sua potenza militare e raccogliere maggiori informazioni.
È bene che io veda Lanka anche di giorno. I demoni trascinarono
Hanuman per le vie della città, annunciandolo come una spia di Rama.
Alcune demonesse andarono da Sita e la informarono di quanto era
successo ad Hanuman. Sita pregò il dio del fuoco: "Se sono stata
fedele a mio marito e se l'ho servito, se ho mai praticato delle
austerità, o Dio, sii fresco con Hanuman". E cominciò a soffiare
un vento gelido.
Lo stesso Hanuman si chiedeva come mai il fuoco non lo bruciasse
né gli facesse male. E concluse: "Sicuramente la grazia di Sita,
la gloria di Rama e la benevolenza del vento e del fuoco hanno mitigato
il calore, e il fuoco non mi fa male". Hanuman si liberò rapidamente
delle corde impugnò una mazza di ferro e uccise i demoni che sorvegliavano
la città. Poi con la coda in fiamme riprese a ispezionare Lanka.
Hanuman ponderò: "Ho distrutto il boschetto di asoka, ho ucciso
i demoni e ho incontrato Ravana. Ho fatto tutto quello che m'ero
proposto di fare, eccetto la distruzione della fortezza di Ravana.
Cos'altro potrei fare qui, prima di tornare da Rama?". E pensò:
"La mia coda è in fiamme; con essa darò fuoco alle case dei capi
di Lanka".
Hanuman s'alzò in volo e, una dopo l'altra, diede fuoco a tutte
le case dei più grandi guerrieri di Lanka. Volando su Lanka, Hanuman
tuonava come una nuvola nell'ora della dissoluzione cosmica. Un
vento gagliardo propagò il fuoco. Tutti i palazzi governativi erano
in fiamme. L'oro e gli altri metalli fusi scorrevano giù dalle case
insieme alle pietre preziose che avevano adornato porte e pareti.
I demoni fuggivano dagli edifici in preda alla confusione e al panico.
Hanuman incendiò l'intera città di Lanka. Pieni di terrore, demoni
e demonesse dicevano tra loro: "Dev'essere il re degli dèi, o forse
la Morte in persona, oppure è l'incarnazione del potere dello stesso
Signore Vishnu".
Dappertutto c'erano pianti e lamenti. Le lingue di fuoco lambivano
il cielo. L'intera montagna sulla quale sorgeva la città era in
fiamme. Quando Hanuman andò in riva all'oceano e spense il fuoco
sulla sua coda, gli dèi e i saggi cantarono le sue glorie e lo lodarono
per le sue imprese.
La gioia di Hanuman non durò a lungo, perché nel suo cuore sorse
una domanda: "E Sita? Forse anche lei è stata bruciata dal fuoco?
Quale spaventosa tragedia se, accecato dall'ira, avessi inconsapevolmente
causato la morte della stessa Sita! Quale peccato non commette l'uomo
sotto l'influsso della collera: potrebbe anche uccidere il proprio
guru e offendere i santi! Certo solo chi è in grado di controllare
la propria collera con la pazienza può considerarsi un Uomo. Senza
dubbio Sita è stata consumata dal fuoco. E ora che farò? È più saggio
che mi getti in mare e perisca anch'io; perché se Rama sapesse che
Sita è morta bruciata nell'incendio, egli morirebbe, e così Lakshmana,
Sugriva e tutti gli altri ad Ayodhya. Quale terribile conseguenza
ha causato la mia ira!".
Poi Hanuman ebbe dei buoni presagi e rifletté: "Sono sicuro che
Sita non è stata consumata dal fuoco. Il fuoco non brucia il fuoco!
Senza dubbio è stato per grazia di Rama e per il potere di Sita
che il fuoco non mi ha bruciato! Sono sicuro che grazie alle sue
austerità, e alla sua sincerità e castità, Sita è immune agli effetti
del fuoco".
Nello stesso tempo i saggi e i semidèi proclamarono dal cielo: "Hanuman
ha incendiato l'intera Lanka; ma Sita è salva". Rincuorato da questa
notizia, lui si preparò a tornare da Rama.
Hanuman volle essere certo che Sita fosse salva e stesse bene; perciò
tornò nel boschetto di asoka per vederla, e le disse: "Sono infinitamente
benedetto, perché tu sei salva, signora divina!". Sapendo ch'egli
stava per partire, Sita si sentì triste; e nella maniera caratteristica
delle donne, ella reiterò i suoi dubbi sulla capacità dei vanara
d'attraversare l'oceano e sulla probabilità che Ravana le potesse
togliere la vita prima che lei potesse riunirsi al suo signore.
Poi ribadì che non era il caso di andare via con Hanuman, dicendo
però che lui doveva fare di tutto perché Rama uccidesse al più presto
i demoni e riconquistasse lei, ottenendo la gloria.
Da parte sua Hanuman rassicurò di nuovo la nobile Sita che tutto
sarebbe andato bene e che presto ella avrebbe visto Rama a Lanka,
e allora il suo dolore avrebbe avuto fine. Dopo aver ricevuto le
benedizioni di Sita, Hanuman salì sulla montagna chiamata Arishta,
pronto al decollo, perché anelava rivedere Rama ed era felice che
la missione fosse stata compiuta. Hanuman, il figlio divino del
dio del vento, volò verso nord come una nuvola enorme che si librava
nello spazio. Quando partì, la montagna sembrò sprofondare nelle
viscere della terra; gli alberi tremarono e molte rocce saltarono
dalle cime dei monti. Dietro di lui si sentiva un boato tremendo.
Hanuman volò celermente sull'oceano e da lontano vide di nuovo il
monte Mahendra. Egli emise un suono grandioso, che riempì tutto
lo spazio. Gli amici vanara di Hanuman attendevano con ansia il
suo ritorno sul monte Mahendra. Quando udirono quel suono possente,
essi capirono che egli stava tornando dopo aver completato con successo
la sua missione. E desiderosi com'erano di rivederlo, furono felici.
Il capo tribù Jambavan assicurò tutti i vanara che quel tipo di
suono indicava il successo della missione! Tutti i vanara spezzarono
dei rami dagli alberi vicini, ricavandone delle aste alle quali
legarono a un'estremità i propri indumenti, improvvisando così delle
bandiere. Questo fu il loro modo d'accogliere il loro eroe.
Hanuman atterrò su una radura del monte, e fu accolto calorosamente
dai capi delle tribù vanara, che lo adorarono. Egli a sua volta
adorò gli anziani, e poi annunciò: "Sita è stata vista". In seguito
prese Angada in disparte e gli narrò nei dettagli come aveva visto
Sita nel boschetto di asoka, quanto lei fosse emaciata dal dolore
e dall'angoscia, e come desiderasse Rama giorno e notte.
Angada si complimentò con Hanuman per la sua impresa: Nessuno ti
è pari, Hanuman! Tu ci hai salvato la vita. Solo attraverso la tua
grazia e il tuo aiuto Rama potrà riavere Sita".
Jambavan chiese ad Hanuman: "Ti prego, raccontaci tutto nei particolari.
Come hai fatto a scoprire la nobile Sita? Come vive? Qual è la forza
di Ravana? Dicci che cosa dovremo riferire a Rama quando l'incontreremo
e che cosa non dovremo riferirgli".
Hanuman narrò per esteso la sua storica avventura. Disse loro degli
ostacoli che aveva incontrato durante la trasvolata dell'oceano.
Raccontò dell'incontro con la demonessa Lanka, del suo ingresso
a Lanka, e poi la ricerca e la scoperta di Sita nel boschetto di
asoka. Raccontò che Ravana era entrato nel boschetto, cadendo ai
piedi di Sita e implorandola d'accettarlo; e come, respinto da lei,
l'avrebbe uccisa subito se non fosse intervenuta sua moglie Mandodari.
Poi parlò del dolore di Sita e del sogno di Trijata, della saggia
maniera in cui s'era guadagnato la fiducia di Sita, e di come lei
gli aveva raccontato due episodi intimi della sua vita con Rama,
dandogli anche il gioiello come segno del loro incontro.
Poi Hanuman raccontò vividamente la distruzione del boschetto di
asoka, la sua vittoria sui potenti demoni mandati da Ravana, e come
era stato immobilizzato dal missile di Brahma usato da Indrajit.
Egli descrisse chiaramente il suo incontro con Ravana, l'ira di
questi, il consiglio di Vibhishana e l'incendio di Lanka. Infine
disse: "In tutta Lanka ho proclamato 'Vittoria a Rama, vittoria
a Lakshmana, vittoria a re Sugriva', annunciando dappertutto di
essere solo un piccolo messaggero di Rama. Naturalmente sono riuscito
a fare tutto ciò solo per grazia di Rama, con le vostre benedizioni
e come mio umile servigio a re Sugriva".
Hanuman continuò: "Sita è gloriosa e veramente degna di venerazione.
Con il potere della sua castità ella potrebbe ridurre Ravana in
cenere; ma giacché così non è stato, inferisco che anche lui abbia
moltissimi meriti guadagnati con austerità e penitenze. Sono però
fiducioso che unendo le nostre forze possiamo disfarci di Ravana
e delle sue milizie. Potrei affrontare Ravana io stesso, se siete
tutti d'accordo! Chi potrà mai affrontare il potente Jambavan, o
Angada, o Nila, o Mainda o Dvivida? Qualunque cosa decidiamo, dobbiamo
farla subito, perché le condizioni di Sita sono veramente pietose.
Pensate che indossa ancora lo stesso pezzo di stoffa che aveva quando
fu rapita da Ravana. Ella dorme sulla nuda terra, ed è l'immagine
stessa del dolore. Però è stata felice di sapere dell'alleanza tra
Rama e Sugriva. La sua devozione a Rama è salda e inconfutabile.
Ella potrebbe facilmente maledire Ravana e causare la sua morte.
Ma nella distruzione del potente Ravana, Rama deve svolgere la sua
parte come strumento".
Quando udì Hanuman esaltare l'immensa forza dei vanara che costituivano
il gruppo di ricerca sotto il suo comando, l'entusiasmo di Angada
salì alle stelle. Egli dichiarò animosamente: "In effetti i due
vanara Mainda e Dvivida, che hanno ottenuto il dono dell'invincibilità
in battaglia dallo stesso Brahma, sono in grado di conquistare Lanka.
E so bene che anche da solo io potrei uccidere Ravana e conquistare
Lanka. E quando voi tutti siete con me, l'impresa diventa molto
più facile Perciò sento che non dovremo tornare da Rama e riferirgli
mestamente che Sita è stata vista, ma non è stata salvata. Noi insieme
abbiamo tanta forza, valore ed eroismo. Non dobbiamo tornare a Kishkindha
prima d'aver compiuto totalmente la missione di Rama. Avete sentito
da Hanuman che egli ha incendiato Lanka e che i condottieri più
valorosi di Ravana sono già stati uccisi da lui. Ben poco è rimasto
da fare per noi tutti. Perciò suggerisco di andare a Lanka, uccidere
i guerrieri rimasti, liberare Sita e insieme tornare da Rama e Sugriva.
E allora porremo Sita tra Rama e Lakshmana".
Jambavan intervenne dicendo: "Non mi sembra che la tua proposta
sia saggia, Angada. Siamo stati mandati da re Sugriva col preciso
ordine di cercare Sita e scoprire dov'è tenuta prigioniera. E la
missione è stata portata a termine completamente e in maniera soddisfacente
da Hanuman. Noi non abbiamo l'autorità di combattere Ravana e liberare
Sita con le nostre sole forze. Per Rama potrebbe non essere piacevole
apprendere che i vanara hanno combattuto contro i demoni, liberando
Sita. Rama ha fatto voto che avrebbe salvato Sita personalmente.
Certamente noi dobbiamo aiutarlo in questa missione, ma non dobbiamo
sostituirci a lui. Inoltre questo ci permetterà di essere testimoni
del valore straordinario di Rama. Perciò torniamo subito da Rama
e mettiamolo a conoscenza della situazione. Poi prenderemo una decisione
riguardo al passo successivo".
Tutti quanti, incluso Angada, applaudirono e accettarono questo
saggio consiglio.
Lungo la strada di ritorno passarono per un bosco chiamato Madhuvana,
famoso per il suo dolcissimo miele. I vanara si misero a giocare.
Per scherzo si facevano dispetti, si spingevano e si schiaffeggiavano
l'un l'altro. Erano uno spasso. Dagli anziani del gruppo ottennero
il permesso di prendere del miele dalle arnie. Ma una volta ottenuto
il permesso, essi cominciarono quasi a distruggere il boschetto!
Vedendo questo, il guardiano Dadhimukha protestò, e colpì anche
alcuni vanara. Ma ubriachi com'erano, ben presto i vanara ebbero
la meglio, e continuarono a devastare il boschetto.
Hanuman li incoraggiò cordialmente a prendere il miele e a devastare
il boschetto, dicendo: "Terrò io lontano gli intrusi, bevete tutto
il miele che volete!". Angada disse ad Hanuman: "Per celebrare la
tua vittoria, eseguiremmo i tuoi ordini anche se fossero indegni:
e con quanta gioia ti obbediremo ora che i tuoi ordini sono tanto
gustosi!". Liberandosi dei guardiani con un semplice gesto, i vanara
entrarono nel Madhuvana in gran numero e lo denudarono dei suoi
frutti e dei suoi favi. Bevvero il miele fino a non poterne più,
e s'ubriacarono. Giocavano tra loro, usando la cera come delle palle.
I guardiani, che erano stati lasciati da parte e ignorati, andarono
a lagnarsi da Dadhimukha: "Incoraggiati da Hanuman, i vanara hanno
distrutto Madhuvana, e noi siamo stati colpiti e minacciati". Dadhimukha
tornò ancora una volta nel luogo in cui i vanara stavano facendo
baldoria. Vedendolo arrivare, i vanara si fecero avanti per attaccarlo.
Lo stesso Angada, che era completamente ebbro, colpì Dadhimukha
e lo gettò a terra, senza mostrare la benché minima pietà; e questo
nonostante Dadhimukha fosse un parente di Sugriva.
Accompagnato dalle guardie, Dadhimukha andò immediatamente a riferire
l'accaduto a Sugriva. Quando fu in presenza di Sugriva, Dadhimukha
si prostrò con la faccia a terra e salutò il re. Sugriva gli chiese
qual era il motivo della sua visita, e Dadhimukha raccontò i fatti,
dicendo: "Madhuvana, che per tanto tempo tu, Vali e tuo padre avete
custodito con zelo, è stato completamente distrutto dai vanara!".
Mentre egli parlava, Lakshmana - che era lì presente - chiese a
Sugriva: "Cosa sta dicendo?".
Sugriva gli rispose: "O Lakshmana, questo vanara incaricato di custodire
il Madhuvana è venuto a lamentarsi perché i vanara da noi inviati
nelle regioni meridionali in cerca di Sita sono entrati nel Madhuvana
e l'hanno distrutto. Questo mi fa pensare che il loro obiettivo
sia stato raggiunto. Altrimenti non si sarebbero mai comportati
così. Sicuramente Sita è stata scoperta, e naturalmente dallo stesso
Hanuman. Quel gruppo è formato dai migliori vanara, come Jambavan,
Angada e Hanuman. Ero sicuro che non avrebbero fallito. Da quello
che hanno fatto inferisco che sono tornati da Lanka dopo aver visto
Sita".
Rivolgendosi a Dadhimukha, Sugriva disse: "I misfatti di uno che
ha compiuto la propria missione devono essere sopportati; perciò
continua a custodire Madhuvana. Torna là e chiedi ai vanara di venire
qui immediatamente. Rama, Lakshmana ed io siamo estremamente ansiosi
di vederli subito".
Dadhimukha fece ritorno a Madhuvana, andò umilmente da Angada e
si scusò. Nel frattempo anche i vanara erano tornati alla sobrietà.
Dadhimukha disse ad Angada: "O principe, mi rendo conto che tutti
voi siete stanchi dopo aver fatto un viaggio così lungo, perciò
avete bisogno di nutrirvi e rinfrescarvi. Ti prego, lascia che i
vanara mangino a sazietà i frutti di questo boschetto: tu sei il
principe ereditario, tu sei il nostro signore e il proprietario
di questo posto. Ho riferito a tuo zio Sugriva del vostro arrivo
qui. Il re desidera che andiate subito da lui, perché sono tutti
ansiosi di vedervi".
Angada si rivolse ai vanara: "Sembra che la notizia del nostro arrivo
sia giunta fino alle orecchie di Rama. Dal modo in cui Dadhimukha
mi ha comunicato gli ordini del re, sembra che siano tutti felici
di sapere del nostro ritorno. Penso che sia giunto il momento di
ritornare; ma non farò nulla contro i vostri desideri. Benché io
sia il principe ereditario, non ho il diritto d'imporre i miei desideri
su di voi; farò invece secondo i vostri desideri".
I vanara risposero: "O principe, chi altro avrebbe pronunciato tali
parole? In questo mondo, quando un uomo gode anche di un minimo
potere ne viene inebriato e pensa 'io sono tutto'. Anche noi desideriamo
presentarci subito davanti a Sugriva, e attendiamo il tuo ordine
per farlo".
Allora Angada disse: "Andiamo", e tutto il gruppo si diresse verso
Kishkindha. Sugriva notò Angada che stava per atterrare, e indicandolo
a Rama disse: "Sono certo che Sita è stata ritrovata, e che è stato
Hanuman a trovarla. Con Hanuman, Jambavan, Angada ed altri eroi
in questa squadra di ricerca, era impossibile che la missione fallisse.
Oltretutto, essi non avrebbero osato devastare Madhuvana se avessero
fallito. Perciò, Rama, fatti coraggio! Il tuo dolore sta per terminare".
Quando le forze vanara cominciarono ad arrivare ci fu molto tumulto
nell'aria. Angada atterrò vicino a Sugriva, e insieme ad Hanuman
e ad altri condottieri si avvicinò al re con le mani giunte in segno
di saluto. Rama fu supremamente felice di udire da Hanuman: "Sita
è stata trovata". Lakshmana guardò Sugriva con orgoglio e gratitudine.
Rama guardò Hanuman con affetto divino.
Poi Rama interrogò Hanuman, e questi gli narrò con tutti i dettagli
di come aveva attraversato l'oceano, dell'arrivo a Lanka e della
scoperta di Sita ai piedi dell'albero simsapa. Poi Hanuman assicurò
Rama che Sita pensava costantemente a lui e solo a lui. Hanuman
realizzò che Rama e Lakshmana avevano assoluta fiducia in lui, e
narrò tutti gli eventi che avevano avuto luogo a Lanka. Infine egli
consegnò a Rama il gioiello che gli aveva dato Sita.
La vista di quel gioiello ravvivò le memorie di Rama, e con esse
il suo dolore. Egli scoppiò in lacrime, e guardandolo con affetto
disse: "Mio suocero donò questo a Sita in occasione del nostro matrimonio.
Egli lo diede prima a mio padre, che poi lo legò ai capelli di Sita.
Perciò guardando questo gioiello mi tornano in mente mio padre e
mio suocero, ed è come se vedessi Sita. Hanuman, sii gentile e raccontami
nei dettagli tutto ciò che ti ha detto Sita: perché udire quello
che ha detto dà sollievo al mio cuore".
Allora Hanuman narrò profusamente il dialogo che aveva avuto con
Sita. E ripeté a Rama anche la storia del corvo, che Sita gli aveva
raccontato come pegno del loro incontro.
Poi gli disse: "Sita desidera che io ti chieda: "Tu sei un grande
adepto nell'uso dei missili più potenti, allora perché non mi hai
ancora liberata dalla prigionia di Ravana?". Inoltre ella prega
ripetutamente: "Se tu nutri dell'affetto per me, ti supplico di
venire a riprendermi presto, perché non potrò vivere per più di
un mese".
Poi Hanuman raccontò a Rama di come lui si fosse offerto di portare
Sita sulla schiena, affinché ella potesse riunirsi subito a Rama;
e di come Sita si fosse rifiutata dicendo che sarebbe stato adharma.
Hanuman disse: "Ella rifiutò educatamente l'offerta dicendo: "Non
è Dharma, Hanuman: quando fui rapita nella foresta, Ravana toccò
il mio corpo; ma allora io ero inerme, e perciò come potevo impedirlo?".
Sita mi ha chiesto di fare tutto il necessario perché tu sconfigga
Ravana in un combattimento aperto e la liberi".
Hanuman disse ancora: "Avendo completato la mia missione, avevo
fretta di tornare da te. Sita mi pregò di nuovo d'informarti della
sua triste situazione e di esortarti ad andare presto a Lanka. Inoltre
mi disse: "Non desidero che Rama mi porti via di qui nella stessa
maniera furtiva in cui Ravana mi ha portata via dalla foresta. Non
sarebbe degno di Rama". Poi ella esternò dei dubbi sulla nostra
capacità d'attraversare l'immenso oceano. Io la rassicurai dicendole
che nell'esercito di Sugriva vi sono centinaia d'eroi molto più
potenti di me, che possono facilmente attraversare l'oceano, vincere
Ravana e i demoni, e liberarla. Le ho persino detto che nell'esercito
di Sugriva non c'è nessuno inferiore a me, e a sostegno di questo
ho detto: "Chi invierebbe il più grande eroe come messaggero? Un
saggio sovrano invierebbe come messaggero solo un eroe di terza
categoria". Le ho assicurato che al più presto tu avresti invaso
Lanka e ucciso Ravana in un combattimento aperto, liberandola così
in maniera onorevole. In questo modo ho consolato la nobile Sita,
ed ella ha tratto molta consolazione dalle mie parole".
FINE DEL SUNDARA KANDAM
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Libro
sesto: YUDDHA KANDAM - La grande battaglia
Rama disse: "Tu hai compiuto un'impresa grandiosa ed estremamente
rara, Hanuman, e hai reso un grande servigio a re Sugriva. In questo
mondo ci sono tre tipi di servitori. Il migliore svolge il lavoro
assegnatogli dal maestro, e si spinge ancora oltre, perché anticipando
creativamente i suoi desideri, adempie anche questi. Il servitore
mediocre, benché capace, non fa nulla più di quello che il maestro
gli ha ordinato di fare. Il servitore peggiore è colui che, benché
capace, non esegue i desideri del maestro. Tu, Hanuman, sei assolutamente
il migliore; hai fatto molto di più di quello che re Sugriva ti
aveva chiesto di fare, senza però fare nulla di cui egli avrebbe
potuto dispiacersi. Scoprendo dov'era Sita, tu hai invero aperto
nuove prospettive di vita a Lakshmana, a me e a tutta la dinastia
dei Raghu. Cosa posso darti come ricompensa? In questo momento,
posso solo darti il mio abbraccio affettuoso". Così dicendo Rama
abbracciò calorosamente Hanuman, che fremette di gioia.
Rama disse a Sugriva: "Sita è stata trovata, ma non ancora liberata.
Per farlo dobbiamo attraversare l'immenso oceano. Come possiamo
riuscirci?". Sentendo la preoccupazione di Rama, Sugriva si sforzò
di rassicurarlo: "Non aver timore! Presto attraverseremo l'oceano,
uccideremo Ravana e libereremo Sita. Dolore e disperazione preludono
al fallimento. Le forze vanara sono già eccitate all'idea di combattere
i demoni, e sono pronte a gettarsi nel fuoco per te. Dobbiamo trovare
modi e mezzi di costruire un ponte sull'oceano. Ma abbandona l'angoscia,
che deruba l'uomo del proprio valore e rende un re fiacco. E un
sovrano fiacco è inutile, perché il popolo rispetta solo il valoroso".
Rama riacquistò la fiducia in sé e disse: "Col potere delle mie
austerità posso attraversare facilmente il mare, costruendo un ponte
o prosciugando le acque!". Hanuman intervenne dicendo: "Lanka ha
quattro porte dotate di ponti levatoi ed è circondata da un fossato
invalicabile. Essa ha quattro tipi di protezione: è circondata da
un fiume, è posta su un monte, è circondata da dense foreste ed
è ben fortificata, con mura e fossati. Ogni ingresso è custodito
da centinaia di migliaia di demoni e possiede un deposito enorme
di armi. Queste armi sono lunghe un metro e ottanta e possono sparare
cento colpi simultaneamente, uccidendo altrettanti guerrieri. I
ponti levatoi sono azionati da motori e sono placcati d'oro, come
ulteriore protezione contro la ruggine e gli attacchi nemici. Però
io ho danneggiato questi ponti e con i detriti ho riempito i fossati.
Per attraversare l'oceano, un gruppo composto dai migliori condottieri
vanara sarà in grado di farcela: forse non è necessario portare
l'intero esercito".
Il racconto di Hanuman sulla difficile condizione di Sita e il suo
rapporto sulla forza militare del nemico ispirò Rama a prendere
una rapida decisione. Egli dichiarò: "Invaderò subito Lanka e la
distruggerò! Questa è un'ora fausta e la giornata di oggi è favorevole
alle imprese militari. Sugriva, ordina all'esercito di marciare!
Nila, fa' marciare le milizie per la strada lungo la quale ci sono
maggiori provviste di cibo. Se i demoni scoprissero i nostri preparativi
all'invasione, potrebbero tentare d'avvelenare i frutti e le radici;
occorre stare in guardia e fare molta attenzione. Alcuni vanara
devono andare in avanscoperta e fare un'accurata ricognizione: potrebbero
esserci dei demoni sulla strada in attesa di tendere un'imboscata
al nostro esercito".
Re Sugriva e il comandante in capo delle forze tribali, Nila, diedero
rapide istruzioni per far marciare l'esercito.
Le milizie attraversarono fiumi e laghi, montagne e foreste. L'entusiasmo
dei soldati era altissimo e tutti erano ansiosi di combattere e
salvare Sita. Essi marciarono senza riposare mai. Ogni loro azione
e ogni movimento dei loro arti dava indicazioni del loro valore.
Quando raggiunsero il monte Mahendra, Rama salì in cima al monte.
Da là egli vide l'immenso oceano. E mentre lo guardava dalla sua
posizione, Rama si rivolse ai capi vanara: "Sugriva, ora abbiamo
raggiunto le coste dell'oceano. Ora dobbiamo risolvere il problema
che discutevamo prima. Fai accampare comodamente le armate vanara
lungo la riva e studiamo modi e mezzi per attraversare l'oceano.
Nello stesso tempo ti prego di prendere tutte le possibili precauzioni
contro il sabotaggio e le infiltrazioni nemiche".
L'esercito s'accampò in riva al mare: e sembrava fosse un altro
oceano, ma di colore bruno. Il frastuono prodotto dai vanara copriva
il fragore dell'oceano. I capi delle forze vanara si fermarono a
guardare il vasto oceano, per escogitare dei modi per attraversarlo.
Rama era angosciato per Sita. Egli disse a Lakshmana: "La gente
dice che con il passare del tempo passi anche il dolore. Ma nel
mio caso esso peggiora col passare del tempo. Oh, quando rivedrò
la mia amata? Quando potrò tenere il suo viso tra le mie mani, e
baciarlo? Quando abbraccerò intimamente la mia Sita, con il suo
seno pieno e sodo stretto sul mio petto? Il pensiero che il limite
di tempo che lei ha posto per salvarla stia passando velocemente
mi causa un'angoscia insopportabile". Il fedele Lakshmana confortò
adeguatamente il fratello.
A Lanka, un Ravana preoccupato convocò in assemblea i suoi consiglieri
e comandanti, e così disse loro: "Un'impresa impossibile è stata
compiuta, una città impenetrabile è stata violata e dei potenti
eroi sono stati uccisi. E tutto questo da un semplice vanara. Vi
prego di considerare cosa fare e consigliatemi. I saggi hanno descritto
tre tipi di statisti. Il migliore è colui che comincia le sue imprese
con le benedizioni di Dio e solo dopo essersi consultato con i suoi
ministri. Il mediocre è colui che consulta solo sé stesso, decide
la giusta linea d'azione e la porta avanti secondo le proprie decisioni.
Il peggiore è quello che non sa valutare cos'è giusto e cos'è sbagliato,
che ignora il divino, e dice: "Faccio tutto io". Parimenti, anche
la consultazione può essere divisa in tre categorie. La migliore
è quella in cui i consiglieri raggiungono un accordo unanime che
si confà alle Scritture. Quando c'è molto conflitto prima di raggiungere
l'unanimità, la consultazione è considerata mediocre. Quando ogni
consigliere mantiene il proprio punto di vista e non si raggiunge
l'unanimità, questa è la consultazione peggiore. Vi prego di considerare
tra voi quale sia la migliore linea d'azione".
Nonostante quest'elaborata introduzione, i demoni balzarono su con
impeto, brandendo armi come mazze di ferro, giavellotti, spade e
lance, ed esclamarono: "Signore, perché dovresti temere Rama? Tu
hai vinto molti dèi, semidèi e demoni. Rama non è pari ad alcuno
di loro, e non parliamo di paragonarlo a te! Indrajit da solo potrà
affrontare Rama e il suo potente esercito! Mandalo subito, e sarà
la fine dei tuoi nemici".
Con lo stesso tono parlarono i comandanti. Prahastha disse: "Siamo
stati letteralmente sorpresi da Hanuman. Se fossimo stati preparati,
avremmo potuto facilmente disfarci di lui". Durmukha disse: "Comunque,
non dobbiamo rilassarci così; andrò io stesso a distruggere le milizie
vanara".
Vajradamstra disse: "Ma perché preoccuparsi tanto di Hanuman? Pensiamo
a Rama, il nostro vero nemico. Andrò io da solo e lo ucciderò con
la mia mazza di ferro. Suggerisco anche una semplice tattica per
mezzo della quale possiamo disfarci dell'intero esercito vanara.
Un contingente dei più feroci demoni dovrebbe andare da Rama nelle
sembianze di esseri umani, e dirgli: "Siamo stati inviati da Bharata
per aiutarti". Al momento opportuno essi attaccherebbero l'esercito
vanara, annientandolo". Nikumbha, figlio di Kumbhakarna, disse:
"Nessuno di voi deve preoccuparsi: io andrò subito laggiù e ucciderò
personalmente Rama". Vajrahanu disse: "Andrò io stesso, inghiottirò
Rama e poi tornerò".
I demoni che avevano consigliato Ravana erano impazienti di mostrare
il loro coraggio; essi si alzarono agitando in aria le armi, e gridarono:
"Noi uccideremo presto Rama, Sugriva, Lakshmana e anche Hanuman,
quel vanara che ha devastato la città di Lanka".
Poi Vibhishana s'alzò dal suo seggio, frenò i demoni e disse a Ravana:
"Vi sono occasioni in cui è necessario far ricorso alla violenza
e vi sono occasioni in cui non è saggio ricorrervi. Fratello, non
è saggio che tu abbia persino la speranza di sconfiggere in battaglia
Rama, che è maestro di sé stesso ed ha il sostegno del Divino. Voi
tutti avete già avuto un assaggio della forza, del valore e dell'intelligenza
di Hanuman: è avventato presumere di poterlo affrontare in battaglia.
L'errore peggiore nella strategia militare è sottovalutare la forza
del nemico.
"C'è poi l'altra importantissima considerazione: per quale sua offesa
desideri combattere e uccidere Rama? In realtà, tu sei colpevole
di avere rapito sua moglie. E se tu dicessi d'averlo fatto per vendicare
l'uccisione di Khara e di altri demoni da parte di Rama, neanche
questo sarebbe corretto: Rama ha ucciso Khara per autodifesa, solo
dopo essere stato attaccato da quest'ultimo.
"Smettila di perseguire la tua ingiusta azione, prima che il potere
di Rama e la forza delle orde vanara ti distruggano. Abbandona l'odio,
che distrugge la felicità e il Dharma; e segui il Dharma che accresce
la gioia e la fama. Restituisci Sita a Rama, e continuiamo a vivere
con i nostri figli e le nostre famiglie".
Ravana non rispose, ma si ritirò nei suoi alloggi.
La mattina seguente Vibhishana si recò nuovamente alla presenza
di suo fratello Ravana, e gli disse: "Fin dal giorno in cui hai
portato Sita a Lanka c'è stata una serie di cattivi presagi che
predicono la distruzione di Lanka e dei suoi abitanti. Prima che
ci colga il cattivo destino che questi brutti segni presagiscono,
sarebbe bene fare ammenda! Perciò mi appello a te, perché tu restituisca
Sita a Rama".
Ravana licenziò bruscamente Vibhishana, dicendogli seccamente: "Non
ho paura di Rama, e non rinuncerò a Sita".
La passione per Sita e il disamore del suo popolo avevano cominciato
ad intaccare la salute di Ravana, che deperiva ogni giorno di più.
Aveva deciso per la guerra! Salì sul suo cocchio riccamente adornato
e, circondato dai suoi comandanti, si recò nella sala del consiglio.
Poi comandò ai messaggeri di convocare una riunione straordinaria
del consiglio; poiché, disse: "Ho cose estremamente urgenti da discutere".
Ravana si rivolse all'assemblea. Per prima cosa egli ordinò al comandante
in capo Prahastha: "Assicurati immediatamente che le difese della
città di Lanka siano salde e che tutte le armi di difesa siano ben
piazzate ed equipaggiate". L'ordine fu subito eseguito.
Ravana continuò il suo discorso al consiglio: "Alcuni mesi fa ho
rapito Sita, l'amata moglie di Rama, e dalla foresta Dandaka l'ho
portata a Lanka. Ella è la donna più bella che abbia mai visto.
Ho fatto di tutto per convincerla ad accettare la mia mano e il
mio amore; ma finora li ha rifiutati. Ella mi chiese un anno per
decidere, e io glielo concessi.
"Ora ho saputo che suo marito Rama si sta preparando ad invadere
Lanka con un esercito sterminato di vanara. Io non so se tutti riusciranno
ad attraversare l'oceano. D'altronde voi sapete quanta rovina ci
ha causato uno solo di loro, venuto qui come semplice messaggero.
Inoltre non sappiamo quali passi farà il nemico per realizzare il
suo scopo. Comunque, fino a quando avrò tutto il vostro sostegno,
io non temo nessuno sulla terra, meno che mai l'essere umano chiamato
Rama. Non è passato molto tempo da quando mi avete aiutato a sconfiggere
gli dèi. Perciò suggerirei di discutere i modi e i mezzi per conseguire
il mio scopo: Rama e Lakshmana devono essere uccisi e Sita non dev'essere
portata via da Lanka".
Kumbhakarna infuriato espresse il suo risentimento: "Perché non
ci hai consultati prima d'andare a rapire Sita? Chi fa oggi ciò
che avrebbe dovuto fare prima, e chi fa prima quello che dovrebbe
fare dopo, non conosce il corso della giusta azione. O Ravana, chi
pratica la giusta azione non ha rimpianti e non si pente. Comunque,
ora tu ci hai chiamati a consulta e desideri combattere contro Rama.
Staremo tutti al tuo fianco e distruggeremo Rama. Non temere".
Mahaparsva, un altro comandante dei demoni, disse: "Raggiungi il
tuo scopo con la forza, o re! Seduci Sita con la forza; e quindi
non ci sarà più nulla da temere. Ci occuperemo noi di Rama come
si deve".
Rispondendo a quest'invito, Ravana disse: "Ahimè, questo non posso
farlo. Vi racconterò una mia sventura. Una volta ho sedotto con
la forza una ninfa celeste chiamata Punjikasthala. Ella riferì la
mia condotta a Brahma, il Creatore, che di conseguenza mi maledì:
"Se d'ora in poi sedurrai un'altra donna con la forza, la tua testa
scoppierà in cento pezzi". Per questo non ho la possibilità di forzare
Sita ad accettare il mio amore. Eppure sono sicuro che dopo che
avrò ucciso Rama, Sita non avrà altra scelta se non quella di accettarmi".
Vibhishana parlò: "Prima che i terribili vanara invadano e distruggano
Lanka, prima che i missili di Rama ti tolgano la vita, restituisci
Sita a Rama".
Prahastha intervenne dicendo: "Che sciocco! Non abbiamo paura neanche
degli dèi, tantomeno di Rama".
Vibhishana continuò: "Vi sbagliate nel sottovalutare il potere di
Rama. Nessuno di voi potrà opporsi ai suoi missili. Coloro che incoraggiano
il re nella sua malvagia azione, sono in realtà suoi nemici. Chi
ha goduto dei favori del re ha il dovere d'impedirgli di fare azioni
ingiuste e suicide, se necessario anche con la forza. Il vero ministro
è colui che suggerisce ciò che è buono per il re, dopo aver valutato
a pieno la propria forza e quella del nemico, e le possibilità di
aumento, diminuzione o mantenimento di tale forza".
Indrajit, figlio di Ravana, balzò in piedi e disse: "Zio, tu sei
un disonore per la razza dei demoni. La vigliaccheria che dimostri
non è degna neanche dei mortali, tantomeno dei demoni. Zio Vibhishana
è debole e timido e in lui non c'è né eroismo né coraggio. Io ho
sconfitto persino Indra, il dio degli dèi; dovrei aver paura del
mortale Rama? Il più debole dei demoni può sbarazzarsi di Rama;
non c'è motivo d'aver paura".
Vibhishana continuò: "Non sei che un giovanotto, Indrajit. E come
tale parli! Sfortunatamente, però, la tua millanteria ti trascina
alla morte. Lo ripeto, l'unica cosa saggia da fare è quella di restituire
Sita a Rama, insieme a gioielli e ricchezze".
Sentendo ripetere questo consiglio di Vibhishana, Ravana andò su
tutte le furie, e disse: "Si può vivere con un nemico o con un serpente
velenoso, ma non con un amico ipocrita che è devoto al nemico. Davvero,
Vibhishana, il nemico peggiore è un parente stretto guidato dal
proprio interesse personale. Questo parente è ostile anche ad un
re giusto ed è sempre intento a causarne la caduta. La ricchezza
esiste nella vacca; dai parenti viene solo la paura. Le donne sono
note per la volubilità e i brahmana per le austerità. Sembra naturale,
fratello mio, che a te non piaccia che io prosperi. Io ti ho mostrato
tutto il mio affetto, ma mi rendo conto che l'affetto dato ad una
persona ostile è infruttuoso e può anche diventare pericoloso. Se
quello che hai detto fosse stato pronunciato da un altro, avrei
ordinato la sua esecuzione: ma che cosa farò con te, traditore!
".
Vibhishana rispose: "Coloro alla cui porta bussa la morte non ascoltano
i buoni consigli. In questo mondo, o re, vi sono molti che pronunciano
parole piacevoli; ma davvero raro è chi profferisce un consiglio
spiacevole, ma saggio, e ugualmente raro è chi ascolta un tale consiglio.
Perdona l'offesa fatta. Salvaguardati, e che tutto vada bene".
Dopo avere espresso il suo pensiero a Ravana, Vibhishana volò immediatamente
dove si trovava Rama, accompagnato da quattro dei suoi demoni devoti.
Quando i vanara videro che un demone stava volando verso il loro
campo, si misero allerta e chiesero il permesso di Sugriva per abbatterlo.
Mentre era ancora in aria, Vibhishana annunciò la sua identità e
le sue intenzioni: "Sono il fratello di quel Ravana che ha decretato
la propria condanna con il rapimento di Sita. Ho abbandonato mia
moglie e i miei figli e chiedo asilo a Rama. Vi prego d'informare
Rama, il rifugio del mondo intero, che Vibhishana prende rifugio
in lui".
Tutti i vanara andarono da Rama. Sugriva aprì il discorso con queste
parole: "Egli viene dal lato nemico, ed è un nemico. Potrebbe essere
una spia, un infiltrato; in ogni caso, è sospetto. Dacci il permesso
di ucciderlo, Rama". Rama volle il consiglio dei capi vanara.
Alcuni suggerirono una cauta investigazione. Ma Hanuman differì
da tutti gli altri e disse: "Vibhishana ha rifiutato il suo ingiusto
fratello e ha cercato te, Rama. Egli dev'essere accolto. Nessuno
degli altri suggerimenti è fattibile. Se fosse un nemico e una spia,
non sarebbe facile scoprirlo né con il controspionaggio né interrogandolo.
Il suo volto è calmo e tranquillo, e il suo contegno umile e puro:
nella mia mente non c'è sospetto".
Mentre Rama approvava questo, Sugriva lo mise in guardia: "Ha tradito
suo fratello; chi altri non tradirebbe?".
Pur apprezzando la saggezza di queste parole, Rama disse: "I parenti
sono normalmente amichevoli, ma nel caso dei governanti è vero il
contrario! I propri parenti e i governanti dei regni vicini sono
i nemici peggiori di un re. Sotto questa luce potete capire perché
Vibhishana abbia abbandonato suo fratello e sia venuto qui. In questo
mondo non tutti i fratelli sono come Bharata, non tutti i figli
sono come me, e non tutti gli amici sono come voi!
"Abbiamo sentito dire di una colomba che offrì ospitalità a un cacciatore,
il suo peggior nemico: siamo noi peggiori della colomba, riluttanti
ad accettare Vibhishana? E i saggi hanno dichiarato: "Anche un nemico
che chiede aiuto dev'essere protetto ad ogni costo". Non proteggere
un rifugiato è davvero un grande peccato. Questo è il mio fermo
voto: se uno mi chiede rifugio anche una sola volta e dice: 'Io
sono tuo', lo proteggerò da ogni paura. Perciò concedo il mio asilo
a chiunque sia venuto, sia egli Vibhishana o lo stesso Ravana! Portateli
da me".
Sugriva fu felicissimo, e dichiarò: "Ora considereremo Vibhishana
come uno di noi".
Ottenuto il permesso dai vanara, Vibhishana fece un giro sul campo
e subito dopo atterrò. Insieme ai suoi quattro compagni, Vibhishana
cadde ai piedi di Rama.
Rama gli chiese subito: "Ti prego di dirmi in verità qual è la forza
dei demoni, e anche le loro debolezze". Vibhishana rispose: "Ravana
ha ricevuto dal Creatore Brahma il dono di non poter essere ucciso
da dèi, demoni, semidèi, serpenti e uccelli. Suo fratello Kumbhakarna
possiede una forza immane. Il comandante dell'esercito di Ravana,
Prahastha, è un potente guerriero. E pure Indrajit, il figlio di
Ravana, che possiede anche dei poteri magici. Ravana ha milioni
di demoni che costituiscono il suo esercito".
Per niente scoraggiato, Rama dichiarò: "Ucciderò Ravana insieme
al suo comandante generale e a tutti gli altri. E incoronerò te
re, te lo prometto!".
Rama decise di suggellare immediatamente questa amicizia. Perciò
chiese a Lakshmana di portare dell'acqua dall'oceano: "E con quell'acqua
incorona Vibhishana re di Lanka: poiché egli si è guadagnato il
mio favore". Lakshmana porto prontamente l'acqua e, mentre i vanara
osservavano allibiti, Vibhishana fu consacrato re di Lanka.
Vibhishana consigliò loro: "La divinità che presiede all'oceano
è in debito con Rama, perché un antenato di Rama rese un grande
favore all'oceano. Perciò suggerisco che Rama propizi la divinità
e chieda un mezzo per attraversare l'oceano". Rama accettò questo
consiglio e sedette vicino all'oceano.
Una spia chiamata Sardula aveva controllato la forza delle milizie
vanara e aveva riferito a Ravana della concentrazione delle truppe
sulle rive dell'oceano. Assai turbato, Ravana disse a Suka: "Recati
subito sull'altra sponda e chiedi a Sugriva: "Tu per me sei come
un fratello. Quale offesa ti ho arrecato, che vuoi invadere Lanka
con il tuo esercito?"".
Assumendo la forma di un uccello, Suka arrivò presto al campo di
Sugriva e riferì il messaggio di Ravana. I vanara cominciarono ad
assalire Suka, ma furono fermati da Rama. Sugriva rispose: Di' a
Ravana: "Io non sono né tuo amico né il tuo benefattore. Ti sei
messo contro Rama, e quindi meriti lo stesso trattamento che toccò
a Vali! Ti vanti del tuo valore: e allora perché hai ucciso l'anziano
Jatayu? Perché non hai rapito Sita in presenza di Rama? No, la tua
vita è giunta al termine"". Mentre l'uccello stava per volare via,
Angada disse: "Non è un messaggero; è una spia da uccidere!". Ma
quando i vanara presero l'uccello, esso s'appellò a Rama, che lo
fece lasciare vivo dicendo: "È un messaggero di Ravana, non uccidetelo".
Comunque esso fu tenuto sotto custodia.
Rama si stese su una stuoia, con il suo braccio soltanto come guanciale,
e fece voto di propiziare il dio dell'oceano e assicurarsi il suo
aiuto per andare fino a Lanka. Il braccio che aveva fatto dono di
migliaia di vacche, il braccio che era stato adornato con unguenti
e gioielli, il braccio che Sita aveva usato come guanciale, il braccio
la cui forza incuteva paura nei cuori dei nemici - quel braccio
era il solo sostegno della testa di Rama, l'asceta, mentre adagiato
sulla riva pregava il dio dell'oceano di mostrare la sua grazia.
Rama prese la ferma risoluzione: "Ora dovrò attraversare quest'oceano;
altrimenti lo prosciugherò".
Per tre giorni e tre notti Rama rimase immobile, senza che il dio
dell'oceano mostrasse alcun segno di compiacimento. Rama fu preso
dall'impazienza e dalla collera, e disse a Lakshmana: "Ecco un esempio,
fratello, di come i malvagi fraintendono la virtù dell'uomo nobile:
essi pensano che si tratti di debolezza! Il mondo rispetta solo
l'uomo che fa frastuono e clamore, che è vano e aggressivo! Né la
fama né la vittoria si ottengono con un approccio pacifico. Guarda
cosa farò adesso. Portami la mia arma e i missili. Prosciugherò
l'oceano in modo che i vanara possano camminare fino a Lanka".
Rama impugnò la sua magnifica arma, prese alcuni missili terribili
e li tirò all'oceano. Il loro effetto fu così violento che si crearono
delle onde di proporzioni gigantesche. Le creature dell'oceano,
gli enormi serpenti e gli altri esseri degli abissi si sentirono
disturbati e messi in pericolo. Nel mare si levarono onde alte come
montagne. Dall'oceano venne un boato terrificante. Persino Lakshmana
ebbe paura.
Rama guardò l'oceano e disse colmo d'ira: "Ti prosciugherò per intero!
Privato completamente della tua essenza, di te, oceano, resterà
solo un letto di sabbia. Rama prese il missile più potente, che
aveva i poteri del Creatore stesso, e lo scagliò contro l'oceano.
Il suo effetto fu inimmaginabile e al di là di ogni descrizione.
Le montagne cominciarono a tremare. Ci fu un terremoto. Tutto fu
avvolto da una densa oscurità. Il corso del sole, della luna e dei
pianeti fu disturbato. Il cielo s'illuminò come se improvvisamente
fossero apparse migliaia di meteore. Accompagnato dal frastuono
assordante dei tuoni, il cielo fu illuminato dai lampi. Fortissime
bufere di vento spazzarono la superficie della terra e dell'oceano.
Anche le cime delle montagne furono trascinate via.
Dovunque gli esseri viventi gridavano nell'agonia. Le acque dell'oceano
si sollevarono così bruscamente e con tanta forza che sembrò che
l'oceano stesse per superare i suoi argini e sommergere la terra.
A questo punto la divinità dell'oceano si alzò e s'avvicinò umilmente
a Rama. E a Rama che si ergeva ardente di collera, con l'arma pronta
a scagliare il missile più distruttivo, l'Oceano disse: "Ogni cosa
nella natura è governata dalla legge immutabile che sola determina
le caratteristiche intrinseche ad ogni elemento. In conformità a
quella legge, è naturale che l'oceano sia insondabile e invalicabile.
Tuttavia ti suggerirò una via d'uscita, ti indicherò in che modo
i vanara potranno giungere fino a Lanka".
Rama chiese all'Oceano: "Contro chi devo tirare questo missile infallibile,
che è stato preparato allo scopo di prosciugare l'oceano?".
L'Oceano indicò la ben nota Drumakulya abitata dai peccatori: diretto
in quel posto, il missile di Rama prosciugò ivi l'oceano e, per
bilanciare quest'azione, egli benedì quel pezzo di terra: "Sarai
fertile e piena di alberi da frutta".
L'Oceano disse: "Rama, ecco qua Nala, il figlio del grande Visvakarma
(l'architetto dell'universo). Chiedi a lui di costruire un ponte
su queste acque, perché egli è geniale quanto suo padre. Io sosterrò
volentieri quel ponte".
Nala si prestò subito volontariamente: "Ciò che l'Oceano ha detto
è vero. Costruirò il ponte sopra queste acque. L'Oceano ha un debito
di gratitudine verso Rama, perché i suoi antenati avevano reso un
grande favore all'Oceano. Tuttavia, non è stata la gratitudine che
ha ispirato l'Oceano a cedere il passo, ma la paura! L'uomo ingrato
in questo mondo riconosce solo la punizione, non l'amore e l'affetto".
Al comando di Rama, migliaia di vanara si prepararono per l'impresa
straordinaria. Essi tagliarono tronchi d'albero e rotolarono enormi
massi e pietre. Gettarono tutto quanto nell'oceano che, di conseguenza,
divenne molto agitato. Alcuni vanara reggevano un filo a piombo
per potere allineare bene i massi.
Con l'aiuto dei vanara, dotati di forza incommensurabile e capaci
di grandi azioni, Nala costruì il ponte sull'oceano, usando tronchi,
massi e pietre. Il ponte lungo ottocento miglia fu costruito in
cinque giorni. Gli esseri celesti (i deva o esseri di luce) e i
gandharva (i musicisti celesti) osservarono quest'impresa meravigliosa.
Non appena il ponte fu completato, Vibhishana si mise a guardia
dell'estremità meridionale (a Lanka), per prevenire un sabotaggio
da parte del nemico.
Quindi Sugriva disse a Rama: "Lascia che Hanuman trasporti te a
Lanka, e che Angada trasporti Lakshmana". Tutti erano pronti a partire.
Ben presto Rama fu dall'altra parte dell'oceano. Egli vide Lanka,
splendente di decorazioni, e il suo cuore si rivolse a Sita: non
sarebbe passato molto tempo e l'avrebbe riavuta con sé. Rama disse
a Lakshmana: "Guarda la bella città sulla collina, costruita anticamente
dall'architetto divino Visvakarma. Con i suoi edifici a molti piani,
con i suoi boschi e giardini, essa mostra tutti i segni di una grande
ricchezza".
Poi Rama chiese a Sugriva: "Ordina la liberazione di Suka, il messaggero
di Ravana che venne da noi nelle sembianze di un uccello!". Non
appena fu liberato, Suka tornò da Ravana e gli riferì: "Sono andato
da Sugriva e gli ho dato il tuo messaggio; ma i vanara mi hanno
preso e mi avrebbero ucciso, se Rama non fosse intervenuto in tempo.
Essi hanno costruito un ponte e hanno attraversato l'immenso oceano
con l'esercito vanara. Rama è qui, con le sue armi e i suoi missili
mortali. Ora ti rimangono aperte solo due possibilità: o restituisci
Sita a Rama oppure combatti".
Ravana dichiarò con grande veemenza: "Non rinuncerò a Sita, neanche
se dovessi combattere contro gli dèi, i semidèi e i demoni. Oh,
attendo con ansia il momento in cui colpirò Rama e lo vedrò sanguinare.
Rama non ha idea della mia potenza, perciò è tanto folle da volere
una guerra".
Nello stesso tempo Ravana era ansioso dentro di sé. Egli chiamò
due demoni, Suka e Sarana, e disse loro: "Mascherate molto bene
la vostra identità e infiltratevi tra le milizie nemiche. Accertatevi
della loro forza e riferitemi tutto nei dettagli. Non riuscivo a
crederci quando mi è stato detto che hanno costruito un ponte sull'oceano;
ma ora non c'è dubbio che essi sono pronti a combattere. Perciò
è bene avere una giusta valutazione della loro forza".
I demoni presero le sembianze di vanara e penetrarono furtivamente
tra le forze vanara. Vedendo la vastità dell'esercito, essi rimasero
allibiti e non riuscirono a stimarne il numero e la forza. Vibhishana
scoprì le due spie, le portò a Rama e gli disse: "Ecco due spie
dei demoni, Rama: esse meritano l'esecuzione".
Rama disse loro: "Avete visto tutto, demoni? Allora tornate a riferirlo
a Ravana. Se invece non avete visto tutto, sarò contento di chiedere
a Vibhishana di mostrarvelo, così che possiate presentare a Ravana
un resoconto completo della nostra forza". Rilasciati da Rama, essi
tornarono da Ravana, e Sarana gli disse: "O re, sono stato preso
da Vibhishana, ma è stato Rama a salvarmi la vita. Egli mi ha chiesto
di farti sapere che domani stesso invaderà Lanka e la distruggerà.
Ti prego, maestà, basta con questa ostilità contro Rama; fa' pace
con lui".
Ravana disse severamente a Sarana: "Tu hai paura, codardo! Ma io
non rinuncerò a Sita neanche se dovessi combattere contro tutti
gli dèi, i semidèi e i demoni del mondo intero".
Subito dopo Ravana salì in cima al palazzo, che era una casa bianca
con cupole dorate, e che aveva molti piani ed era alto quanto diversi
alberi di borasso posti l'uno sull'altro. Da lassù egli vide l'intero
paese ricoperto dalle forze vanara.
Allora Ravana comandò a Sarana: "Vieni qui e dimmi: chi sono i comandanti
del loro esercito, e qual è la loro forza?".
Sarana rispose: "Quel potente vanara che marcia in testa all'esercito,
e le cui grida scuotono Lanka, è Nila. Quell'eroe dall'andatura
furente è Angada, il figlio di Vali. Dietro di lui c'è Nala, il
costruttore del ponte. Quel vanara bianco è Sveta, un grande organizzatore
e il consigliere militare di Sugriva. Ecco Kumuda. E là c'è Canda,
circondato da innumerevoli vanara. Circondato ugualmente da innumerevoli
vanara, laggiù c'è Rambha. Quell'impavido vanara è Sarabha, anche
lui a capo di un vasto esercito. Quei due potenti vanara sono Panasa
e Vinata. Krodhana è un valoroso comandante. E a capo di un'immensa
forza ecco Gavaya, che è intrepido e non teme neanche la morte.
Neanche i comandanti di questo potente esercito si possono contare:
e sono tutti eroi impavidi, totalmente devoti alla causa di Rama
e determinati a vincere.
"Ecco laggiù un altro capo, Hara, seguito da numerosi comandanti
dell'esercito. Ecco là Dhumra, il capo di un'altra tribù. Un'altra
tribù ancora è capeggiata dal potente Jambavan, che una volta aiutò
il re degli dèi, Indra, ottenendo da lui molti doni. E vedi laggiù
quel vanara maestoso che tutti gli altri stanno a guardare: è Rambha.
Quella forma gigantesca che vedi laggiù è Samnadana. Quell'altro
vanara, Kranthana, si dice sia figlio del dio del fuoco. E così
pure Pramathi, quell'altro capo vanara dalla potenza incomparabile.
"Il condottiero di un'altra tribù ancora, detta dei Golangula, è
il potente vanara Gavaksha. Un'altra tribù di vanara vive tra le
montagne più alte; essi sono di diversi colori e sono di un valore
e una ferocia incomparabile.
"Sono tutti là riuniti, zelanti, pronti a combattere e a distruggere
Lanka. Laggiù puoi vedere il comandante supremo Satabali: desideroso
di vittoria, egli adora il sole tutti i giorni. Tutti quanti sono
completamente consacrati alla causa di Rama, al quale sono devoti.
Per amor suo essi sono pronti a dare la vita".
Poi toccò a Suka indicare gli altri eroi tra le forze nemiche:
"Quei vanara che vedi laggiù sono in realtà figli di dèi e semidèi.
Essi hanno una forza incommensurabile, e possono perfino cambiare
le loro forme. Quei due comandanti sono Mainda e Dvivida; si dice
che abbiano avuto un assaggio del nettare dell'immortalità. Certamente
riconosci quel vanara in piedi laggiù! È lo stesso Hanuman che incendiò
Lanka.
"Probabilmente sai che i due principi a fianco ad Hanuman sono Rama
e Lakshmana. Quello vicino ad Hanuman è Rama, che aderisce al Dharma
e dal Dharma è protetto. Egli è un maestro in tutte le branche della
conoscenza ed è dotato del missile supremo conosciuto come missile
di Brahma. Se lo desiderasse, egli potrebbe scindere i cieli e anche
la terra. La sua ira è morte, e il suo valore è pari a quello di
Indra. E Lakshmana, che gli sta al fianco, è l'alter ego di Rama
e farebbe qualunque cosa per assicurare a Rama la vittoria.
"E riconoscerai senza dubbio Vibhishana, lì vicino a loro. Ho sentito
dire che Rama lo ha consacrato re di Lanka. Vedi là anche Sugriva:
la collana celeste che indossa, come pure Tara, la moglie di Vali,
e il regno di Kishkindha gli sono stati donati tutti da Rama, dopo
che questi uccise Vali.
"Osserva, grande re, questo potente esercito che sembra un pianeta
in fiamme. Considerando la sua forza, prendi tutte le precauzioni
utili per assicurarti la vittoria".
Ravana era preoccupato, e diresse la sua furia contro le due spie
Suka e Sarana: "Traditori! Voi cantate davanti a me le lodi dei
nemici che stanno per combattere contro di me. Che valore ha la
vostra conoscenza delle scritture, se non sapete neanche come parlare
davanti al vostro re? Dovrei farvi uccidere per il vostro cattivo
comportamento; ma non lo faccio in considerazione dei servigi che
mi avete reso in passato. Andate immediatamente via di qui".
Ravana ordinò che altre spie andassero da lui, e poi intimò loro:
"Recatevi subito nel campo nemico e, senza destare il sospetto di
nessuno, scoprite quali sono i piani di Rama. Osservatelo attentamente
e tornate a riferirmi come dorme, come si sveglia e cosa sta facendo
adesso. Chi conosce le abitudini e i movimenti del nemico lo vince
facilmente".
Le spie entrarono nell'accampamento di Rama; ma Vibhishana si accorse
della loro presenza. Tuttavia il misericordioso Rama ordinò che
fossero liberate! Subito dopo i vanara le assalirono, e così tormentate
le due spie fecero ritorno da Ravana.
Sardula si ripresentò davanti a Ravana e gli disse: "O re, non è
possibile spiare l'esercito di Rama: sono tutti molto potenti e
soprattutto sono protetti da Rama. Infatti appena giunti tra loro
siamo stati subito riconosciuti. E le nostre vite sono state risparmiate
solo grazie alla misericordia di Rama".
Ravana riunì immediatamente i suoi consiglieri per consultarsi.
Dopo averli messi al corrente degli ultimi sviluppi della situazione,
egli prese con sé il demone Vidyujjihva e insieme si recarono verso
il boschetto di asoka. Vidyujjihva possedeva il potere di materializzare
qualsiasi oggetto con un semplice gesto della sua mano. Ravana gli
disse: "Ti prego, fa' comparire un perfetto duplicato della testa
di Rama, come pure della sua arma e di un suo missile, e dammeli".
In un attimo il demone produsse gli articoli desiderati, e ricevette
per essi una ricca ricompensa. Seguito dal demone, Ravana si recò
nel luogo in cui sedeva Sita.
Avvicinandosi con calma a Sita, Ravana le disse:
"O donna affascinante, l'uomo per il cui amore tu vivi ridotta così,
colui che aspetti che ti salvi da me, colui che uccise demoni potenti
come Khara, tuo marito Rama è stato ucciso da me! Le tue speranze
sono finite, Sita! È giunto il momento che tu riconsideri la tua
posizione e accetti di essere mia moglie.
"Rama aveva sperato di uccidermi, di distruggere Lanka e di portarti
via. Con l'aiuto di Sugriva egli aveva riunito un vasto esercito;
aveva persino fatto costruire un ponte sull'oceano, ed era giunto
alle porte di Lanka. Il sole era tramontato, e Rama e i comandanti
delle sue milizie dormivano tutti. Alcuni dei miei soldati sono
entrati silenziosamente nel campo nemico e hanno ucciso tutti i
comandanti. Mentre Rama dormiva, il mio comandante supremo Prahastha
ha reciso la sua testa con una spada affilata. Vibhishana è stato
fatto prigioniero. Lakshmana è fuggito con il contingente da lui
comandato. A Sugriva è stato spezzato il collo. Hanuman giace morto
con le mascelle frantumate. Jambavan è morto. Allo stesso modo ci
siamo disfatti di tutti gli eroi, senza alcuna resistenza. Tutti
i vanara sono fuggiti, cercando di salvarsi. I loro capi sono stati
uccisi.
"Ho pensato che ti sarebbe piaciuto vedere la testa di tuo marito,
sporca di sangue e sabbia. Eccola qui".
Ravana fece un cenno e disse a Vidyujjihva: "Mostra a Sita la testa
di Rama; lascia che veda con i suoi occhi la fine di suo marito!".
Poi Ravana mostrò a Sita l'arma e il missile di Rama: "Ecco qua
l'arma e il missile usati da Rama. Ora sono sicuro che acconsentirai
a diventare mia moglie".
Dopo un momento di stupito silenzio, Sita scoppiò in lacrime e gridò
ad alta voce: "O Kaikeyi! Oggi il tuo desiderio si è compiuto. Oggi
il piano che tu hai cominciato disturbando la mente di re Dasaratha
ha dato frutto, producendo la morte dell'amato principe della sua
dinastia". Piangendo disperatamente, Sita cadde a terra come un
banano reciso.
Sita continuò il suo lamento: "Ahimè, Rama, tu hai aderito al tuo
Dharma, ma io sono diventata vedova. La vedovanza è considerata
una tragedia indesiderabile nella vita di una donna devota al Dharma.
Oh, che tragedia! Tu sei venuto a salvarmi, ma hai sacrificato la
tua stessa vita. Degli astrologi molto preparati nello studio dei
corpi celesti e dei loro movimenti avevano predetto che la tua vita
sarebbe stata lunga: ma, ahimè, le loro predizioni si sono dimostrate
erronee. Tu eri sempre vigile e saggio; e tuttavia sei stato ucciso
nel sonno! Quando giunge l'ora, anche l'impossibile diventa possibile.
Davvero il Tempo è il più grande potere sulla terra, portando tutto
al suo compimento. Tu eri un grande maestro nelle scienze politiche
e nell'uso delle armi: eppure, ecco, giaci qui, nelle mani del demone
della distruzione. Ed ecco qui le tue armi, che io ero solita adorare
ogni giorno!
"Forse ora sei felice, riunito al tuo amato padre nel cielo. Ma
perché hai abbandonato me? Non ricordi cosa hai detto il giorno
delle nostre nozze? Hai detto: Praticheremo sempre il Dharma insieme".
Ti prego, porta anche me con te. È terribile anche pensarci: quel
corpo che abbracciavo con tanto amore forse ora viene dilaniato
dalle bestie! Quanto è crudele e ingiusto che a te che adoravi il
fuoco sacro tanto regolarmente sia negato il privilegio di una vera
cremazione! Quando Lakshmana tornerà ad Ayodhya, l'unico del gruppo
di tre che lasciò la città, quanto grande sarà il dolore di madre
Kausalya. Certo anche lei si toglierà la vita. O Rama, io sono quella
donna sciagurata che ha causato tanta distruzione! Ah, la stessa
moglie di Rama è diventata la sua morte".
Rivolgendosi a Ravana, Sita disse: "Metti il mio corpo su quello
di Rama e uccidi anche me. Avvicina la mia testa alla sua e il mio
corpo al suo: anche io me ne andrò con lui. Uccidimi. Mi renderai
il più grande servigio. Sarà la tua azione più meritoria, in quanto
riunirai un marito e una moglie".
Mentre ella continuava a gemere, un messaggero chiese urgentemente
di Ravana: "Signore, i tuoi ministri hanno immediato bisogno di
te". Ravana partì subito. E con la sua partenza scomparvero anche
la testa e le armi di Rama. Ravana si consultò con i suoi ministri
e ordinò la mobilitazione generale: "Radunate tutti i demoni; ma
non dite loro il perché".
Non appena Ravana andò via, si presentò una demonessa chiamata Sarama.
Avvicinandosi a Sita con amore e affetto, Sarama le disse: "Non
addolorarti più, Sita. Tutto ciò che Ravana ha detto era falso.
La testa e le armi di Rama sono state prodotte con la magia. Rama
non è stato ucciso! Sono convinta che non sia possibile ucciderlo.
Sia lui che suo fratello Lakshmana sono capaci di difendersi in
maniera ammirevole. Io so di certo che Rama e l'esercito dei vanara
hanno attraversato l'oceano e sono giunti alle porte stesse di Lanka".
Udendo il tumulto fuori del boschetto, Sarama continuò: "L'esercito
di Ravana è stato mobilitato e le truppe stanno marciando per andare
in guerra. Tutte le strade sono bloccate dalle truppe. Essi marciano
verso la loro morte e per dare il benvenuto alla tua felicità, o
Sita. Sono convinta che presto Rama entrerà vittorioso a Lanka.
Molto presto vedrai il tuo amato marito; presto io vedrò te, mia
carissima amica, seduta sul suo grembo. Egli asciugherà le tue lacrime
e sarete riuniti. Puoi esser certa di questo, mia cara Sita. Per
il momento, ti prego, adora il Sole, il Signore di tutti gli esseri".
Questa fu una grande consolazione per Sita. Ma Sarama le volle fare
un favore ancora più tangibile, e disse: "Io ho il potere d'andare
dove voglio, senza essere vista da nessuno. Se lo desideri, Sita,
posso andare da Rama, vederlo, parlargli e poi tornare da te".
Sita le disse: "Se desideri farmi un favore, Sarama, allora ti prego
d'andare dove sta Ravana e di scoprire cosa sta facendo e quali
sono i suoi piani".
Sarama partì subito, andò alla corte di Ravana e tornò presto a
riferire a Sita: "Sono stata alla corte di Ravana e ho udito tutto
ciò che vi sta succedendo. Molti dei suoi ministri gli hanno consigliato
di riportarti da Rama e di fare pace con lui. La madre di Ravana
lo ha ammonito severamente: "Ricordati con quale facilità Rama da
solo si sbarazzò di migliaia di demoni a Janasthana. Ricorda come
l'eroico Hanuman ha compiuto l'impresa quasi impossibile di attraversare
l'oceano e scoprire dov'era Sita". Ma nonostante tutti i consigli
dei suoi ministri e di sua madre, Ravana è rimasto testardo, non
desiderando rinunciare a te. La morte imminente gli offusca la mente.
O Sita, per prima cosa Rama lo ucciderà, e quindi ti riporterà con
sé".
Nello stesso tempo, udendo le grida delle forze vanara, l'esercito
di Ravana si mise in marcia.
I demoni avevano perso il loro splendore, e dalla guerra non vedevano
provenire alcun segno positivo, perché condannati dal peccato del
loro sovrano.
Ravana tenne consiglio con i suoi ministri, mentre le sue truppe
cominciavano a marciare verso le porte della città. Uno dei suoi
consiglieri, che era anche suo nonno materno, si fece avanti.
Malayavan disse: "La parte vitale dell'arte di governare sta nel
sapere giudicare, perché ci sono occasioni in cui uno deve attaccare
e altre in cui uno deve fare pace.
"Ravana! Il Creatore ha dato vita a due soli tipi di esseri coscienti
in questo mondo: il divino e il demoniaco. Il Dharma è la caratteristica
del primo e l'adharma del secondo. Il pendolo oscilla costantemente
tra i due. In un'epoca (il Satya Yuga) la virtù o il Dharma tiene
l'adharma sotto controllo; in un'altra epoca (il Kali Yuga) prevale
l'adharma. Nell'era attuale, però, vi è squilibrio tra i due: e
tu, con le tue malvagie azioni di grande portata, hai fatto pendere
la bilancia dalla parte dell'adharma. Come conseguenza, una terribile
distruzione attende te e il tuo popolo. Dedito com'eri al potere
e al piacere, tu hai oppresso i saggi e i santi. Ma quei santi pacifici
hanno continuato le loro pratiche religiose: e il fumo che si leva
dal fuoco sacro che essi adorano nei loro sacrifici si diffonde
nelle dieci direzioni e causa la distruzione dei demoni.
"O Ravana, tu hai chiesto di essere invulnerabile solo contro dèi
semidèi e demoni; ma ora sei stato invaso da esseri umani, vanara
e altre orde tribali. Io vedo presagi terribili: le nubi fanno suoni
spaventosi; i cavalli e gli elefanti piangono; dalle mucche nascono
asini e dalle manguste ratti. I gatti si accoppiano con i leopardi,
i porci con i cani, e i semidèi con i demoni e gli umani. La fine
dei demoni è vicina. Io penso che Rama sia lo stesso Signore Vishnu
incarnato in forma umana. Perciò fai pace con lui".
Ravana s'infuriò di nuovo e tuonò: "Tu non sai neppure cosa sia
un comportamento giusto e corretto. Tu che appartieni alla mia corte
sostieni la causa del mio nemico! Se Rama è Vishnu, allora mi sono
preso la stessa dea Lakshmi, che ora è in mio possesso: e perché
dovrei restituirla? No! Potrei anche spezzarmi in due, ma non m'inchinerò,
mai! Questa è la mia natura innata, anche se potrebbe essere un
difetto. E la propria natura innata è difficile da vincere. Ti assicuro
che ucciderò Rama in brevissimo tempo!".
Malayavan diede le sue benedizioni a Ravana e lasciò la corte.
Ravana ordinò ai demoni più potenti di difendere tre delle quattro
porte della città, decidendo di stare lui stesso alla porta nord.
Dopo avere assicurato la difesa della città, acclamato e adorato
dai suoi ministri, Ravana sciolse il consiglio e si ritirò nei suoi
alloggi.
Rama ed i suoi amici erano giunti in prossimità della città e si
trovavano ai piedi del monte Suvela. Vibhishana riferì a Rama: "I
miei quattro consiglieri sono tornati con le ultime informazioni.
Ben camuffati, essi sono entrati nel palazzo di Ravana e hanno appreso
che il demone ha mobilitato il suo esercito e ha posto tre potenti
demoni a guardia di tre porte della città, mentre lui stesso starà
a guardia della quarta, quella a nord".
Vibhishana continuò: "Le forze comandate da Ravana hanno una potenza
tremenda, esse sono molto più potenti di quelle con le quali egli
invase la roccaforte degli dèi e ottenne la vittoria su di loro.
Non sto dicendo questo per intimorirti, perciò non essere seccato
con me. Ti do quest'avvertimento solo per destare sufficientemente
la tua ira, perché allora sarai invincibile".
Rama considerò come spiegare le sue forze sul campo e quindi diede
le seguenti istruzioni: "Nila attaccherà la porta orientale guardata
da Prahastha. Angada sfiderà Mahaparsva e Mahodara alla porta sud.
Hanuman attaccherà similmente Indrajit appostato alla porta occidentale.
Io stesso andrò alla porta nord, insieme a Lakshmana, e combatterò
quel vile demone che è l'oppressore del mondo, e io stesso ucciderò
il demone malvagio. Ogni tribù dell'esercito vanara deve rimanere
nell'aspetto che la distingue: con la propria uniforme, ognuna potrà
essere facilmente distinta. I vanara non devono copiare le nostre
apparenze, in modo che Vibhishana ed i suoi quattro demoni-ministri,
Lakshmana ed io possiamo essere facilmente riconosciuti".
Seguito dai capi vanara, Rama scalò il monte Suvela e disse: "Passeremo
qui la notte. Da questo posto potremo avere anche una buona vista
di Lanka. Ogni volta che penso a quel perverso Ravana non posso
trattenere la mia collera. Egli non sembra conoscere il Dharma,
e non si cura del codice della giusta condotta né del prestigio
della sua dinastia, per questo motivo è dedito a una condotta bassa
e demoniaca. Ucciderò presto quel demone ignobile e immorale. Ahimè,
una persona condannata alla distruzione pecca; e come risultato
perisce tutta la sua stirpe".
Trascorsa la notte, i vanara e Rama guardarono in direzione di Lanka.
Le vaste ed estese foreste intorno a Lanka erano belle, e i vanara
le percorrevano sollevando una nube di polvere.
A distanza si vedeva il monte Trikuta, e in cima ad esso la città
dorata di Lanka. Essa era piena di edifici a sette piani, palazzi,
torri e fortificazioni. Il palazzo di Ravana aveva mille pilastri
e lambiva il cielo. Rama, Lakshmana e i capi vanara scrutarono attentamente
quella gloriosa città.
Rama e Sugriva stavano scrutando la gloriosa città di Lanka dall'alto
del monte Suvela. Ad una certa distanza essi videro Ravana seduto
sulla torretta d'osservazione della porta nord della città. Egli
era accompagnato dal seguito reale, e accudito da servitori coi
ventagli. Aveva un bellissimo parasole bianco sul capo. Era riccamente
vestito, adornato e servito. Alla sola vista di Ravana, impulsivamente
e impetuosamente Sugriva si lanciò contro di lui. Mentre era ancora
nell'aria, Sugriva disse a Ravana: "O demone, io sono il servo e
l'amico di Rama, l'imperatore del mondo! Oggi ti prenderò, non riuscirai
a sfuggirmi".
Ravana gli rispose subito a dovere: "Ah, sei tu Sugriva! Fino a
quando non ti ho visto, eri Sugriva (uno con un bel collo); ma ora
sarai Hinagriva (privato del tuo collo)".
Atterrando vicino a Ravana, Sugriva gli fece cadere la corona. Ravana
afferrò Sugriva e lo scagliò a terra. Sugriva però si alzò illeso.
Seguì un duello di lotta libera da far rimanere col fiato sospeso.
Essendo dei lottatori esperti, essi si immobilizzarono l'un l'altro
a terra. Mentre lottavano caddero nello spazio tra due merli dell'imponente
muro difensivo. Presto ripresero i loro posti in cima al muro e
continuarono a combattersi, usando le diverse tattiche di lotta.
Potenti com'erano, essi non si stancavano; ma cambiavano continuamente
la posizione e la forma del corpo. Si tiravano colpi, li ricevevano
e li paravano. Ora si gettavano l'uno sull'altro, ora avanzavano
l'uno contro l'altro, e ora s'allontanavano l'uno dall'altro.
Ravana si rese conto che non poteva sconfiggere Sugriva in un combattimento
frontale corpo a corpo, perciò decise di usare i suoi talenti soprannaturali.
Sugriva intuì le intenzioni di Ravana, e volò via. Mentre Ravana
stava ancora guardando perplesso, Sugriva volò in direzione del
monte Suvela. Dopo aver compiuto un'impresa difficile e stremato
le forze di Ravana, egli tornò al fianco di Rama.
Rama non sembrò molto contento, e disse a Sugriva: "Senza consultare
dovutamente tutti noi, sei corso via impulsivamente. O Sugriva!
I re non indulgono in tali azioni avventate. Ci hai tenuti tutti
in ansia. Ti prego, non comportarti più così. Se ti fosse successo
qualcosa, che cosa ne avrei fatto di Sita o Bharata o degli altri
fratelli, o anche della mia stessa vita? Di sicuro, dopo avere ucciso
Ravana, avrei incoronato Bharata re e mi sarei tolto la vita. Rendendoti
conto di ciò, non mettere in pericolo la tua vita".
Sugriva rispose: "Perdonami, Rama, ma quando ho visto quel demone
malvagio che ha rapito tua moglie, non sono riuscito a trattenermi!".
Rama disse a Lakshmana: "È ora che tutte le nostre truppe prendano
posizione e rimangano estremamente all'erta. È essenziale che tutti
possano avere facilmente cibo e acqua in abbondanza, e che sia assicurata
la loro fornitura continua. Siamo sull'orlo di una guerra tremenda,
nella quale posso prevedere fin d'ora che ci saranno moltissimi
morti da ambo i lati. Le stesse preparazioni in corso smuovono il
vento e producono terremoti. Le nuvole hanno assunto un aspetto
spaventoso. Il sole è più cocente che mai. Anche la luna sembra
aver perso la sua freschezza. Gli animali si lamentano dappertutto.
Il cielo è inquinato, e perciò le stelle non si vedono chiaramente.
È il momento di invadere la città".
Così dicendo, Rama scese dal punto di osservazione sulla montagna
e passò in rassegna le sue forze. Rama guidò l'assedio, seguito
immediatamente dai più potenti eroi vanara, circondati a loro volta
dalle proprie divisioni delle forze armate. Ben presto giunsero
sotto le mura della città di Lanka. Le forze si spiegarono secondo
le istruzioni ricevute in precedenza da Rama.
Accompagnati dalle loro forze, Rama e Lakshmana si fermarono fuori
della porta nord della città, che era difesa dal potente Ravana
in persona. Ovviamente le forze che assediavano quest'ingresso non
potevano essere protette che da Rama. Allo stesso modo, gli altri
capi vanara presero d'assedio le altre porte della città, che ora
era circondata.
Le forze composte di vanara, riksha e altre tribù a migliaia e decine
di migliaia, organizzate in cento divisioni, strinsero d'assedio
le porte di Lanka; e ce n'erano altre pronte a rinforzarle. Rama
chiamò Angada e gli disse: "Caro amico, ti prego, vai da Ravana
e dagli un ultimo avvertimento, l'ultimatum finale. Digli: "Ora
stai per raccogliere i frutti amari di tutte le cattive azioni da
te perpetrate contro gli dèi, i saggi, i semidèi e gli esseri umani.
Anche se emaciato e indebolito a causa della mia separazione da
Sita, sarò ugualmente in grado di servirti quei frutti amari. Libererò
questa terra di tutti i demoni, se non ti arrenderai immediatamente
a me, consegnandomi Sita. Quando tu e i tuoi camerati sarete stati
uccisi, Vibhishana sarà il re di Lanka. Se non accetti la mia offerta,
allora preparati a morire"".
Angada andò subito da Ravana e riferì dovutamente il messaggio di
Rama. Su tutte le furie, Ravana lo fece catturare dai suoi soldati.
Quattro demoni lo presero, ma Angada si lanciò in alto insieme ai
soldati, li sbatté per terra e prima di poter essere catturato di
nuovo prese il volo, distruggendo la cupola del palazzo di Ravana.
Quindi tornò da Rama e riferì l'accaduto.
I capi dei demoni andarono a riferire a Ravana che l'esercito vanara
aveva circondato la città e minacciava di prendere d'assalto le
porte. Ravana salì in cima alla porta nord e guardò con occhi infuocati
Rama e l'esercito vanara.
Rama spronava il suo esercito con grande entusiasmo. Mentre guardava
Lanka, il suo cuore era in fiamme al pensiero: "Sita è là, sottoposta
a privazioni indicibili". Pensando al dolore di Sita, Rama incitava
i vanara, anch'essi ardenti d'entusiasmo. I vanara si lanciarono
all'attacco gridando: "Scaglieremo migliaia di macigni su Lanka;
faremo tutti i demoni a pezzi". Gettandovi alberi, massi e paglia,
i vanara riempirono i fossati che circondavano la città e cominciarono
a scalarne le mura. Altri cominciarono a colpire le porte d'oro,
gridando: "Vittoria a Rama, Lakshmana e Sugriva". Con il supporto
di Vibhishana, Gavaksha, Dhumra e le loro forze, Rama e Lakshmana
condussero l'attacco alla porta nord.
L'esercito di Ravana era equipaggiato con armi più sofisticate,
e gli stessi tamburini erano dotati di bacchette d'oro. Tamburi
e conchiglie risuonarono dappertutto, spronando i demoni a difendere
la città. I due eserciti si affrontarono, e lo scontro apparve come
la battaglia leggendaria tra gli dèi e i demoni.
I demoni avevano veicoli eccellenti ed erano protetti da armature
d'oro. I vanara, pur non avendo queste cose, erano pieni di zelo
e valore personale. I potenti demoni sfidarono gli eroi vanara a
duello. Indrajit affrontò Angada, Prajangha affrontò Sampati, Jambumali
affrontò Hanuman, Satrughna affrontò Vibhishana, Tapana affrontò
Gaja, Nikumbha affrontò Nila, Praghasa affrontò Sugriva, Virupaksha
sfidò Lakshmana e quattro demoni combatterono contro Rama. Similmente
altri demoni combatterono contro altri eroi vanara. Il sangue dei
demoni e dei vanara scorreva come un fiume, con le teste e i tronchi
che vi galleggiavano separatamente.
Jambumali ferì Hanuman, che a sua volta lo uccise. Sugriva uccise
Praghasa, che a sua volta aveva ucciso diversi vanara. Lakshmana
uccise Virupaksha. Agniketu e gli altri tre attaccarono Rama, che
tirò quattro missili contro di loro e li uccise all'istante. Nikumbha
ferì Nila, che però sollevò la ruota del carro dello stesso Nikumbha
e con essa lo uccise.
Il potente Dvivida colpì il demone Asaniprabha con un grande albero
e lo uccise. Alla guida di un cocchio, Vidyunmali attaccò Sushena,
che però sollevò un grande albero con il quale colpì il carro. Poi
Sushena sollevò un enorme macigno con il quale uccise il demone,
sebbene questi nel frattempo avesse sferrato un potente colpo sul
petto di Sushena.
[NOTA: Le parole abitualmente tradotte come 'massi', 'chiodi', 'denti',
ecc., potrebbero essere nomi di potenti armi. L'idea che i demoni
avessero armi sofisticate; mentre nell'altro esercito le avessero
solo Rama, Lakshmana e Vibhishana, alimenta la morale che se si
è dal lato del Signore (Rama) si può vincere una guerra anche contro
il nemico più potente.
La battaglia continuò anche durante la notte. I vanara gridavano
"Sei un demone?", e combattevano i demoni. A loro volta i demoni
gridavano: "Sei un vanara?", e combattevano i vanara. I demoni,
che erano di carnagione scura, si potevano riconoscere per le loro
splendenti armature d'oro, Lanciando grida di guerra, tutti combattevano
ferocemente.
Con i loro missili, che erano come serpenti velenosi, Rama e Lakshmana
uccisero molti demoni visibili e invisibili. Era come la notte della
dissoluzione cosmica. Quando sei potenti demoni attaccarono Rama,
egli rispose al fuoco e i suoi missili illuminarono il cielo notturno:
i demoni morirono. Tanti altri demoni si scagliarono contro Rama,
trovando rapidamente la morte.
Angada continuava a combattere con Indrajit: egli ferì il potente
figlio di Ravana e annientò il suo cocchio con i cavalli. Indrajit
si sentì stanco, e decise di diventare invisibile. Gli dèi e i saggi
che osservavano questo magnifico duello applaudirono il valore di
Angada.
Indrajit infuriato decise di usare i suoi poteri magici. Sempre
rimanendo invisibile, egli cominciò a dirigere i missili più letali
contro Rama e Lakshmana. Si trattava di missili avvelenati, scagliati
con tale profusione che Rama e Lakshmana furono letteralmente coperti
di ferite. Così quando si sentì incapace di affrontarli direttamente,
Indrajit impiegò i suoi poteri magici impedendo a Rama e a Lakshmana
di vederlo.
Rama mandò dieci vanara in cerca del nemico; ma Indrajit li evitò
astutamente e quindi scagliò i suoi potenti missili contro di loro
e ancora contro Rama e Lakshmana. I due nobili principi sanguinavano
profusamente. Rimanendo invisibile, Indrajit disse loro: "Nessuno
in terra e in cielo può resistermi! Tra poco vi spedirò entrambi
nella dimora della Morte!".
Dicendo questo, Indrajit diresse altri missili su Rama e Lakshmana.
Ogni volta che un suo missile colpiva il bersaglio, Indrajit urlava
di gioia.
Ben presto i due principi persero così tanto sangue da non poter
neanche sollevare la testa. I loro corpi erano pieni delle ferite
causate dai terribili missili velenosi scagliati da Indrajit. Il
sangue scorreva dai loro corpi come fosse acqua. In questo scontro
Indrajit aveva usato missili: naraca (con testa liscia e circolare),
ardhanaraca (una versione minore della stessa arma), bhalla (a testa
di scure), anjalica (a forma di mani giunte), vatsadanta (simile
ai denti del vitello), simhadamshtra (simile ai denti del leone),
e kshura (come il filo del rasoio).
Colpito da questi missili, Rama giaceva immobilizzato. La sua potente
arma dorata era stesa al suo fianco.
Rama e Lakshmana giacevano sul campo di battaglia totalmente immobili.
I vanara erano stupefatti: non riuscivano neanche a vedere l'aggressore.
Mediante il suo occhio magico Vibhishana vide Indrajit appostato
poco lontano, ma nascosto dal potere della magia. Ancora invisibile,
Indrajit proclamò: "Abbattuti dai miei terribili missili velenosi,
Rama e Lakshmana giacciono impotenti: nessuno al mondo li potrà
salvare. A causa loro, mio padre Ravana ha trascorso una notte insonne;
ma ora che io li ho uccisi, egli gioirà".
Sugriva era stato preso dal panico e piangeva profusamente. Vibhishana
asciugò affettuosamente le sue lacrime e gli disse: "Non farti prendere
dal dolore, o re. Questo è il momento dell'azione: assicurati che
Rama e Lakshmana siano ben protetti durante il loro periodo d'incoscienza.
Presto essi torneranno in vita".
Indrajit tornò alla corte di Ravana, s'inchinò al padre e annunciò:
"Rama e Lakshmana sono morti". Fuori di sé dalla gioia, Ravana abbracciò
calorosamente il suo amato ed eroico figlio. Poi Ravana mandò a
chiamare le demonesse che custodivano Sita nel boschetto di asoka
e disse loro: "Fate salire Sita sull'aereo Pushpaka e mostratele
i corpi di Rama e Lakshmana. Quando vedrà che sono morti, ella mi
cercherà di sua spontanea volontà". Sita aveva già saputo la notizia
dalle demonesse. Ora, dall'aereo, ella vide con i suoi occhi Rama
e Lakshmana stesi come morti sul campo di battaglia, in mezzo ai
cadaveri di numerosi vanara.
Vedendo il marito e il cognato stesi per terra, Sita fu sopraffatta
dal dolore e gridò il suo lamento: "Ahimè, tutte le predizioni fatte
da saggi e astrologi al mio riguardo si sono dimostrate false. Dissero
che sarei stata la regina di Rama, che avremmo avuto dei figli e
che saremmo stati felici insieme. Tutte le eroiche gesta di Rama,
di Lakshmana e dei vanara nello scoprire la mia prigione, attraversare
l'oceano e invadere Lanka si sono mostrate vane. Rama e Lakshmana
possedevano missili tremendi che potevano far cadere piogge torrenziali,
incendiare tutto, creare maree e inondazioni, scatenare cicloni
e uragani, e persino distruggere tutte le cose create. Normalmente
essi non avrebbero usato questi missili, ma perché non li hanno
usati quando hanno visto minacciata la propria vita? Ahimè, io non
mi dolgo per noi, ma questo è un terribile colpo per Kausalya!".
La nobile demonessa Trijata disse a Sita: "Non farti prendere dal
dolore. Rama non è morto. Lo vedo chiaramente dall'espressione che
ha sul volto. Nota pure che i vanara fanno la guardia ai due principi.
Se fossero stati uccisi, i vanara sarebbero fuggiti! Non addolorarti:
sono vivi". Esse tornarono al boschetto, ma nonostante le parole
di Trijata, Sita aveva ancora il cuore affranto.
Affranti dal dolore, i vanara stavano intorno a Rama e a Lakshmana.
Ad un tratto Rama riprese coscienza, prima di tutto grazie alla
sua forza fisica e mentale e poi perché era pieno di purezza e di
luce (poiché praticava il sattva-yoga). Turbato dalla vista di Lakshmana
che giaceva incosciente, come morto, accanto a lui, Rama si lamentò:
"Ahimè, che tragedia. Potrebbe essere possibile trovare una moglie
come Sita, ma non un fratello come Lakshmana. Lui che da solo poteva
uccidere migliaia di demoni è stato abbattuto dal malvagio Indrajit!
Ahimè, non sono riuscito a mantenere la mia promessa di coronare
Vibhishana re di Lanka! O Sugriva, torna a Kishkindha con tutti
i condottieri vanara sopravvissuti. Tutti voi avete fatto del vostro
meglio, ma gli esseri umani non possono beffare il destino. Ora
mi toglierò la vita".
Proprio allora Vibhishana s'avvicinò verso di loro, ma scambiandolo
per Indrajit, i vanara cominciarono a fuggire.
Sopraffatto dal dolore alla vista di Rama e Lakshmana, Vibhishana
perse ogni speranza di ottenere il trono di Lanka. Sugriva lo consolò
e poi disse a Sushena, suo suocero: "Non appena Lakshmana riprende
coscienza, riporta i due principi a Kishkindha; io distruggerò i
demoni, riprenderò Sita e porterò anche lei a Kishkindha". Sushena
rispose: "Ricordo la guerra che ci fu anticamente tra gli dèi e
i demoni, quando gli dèi furono similmente assaliti da demoni invisibili.
Il saggio Brihaspati somministrò loro alcune medicine, insieme a
delle preghiere, e riportò in vita gli dèi. queste medicine crescono
sui monti Chandra e Drona, in mezzo all'oceano, e sono chiamate
Sanjivakarani e Visalya: la prima riporta una persona in vita e
la seconda cura istantaneamente ogni ferita. Manda subito dei capi
vanara a prenderle".
In quel momento arrivò Garuda, sollevando un grande vento. Appena
giunse, i veleni che avevano immobilizzato Rama e Lakshmana li lasciarono.
Garuda pose le sue mani su di loro e si felicitò con loro. Al tocco
di Garuda, le ferite si sanarono e i loro corpi riacquistarono il
colorito dorato. Il loro splendore, la virilità, la forza, entusiasmo,
la vista, l'intelligenza e anche la loro memoria raddoppiarono.
Profondamente grato, Rama gli chiese: "Solo la tua grazia ci ha
salvati. Ti prego, dimmi chi sei". Garuda rispose: "Io sono tuo
amico, sono la tua vita stessa, benché viva fuori del tuo corpo.
Io sono Garuda. Fortunatamente ho saputo della vostra condizione
e sono giunto qui in tempo: il veleno con il quale siete stati colpiti
non aveva alcun altro antidoto. Che la vittoria vi arrida!".
Garuda partì. I vanara gioirono nel vedere Rama e Lakshmana pienamente
ristabiliti.
Ravana udì le grida festose che provenivano dalle schiere vanara,
e chiese ad alcuni demoni d'andare a scoprirne la causa. Questi
salirono sulle mura della città e guardarono verso le truppe nemiche,
poi tornarono a riferire a Ravana: "Rama e Lakshmana stanno bene!
I vanara stanno celebrando la loro guarigione dal veleno mortale
con il quale li aveva colpiti Indrajit".
Udendo queste parole, Ravana fu preso da un grande sconforto e osservò:
"Se questi due principi sono tornati in vita dopo avere subìto l'attacco
mortale di Indrajit, comincio a dubitare che tutta la forza del
mio esercito possa sconfiggerli! I nostri missili terribili come
il fuoco, che hanno sempre ucciso i miei nemici, si sono dimostrati
inutili".
Poi Ravana ordinò al feroce demone Dhumraksha: "Portati subito sul
campo di battaglia e uccidi tutti i vanara. Tu sei oltremodo potente
e capace di far questo". Dhumraksha uscì rapidamente dal palazzo
e, dopo aver ordinato al comandante in capo di schierare le truppe
per la battaglia, andò verso la porta occidentale presa d'assalto
da Hanuman. Mentre volava verso la porta occidentale, egli fu assalito
da enormi uccelli e avvoltoi. Un grande avvoltoio si posò sul suo
velivolo. Egli vide molti cattivi presagi nell'aria: vide un tronco
senza testa che gli volava davanti, emettendo strani suoni. Tutta
la natura e gli elementi presagivano cattivi segni.
Anche i vanara erano ansiosi di combattere. La battaglia che seguì
fu estremamente cruenta. I demoni usarono tutti i loro missili contro
i vanara, che a loro volta scagliarono alberi e macigni (forse anche
questi nomi di missili) . Tutti urlavano inferociti. I vanara schiacciarono
alcuni demoni, mentre fecero vomitare altri. Alcuni demoni furono
straziati con i denti, e altri con le unghie. Ma anche i vanara
subirono pesanti perdite per mano dei demoni. Alcuni furono falciati
dai loro veicoli, altri furono letteralmente spazzati via.
Il suono prodotto dalle armi somigliava alla musica di strumenti
a corda; i nitriti dei cavalli erano come il suono del tamburo;
il barrito degli elefanti era come musica vocale: i diversi suoni
della guerra creavano una sinfonia.
Vedendo che i demoni venivano assaliti, Dhumraksha avanzò verso
Hanuman. Vedendo le forze vanara in difficoltà, Hanuman sollevò
un enorme macigno e s'avvicinò a Dhumraksha. Con quel masso Hanuman
fracassò il velivolo di Dhumraksha; poi attaccò anche altri demoni.
Dhumraksha colpì Hanuman con una mazza chiodata. Incurante del colpo,
Hanuman sollevò un macigno che sembrava la cima di una montagna
e con esso colpì la testa di Dhumraksha, che cadde morto.
Turbato dalla notizia che Dhumraksha era stato ucciso da Hanuman,
Ravana ordinò a un altro potente demone, chiamato Vajradamstra,
d'andare al fronte. Questi era un adepto nelle arti magiche, e marciò
circondato da un contingente variopinto di condottieri, seguito
da una grande armata. Il suo veicolo corazzato era ricoperto da
uno spesso strato d'oro, ed era decorato con il suo stendardo personale.
Essi andarono a combattere contro i vanara che si trovavano all'esterno
della porta sud presidiata da Angada. Vajradamstra vide spaventosi
presagi: ma egli pensò che preannunciassero la morte del nemico.
Questa armata di demoni, che marciava bene ordinata verso il suo
obiettivo, splendeva come le nuvole dei monsoni, e le loro armi
luccicanti erano come lo sfolgorio dei lampi che abbelliscono le
nuvole.
Demoni e vanara si scontrarono presto nella battaglia più sanguinosa:
gli uni combattevano facendo uso di varie armi, gli altri combattevano
con mani e piedi. Di conseguenza morivano in diverse maniere: alcuni
con il corpo stritolato, altri con la testa schiacciata. Quando
vide che i demoni stavano uccidendo impietosamente i vanara, Angada
andò in loro aiuto e uccise molti demoni. E quando vide che i demoni
cadevano numerosi, Vajradamstra andò in loro aiuto.
I demoni usavano vari tipi di missili e armi mistiche; mentre i
vanara sradicavano alberi, rotolavano massi e li scagliavano contro
i demoni. Ambo i lati persero moltissimi guerrieri. Mentre i loro
corpi giacevano sul campo, alcuni con la testa fracassata, alcuni
senza braccia o gambe, altri con il corpo schiacciato, avvoltoi
e sciacalli facevano un ottimo pasto.
Angada e Vajradamstra s'affrontarono in un combattimento diretto.
Vajradamstra diresse un migliaio di colpi ad Angada. Con il sangue
che gli usciva da tutto il corpo, Angada rispose scagliando un albero.
Vajradamstra intercettò e spezzò l'albero con un missile. Angada
sollevò un grande masso e lo scagliò sul veicolo del nemico. Il
demone saltò fuori appena in tempo per vedere il suo carro ridotto
a pezzi. Angada scagliò un'altra enorme roccia contro la testa del
demone. Vomitando sangue, Vajradamstra cadde e rimase a terra stordito,
stringendo la sua mazza.
Subito dopo il demone si alzò, lasciò cadere la mazza e cominciò
a lottare con Angada. Ambedue erano ugualmente potenti, di pari
forza. Dopo un certo tempo furono tutti e due stanchi.
Infine, Angada sguainò la sua spada e recise la testa al demone.
Con il corpo ricoperto di sangue e gli occhi rotolanti, il demone
cadde, con la testa staccata dal tronco. I demoni superstiti fuggirono
verso Lanka, mentre i vanara gioivano.
Quando seppe che anche Vajradamstra era stato ucciso, Ravana s'adirò
ulteriormente e ordinò che andasse il demone Akampana.
Akampana aveva acquisito quest'appellativo perché in battaglia non
poteva essere scosso neanche dagli dèi. Il suo carro era fatto d'oro
massiccio, ed era invulnerabile. Nonostante egli fosse potente,
era attorniato dai guerrieri più valorosi, e sebbene la giornata
fosse splendida c'era una strana depressione nell'aria. Lo stesso
demone vide cattivi presagi. Quando il suo potente esercito marciò
sul campo di battaglia, i vanara furono presi dal panico. Lo scontro
intenso e furioso sollevò sul campo una nuvola di polvere nella
quale era difficile per i guerrieri distinguere perfino gli stendardi
e le uniformi del nemico. Fu tale la confusione, che vanara e demoni
uccidevano per sbaglio anche i propri compagni. L'uccisione indiscriminata
seguì l'intensa furia dello scontro. Il campo di battaglia si coprì
letteralmente di sangue infangato e di cadaveri ricoperti di polvere.
Akampana ordinò al conducente del suo carro corazzato: "Portami
al centro della mischia, dove i demoni stanno cadendo più numerosi".
Presto Akampana si trovò nel cuore della battaglia: e il potente
guerriero cominciò a uccidere spietatamente i vanara. Alla vista
di tanta strage, Hanuman si fece avanti sfidando Akampana . Questo
sollevò il morale delle forze vanara. Akampana rivolse tutta la
potenza dei suoi missili contro Hanuman. Hanuman si fece avanti
con grande furore, ma non aveva armi con sé. Perciò sollevò un grande
macigno, lo fece roteare e lo scaglio contro Akampana. Questi però
lo intercettò e lo frantumò con un suo missile mentre era ancora
nell'aria.
Vedendo l'impresa straordinaria del demone, l'ira di Hanuman crebbe.
Egli sradicò un grosso albero chiamato asvakarna e, tenendolo in
alto, si mise a correre furiosamente di qua e di là. Akampana fu
turbato dalla vista di Hanuman che gli correva incontro brandendo
il grosso albero, e sparò quattordici colpi contro il potente vanara.
Hanuman però neanche se ne accorse! Egli splendeva come il fuoco
senza fumo, come l'albero di asoka in piena fioritura.
Giunto di fronte ad Akampana, Hanuman lo colpì con l'albero: e il
demone cadde esanime . Di conseguenza i guerrieri demoni gettarono
le armi e si diedero alla fuga in direzione di Lanka. Scappando
in preda al panico, nella confusione essi calpestarono i loro stessi
compagni.
Tutti i vanara gioirono, circondarono Hanuman e lanciarono grida
di gioia. Gli dèi, i condottieri vanara come Sugriva, Vibhishana
e pure Rama e Lakshmana adorarono Hanuman.
L'uccisione di Akampana fu un colpo terribile per Ravana; ma egli
non si diede per vinto, e disse al comandante in capo Prahastha:
"Molti dei nostri più potenti guerrieri sono stati uccisi da quei
vanara giganteschi. Non saprei chi mandare ancora. L'esito della
battaglia è incerto.
D'altro canto, ritengo che una morte improvvisa e imprevista sia
preferibile ad una morte certa, che può essere predetta. Ad ogni
modo, ti prego di suggerirmi cosa fare, sia che il tuo consiglio
possa essere piacevole o spiacevole". Il valoroso e leale Prahastha
rispose: "O re, abbiamo discusso spesso quest'argomento in precedenza
e avevamo previsto che se non si fosse presa la giusta decisione
- che era quella di restituire Sita a Rama - la guerra sarebbe stata
inevitabile. Questo si è avverato. Io ho goduto del tuo affetto
e dei tuoi favori, che sono stati costanti; e allo stesso modo sarà
costante la mia fedeltà a te. Né mio figlio né mia moglie né le
ricchezze, e neanche la mia vita meritano d'essere preservati: guarda,
sacrificherò la mia vita per te".
Pieno d'ira e d'entusiasmo, Prahastha marciò verso il campo di battaglia,
circondato dai migliori guerrieri di Lanka. Prima della loro partenza,
i brahmana praticarono vari riti religiosi perché avessero successo:
I demoni indossarono non solo gli armamenti, ma anche le ghirlande
debitamente consacrate dai brahmana con la recitazione di testi
sacri. Prahastha montò sul suo carro corazzato che splendeva come
il sole, che era stato equipaggiato d'ogni sorta di armi, che si
poteva muovere a forte velocità e che era persino dotato di un paraurti
per evitare collisioni. Circondato da numerosi e potenti generali,
Prahastha si mise in marcia. Egli sembrava il dio della morte, Tramite
Vibhishana, Rama si accertò dell'identità e della forza di questo
guerriero. Ancora una volta vanara e demoni combatterono un'aspra
battaglia. I comandanti dei demoni crearono confusione tra le schiere
vanara. Ma presto Dvivida uccise Narantaka; Durmukha uccise il demone
Samunnata. Jambavan uccise Mahanada e il vanara Tara uccise Kumbhahanu.
Ancora più infuriato, Prahastha combatté con incredibile ferocia,
uccidendo migliaia di vanara. L'intero campo sembrava uno spaventoso
fiume di morte; ma i guerrieri combattevano incuranti dell'orrore.
Nila, il comandante in capo dei vanara, si precipitò contro Prahastha,
che gli lanciò numerosi missili: non potendoli schivare, Nila li
ricevette calmo, ad occhi chiusi. I due combatterono ferocemente,
Prahastha usava un maglio e Nila dei massi. Quando Prahastha si
scagliò contro Nila per ucciderlo, questi sollevò un grande masso
con il quale uccise Prahastha. Privati del loro capo, i demoni fuggirono.
Alimentata dal dolore, la furia di Ravana esplose. Egli disse ai
condottieri sopravvissuti: "Non è saggio sottovalutare la forza
del nemico. Solo un guerriero di non meno valore sarebbe sopravvissuto
ad uno scontro con Prahastha. Eppure è stato ucciso! Andrò io stesso
sul campo di battaglia: darò fuoco all'esercito vanara e irrigherò
la terra con il suo sangue". Detto questo, Ravana si preparò per
scendere in campo.
Vibhishana istruì Rama sul nuovo scontro: "Guarda Ravana che splende
come il sole, con la corona e gli orecchini, col suo corpo possente
e terrificante come i monti Vindhya. Egli sconfisse persino Indra
e Vaivasvata (il dio della morte)".
Rama guardò il nemico e non poté non esclamare: "Che splendore!
Che radiosità? È difficile anche guardarlo direttamente, come lo
è guardare il sole. E poi è circondato da demoni estremamente potenti.
Però sono contento che oggi sia sceso lui stesso sul campo di battaglia:
dirigerò contro di lui la grande collera che ha destato in me impossessandosi
di Sita".
Prima di lasciare la porta della città, Ravana ordinò ai capi dei
demoni: "Assicuratevi che le porte di Lanka e ogni sua casa siano
ben custodite. Vedendo che io stesso e i nostri principali comandanti
abbiamo lasciato la città, il nemico potrebbe invaderla". Detto
questo, Ravana si lanciò in mezzo all'esercito vanara. Vedendo che
Ravana stava sterminando le schiere vanara, Sugriva si fece avanti.
Sollevando la 'cima di una montagna', Sugriva la scagliò contro
Ravana. Questi però la intercettò con un suo missile, e la ridusse
in frantumi. Quindi Ravana colpì Sugriva con un missile terribile.
Ferito gravemente, Sugriva cadde a terra, contorcendosi in agonia.
Rama impugnò la sua arma, pronto a un confronto diretto con Ravana.
Ma Lakshmana gli disse: "Lascia che vada io, Rama: posso disfarmi
di lui". Dando il suo consenso, Rama cautelò il fratello: "Cerca
i suoi punti deboli. Ricordati dei tuoi punti deboli e difendili
sia con le armi che con la vigilanza". Ma prima che potesse raggiungere
Ravana, Lakshmana notò che Hanuman era impegnato in una lotta corpo
a corpo contro il demone. Hanuman disse a Ravana: "Hai chiesto l'invulnerabilità
solo nei confronti di dèi e demoni: non sei immune contro i vanara
e gli umani". Ravana colpì Hanuman sul petto, ma Hanuman rispose
dandogli un colpo tremendo che lo fece barcollare! Allora Ravana
disse ad Hanuman: "La tua forza e la tua abilità sono lodevoli!".
E Hanuman rispose: "Vergogna alla mia forza., giacché tu sei ancora
vivo, demone!". Ancora una volta Ravana strinse i pugni e sferrò
un terribile colpo ad Hanuman, che rimase stordito per un po'. Nel
frattempo Ravana rivolse i suoi missili contro Nila.
Nila saltò sul carro corazzato di Ravana, ma il demone l'ammonì:
"Allontanati, prima che ti colpisca". Colpito da Ravana, Nila cadde
a terra; ma per grazia del suo padre divino o angelo custode, egli
non morì.
Abbandonandolo, ora Ravana si rivolse contro Lakshmana, che a sua
volta gli gridò: "Perché sprechi la tua forza sui vanara; vieni
e mostrami il tuo valore!". Ravana gli rispose adirato: "Con piacere!
Ti farò provare il furore del mio fuoco". Ma Lakshmana lo schernì:
"Gli eroi non sbraitano! Mentre tu, che sei il peggiore dei peccatori,
non fai altro che vantarti!". Ravana rispose sparando sette missili.
Lakshmana reagì opportunamente. Qualunque missile uno usasse, l'altro
lo neutralizzava e rispondeva con un missile più potente. Ravana
prese un arma estremamente mortale (che si diceva fosse appartenuta
allo stesso Creatore) e colpì Lakshmana. Per un attimo Lakshmana
si sentì mancare, ma riprendendo subito coscienza egli colpì Ravana
con tre missili mortali. Ravana rimase svenuto per un po', e quando
si riprese colpì Lakshmana con un'arma ancora più potente, un giavellotto
dal potere distruttivo incalcolabile. Colpito da questo, Lakshmana
cadde. Ravana provò a sollevarlo, presumibilmente per portarlo via:
ma il corpo di Lakshmana divenne così pesante che Ravana non riuscì
ad alzarlo. Hanuman sfido Ravana, e lo colpì con tanta forza che
il demone vomitò sangue e svenne per un po'. Rapidamente Hanuman
sollevò e portò via il corpo di Lakshmana, che era diventato leggero
grazie all'amore che Hanuman aveva per lui. Lakshmana contemplò
la verità che egli era parte del Signore, e questo sanò le sue ferite
e gli permise di riprendere presto coscienza.
Rama si fece avanti per affrontare Ravana. Hanuman pregò Rama di
sedere sulle sue spalle per combattere il demone. Rama acconsentì,
e poi disse a Ravana: "Alzati, demone. Avendo offeso me, non puoi
trovare rifugio da nessuna parte. Ricordati che da solo ho ucciso
migliaia dei tuoi guerrieri. Appena riprenderà i sensi, Lakshmana
stesso ucciderà te, la tua famiglia e i tuoi seguaci". Furioso per
queste parole, Ravana. colpì Hanuman con molti missili incendiari.
Ma Hanuman non se ne curò e la sua forza e il suo entusiasmo crebbero.
Quindi Rama lanciò un missile contro Ravana. Colpito, quel Ravana
che non poteva essere scosso neanche dal fulmine di Indra tremò
violentemente e lasciò cadere la sua arma. Con un altro missile
Rama fece cadere il suo diadema. Vedendo Ravana in condizioni disperate,
Rama gli disse indulgente "Hai davvero mostrato grande forza e valore,
ma vedo che sei stanco e ferito. Torna a casa, riposati e riprendi
forza. Quando tornerai sul campo conoscerai la mia forza e il mio
potere".
A testa bassa, Ravana rientrò a Lanka.
Seduto sul trono, preso dal dubbio, dallo scoraggiamento e dalla
disperazione, Ravana rimuginava: "Ahimè, sono stato sconfitto da
un mero mortale! Ora ricordo le terribili parole di Brahma: 'Il
pericolo per te viene dai mortali'. Re Arananya della dinastia di
Ikshvaku mi maledì dicendo che uno dei suoi discendenti mi avrebbe
ucciso. Ricordo anche la maledizione di Vedavati, quando la violentai:
sicuramente ella è rinata come Sita. La dea Uma mi maledì dicendo
che la mia morte sarebbe stata causata da una donna. Queste maledizioni
non possono che avverarsi. Tuttavia guardate bene le porte della
città. Svegliate Kumbhakarna, poiché lui solo potrà combattere questi
eroi, i nostri nemici. In genere egli dorme per nove, dieci mesi,
ed è andato a dormire solo nove giorni fa, dopo le nostre consultazioni.
Svegliatelo, perché solo lui può affrontare i nostri nemici".
I demoni prepararono tanto cibo, bevande, profumi e altre cose che
piacevano molto a Kumbhakarna. Quindi scesero nel palazzo sotterraneo
pavimentato d'oro e gioielli dove Kumbhakarna dormiva per lunghissimo
tempo. Egli aveva un aspetto colossale, e quando espirava soffiava
via le persone. I demoni suonarono le conchiglie, batterono i tamburi,
urlarono, scossero e percossero il suo corpo enorme con clave e
mazze, e persino con armi mortali. L'intera città riecheggiava di
quei rumori e gli abitanti, gli uccelli e gli animali erano terrorizzati.
Ma Kumbhakarna non si svegliava.
Poi i demoni spinsero mille elefanti a calpestare il suo corpo:
questo fastidio lo svegliò. Subito egli sentì fame, e sbadigliando
si svegliò. I demoni diressero la sua attenzione sulla montagna
di cibo e, quando fu soddisfatto, s'inchinarono ai suoi piedi. Egli
chiese perché l'avessero svegliato e quale urgente bisogno avesse
il re. In breve essi gli descrissero gli eventi della guerra e le
sconfitte subite dalle forze reali, e conclusero: "Quello che né
dèi né demoni hanno potuto fare è stato fatto da Rama. Egli ha risparmiato
il re quasi per compassione". Saltando dal letto, Kumbhakarna urlò:
"Andrò subito sul campo di battaglia a uccidere i vanara, e anche
Rama e Lakshmana. Solo dopo andrò a vedere il re. Farò felici i
demoni procurando loro un ricco pasto di carne e sangue di vanara.
E io stesso berrò il sangue di Rama e Lakshmana".
I demoni però insistettero che egli si consultasse prima con il
re. Dopo essersi lavato e avere bevuto, Kumbhakarna s'incamminò
verso il palazzo reale. Vedendo questo demone gigantesco camminare
sulla terra, i vanara quasi morirono di paura.
[NOTA: Alcune leggende dicono che Vedavati sia sorta dal fuoco mistico
a Dandaka, e che Sita sia scomparsa nella terra. Quindi sarebbe
stata Vedavati, nelle sembianze di Sita, a vivere prigioniera a
Lanka; e sempre lei sarebbe a sua volta rientrata nel fuoco, dal
quale sarebbe riemersa la vera Sita, dopo la grande guerra.]
Vedendo la spaventosa figura di Kumbhakarna che si muoveva sulla
terra come un essere cosmico, Rama chiese a Vibhishana: "Dimmi chi
è: un demone o uno spirito maligno? Finora non avevo mai visto nulla
del genere".
Vibhishana narrò a Rama la biografia di Kumbhakarna: "È Kumbhakarna,
figlio del famoso saggio Visrava. Egli sconfisse in guerra tutti
gli dèi, i semidèi e i demoni. Già da bambino divorò migliaia di
esseri viventi. Lo stesso Indra, per difendere quegli esseri, lo
colpì con un fulmine. Egli però non solo non morì, ma strappò una
zanna dell'elefante di Indra e con essa colpì lo stesso dio! Allora
Indra e gli dèi si rivolsero al Creatore, che venendo a sapere dei
misfatti di un suo pronipote rimase scosso. E Brahma lo maledì:
"Certo tu sei nato dal figlio di Pulastya per la distruzione del
mondo; ma prima che possa farlo, entrerai nel sonno perpetuo". Kumbhakarna
fece appello a Ravana, che supplico Brahma per lui: "Non è giusto
che tu maledica così un tuo pronipote ma siccome la tua maledizione
non può essere annullata, almeno modificala stabilendo quanto tempo
dovrà dormire ogni volta". Brahma disse: "Dormirà continuamente
per sei mesi, poi starà sveglio per un giorno, durante il quale
avrà molta fame". Penso che, sconfitto da te, Ravana abbia svegliato
Kumbhakarna. Solo vedendolo da lontano, i vanara sono fuggiti per
la paura. Dubito che potranno affrontarlo sul campo di battaglia.
Perciò suggerirei di fare annunciare che si tratta solo di un congegno
meccanico, e non di un essere vivente: questo dovrebbe ridare fiducia
ai vanara".
Lieto del racconto, Rama ordinò ai comandanti di tenere l'esercito
in stato di massima all'erta!
Nel frattempo Kumbhakarna era giunto da Ravana. Questi s'alzò dal
trono e mostrò un amore, un rispetto e un affetto straordinario
per il fratello Kumbhakarna, che gli chiese: "Che posso fare per
te? Per quale motivo sono stato svegliato con tanto sforzo". Ravana
lo fece alzare, lo fece sedere al suo fianco, e gli disse: "Fratello,
hai dormito a lungo. Intanto il nostro nemico Rama è riuscito ad
attraversare il mare e ha stretto d'assedio la nostra città. Tu
stesso puoi vedere che l'intera Lanka si è trasformata in un mare
di vanara! Abbiamo cercato di combatterli, ma tu solo puoi affrontarli.
Per questo ti abbiamo svegliato! Il tesoro è vuoto e le nostre risorse
sono scarse: ti prego, salva Lanka, dove sono rimasti solo vecchi
e bambini! Tu sai che mai prima d'ora t'avevo chiesto un tale favore;
ti prego, fallo per amore di tuo fratello! Tu sei la nostra unica
speranza, l'ultima nostra risorsa. Nessuno al mondo ha una forza
pari alla tua. Se scenderai in campo, le schiere nemiche svaniranno
come le nuvole d'autunno disperse da un uragano".
Udendo la supplica di Ravana, Kumbhakarna rise forte e disse: "Te
l'avevo detto! Tu hai fatto un'azione, ignorandone le ovvie conseguenze,
e senza chiedere alcun consiglio o aiuto. Bisogna certo perseguire
il Dharma, la prosperità e il piacere, ma ogni cosa a suo tempo
e luogo. Consultandosi con i suoi ministri, il re che sceglie il
negoziato, l'offerta di doni, la discordia oppure la guerra, e che
persegue il Dharma, la prosperità e il piacere con la giusta considerazione
del tempo e del luogo, non dovrà poi pentirsene. Ma non chiunque
può consigliare un re. Ci sono individui stolti che non conoscono
le scritture e che in realtà non sono migliori delle bestie, ma
che si fanno avanti a consigliare un re mossi dall'arroganza o dalla
cupidigia. Seguire il loro consiglio porta al disastro. A volte
i ministri si alleano apertamente o segretamente con il nemico e
incoraggiano il re a compiere le azioni sbagliate: un re saggio
deve guardarsi da questi. Certamente la cosa migliore da fare ti
è stata consigliata da me e da Vibhishana: riportare Sita da Rama".
Ravana non sopportò questo sermone, e rispose adirato: "Perché predichi
come se fossi il mio guru o mio padre? Consideriamo quello che va
fatto ora: il passato è passato e non serve rimuginarlo. Anche se
avessi fatto qualcosa di sbagliato, puoi annullarne le conseguenze
con la tua forza".
Kumbhakarna saltò in piedi: "Non aver paura, non disperare. Ti ho
dato quei consigli per affetto fraterno. Ma oggi avrai di nuovo
prova della mia forza. Vendicherò la morte dei nostri eroi, asciugherò
le lacrime dei familiari dei defunti. Comanda, e andrò immediatamente
a distruggere i nostri nemici. Posso spaccare la terra, posso scuotere
il firmamento e creare disordine nei cieli. Godi e sii felice. Considera
che Rama è morto e che Sita è tua".
Il consigliere Mahodara intervenne e disse a Kumbhakarna: "Tu sei
vanitoso e ignorante. Sia i virtuosi che i viziosi godono della
vita nel mondo; ma solo il godimento del piacere è degno d'essere
ricercato. Il re ha ragione nel volersi godere la vita con Sita.
Inoltre non credo che la tua forza fisica ti servirà a qualcosa
contro Rama".
Quindi si rivolse a Ravana: "Tu hai rapito Sita e l'hai portata
qui; la cosa più importante ora è godertela, convincerla a sottostare
al tuo desiderio. Io ho un'idea: spargi la voce che Kumbhakarna,
io ed altri siamo andati a combattere Rama. Anche se non avessimo
successo, spargi la voce che Rama è stato divorato. Quando Sita
lo saprà, non avrà più speranze. Nel frattempo offrile ricchi doni,
gioielli e altre tentazioni. I saggi ottengono i loro scopi senza
combattere!".
Kumbhakarna derise Mahodara per il suo vile suggerimento, dicendo:
"I ministri codardi rovinano la fortuna di un re, facendolo tirare
indietro da una buona battaglia e assentendo ciecamente a tutti
i suoi capricci".
Ravana lodò le parole del fratello. Kumbhakarna impugnò un tridente
e fu pronto ad andare in guerra, da solo. Ma Ravana lo consigliò:
"Porta l'esercito con te, o eroe! Perché i vanara sono potenti e
la loro determinazione ne accresce il potere. Vedendo qualcuno da
solo, senz'altra difesa, potrebbero sopraffarlo". Per mostrare ulteriormente
l'affetto, l'apprezzamento, la speranza e la sicurezza che poneva
in lui, Ravana abbracciò Kumbhakarna, gli mise al collo delle collane
d'oro costellate di diamanti e s'inchinò rispettosamente a lui,
che era suo fratello minore. Kumbhakarna si preparò per la battaglia,
indossando un'armatura d'oro puro che era inattaccabile. Coperto
dappertutto di gioielli, con uno splendente tridente in mano, Kumbhakarna
aveva veramente l'aspetto del Signore Narayana.
Seguito da eroi potenti con i loro eserciti, Kumbhakarna s'avviò
verso il campo di battaglia. Era feroce anche solo a vedersi. Aveva
un corpo colossale e i suoi occhi fiammeggianti sembravano le ruote
di un carro. Egli tuonò forte; "Farò un pasto delizioso di tutti
i vanara. Io stesso ucciderò Rama, dal quale proviene la loro forza".
Apparvero dei cattivi presagi inconfondibili, che però non lo fecero
tirare indietro.
Non appena lo videro, i vanara si dileguarono. Angada cercò di ragionare
con i suoi condottieri, per convincerli a non fuggire. E diceva
loro: "Questo demone può essere potente, ma non può vincere il nostro
Rama: perché nessuno lo può!". I vanara tornarono e attaccarono
Kumbhakarna, ma questi li schiacciò inesorabilmente. Le rocce e
i macigni che scagliavano contro di lui si frantumavano quando lo
toccavano! Quando lui li colpiva quasi scherzando, dei vanara annegavano
nell'oceano, altri scomparivano nelle foreste e altri si nascondevano
nelle grotte.
Angada li richiamò continuamente: "Perché fuggite, vanara? Anche
le vostre mogli rideranno di voi, se disertate la battaglia. Pur
essendo nobili vanara, vi comportate come esseri incolti, sconvolti
dalla paura. Se è ora di morire, diamo la vita qui. Se vinceremo
la battaglia, ci godremo la terra. Se perderemo la vita, raggiungeremo
il più alto dei cieli! Vi assicuro che Kumbhakarna non potrà sfuggire
alla morte per mano di Rama". Ma i vanara risposero: "Kumbhakarna
ha sterminato le nostre forze: questo non è il momento di resistere
e combattere, ma di scappare. Le nostre vite ci sono molto care".
Comunque, Angada riuscì a convincerli a tornare sul campo.
Ancora una volta i vanara attaccarono Kumbhakarna. In brevissimo
tempo ottomilasettecento vanara caddero per mano sua. Hanuman fu
gravemente ferito dal tridente di Kumbhakarna, vomitò sangue e rimase
stordito.
Nila riuscì a ridare fiducia ai vanara. Trovandosi Kumbhakarna di
fronte come una montagna, i vanara scalarono quella montagna e cominciarono
a morderlo. Kumbhakarna afferrò questi vanara e se li mise in bocca,
con l'intenzione d'ingoiarli; ma essi fuggirono abilmente dalle
sue narici e dalle sue orecchie. Tuttavia Kumbhakarna continuò a
divorare vanara e a ucciderli spietatamente.
I vanara chiesero aiuto a Rama, e Angada si precipitò in loro soccorso.
Sollevando la cima di una montagna, Angada la gettò contro Kumbhakarna.
Furente, Kumbhakarna scagliò il suo tridente contro Angada. Questi
schivò il colpo e per tutta risposta colpì il demone sul petto.
Il demone si sentì mancare! Appena Kumbhakarna si riprese strinse
i pugni e colpì Angada con tutta la sua forza: Angada perse i sensi.
Allora Kumbhakarna si volse contro Sugriva. Sollevando la cima di
una montagna, Sugriva sfidò Kumbhakarna: "Lascia stare i guerrieri
vanara: guarda che ti faccio adesso!". Ma non appena colpì il torace
di Kumbhakarna quel macigno si ridusse in frantumi. Il demone scagliò
il tridente contro Sugriva, ma Hanuman lo intercettò, l'afferrò,
lo pose con calma sul suo ginocchio e lo spezzò! Kumbhakarna rimase
stupefatto e adirato per l'impresa straordinaria di Hanuman. Allora
prese un masso enorme e con esso colpì Sugriva. Il re dei vanara
svenne. Kumbhakarna andò dov'era caduto Sugriva, lo prese, se lo
mise sotto l'ascella e s'avviò verso Lanka. Egli sapeva che con
Sugriva fuori campo, tutti gli altri si sarebbero arresi, incluso
Rama e Lakshmana.
Hanuman rifletté: "Che devo fare adesso? Grazie ai miei poteri soprannaturali
potrei assumere proporzioni gigantesche, e quindi uccidere Kumbhakarna
e salvare Sugriva. Ma la reputazione di Sugriva ne soffrirebbe e
lui potrebbe non gradire d'essere salvato da me. Aspetterò lo sviluppo
degli eventi, e nel frattempo solleverò il morale dei vanara".
Presto Sugriva riprese i sensi e si rese conto della sua situazione!
Dopo un'attenta considerazione, egli morse le orecchie e il naso
di Kumbhakarna! Colto di sorpresa da Sugriva e stravolto dal forte
dolore, Kumbhakarna gettò a terra l'eroe vanara. Sugriva saltò subito
in piedi e tornò immediatamente dove si trovava Rama, facendo fallire
il piano del demone. Grondante di sangue, Kumbhakarna avanzò ancora
una volta contro il nemico.
Kumbhakarna ghermì un maglio e si lanciò in mezzo alle schiere vanara.
Lakshmana ricoprì letteralmente di missili il demone, che però rimase
incolume e gli disse: "Apprezzo molto il tuo valore, Lakshmana!
Finora nessuno aveva osato opporsi a me. Persino Indra una volta
fu sconfitto da me. Per il fatto che mi hai sfidato ti rispetto
come soldato. Ma io desidero uccidere solo Rama: morto lui, sarà
la fine!".
Mentre Kumbhakarna s'affrettava verso Rama, questi gli tirò un missile
spaventoso dotato del potere di Rudra, il dio della distruzione.
Trafiggendo la poderosa armatura, il missile s'infilò dritto nel
cuore del demone, e l'impatto fu tale che gli fece cadere le armi
dalle mani. Tuttavia egli cominciò a correre all'impazzata, divorando
i vanara. Poi lanciò un immenso pezzo di montagna, che Rama frantumò
con i suoi missili; ma i suoi frammenti caddero su duecento vanara.
Lakshmana capì la natura del demone e suggerì a Rama: "L'odore del
sangue intossica il demone e lo fa correre tra i vanara, uccidendoli
senza neanche volerlo. Facciamo arrampicare dei vanara su di lui
per salvare gli altri". I vanara s'arrampicarono, ma il demone li
scosse a terra.
Rama disse a Kumbhakarna: "Io sono il distruttore dei demoni. La
tua morte è vicina !". Kumbhakarna rise a squarciagola e rispose
: "Io non sono Viradha, Kabhandha, Khara, Vali o Marica! Io sono
Kumbhakarna! Combatti con me. Vedrò quanto sei potente, e poi divorerò
anche te".
Rama diresse contro di lui lo stesso tipo di missili con cui aveva
ucciso istantaneamente Vali. Ma non ebbero effetto sul demone. Sollevando
la sua clava di ferro Kumbhakarna si scagliò contro Rama, che a
sua volta gli lanciò il missile 'del vento'. Questo staccò al demone
il braccio alzato, che cadde insieme alla clava e uccise molti guerrieri!
Con l'altro braccio, Kumbhakarna sradicò un grande albero e corse
incontro a Rama, il quale fece partire un altro missile che gli
staccò anche quel braccio.
Urlando, Kumbhakarna si scagliò contro Rama, che usando due missili
a mezzaluna gli recise ambedue le gambe. Quando le gambe caddero,
il suono della loro caduta si propagò per tutta Lanka. Pur senza
braccia e senza gambe, Kumbhakarna fu ancora capace di spingersi
avanti e avvicinarsi rapido a Rama con la bocca spalancata. Con
un altro missile Rama lo imbavagliò e con un altro ancora gli recise
la testa, nello stesso modo in cui Indra aveva decapitato anticamente
il demone Vritra. Quando quell'enorme testa cadde, rotolò, e come
una valanga distrusse molti edifici sul suo cammino. Così il nemico
dei santi e degli dèi era stato ucciso da Rama, ed essi furono estremamente
felici.
I demoni andarono a riferire a Ravana: "Il terribile Kumbhakarna,
che era il terrore persino degli dèi, è stato privato della vita
dai missili di Rama!". Udendo che il potente Kumbhakarna era stato
ucciso sul campo di battaglia, Ravana fu sopraffatto dal dolore,
perse l'equilibrio e cadde. I figli di Ravana piansero disperati,
e insieme a loro anche gli altri fratelli del re. Riprendendo i
sensi, Ravana si lamentò: "Ahimè, perché mi hai abbandonato e sei
andato via, fratello Kumbhakarna? Mi chiedo com'è stato possibile
che anche tu sia stato sconfitto e ucciso in battaglia. Che me ne
farei adesso del consenso di Sita? La vita non ha più significato
per me ora che tu sei scomparso. Ho schernito Vibhishana, e l'ho
perso! Ora ho perso anche te, Kumbhakarna: per chi vivrò ora? Ah,
è certo che la mia malvagia azione di non ascoltare il saggio consiglio
di Vibhishana ha portato frutto".
Mentre Ravana esternava il suo lamento, suo figlio Trisira cercò
di consolarlo: "Non c'è dubbio che Kumbhakarna fosse potente. Ed
è vero che un guerriero come lui è stato ucciso dall'essere umano
Rama. Ma questo non è certo un buon motivo per disperarti! Tu possiedi
varie armi che ti sono state donate dallo stesso Creatore Brahma.
E anche noi siamo qui. Rimani a Lanka, padre. Andrò io in battaglia
e ucciderò i tuoi nemici". Questo discorso risollevò le speranze
di Ravana.
Con le benedizioni di Ravana, i suoi quattro figli (Trisira, Devantaka,
Narantaka e Atikaya) e i suoi due fratelli Mahaparsva e Mahodara,
uscirono per andare sul campo di battaglia, portando con loro le
armi migliori. Circondati dalle rispettive armate, essi incutevano
terrore e sembravano invincibili. Nella loro disperazione erano
determinati o a vincere o a morire sul campo.
Narantaka si gettò in mezzo alle schiere vanara, che al suo avanzare
cadevano come mosche. Impugnando una lancia infuocata, Narantaka
dava fuoco ai vanara. Questi, atterriti, chiesero aiuto a Sugriva,
il quale incaricò Angada di fermare questa nuova minaccia. Angada
sfidò Narantaka: "Lascia perdere i comuni vanara, demone! Ecco qua
il mio torace : prova su di esso la forza della tua lancia!". Seccato
dalla sua spavalderia, Narantaka scagliò la lancia sul petto di
Angada. La lancia si spezzò! Angada colpì il veicolo di Narantaka
con il palmo della mano: e il veicolo sprofondò nella terra. Narantaka
diresse il suo pugno poderoso sul cranio di Angada e lo fratturò!
Senza curarsi del sangue che gli usciva profusamente, Angada colpi
il demone al petto con il suo pugno serrato. Con il petto spaccato,
Narantaka cadde vomitando sangue caldo.
[NOTA: Lancia, maglio, mazza, clava di ferro, macigni, alberi, cime
di montagne - la descrizione data della loro natura suggerirebbe
che si trattava di armi che la scienza moderna non ha ancora prodotto.]
Trisira, Mahodara e Devantaka, fratello di Narantaka, attaccarono
simultaneamente Angada. Il principe vanara prese un albero enorme
e lo scagliò contro Devantaka; ma Trisira intervenne e lo spezzò.
In questo combattimento, mentre Mahodara intercettava i missili
di Angada, Trisira lo attaccava scorrettamente. Nonostante venisse
attaccato contemporaneamente da tre demoni potenti, Angada non si
scoraggiò.
Con un sol colpo Angada uccise l'elefante di Mahodara. Poi strappò
una zanna all'elefante morto, e con essa colpì Devantaka. Il demone
restituì il colpo. Nello stesso tempo Trisira lanciava i suoi missili
contro Angada. Vedendo che il confronto non era equo, Hanuman e
Nila vennero in aiuto di Angada. Nila si occupò di Trisira.
Devantaka combattè contro Hanuman. Scagliandosi su Devantaka, Hanuman
gli diede un colpo tale sulla testa che gli spaccò il cranio. Il
demone cadde a terra morto.
Mentre Nila combatteva contro Trisira, anche Mahodara cominciò ad
attaccarlo. Per un momento Nila si sentì paralizzato; ma riprendendo
forza, colpì Mahodara con un grande masso. Mahodara cadde. Rabbioso
per questo, Trisira diresse i suoi missili contro Hanuman. Questi
scagliò un immenso macigno contro Trisira, che però riuscì a frantumarlo.
Hanuman immobilizzò il cavallo di Trisira, che a sua volta lanciò
il suo potente giavellotto contro Hanuman; ma il potente vanara
riuscì ad intercettarlo e lo spezzò. Trisira quindi usò la sua spada
e ferì gravemente Hanuman. Questi a sua volta colpì il demone sul
petto. Trisira cadde. Hanuman strappò la spada al demone, che riuscì
ancora a colpirlo. Infine Hanuman tagliò la testa a Trisira con
la sua stessa spada.
Dopo di loro, il potente demone Mahaparsva si fece avanti per combattere.
Egli impugnava una mazza splendente che fiammeggiava continuamente.
Con essa egli aveva vinto molti dèi e semidèi. Con la sua arma Mahaparsva
creò molta confusione tra i vanara. Ora Rishabha si fece avanti
per combattere contro il demone. Mahaparsva colpì Rishabha sul petto,
facendolo sanguinare profusamente. Riprendendo le forze dopo un
po', il vanara colpì a sua volta il demone sul petto e lo fece cadere.
Rishabha si gettò su di lui e gli strappò la mazza dalla mano. Poco
dopo Mahaparsva si alzò e tirò un colpo secco contro Rishabha, che
cadde e rimase per un po' privo di sensi, Quando si rialzò, Rishabha
colpì il demone che cercava d'avanzare verso di lui per riprendersi
la mazza. Ma prima che Mahaparsva ci riuscisse, Rishabha lo uccise
con la sua stessa mazza! Il demone cadde morto, e le forze demoniache
cominciarono a fuggire.
Ora fu la volta di Atikaya, un altro figlio di Ravana. Egli avanzò
sul campo di battaglia su un carro corazzato che splendeva come
mille soli. Alcuni vanara immaginarono che fosse Kumbhakarna risuscitato
dai morti, e fuggirono. Rama chiese a Vibhishana: "Chi è questo
demone colossale? Guarda il suo carro corazzato! È pieno di torrette
rivolte in tutte le direzioni. Ha quattro piloti, venti depositi
di munizioni, dieci torrette da fuoco, e tuona come una nuvola mentre
avanza sul campo. E inoltre è difeso da due lame scintillanti. Chi
è questo potente demone?". Vibhishana rispose: "È Atikaya, un figlio
di Ravana. Anche lui non teme la morte per mano di dèi e demoni,
in virtù di un dono concessogli da Brahma. O Rama, stai attento
e liberati subito di lui".
Alcuni condottieri vanara scagliarono massi e alberi contro il demone,
ma egli se ne liberò quasi giocando. Non era interessato ad attaccare
i vanara, ma andò subito da Rama e lo sfidò a duello. Lakshmana
gli rispose subito: e mentre approntava la sua arma, il suono terribile
che produsse sorprese e divertì Atikaya. Nondimeno egli disse: "Lakshmana,
sei solo un ragazzo! Perché vuoi provocarmi ad ucciderti?". Lakshmana
rispose: "Non fare lo spavaldo, demone! E non prendermi alla leggera,
considerandomi un ragazzo: perché ragazzo o adulto, sono pur sempre
la tua morte!".
Lakshmana tirò al demone un missile tremendo che lo neutralizzò.
Allo stesso modo Lakshmana neutralizzò i missili del demone. Poi
Lakshmana tirò un missile piatto che colpì il demone sulla fronte.
Ferito gravemente, il demone disse: "Bene Lakshmana, è stato eccellente!".
Atikaya lanciò un missile estremamente acuminato che colpì il petto
di Lakshmana, facendolo sanguinare profusamente. Riprendendosi,
Lakshmana lanciò un terribile missile dedicato al dio del fuoco;
vedendolo, Atikaya lo intercettò con un missile dedicato al dio
sole. I due missili si scontrarono nello spazio, bruciando completamente.
Così l'uno intercettava i missili dell'altro. Anche quando Lakshmana
riusciva a colpire il demone; i missili erano incapaci d'attraversare
la sua armatura intarsiata di diamanti. Atikaya mirò a Lakshmana
un missile dalla traiettoria a zigzag.
Colpito, Lakshmana rimase per qualche attimo stordito; e quando
riprese coscienza udì la voce (del dio Vayu) che diceva: "Queste
armi convenzionali non possono ucciderlo: usa il missile più potente,
quello di Brahma". Lakshmana usò dunque il missile di Brahma. Quando
partì dalla sua arma, il sole e la luna s'oscurarono e la terra
tremò. Atikaya cercò d'intercettarlo, ma il missile di Brahma gli
staccò la testa.
[NOTA: Il missile di Brahma sembra essere una specie di minibomba
o proiettile atomico usato anche in combattimenti individuali, benché
si menzioni anche la varietà più grande.]
Udendo della caduta di Atikaya, Ravana fu preso dall'ansia e disse
ai suoi consiglieri: "Molti dei nostri guerrieri che consideravamo
invincibili sono stati uccisi da Rama e Lakshmana. E anche quando
essi sono stati attaccati con missili aventi il potere dello stesso
Brahma, in qualche modo sono sempre riusciti a salvarsi. Questo
mi sconcerta. Penso che Rama, dalla cui prodezza sono stati uccisi
i potenti demoni, sia lo stesso Narayana. Perciò è essenziale che
tutti voi esercitiate la massima vigilanza. Che le porte della città
siano presidiate con estrema vigilanza; fate attenzione soprattutto
agli spostamenti dei vanara".
Il figlio di Ravana, Indrajit, gli si avvicinò e disse: "Perché
ti senti depresso, padre, mentre sono al tuo fianco pronto a uccidere
i tuoi nemici? Dammi il permesso di scendere in battaglia; e ti
prometto che li ucciderò tutti, compresi Rama e Lakshmana", Indrajit
si preparò subito e fece una cerimonia del fuoco per il successo
della sua missione. Il dio del fuoco apparve in persona per ricevere
le offerte. Ci furono anche altri buoni presagi.
Quando Indrajit approntò il potentissimo missile che aveva il potere
del Creatore Brahma, il mondo intero fu scosso. Tenendosi nascosto,
Indrajit fornì copertura ai demoni, che attaccarono vigorosamente
i vanara. Ma i vanara individuarono la posizione di Indrajit nel
cielo e scagliarono alberi e massi contro di lui. Questo non fece
che accrescere la sua ira, spronandolo ad attaccare con maggiore
ferocia.
Tutti i più grandi eroi vanara - Gandhamadana, Nala, Mainda, Gaja,
Jambavan, Nila e persino Sugriva, Rishabha, Dvivida e Angada - furono
feriti gravemente da Indrajit. Restando invisibile agli altri, Indrajit
sorvolò le forze vanara, ed evitando attentamente di colpire i propri
guerrieri, fece cadere una pioggia di bombe di diversi tipi, somiglianti
a lance, spade e asce. Cadendo sui vanara, queste esplodevano producendo
una luce abbagliante e una pioggia di faville che cadevano tutt'intorno
bruciando qualsiasi cosa toccassero. I vanara che osavano guardare
questo fenomeno restavano accecati dalle faville e dai missili.
Indrajit rivolse poi la sua attenzione su Rama e Lakshmana, coprendoli
di fuoco. Rama disse a Lakshmana: "Sono certo che Indrajit sta usando
il missile dedicato al Creatore Brahma: il suo potere è inviolabile.
Sopportiamo pazientemente il suo fuoco per un po'; quando ci vedrà
tutti feriti, Indrajit tornerà sicuramente a Lanka".
E così fu! Quando vide che tutti i capi vanara e persino Rama e
Lakshmana erano caduti sul terreno sotto il potere del suo fuoco,
Indrajit tornò in volo a Lanka e riferì a Ravana del suo successo.
[NOTA: Sicuramente Indrajit esaminò il campo di battaglia dal cielo,
pensò che i capi nemici fossero morti e ritornò a Lanka. Altrimenti
li avrebbe uccisi.]
In quella sola giornata, sei milioni e settecentomila vanara furono
uccisi da Indrajit con il missile che racchiudeva il potere della
natura. Vibhishana e Hanuman fecero il giro del campo e videro Jambavan
che giaceva ferito. Vibhishana gli chiese: "O possente, sei ancora
vivo, come ti senti?". Jambavan rispose: "Non ci vedo, ma dalla
tua voce riconosco che sei Vibhishana. Ti prego di dirmi subito,
Hanuman è ancora vivo?". Vibhishana rimase perplesso: "Perché mi
chiedi di Hanuman ancor prima di Rama e Lakshmana?". Jambavan rispose:
"Per un motivo molto importante: se Hanuman è vivo, la nostra sopravvivenza
è possibile". Poi lo stesso Hanuman parlò a Jambavan, che felicissimo
gli disse: "È tempo che tu mostri il tuo potere soprannaturale,
o potente eroe! Tu puoi ridare vita a Rama, a Lakshmana e a tutti
i vanara feriti: nessun altro può farlo. Parti subito per la montagna
più alta coperta di ghiaccio: tra il monte Rshabha e il Kailash
vedrai una montagna luccicante di erbe. Ivi troverai le quattro
erbe: mritasanjivani (che resuscita i morti), vishalyakarani (che
sana tutte le ferite), suvarnakarani (che ridona al corpo il suo
splendore originario) e bandhani (che sana le fratture delle ossa)
. Porta qui quelle erbe nel più breve tempo possibile".
Hanuman non perse tempo e partì per la spedizione di soccorso. Decollò
con un boato potente che creò il panico nei cuori dei demoni di
Lanka. Con la coda alzata, il dorso abbassato, le 'orecchie' all'indietro
e la bocca spalancata, il velivolo di Hanuman fiammeggiò come il
fuoco e si librò nell'aria con un grande boato. Ben presto egli
raggiunse il posto descritto da Jambavan. Vide gli eremi dei saggi.
Vide il trono del Creatore, la dimora del fuoco e quella del dio
della prosperità, la luce del sole, l'arma della distruzione cosmica,
e l'ombelico stesso della terra. Vide i monti Rshabha e Kailash,
e tra i due vide delle erbe radiose. Ma quando atterrò per raccoglierle,
non riuscì a vederle. Afflitto e perplesso, Hanuman rifletté un
attimo e decise: "Giacché non riesco a vedere le erbe, sradicherò
l'intera montagna e la porterò via". Portando con sé la montagna,
Hanuman si mise di nuovo in volo e tornò presto a Lanka.
Non appena atterrò sul campo di battaglia, con la semplice inalazione
dell'aria che emanava dalla montagna di erbe, Rama, Lakshmana e
i milioni di vanara feriti riacquistarono una salute perfetta. Disgraziatamente
per i demoni, Ravana aveva decretato che i morti venissero gettati
nell'oceano, affinché non si conoscessero le vittime! Quindi Hanuman
riportò la montagna nel suo luogo originario.
[NOTA: Le parole 'svayambhuva vallabhena' suggeriscono la forza
nucleare (nata dalla natura), che poteva uccidere milioni. Sicuramente
avevano un rapido antidoto contro le radiazioni nucleari.]
Sugriva disse: "Ora che Kumbhakarna è morto e pure i figli di Ravana
sono stati uccisi, le difese di Lanka sono state infrante. Lanciamo
immediatamente un attacco incendiario". I vanara irruppero nella
città e incendiarono tutto ciò che trovarono. Le porte e i maestosi
palazzi presero fuoco, e le mura e i gioielli che adornavano le
porte s'abbatterono a terra come briciole. Indumenti é ornamenti
furono incendiati. Il fuoco distrusse le armi dei guerrieri e le
selle dei cavalli.
Decine di migliaia di case furono ridotte in cenere, con tutte le
loro porte segrete, i cancelli, i muri di protezione e i loro mobili
lussuosi. Le donne leggiadre che dormivano nelle loro case furono
svegliate dal crepitio delle fiamme, e si precipitarono fuori gridando
per la paura. Il fuoco che consumava Lanka si rifletteva sulla superficie
dell'oceano dando l'impressione che l'acqua fosse diventata rossa.
Le bombe incendiarie lanciate sulla città distrussero anche le stalle.
I cavalli e gli elefanti si misero a correre di qua e di là impazziti,
mettendo paura gli uni agli altri.
Rama e Lakshmana, che avevano riacquistato forza e salute, presero
le loro armi e guidarono l'invasione. Il rimbombo delle loro armi
incuteva terrore nei cuori dei demoni. I loro missili distrussero
le porte della città. Quando i missili di Rama fecero piovere fuoco
sulle case dei demoni di Lanka, essi divennero furiosi. Sugriva
ordinò ai vanara di entrare in città, ammonendoli: "Chiunque volta
le spalle o smette di combattere dev'essere ucciso dagli altri per
disobbedienza al re".
Quando vide che Rama e i vanara stavano invadendo la città di Lanka,
Ravana comandò infuriato ai potenti eroi Kumbha e Nikumbha, Yupaksha,
Sonitaksha, Prajangha e Kampana di fermare la marea degli invasori.
Con i loro ornamenti e le loro armi che brillavano sotto i raggi
della luna, questi potenti eroi raggianti di splendore marciarono
contro le forze vanara. Seguì una cruenta battaglia tra demoni e
vanara.
Angada sfidò Kampana. Quest'ultimo colpì Angada con una mazza. Sebbene
gravemente ferito, Angada riuscì a tenersi su e a sollevare un grande
macigno, scagliandolo sul demone. Kampana morì. Sonitaksha sfidò
Angada, e fece piovere su di lui molti tipi di missili. Ma l'eroe
vanara riuscì a sopravvivere ai missili e attaccò a sua volta il
carro del demone.
Sonitaksha saltò a terra e i due s'impegnarono in un duello corpo
a corpo. Alla fine Angada infilò profondamente la sua spada nel
corpo del demone, che cadde a terra privo di sensi.
Quando Sonitaksha cadde privo di sensi, Angada andò in giro con
la spada in pugno in cerca di un altro demone da sfidare. Prajangha
e Yupaksha andarono incontro ad Angada. Anche Sonitaksha, che nel
frattempo s'era ripreso, si unì a loro. Nello stesso tempo Mainda
e Dvivida andarono ad aiutare Angada. Il combattimento dei tre eroi
vanara contro i tre demoni fu uno spettacolo impressionante. Per
un po' essi combatterono con alberi, massi e missili. Prajangha
strinse il pugno con l'intenzione di colpire Angada, ma questi fu
colpito prima sulla fronte da Sonitaksha e cadde. Rialzandosi rapidamente,
con un pugno poderoso Angada staccò la testa di Prajangha.
Yupaksha prese la spada di Prajangha e si gettò nel combattimento.
Dvivida riuscì a fermarlo, ma Sonitaksha intervenne. Dvivida gli
ghermì la spada. Mainda venne in aiuto di Dvivida e colpì Yiutaksha.
Dopo un feroce combattimento, Dvivida lacerò il volto di Sonitaksha,
e gettando a terra il demone, lo schiacciò, Mainda prese Yupaksha
per le braccia e lo stritolò: il demone cadde morto.
I demoni corsero verso Kumbha, il figlio di Kumbhakarna, dotato
di una forza straordinaria e di poteri soprannaturali. Il demone
sorprese Dvivida colpendolo con un missile. Dvivida cadde, contorcendosi
nell'agonia. Mainda corse in suo aiuto e scagliò un masso contro
Kumbha, ma questi lo frantumò con un suo missile e Mainda rimase
a terra privo di sensi. Ora Kumbha attaccò Angada con i suoi missili.
Tuttavia Angada rimase saldo e scagliò dei massi enormi contro il
demone, che però li neutralizzò con i suoi missili e colpì Angada
sulle sopracciglia. Incurante del sangue e del dolore, Angada continuò
a combattere. Ma quando Kumbha lo colpì contemporaneamente con sette
missili, Angada svenne. Ora Sugriva in persona entrò nella battaglia.
Scagliandosi impavido contro Kumbha, Sugriva gli strappò l'arma
dalle mani e la spezzò; poi disse al demone: "La forza di Ravana
è frutto di un dono che ottenne da Brahma. Tuo padre Kumbhakarna
era forte di natura. Tu sei valoroso come tuo padre e Ravana. Certo
dopo avere sopraffatto gli eroi vanara sarai stanco. Riposati un
po', e poi ritorna. Allora ti mostrerò il mio valore. Non desidero
cadere nell'infamia, uccidendoti mentre sei stanco".
Infuriato da queste parole, Kumbha attaccò Sugriva. Questi lo sollevò
e lo gettò nel mare! Kumbha ritornò e assestò un colpo terribile
sul petto di Sugriva, spezzandogli l'armatura e le ossa! Il colpo
fu tale da produrre scintille di fuoco! Sugriva a sua volta colpì
il demone al petto, e Kumbha cadde morto. La terra tremò e i cuori
dei demoni si riempirono di paura.
Quando Kumbha fu ucciso, suo fratello Nikumbha si fece avanti verso
Sugriva e si fermò a fissarlo, consumandolo con la sua ira. Nikumbha
aveva un arma, una clava, placcata d'oro e intarsiata di diamanti.
Quando il demone la brandiva, i venti dell'atmosfera terrestre cominciavano
ad agitarsi. La stessa clava splendeva come una fiamma senza fumo.
Quando il demone impugnava la clava sembrava che l'immenso cielo
con i corpi celesti ruotassero intorno ad essa.
Hanuman si presentò impavido davanti a Nikumbha, si mise a torso
nudo e lo sfidò. Nikumbha colpì Hanuman con la clava ma, cosa meravigliosa,
la clava andò in frantumi. Hanuman colpì il demone con un pugno,
spezzandogli l'armatura e facendolo sanguinare. Facendosi forza,
il demone afferrò Hanuman e cominciò a trascinarlo! Dopo un po'
Hanuman si liberò dalla morsa di Nikumbha si tirò su, lo fece cadere
lo schiacciò e, sedendo sul suo petto, gli torse il collo e lo uccise.
Ravana andò su tutte le furie. Fece chiamare Makaraksha, figlio
di Khara, e lo inviò speditamente sul campo di battaglia. Makaraksha
partì, seguito da un grande esercito. Vi furono molti cattivi presagi,
ma il demone li ignorò.
Quando i vanara furono attaccati dai demoni, lo stesso Rama andò
in loro aiuto. Rivolgendosi a lui, Makaraksha gridò: "Aspetta, combatti
con me, non con i miei guerrieri. Ho atteso questo momento fin dal
giorno in cui ho saputo che avevi ucciso mio padre. Combatti con
tutta la tua forza, con tutti i tuoi missili, o con le tue braccia".
Rama rise della sua spavalderia e rispose: "La vittoria in guerra
non si ottiene con il vano millantarsi! Quel giorno gli uccelli
e gli animali della foresta appagarono la loro fame con la carne
di quattordicimila demoni più quella di tuo padre. Oggi faranno
un altro banchetto".
Seguì una terribile battaglia. I missili del demone venivano intercettati
efficacemente dagli antimissili di Rama. Il fragore delle armi riempiva
l'aria, come il rombo delle nuvole. Dèi ed esseri celesti osservavano
questa battaglia.
Rama e Makaraksha si colpivano con i missili più potenti; e tuttavia
nessuno dei due cadeva. Il fuoco era così intenso e costante che
la terra era completamente oscurata. Rama fece cadere l'arma del
demone. Questi saltò a terra, brandì il suo tridente fiammeggiante
e lo scagliò contro Rama, che però riuscì a intercettarlo mentre
era ancora nell'aria. Il demone si gettò contro Rama, ma questi
gli tirò il missile dedicato al dio del fuoco. Il demone cadde morto,
con il cuore trafitto dal missile. Avendo visto la morte di Makaraksha,
i demoni fuggirono in città, timorosi dell'arma di Rama.
Ravana era fuori di sé dalla rabbia. Egli guardò suo figlio Indrajit
e disse: "Figlio amato, con la tua potenza hai conquistato persino
il re del cielo; ti è forse difficile uccidere in combattimento
questi due esseri umani? Va' e uccidili con qualsiasi mezzo". Indrajit
celebrò ancora una volta i riti religiosi per propiziare il suo
successo in battaglia. Infine montò su un velivolo che poteva sfuggire
alla vista, e portò con sé il missile dedicato al Creatore. Appena
uscì dalla città divenne invisibile. Stando in alto nel cielo, egli
diresse il suo fuoco contro Rama e Lakshmana. Ma per quanto questi
dirigessero il loro fuoco contro il demone, non potevano raggiungerlo
perché rimaneva invisibile nel cielo . Il demone si era nascosto
efficacemente dietro uno schermo di fumo. Benché si spostasse costantemente,
non lo si poteva vedere né si poteva udire il rumore del suo velivolo,
Indrajit continuava a tirare direttamente su Rama e Lakshmana. Una
volta un missile di Rama colpì dritto Indrajit.
Vedendo ciò, Lakshmana disse a Rama; "Indirizzerò contro il demone
il missile del Creatore, e sarà la sua fine. Non vedo cos'altro
possiamo fare a questo punto". Rama però non approvò la decisione,
e disse: "Non puoi uccidere tutti i demoni per colpa di uno di loro,
Lakshmana. Non si deve uccidere in battaglia uno che non combatte,
che è nascosto, che viene a te con le mani giunte, che chiede il
tuo aiuto, o uno che sta scappando o che è stordito. Mi libererò
di lui con un solo missile di grande potenza".
Indrajit tornò a Lanka, e fece subito ritorno sul campo di battaglia
ma questa volta in un carro corazzato e portandosi Sita dentro -
una perfetta copia vivente della vera Sita, prodotta con la sua
magia. Quando lo videro, i vanara gli si scagliarono contro con
grande ira. Anche Hanuman lo vide: e vide Sita seduta nel carro,
l'immagine stessa del dolore e della disperazione. Sotto gli occhi
dei vanara, Indrajit sguainò la sua spada e afferrò Sita tirandole
i capelli. Gemendo forte, ella ripeteva: "O Rama, o Rama".
Hanuman rimproverò Indrajit e l'ammonì: "Questo è davvero il peggiore
dei peccati! Benché tu discenda da saggi brahmana, sei stato concepito
da una demonessa, perciò manifesti questo carattere riprovevole!
L'uccisione di una donna è condannata universalmente". Indrajit
rispose: "È vero! Ma in guerra uno può fare qualunque cosa possa
danneggiare il nemico. E per lei che tutti voi avete invaso Lanka;
perciò uccidendola renderò vano il vostro scopo". Così dicendo,
egli tagliò in due il corpo di Sita, mentre i vanara guardavano
attoniti. Indrajit fu felice. I vanara furono travolti da un profondo
dolore.
Vedendo Indrajit, i vanara cominciarono a fuggire. Hanuman cercò
di sollevare il loro morale, e sotto la sua guida ripresero a combattere.
Egli stesso sollevò un enorme macigno e lo gettò sul veicolo di
Indrajit; ma il guidatore riuscì a scansarlo brillantemente. Il
macigno colpì il suolo e creò una grande buca. Seguì un feroce combattimento
tra i vanara e i demoni. Dopo un po' Hanuman ordinò ai vanara di
ritirarsi, dicendo in lacrime: "Sita, per la cui liberazione stiamo
combattendo, è morta. Dobbiamo riferire il fatto a Rama e a Sugriva,
e poi fare secondo le loro decisioni". Tutti obbedirono.
Nel frattempo Indrajit decise di celebrare un'altra cerimonia religiosa
per ottenere maggiore potenza in battaglia. E si diresse in un luogo
chiamato Nikumbhila.
Intanto Rama aveva inviato Jambavan ad aiutare Hanuman a combattere
i demoni. Jambavan vide Hanuman che si dirigeva da Rama, mostrando
sul volto un immenso dolore. Hanuman s'avvicinò a Rama e disse:
"Mentre combattevamo, Indrajit ha ucciso la nobile Sita davanti
ai nostri occhi". A queste parole, Rama cadde privo di sensi. Lakshmana
s'accasciò e pianse forte: "Se questo è potuto succedere a te, Rama,
allora non c'è proprio verità nel credere che la felicità accompagna
la virtù. Noi vediamo prosperare il malvagio Ravana, mentre tu che
per tutta la vita hai aderito alla virtù non hai avuto che infelicità!
Si direbbe che la virtù abbia bisogno della protezione della forza
per ottenere la propria ricompensa, che è la felicità; ma allora
essa è debole, e uno deve scansare la debolezza e fare ricorso al
potere. Rinunciando al tuo diritto al trono, tu hai rinunciato alla
forza: da lì viene questa sconfitta. In questo mondo solo l'uomo
ricco ha amici e parenti; solo lui è considerato un uomo, un sapiente,
un eroe, intelligente, benedetto e virtuoso. Persino il Dharma e
i piaceri sono possibili solo per lui; e tutti gli rendono omaggio.
Poiché hai rinunciato alla ricchezza, e sei andato nella foresta
per onorare la parola di tuo padre, tua moglie è stata rapita!...
Ah, Rama, alzati. Perché non realizzi che tu sei l'Essere Supremo?
Ho detto queste cose solo per destare la tua ira. Ora io stesso
ucciderò tutti questi demoni!".
In quel momento arrivò Vibhishana, e Lakshmana gli riferì quanto
era successo. Allora Vibhishana disse a Rama: "Io conosco le intenzioni
di Ravana verso Sita: egli non la farebbe mai uccidere. Si tratta
sicuramente di un trucco di Indrajit, che è un adepto in magia.
Ora egli sta per celebrare un grande rito religioso; se riuscisse
a concluderlo, diventerebbe ancora più potente. Ti prego, manda
Lakshmana insieme a me, e faremo subito quanto necessario".
Ancora parzialmente scosso dalla terribile notizia della morte di
Sita, Rama non comprese chiaramente le parole di Vibhishana, e gli
chiese di ripeterle. Vibhishana le ripeté e aggiunse; "Indrajit
sta per celebrare un rito spaventoso in un luogo chiamato Nikumbhila.
Se lo completasse, otterrebbe un'arma terribile chiamata Brahmasira:
se riuscisse a ottenerla, potremo considerarci tutti morti. Io conosco
il dono che ottenne da Brahma, che però gli disse: "Se prima che
tu raggiunga Nikumbhila, o prima che completi il rito, qualcuno
riuscisse a ucciderti, sarebbe la tua fine". Perciò ora e solo ora
è il momento di liberarsi di Indrajit. Se lui morisse, anche Ravana
potrebbe considerarsi morto! Non c'è tempo da perdere: manda subito
Lakshmana accompagnato dall'esercito a Nikumbhila; egli riuscirà
a uccidere Indrajit".
Rama comandò: "Lakshmana, parti subito con l'intero esercito e con
tutti gli eroi vanara. Tu puoi uccidere facilmente Indrajit in battaglia.
Vibhishana ti accompagnerà: lui conosce tutti i trucchi del demone".
Lakshmana affermò: "Oggi ucciderò quel terribile demone con i miei
missili". Hanuman e un esercito di vanara, e Vibhishana con i suoi
compagni andarono con lui.
Vibhishana consigliò i vanara: "Abbiamo quasi raggiunto la destinazione.
Ora usate tutta la vostra forza e combattete questi demoni con pietre,
massi e alberi. Quando avrete sterminato l'esercito di Indrajit,
lui in persona si presenterà davanti a noi e potremo ucciderlo facilmente".
Vanara e demoni si scontrarono e vi fu un feroce combattimento.
I vanara combatterono furiosamente, con grandissimo entusiasmo.
Perciò migliaia e migliaia di demoni caddero sul campo.
Vedendo la strage di demoni, Indrajit si turbò e lasciò l'ombra
del grande albero sotto il quale stava celebrando il rito religioso,
che non aveva concluso. Egli montò sul suo carro corazzato e ordinò
al pilota di condurlo dov'era Hanuman, perché desiderava ucciderlo.
Anche i demoni che erano con Indrajit attaccarono Hanuman con diverse
armi e missili. Hanuman però rimaneva illeso.
Lo stesso Indrajit vide Hanuman in piedi come una montagna sul campo
di battaglia, e con grande ira gli tirò numerosi missili. Hanuman
però non si tirò indietro, e disse al demone: "Combatti con me,
se sei un eroe, Indrajit! Una volta che ti sarai avvicinato a me,
non tornerai indietro vivo".
Nello stesso tempo Vibhishana attirò l'attenzione di Lakshmana su
Indrajit, e disse: "Vuole uccidere Hanuman! Ma prima che possa farlo,
impegnalo in battaglia e uccidilo".
Allora Vibhishana condusse Lakshmana laddove si trovava Indrajit,
dove aveva cominciato il rito sacro. Vibhishana disse a Lakshmana;
"Se Indrajit concludesse questo rito, diventerebbe invisibile e
potrebbe ucciderci tutti. Uccidilo prima che riesca". Lakshmana
avanzò verso il demone e lo sfidò a duello. Indrajit vide Lakshmana,
e vide al suo fianco anche Vibhishana. Rivolgendosi a Vibhishana,
Indrajit disse: "Che vergogna! Tu sei uno di noi, eppure stai dalla
parte del nemico. Hai perso del tutto il senso della parentela e
della giusta discriminazione. Attento! Chi abbandona il suo popolo
e serve il nemico, quando i suoi saranno eliminati, verrà ucciso
anche lui dal nemico. Davvero ignobile è il modo in cui ci hai traditi".
Vibhishana gli rispose: "Benché sia nato nella vostra razza, non
ho mai condiviso la vostra natura. Io sono contrario all'ingiustizia.
Abbandonando la parentela di chi è ingiusto e dedito al male si
ottiene la felicità. Tuo padre è crudele; egli ha tormentato i nobili
saggi e sta cercando di sedurre la moglie di un altro. Ma soprattutto
egli stesso mi ha scacciato dalla sua corte e dal suo regno. Basta,
Indrajit, la tua fine è vicina".
Poi Indrajit disse a Lakshmana: "Oggi assaggerai ancora una volta
il mio potere e la mia forza. Non ricordi che pochi giorni fa sia
tu che Rama siete rimasti storditi dai miei missili? Oggi completerò
l'opera". Lakshmana disse: "Non vantarti, eroe! Mostra piuttosto
la tua potenza nell'azione. Tu ci hai feriti rimanendo invisibile
ai nostri occhi. Combattere rimanendo nascosti non è azione degna
di un eroe, ma di un ladro! Eccomi qui, vicino a te: spara!".
Reso furente dallo scherno, Indrajit lasciò partire un gran numero
di missili. Lakshmana fu gravemente ferito, ma rispose al fuoco.
Il duello tra i due eroi era tumultuoso, e a guardarlo faceva rizzare
i peli. Dopo qualche tempo Vibhishana vide che il viso di Indrajit
era un poco pallido, e disse a Lakshmana: "Il demone è stanco; attaccalo
vigorosamente". Lakshmana usò i suoi missili con buoni risultati:
Indrajit fu un po' scosso. Ma la sua ira alimentava la sua forza,
ed egli tirò sette missili contro Lakshmana, dieci contro Hanuman
e cento contro Vibhishana.
Noncurante di quest'attacco devastante, Lakshmana lanciò i suoi
missili contro Indrajit e squarciò l'armatura del demone. Ferito
e sanguinando profusamente, Indrajit continuò a combattere. Lo scontro
tra i due potenti eroi continuò senza tregua; la sua importanza
era senza precedenti.
Passò molto tempo, ma i due eroi non si ritiravano né mostravano
segni di stanchezza.
Desiderando aiutare Lakshmana e affrettare la fine di Indrajit,
Vibhishana esortò i vanara: "Perché state lì ad osservare il duello?
Indrajit è l'unico sostegno rimasto a Ravana. La sua morte significherà
la morte dello stesso Ravana, Potrei ucciderlo io stesso; ma siccome
è mio nipote, quando mi avvicino ho pietà di lui. Riunitevi insieme
e uccidete i suoi compagni, in modo che poi sarà più facile ucciderlo".
Spronati in tal modo, i vanara si scagliarono violentemente contro
i demoni, che a loro volta risposero attaccando il potente Jambavan.
Indrajit combatteva alternativamente contro Vibhishana e contro
Lakshmana. Le loro azioni erano così rapide che nessuno riusciva
a vederli sparare. Il cielo era oscurato dal fuoco, Infine il sole
tramontò e l'oscurità avvolse la terra.
Lakshmana colpì i 'cavalli' (motori) di Indrajit, e con un altro
missile decapitò il pilota del suo carro. Senza farsi scoraggiare,
Indrajit si mise alla guida del veicolo, continuando sempre a combattere.
Gli eroi vanara saltarono sul veicolo e uccisero i cavalli (acquietarono
i motori) del suo carro. L'astuto demone esortò i suoi guerrieri
a combattere con maggior ferocia e, nel frattempo, sgusciò inosservato
verso Lanka per procurarsi un altro carro corazzato.
Ancora una volta ci fu un feroce duello tra Lakshmana e Indrajit.
Lakshmana fece cadere l'arma di Indrajit e lo colpì sul petto, ferendolo
gravemente. Indrajit rispose al fuoco. Lakshmana lanciò una grandinata
di missili su tutti i demoni e sullo stesso Indrajit. Di nuovo egli
uccise il pilota del demone; ma questa volta Indrajit non se ne
curò, perché i 'cavalli' (motori) del nuovo veicolo potevano funzionare
senza pilota! Tutti i missili che Indrajit tirava a Lakshmana sembravano
colpirlo e poi cadere. Pensando che Lakshmana avesse un'armatura
impenetrabile, Indrajit lo colpì sulla fronte, e colpì allo stesso
modo anche Vibhishana. Quest'ultimo, impugnando la sua mazza, uccise
i cavalli del demone (fracassò i motori). Infuriato, Indrajit scagliò
contro Vibhishana un giavellotto, che Lakshmana riuscì ad intercettare.
Sia Lakshmana che Indrajit cominciarono ad usare missili più potenti.
Lakshmana intercettava i missili di Indrajit nell'aria, li neutralizzava
e poi i due missili cadevano per terra. Lakshmana annullò un missile
di Indrajit con un antimissile: il missile del fuoco del demone
fu deviato dal suo missile del sole. Infine, prendendo un missile
di Indra, Lakshmana disse: "Se Rama è devoto al Dharma e alla verità,
che questo ponga fine alla vita di Indrajit". Il missile recise
la testa di Indrajit, che cadde sul campo di battaglia. I demoni
fuggirono. I vanara celebrarono l'evento.
Accompagnato da Vibhishana e Hanuman, e dagli altri capi vanara,
Lakshmana si recò da Rama. Vibhishana annunciò la gioiosa notizia
che Lakshmana aveva ucciso il potente Indrajit. Immensamente felice,
Rama lodò Lakshmana più volte: "Tu hai compiuto l'impresa più difficile!
". Lakshmana fu modesto. Per l'affetto che aveva per lui, Rama lo
tirò a sé con forza e ponendoselo in grembo gli baciò la testa e
continuò a guardarlo con grande gioia e orgoglio. Infine disse a
Lakshmana: "La vittoria è assicurata, ora che tu hai ucciso Indrajit
in soli tre giorni. Adesso Ravana dovrà scendere di persona sul
campo di battaglia con il suo esercito, e mi sarà facile disfarmi
di lui. Con il tuo aiuto, Lakshmana, potrò riavere Sita e conquistare
anche il mondo intero".
Udendo che Indrajit era stato ucciso, Ravana perse i sensi. Quando
riprese coscienza si lamentò; "Ahimè, tu che terrorizzavi gli dèi,
Indra e persino il dio della morte, com'è possibile che mi hai preceduto,
invece di compiere prima le mie esequie? Certo sei andato nel cielo
più alto, dove ascendono coloro che danno la vita per la causa del
loro sovrano. Questa è la via di tutti i nobili guerrieri. Oggi
gli dèi, gli asceti e i brahmana dormiranno in pace: ma oggi il
mondo intero mi appare desolato".
Completamente sopraffatto da un'ira implacabile, Ravana pensò: "Ho
ancora l'arma spaventosa che ottenni dal Creatore Brahma: con essa
ucciderò Rama e Lakshmana, e tutti i loro guerrieri". E ancora:
"Il mio amato Indrajit inscenò un trucco davanti ai vanara, e uccise
una forma illusoria di Sita. Ora farò diventare vero quel trucco!
Ucciderò Sita".
Ravana impugnò la sua temibile spada e si precipitò nel boschetto
di asoka. I demoni lo seguirono urlando di gioia. Le sue mogli e
anche i suoi ministri lo seguirono con apprensione.
Vedendolo avvicinare con la spada in pugno, Sita si chiedeva preoccupata:
"Sta venendo ad uccidere me, o ha ucciso Rama e Lakshmana? Quale
può essere la causa delle urla di gioia dei demoni? Ahimè, che follia
non aver accettato l'offerta di Hanuman di riportarmi da Rama".
Intuendo le intenzioni di Ravana, il suo ministro Suparsva l'ammonì:
"Maestà, ti prego, non soccombere all'ira commettendo questo crimine
efferato. Uccidere una donna è completamente indegno della tua grandezza.
Tu hai realizzato tutti i voti di un brahmana che conosce i Veda,
e sei devoto ai tuoi doveri. Come puoi dunque pensare di uccidere
una donna? Volgi su Rama la tua collera, e senza dubbio lo ucciderai.
Allora potrai fare di Sita la tua consorte!". Ravana si calmò e
accettò il consiglio del ministro.
Su ordine di Ravana l'intero esercito marciò verso il campo di battaglia.
Presto demoni e vanara si scontrarono in un sanguinoso combattimento,
che causò moltissimi morti e feriti da entrambi i lati. Per proteggere
i vanara, lo stesso Rama entrò in battaglia, e con la sua potente
arma stroncò molti demoni. I demoni rimanevano stupefatti dalla
potenza inconcepibile di Rama, che era così rapido nel tirare i
missili che essi non riuscivano neanche a vedere dove si trovava!
E gridavano: "Eccolo che uccide il contingente con gli elefanti;
eccolo che uccide i nostri condottieri; eccolo che uccide fanti
e cavalli". I demoni vedevano persino Rama l'uno nell'altro e si
uccidevano tra di loro!
Rama usò il missile che creava confusione: ulteriormente confusi,
i demoni si videro intorno migliaia di Rama. In seguito si resero
conto che vi era un solo Rama. A volte vedevano solo l'arma da fuoco
di Rama, ma non lui. Vedevano l'arma di Rama che aleggiava rapidamente
come una spada incendiaria che uccideva i demoni: ma non vedevano
Rama. In tre ore duecentomila soldati e un gran numero di elefanti
e cavalli erano stati uccisi dal solo Rama, con la sua arma che
emetteva lingue di fuoco.
Rama disse ai suoi compagni: "Il potere di usare questi missili
in tal modo è posseduto solo da me e da Tryambaka".
A Lanka le demonesse si riunirono in piccoli gruppi e si lamentarono:
"Maledetta l'ora in cui l'orrenda, crudele e vecchia demonessa Surpanakha
ha guardato con occhi lussuriosi il leggiadro principe Rama! Dev'essere
stato certo il nostro destino e quello di tutti i demoni a ispirarle
di desiderare Rama. Ma anche dopo, Ravana ha avuto tantissimi avvertimenti
per rendersi conto della potenza di Rama: l'uccisione di quattordicimila
demoni, di Khara, Dushana e Trisira, l'uccisione del potente Vali
- tutto ciò avrebbe dovuto far desistere Ravana dal suo piano malvagio.
Ravana ha avuto anche il saggio consiglio di Vibhishana; e avrebbe
potuto realizzare l'immenso potere di Rama quando è stato ucciso
Kumbhakarna, o almeno quando è stato ucciso Atikaya. Neanche la
morte di Indrajit lo ha reso saggio! Ah, abbiamo perso tutti i nostri
amici e parenti. Sì, la Morte stessa è venuta sotto forma di Rama.
Abbiamo sentito che in risposta alle preghiere degli asceti oppressi,
il Signore Shiva promise: "Una donna nascerà sulla terra per distruggere
i demoni". Ravana ottenne da Brahma il dono dell'invincibilità,
ma ignorò sprezzante gli esseri umani. Ora quest'uomo, Rama, è venuto
certo a ucciderlo. Vibhishana è stato saggio, e ha chiesto in tempo
la protezione di Rama. Noi però non abbiamo nessuno che ci protegga
e non sappiamo dove andare".
Anche Ravana udì il lamento pietoso delle demonesse. Guardando furente
i capi dei demoni che gli stavano intorno, egli ordinò di marciare!
Tutti marciarono immediatamente verso il campo di battaglia con
le loro divisioni. Rivolto ai comandanti Mahodara, Mahaparsva e
Virupaksha, Ravana disse: "Oggi io stesso ucciderò Rama e Lakshmana,
vendicando così l'uccisione di Khara, Kumbhakarna, Prahastha e Indrajit.
Le teste dei miei nemici rotoleranno a terra. Con la loro morte
asciugherò le lacrime di coloro che hanno avuto uccisi figli e fratelli.
Portate il mio carro corazzato. Portate le mie armi. Che l'esercito
mi segua sul campo di battaglia".
Ci fu la coscrizione generale: i capi demoni radunarono tutti i
demoni abili di Lanka e li spinsero sul campo di battaglia per il
combattimento finale e decisivo. Ravana montò nel suo particolarissimo
carro corazzato, che incuteva sgomento persino ai demoni. Sul campo
di battaglia, i guerrieri dicevano tra loro; "Ecco Ravana, il re
dei demoni, accompagnato dalle sue insegne reali. Ecco colui che
ha rapito Sita, quel malvagio che ha ucciso i brahmana e ha terrorizzato
persino gli dèi. Eccolo che viene a combattere contro Rama". Circondato
dai suoi comandanti, Ravana si avvicinò alla porta presso la quale
si trovavano Rama e Lakshmana. Vi furono molti cattivi presagi,
ma Ravana andò avanti senza prestarvi attenzione.
Ravana cominciò ad attaccare i vanara, che caddero in gran numero
davanti a lui. Ponendo Sushena a capo di queste forze vanara, Sugriva
si portò nelle posizioni frontali dove infuriava la battaglia. Con
una pioggia di massi, egli uccise innumerevoli demoni.
Il demone Virupaksha venne in loro aiuto, combattendo da sopra un
elefante. Egli diresse una scarica di colpi contro Sugriva, che
però rimase illeso. Sollevando un grande albero, Sugriva colpì con
esso l'elefante, che si ritirò barrendo. Virupaksha saltò giù dall'elefante
e si scagliò contro Sugriva.
Sugriva prese un enorme macigno e lo lanciò contro Virupaksha, che
comunque riuscì a scansarlo in tempo e a colpire Sugriva con la
spada. La ferita fece perdere per qualche attimo i sensi a Sugriva,
che però dopo un po' si riprese e colpì il demone con un pugno.
Virupaksha colpì di nuovo Sugriva con la spada e lacerò la sua armatura.
Sugriva cadde, ma rialzandosi subito sferrò un colpo sonoro sul
petto del demone.
Virupaksha schivò il colpo, e colpì a sua volta Sugriva con un pugno.
Pieno di furia, Sugriva assestò un colpo potente e vigoroso sulla
tempia di Virupaksha. Il demone morì vomitando sangue, con il sangue
che gli usciva come acqua da tutte le aperture del corpo.
Le perdite furono pesantissime da entrambi i lati e i combattenti
si erano ridotti notevolmente di numero. Ravana si volse al demone
Mahodara e gli disse: "Tutte le mie speranze sono ora legate a te,
Mahodara: ti prego, vai in battaglia".
Mahodara giunse sul campo di battaglia pieno di zelo e d'entusiasmo,
ma fu accolto da una grandinata di massi e alberi scagliati contro
di lui dai vanara. Mentre i vanara assalivano i demoni, lo stesso
Mahodara cominciò a uccidere molti vanara con i suoi missili mortali.
Alcuni fuggirono, mentre altri corsero a cercare aiuto da Sugriva
. Il re dei vanara impegnò il demone in combattimento: sollevò prima
un enorme macigno e lo scagliò contro di lui; poi gli tirò un grande
albero. Ma con i suoi missili il demone fece a pezzi sia l'uno che
l'altro. Sugriva raccolse da terra una clava e con essa uccise (acquietò)
i cavalli (i motori) del veicolo di Mahodara.
Mahodara attaccò Sugriva con la sua mazza ferrata; Sugriva rispose
con la clava. Quando Mahodara lanciò la sua mazza contro Sugriva,
questi la intercettò con la sua clava. La mazza cadde e la clava
si spezzò. Sugriva raccolse una clava da terra e la scagliò contro
il demone. Mahodara rispose con la mazza. I due eroi si scontrarono
in aria e caddero a terra. Allora cominciarono a combattere a mani
nude. Dopo aver lottato per un po', Mahodara prese una spada e altrettanto
fece Sugriva. Mahodara colpì l'armatura di Sugriva, ma questi imperterrito
tagliò la testa del demone con la sua spada. Sugriva fu soddisfatto.
Ravana s'infuriò, e Rama fu felice.
Il demone Mahaparsva attaccò le forze di Angada. Grande fu la distruzione
dei vanara per mano sua. Angada era dispiaciuto e furente. Afferrando
una dava, egli la tirò al demone, che rimase temporaneamente stordito
dal colpo. Sfruttando questa opportunità, il potente eroe Jambavan
distrusse il carro corazzato del demone.
Riprendendo i sensi, Mahaparsva attaccò di nuovo Angada e gli altri
eroi vanara, Gavaksha e Jambavan. Ancora una volta Angada scagliò
una clava contro il demone, facendogli cadere l'arma dalle mani
e l'elmo dalla testa. Poi assestò un pugno poderoso sulla tempia
del demone. Mahaparsva scagliò un'ascia dall'aspetto terribile contro
Angada, che fortunatamente riuscì a schivarla. Stringendo forte
il pugno, Angada mirò un colpo potente sulla parte vitale del demone.
Quando il pugno lo colpì al petto con la forza del fulmine, il suo
torace si aprì e il demone cadde morto. Vedendo questo, Ravana rimase
ulteriormente confuso e pieno di collera . I vanara gioirono.
Ravana disse al suo pilota: "Andiamo! Ucciderò io stesso Rama e
Lakshmana, distruggendo così alla radice il malvagio esercito che
ha causato tante perdite al mio popolo". Ravana lanciò un missile
tremendo che diffuse l'oscurità, e uccise numerosi vanara. Allora
Rama si fece avanti per sfidare Ravana, e i demoni cominciarono
a cadere a frotte. Lakshmana attaccò Ravana, che neutralizzò facilmente
tutti i suoi missili. Poi Ravana si diresse contro lo stesso Rama,
e gli tirò una grandinata di proiettili. Ma Rama li intercettò tutti
con un antimissile chiamato bhalla.
Ravana colpì Rama, che però rimase illeso e lanciò al demone il
terribile missile dedicato a Rudra. Ravana non fu scosso, e cominciò
a usare missili diabolici che sembravano avere le teste di leoni,
tigri, avvoltoi, sciacalli, serpenti, asini, verri, cani, galli,
alligatori, ecc. Notando questo, Rama usò i missili dedicati al
dio del fuoco, che avevano teste che ricordavano il fuoco, il sole,
la luna, le comete, i pianeti e le dimore lunari. I missili di Rama
neutralizzarono in aria quelli di Ravana.
Ravana lanciò il missile di Rudra, dal quale scaturirono diverse
armi: mazze, clave e tridenti dotati di forza adamantina. Per contrastarne
l'effetto Rama usò il missile gandharva. Quindi Ravana usò il missile
del dio del sole, che diede vita a numerosi dischi dal potere distruttivo
inconcepibile; ma Rama se ne liberò efficacemente con la propria
arma. Con un colpo Lakshmana strappò lo stendardo di Ravana, poi
uccise il suo pilota e distrusse persino una sua torretta armata.
Ravana si volse furioso contro Vibhishana e gli lanciò un'arma tremenda
chiamata shakti. Lakshmana la intercettò, ed essa cadde liberando
terribili faville di fuoco. Ora Ravana si volse arrabbiato contro
Lakshmana: "Giacché difendi Vibhishana, con questa shakti ti toglierò
la vita". L'arma era molto potente e infallibile e, mentre volava
verso Lakshmana, Rama pregò! Lakshmana fu colpito e rimase incosciente.
Pur turbato profondamente, Rama si fece forza e continuò a combattere
con furore. I vanara però non riuscivano a estrarre shakti dal corpo
di Lakshmana; perciò doveva farlo Rama. Ma mentre questi soccorreva
il fratello, Ravana gli tirò parecchi colpi.
Adirato, Rama disse ai vanara; "Proteggete Lakshmana, mentre io
mi occupo di Ravana e libero il mondo dalla sua presenza. Per colpa
sua ho sopportato molto dolore; ma quando l'avrò ucciso tutto il
dolore svanirà. Per colpa sua ho dovuto portare in guerra molti
vanara. Uccidendo Ravana, oggi farò un'azione che verrà ricordata
e rievocata per tutto il tempo a venire". Incapace di difendersi
dai terribili missili ora usati da Rama, Ravana fuggì.
Quando Ravana si ritirò dalla battaglia, Rama tornò da Lakshmana.
Vedendolo a terra svenuto, come morto, Rama fu preso dallo sconforto
e si lamentò: "Vedendo steso in un lago di sangue il mio amato fratello
a me più caro della stessa vita, non ho la forza di combattere.
L'arma mi cade dalle mani; le mie gambe vacillano. C'è in me un
forte desiderio di morire. Che cosa otterrò con la vittoria, quando
mio fratello non c'è più? Come mi presenterò ai miei senza di lui?
Egli mi ha seguito nella foresta, io lo seguirò nella morte".
Il vanara Sushena cercò di confortare Rama dicendo: "Lakshmana non
è morto. Perciò non affliggerti". E poi disse ad Hanuman: "Va' subito
sul monte Mahodaya a prendere le erbe rivitalizzanti che hai già
preso in precedenza".
Hanuman conosceva la rotta, che gli era stata indicata prima da
Jambavan. Andò lì celermente e tornò presto. Ponendo la cima del
monte davanti a Sushena disse; "Non sono riuscito a vedere le erbe;
perciò lo portato la cima del monte". Sushena trovò le erbe, le
schiacciò e le somministrò a Lakshmana.
Inalando le erbe, Lakshmana riprese i sensi. Rama fu felice, ma
continuò ad essere sentimentale e ripeté: "Se tu non fossi tornato
in vita, la mia vittoria sarebbe stata inutile". Quando gli fu ricordata
la gravità della situazione, Rama aprì il fuoco sull'esercito di
Ravana. Ben presto arrivò lo stesso Ravana nel suo carro corazzato
e coprì Rama con i suoi proiettili. Vedendo che Ravana aveva un
veicolo corazzato e Rama era a piedi, Indra, il re degli dèi, inviò
rapidamente il suo carro corazzato con il suo auriga Matali. Il
carro corazzato di Indra aveva 'cavalli verdi'. Matali fermò il
carro davanti a Rama e disse: "Indra ha mandato il suo veicolo e
le sue potenti armi, inclusa la shakti, perché tu possa usarli e
ottenere la vittoria".
Nella cruenta battaglia che seguì, Ravana scagliò un missile che
si trasformò in serpenti velenosi; ma Rama li neutralizzò usando
un altro missile che liberò aquile nell'aria, Infuriato, Ravana
usò missili ancora più potenti e assalì Rama, impedendogli di usare
liberamente la sua arma. Gli esseri celesti incitavano Rama e i
demoni incitavano Ravana. Quest'ultimo prese un'arma terribile,
un tridente duro come il diamante, infuocato, dalle punte acutissime,
che produceva un suono fragoroso, e disse: "Rama, quando lancerò
quest'arma, morirai". Mentre s'avvicinava a lui, Rama tentò d'intercettarlo
con i suoi missili, che però furono ridotti in cenere dal tridente.
Infine Rama usò la shakti di Indra. Intercettata dalla shakti nel
cielo; il tridente si spaccò e cadde a terra. Rama continuò attaccando
a sua volta Ravana.
Tormentato dai missili di Rama, il re dei demoni Ravana s'infuriò
terribilmente e coprì di fatto Rama con il suo fuoco. Rama tuttavia
intercettò con successo tutti i missili del demone. In questa temibile
battaglia, e nella polvere e nel fuoco sollevati dal combattimento,
non si riuscivano a vedere neanche Rama e Ravana.
Ridendo con scherno, Rama disse a Ravana: "Sono certo che pensi
di essere un grande eroe, Ravana. Ma non lo sei! Il fatto stesso
che hai rapito mia moglie Sita a Janasthana senza che io lo sapessi
prova che non sei un eroe! Hai messo le tue mani sulla moglie di
un altro mentre ella non era protetta, eppure ti consideri un eroe!
Ora subirai le conseguenze di quell'azione malvagia e meschina.
Senza vergognarti hai rapito Sita mentre era sola: se avessi tentato
di farlo in mia presenza, avresti raggiunto Khara all'altro mondo.
Per fortuna ti sei presentato davanti a me. Staccherò la tua testa
dal corpo, e le bestie feroci e gli avvoltoi mangeranno la tua carne".
L'ira di Rama aumentò la sua forza e il suo valore. In quel momento
i missili divini si portarono, per così dire, davanti a lui, e la
gioia che riempiva il suo cuore per l'imminente distruzione di Ravana
gli permetteva di sparare in maniera facile e fulminea.
Rama percepì buoni presagi, e ne fu molto incoraggiato. Egli combatté
con grande furia, e Ravana fu sopraffatto dai suoi missili. Vedendo
la totale confusione di Ravana, il suo guidatore condusse il carro
lontano dal campo di battaglia.
Quando Ravana si rese conto di ciò che il pilota aveva fatto, gli
disse pieno di collera: "Tu hai disonorato il mio nome, Hai gettato
vergogna sul mio valore. La mia gloria è stata offuscata dalla tua
vile azione. Mentre il nemico stava davanti a me e io ero ansioso
di combatterlo, tu hai guidato il carro lontano dal campo di battaglia!
Se non mi riporti subito sul posto di combattimento sarò costretto
a concludere che sei stato corrotto dal nemico per macchiare la
mia reputazione". Il pilota spiegò; "Signore! È dovere di un buon
conducente essere consapevole delle condizioni e della forza del
suo padrone, delle condizioni del campo di battaglia, e della forza
e della debolezza del nemico; egli deve sapere quando attaccare
e quando ritirarsi. Considerando tutto questo e vedendo che eri
affaticato, temendo che potessi essere sopraffatto dal nemico, ho
agito solo nel tuo interesse. Quello era il mio dovere. Ora che
mi ordini di riportare il carro in battaglia, lo faro senza indugio,
compiendo il mio dovere verso il mio signore, i cui favori non ho
dimenticato".
Il saggio Agastya apparve sul luogo della battaglia insieme agli
dèi, e vedendo che Rama era stanco per il lungo combattimento con
Ravana, gli disse:
"O Rama! Ascolta attentamente questo segreto. È il cuore del sole:
la sua ripetizione costante conduce alla vittoria, ad ogni buon
auspicio e alla distruzione dei nemici. Adora il sole! Egli è l'essenza
stessa di tutti gli dèi, e solo lui protegge tutti gli esseri. Egli
è il controllore dei corpi celesti. Egli è lo splendore degli splendori.
Pregalo così:
"M'inchino ai monti orientali che salutano il sole al mattino e
ai monti occidentali che da lui si congedano la sera. M'inchino
al Signore di tutte le costellazioni e del giorno e della notte.
M'inchino a lui, vittorioso e fausto, il cui successo è di beneficio
al mondo; i cui cavalli verdi indicano la sua generosità e benevolenza.
M'inchino a lui, feroce e coraggioso, che avanza nello spazio raccogliendo
l'essenza di tutti gli elementi del mondo fenomenico. M'inchino
all'entusiasmo che ispira il sole, alla cui presenza si schiudono
i fiori di loto. M'inchino al Signore creatore, sostenitore e distruttore;
alla personalità effulgente, eminente e colta che tutto consuma,
e che guarda furente e minaccioso al male. M'inchino al Signore
della luce, distruttore delle tenebre e della nebbia; al dio di
gratitudine immensa, il cui splendore nuoce solo a chi gli è ingrato.
M'inchino a colui che splende come l'oro fuso, il cui volto infuocato
nasconde un cuore generoso; a colui che ha formulato e segue le
leggi dell'intera creazione, e le dona luce disperdendo le tenebre".
"Il sole, o Rama, è il creatore e il distruttore di tutto, sveglio
anche in chi dorme, signore di tutte le azioni. Colui che adora
il sole non dispera, ma supera le paure e le calamità. Ora stesso
tu vincerai Ravana". Detto questo, Agastya si ritirò. Rama sorseggiò
dell'acqua, guardò il sole, recitò la preghiera e avanzò contro
Ravana con il cuore colmo di gioia.
Nel frattempo il pilota di Ravana aveva riportato il carro sul campo
di battaglia. Rama disse a Matali: "Ti prego, stai calmo e attento,
perché è giunto il momento di uccidere il demone. È vitale che tu
non sia confuso o preso dall'ansia, ma guidi con attenzione e destrezza.
Sono sicuro che essendo il pilota di Indra, non hai bisogno che
ti dica queste cose. Tuttavia te le ricordo non per ammonirti, ma
perché tutto il mio essere è concentrato in questo combattimento!".
La battaglia finale tra Rama e Ravana cominciò. Ravana vide moltissimi
cattivi presagi. Rama vide molti buoni e fausti auspici. Conoscendone
il significato, Rama fu felice; e questo accrebbe molto la sua forza
e il suo valore.
Quando Rama e Ravana cominciarono a combattere, i loro eserciti
rimasero stupiti a guardarli! Rama era determinato a vincere. Ravana
era sicuro di morire. Sapendo questo, essi combatterono con tutta
la loro energia. Ravana mirò allo stendardo sul carro di Rama; e
Rama tirò similmente allo stendardo di Ravana. Ma mentre quello
di Ravana cadde, quello di Rama restò in alto. Poi Ravana mirò ai
'cavalli' (motori) del carro di Rama; ma nonostante li attaccasse
con tutte le sue forze, essi rimasero intatti.
Tutti e due usarono migliaia di missili, che illuminarono lo spazio
e vi crearono quasi un nuovo cielo! Ambedue erano precisi e i loro
missili colpivano immancabilmente il bersaglio. Con zelo incessante,
essi si combatterono senza mostrare il minimo segno di stanchezza.
Quello che faceva l'uno, per contro faceva anche l'altro.
Ravana tirò a Matali, che però rimase illeso; poi lanciò una pioggia
di mazze e magli contro Rama. Lo stesso suono che produssero agitò
gli oceani e tormentò le creature acquatiche. Gli esseri celesti
e i santi brahmana che guardavano pregarono: "Possa la buona sorte
arridere a tutti gli esseri viventi, possa il mondo durare per sempre.
Possa Rama vincere Ravana". Stupiti dal modo in cui si combattevano
Rama e Ravana, i saggi dicevano: "Il cielo è come il cielo, l'oceano
è come l'oceano; il combattimento tra Rama e Ravana è come Rama
e Ravana: incomparabile".
Prendendo un missile potente, Rama mirò preciso alla testa di Ravana,
che cadde. Ma un'altra cesta apparve al suo posto. Ogni volta che
Rama recideva la testa di Ravana, ne appariva un'altra! Rama era
perplesso. Il suo auriga Matali gli disse: "Perché combatti come
un comune guerriero, Rama? Usa il missile di Brahma. L'ora della
morte del demone e giunta", Rama si ricordò del missile di Brahma
che gli aveva dato il saggio Agastya. Esso aveva come 'ali' il potere
del dio del vento, come testa il potere del fuoco e del sole; l'intero
spazio era il suo corpo; aveva il peso di una montagna e brillava
come il sole o il fuoco di nemesi. Quando Rama lo prese nelle sue
mani, la terra tremò e tutti gli esseri viventi furono terrorizzati.
Infallibile nel suo potere distruttivo, quest'arma di distruzione
estrema mandò in frantumi il petto di Ravana ed entrò profondamente
nella terra.
Ravana cadde morto. I demoni superstiti fuggirono, inseguiti dai
vanara. I vanara urlarono in gran giubilo. L'aria risuonò dei tamburi
celesti. Gli dèi lodarono Rama. La terra tornò calma, il vento soffiò
dolcemente e il sole tornò a splendere come prima, Rama fu circondato
dai potenti eroi e dagli dèi, che si congratularono con lui per
la vittoria.
Vedendo Ravana giacere a terra morto, Vibhishana scoppiò in lacrime.
Sopraffatto dall'affetto fraterno, si lamentò: "Ahimè, quello che
avevo predetto si è avverato. Tu non hai accolto il mio consiglio,
preso com'eri dalla lussuria e dall'illusione. Ora che sei andato
via, anche la gloria di Lanka è andata via con te. Tu eri come un
albero fermamente radicato nell'eroismo, che aveva come forza l'ascetismo
e manifestava fermezza in ogni aspetto della tua vita: eppure sei
stato abbattuto. Tu eri come un elefante di grande splendore e nobile
dinastia, pieno d'indignazione e affabilità: eppure sei stato ucciso.
Tu, che eri come un fuoco ardente, sei stato estinto da Rama", Rama
s'avvicinò all'affranto Vibhishana e con amore e gentilezza gli
disse: "Non è giusto che ti dolga così per un potente guerriero
caduto in battaglia. La vittoria non è monopolio di alcuno: un eroe
o viene ucciso in battaglia o uccide il suo avversario. Perciò i
nostri antichi saggi decretarono che non bisogna piangere per un
guerriero ucciso in combattimento . Alzati e pensa a cosa bisogna
fare adesso".
Vibhishana riacquistò la sua compostezza e disse a Rama: "Ravana
dava molto in carità agli asceti; si godeva la vita; teneva bene
i suoi servi; divideva le sue ricchezze con gli amici, e distruggeva
i suoi nemici. Era regolare nelle sue osservanze religiose e conosceva
bene le Scritture. Con la tua grazia, Rama, vorrei celebrare il
suo funerale secondo le Scritture, per il suo benessere nell'altro
mondo".
Rama fu contento e rispose: "L'ostilità termina con la morte. Fai
pure le debite preparazioni per il rito funebre. Egli è tanto tuo
fratello quanto mio".
Le cortigiane e le mogli di Ravana, udendo della sua morte, corsero
fuori del palazzo e, giunte sul campo di battaglia, si rotolarono
a terra in preda all'angoscia.
Piangendo sopraffatte dal dolore, esse manifestarono i loro sentimenti
in diversi modi strazianti: "Ahimè, colui che non poteva essere
ucciso in battaglia né dagli dèi né dai demoni è stato ucciso da
un uomo di questa terra! Nostro amato signore! Certo quando hai
rapito Sita e l'hai portata a Lanka, hai invitato la tua morte!
E siccome la tua morte era alle porte, non hai ascoltato il saggio
consiglio di Vibhishana, e l'hai trattato male ed esiliato. Anche
dopo, se avessi restituito Sita a Rama, questa cattiva sorte non
si sarebbe abbattuta su di te. Tuttavia ora non sei morto perché
facevi quello che desideravi, o perché ti facevi prendere dalla
lussuria; la volontà di Dio fa fare alle persone diverse azioni.
Muore chi viene ucciso dalla volontà divina. Nessuno può sfuggire
alla volontà divina, nessuno può comprarla o corromperla".
Inconsolabile nel suo dolore, Mandodari, la moglie di Ravana, si
lamentò; "Signore, nessuno nei tre mondi poteva conquistarti. Neanche
Indra e gli dèi potevano affrontarti: com'è possibile che un mero
mortale ti abbia ucciso? Di sicuro questo Rama non è altri che l'Essere
Supremo, senza inizio, mezzo o fine, il più grande tra i grandi,
eterno e inamovibile. Egli ha preso questa forma umana per il bene
di tutti gli esseri. Circondato da dèi nelle sembianze di vanara,
avendo prima conquistato i sensi, ora egli ti ha ucciso. Ciò era
evidente fin da quando uccise Khara, e quando Hanuman devastò Lanka
per grazia sua. Ahimè, condannato dal destino hai cercato di sedurre
Sita. In quell'occasione non sei stato ridotto in cenere perché
il dio del fuoco aveva paura di te. Ma non si può sfuggire alle
conseguenze delle proprie azioni. Vibhishana, che prese rifugio
in Rama, ora gode di buona fortuna, mentre tu che hai peccato contro
di lui sei morto. Non era necessario per te cercare Sita: ella non
mi è affatto pari in bellezza, discendenza o cultura. Ma cercando
lei, tu cercavi la tua morte. Ahimè, come andavamo felici sulle
montagne: ora il tuo bel corpo è stato distrutto dai missili di
Rama. È difficile credere che tu che eri il terrore di dèi, demoni,
saggi e asceti, e adepto nella magia, abbia potuto fare questa fine.
Ora sei partito, portando con te il tuo karma; ma noi restiamo sole.
Certo il mio cuore è duro: come posso vivere quando tu sei morto?
Guarda come noi vedove siamo uscite di corsa dai nostri appartamenti
senza i veli: come mai non sei adirato per questo? Ho sentito dire
che le lacrime di una moglie fedele non sono mai versate invano:
le lacrime versate da Sita hanno causato la tua fine. Le maledizioni
di tutte le caste donne da te molestate hanno prodotto questo frutto
amaro". Mentre continuava a lamentarsi, le altre donne cercarono
di consolarla: "Orsù, non disperare. Non sai che le fortune dei
re sono fugaci?".
Rama invitò Vibhishana a celebrare i riti funebri. Vibhishana pensava:
"Ravana era malvagio, e se io lo onorassi celebrando i suoi riti
funebri, il popolo mi guarderebbe con disprezzo". Ma Rama ribadì
il suo pensiero: "L'ostilità termina con la morte. Egli è tanto
tuo fratello quanto mio. Che i riti procedano".
I brahmana che conoscevano le ingiunzioni delle Scritture prepararono
la pira funeraria seguendo strettamente le regole vediche. Verso
la fine del rito, Vibhishana diede fuoco alla pira funeraria.
Tutti tornarono in città. Quando le donne di corte rientrarono nel
palazzo, Vibhishana restò in piedi vicino a Rama, guardandolo umilmente.
Rama aveva deposto la sua arma e i missili una volta per sempre,
ed era tornato dolce e gentile come prima.
[NOTA: La menzione specifica di brahmana e anche di riti vedici
mostra che i demoni non erano esseri distinti dagli umani, ma che
solo il loro comportamento era diabolico.]
Rama fece ritorno all'accampamento dove stazionavano le truppe vanara.
Quindi si rivolse a Lakshmana dicendo: "Fratello, installa Vibhishana
sul trono e consacralo re di Lanka. Egli mi ha reso un servizio
inestimabile e desidero vederlo subito sul trono di Lanka".
Senza perdere un attimo, Lakshmana fece i preparativi necessari
e con l'acqua dell'oceano consacrò Vibhishana re di Lanka, seguendo
strettamente le ingiunzioni delle Scritture. Rama, Lakshmana e gli
altri gioirono. I capi dei demoni portarono i loro tributi e li
offrirono a Vibhishana, che a sua volta li pose ai piedi di Rama.
Rama disse ad Hanuman: "Con il permesso di re Vibhishana, ti prego
di andare a informare Sita della morte di Ravana e che io e Lakshmana
stiamo bene". Hanuman parti subito per il boschetto di asoka. L'addolorata
Sita fu felice di vederlo. Con le mani giunte, Hanuman riferì il
messaggio di Rama e aggiunse: "Rama vuole che ti dica che non devi
avere più paura, perché ora che Vibhishana è re di Lanka sei come
a casa tua".
Per un attimo Sita fu senza parole, poi disse. "Sono felice del
messaggio che mi hai portato, Hanuman. Non trovo parole. Mi dispiace
che adesso non ho nulla per ricompensarti; né alcun dono sarebbe
all'altezza delle meravigliose notizie che mi hai portato".
Hanuman rispose umilmente: "Signora, le stesse parole da te pronunciate
sono più preziose di tutti i gioielli del mondo! Mi considero supremamente
beato di aver visto la vittoria di Rama e la morte di Ravana". Ancora
più felice, Sita disse; "Solo tu, Hanuman, puoi pronunciare parole
tanto dolci, ricco come sei di tantissime qualità. Davvero tu sei
dimora di molte virtù", Hanuman disse: "Ti prego, dammi il permesso
di uccidere queste demonesse che ti hanno a lungo tormentato". Sita
rispose; "No, Hanuman, esse non sono responsabili delle loro azioni,
perché hanno solo obbedito agli ordini del loro padrone. È stato
il mio cattivo destino che mi ha fatto soffrire per mano loro. Perciò
le perdono. L'uomo nobile non riconosce il male fattogli dagli altri;
e non si vendica mai, perché egli è l'incarnazione della bontà.
Bisogna essere compassionevoli con tutti, buoni e cattivi, e anche
con coloro che meriterebbero la morte: chi è libero da peccato?".
Commosso dalle parole di Sita, Hanuman disse "Davvero tu sei la
nobile consorte di Rama, a lui pari in virtù e nobiltà. Ti prego
di darmi un messaggio da portare a Rama". Sita rispose: "Ti prego
di dirgli che desidero ardentemente vedere il suo volto". Assicurandole
che lo avrebbe visto quel giorno stesso, Hanuman tornò da Rama.
Hanuman riferì il messaggio di Sita a Rama, che volgendosi a re
Vibhishana disse: "Ti prego, porta al più presto Sita da me, dopo
che avrà fatto un bagno e si sarà adornata". Vibhishana andò subito
da Sita e la fece portare da Rama seduta in un palanchino. Vanara
e demoni l'attorniarono, ansiosi di vederla. Secondo la tradizione,
Vibhishana voleva che nessuno vedesse Sita; perciò fece allontanare
tutti. Fermandolo, Rama disse: "Perché li rimproveri, Vibhishana?
Né case né vestiti né mura fungono da velo per una donna; solo il
carattere è il suo velo. Che scenda dal palanchino e cammini verso
di me". E così ella fece.
Rama disse duramente: "Sita, il mio scopo è stato raggiunto. Tutti
hanno visto il mio valore. Ho adempiuto la mia promessa. La malvagità
di Ravana è stata punita. L'impresa straordinaria di Hanuman ha
dato frutto. La devozione di Vibhishana è stata ricompensata". Il
cuore di Rama era in conflitto, timoroso com'era dello scherno pubblico.
Perciò continuò: "Desidero che tu sappia che tutto questo non è
stato fatto per te, ma per mantenere il mio onore. La tua condotta
è aperta al dubbio, perciò anche la tua vista mi è spiacevole. Il
tuo corpo è stato toccato da Ravana: e come potrei toccarti io,
che appartengo a una nobile famiglia? Perciò ti permetto d'andare
dove vuoi e di vivere con chi vuoi: Lakshmana, Bharata, Satrughna,
Sugriva o anche Vibhishana. Mi è difficile credere che Ravana, che
ti desiderava tanto, sia stato capace di tenersi lontano da te per
tanto tempo".
Sita fu scossa. Le parole di Rama ferirono il suo cuore. Le sue
guance s'inondarono di lacrime. Asciugandole, ella rispose: "O Rama,
tu mi parli nel linguaggio di un uomo comune e volgare che parla
a una donna comune. Quello che era sotto il mio controllo, il mio
cuore, è stato sempre tuo. Come potevo impedire che il mio corpo
fosse toccato quando ero indifesa e sotto il dominio di un altro?
Ah, se solo mi avessi fatto sapere del tuo sospetto quando Hanuman
è venuto a cercarmi, mi sarei tolta la vita allora e ti avrei risparmiato
tutti questi guai e il rischio implicito nella guerra". Rivolgendosi
al cognato, ella disse: "Accendi il fuoco, Lakshmana: è l'unico
rimedio. Non vivrò sopportando questa calunnia".
Lakshmana guardò Rama e con la sua approvazione accese il fuoco.
Sita pregò: "Se il mio cuore è stato sempre devoto a Rama, che il
fuoco mi protegga. Se sono stata fedele a Rama in pensieri, parole
ed opere, che il fuoco mi protegga. Il sole, la luna, il vento,
la terra e altri sono testimoni della mia purezza; che il fuoco
mi protegga", Poi ella entrò nel fuoco, come un'oblazione gettata
nel fuoco sacro. Gli dèi e i saggi erano testimoni. Le donne che
guardavano si misero a urlare.
Rama fu commosso fino alle lacrime dalle urla strazianti delle donne
che assistevano all'auto-immolazione di Sita. Intanto tutti gli
dèi, compresa la Trinità - il Creatore, il Conservatore e il Redentore
(o il Trasformatore) - giunsero sul posto nelle loro forme personali.
Salutando Rama, essi dissero: "Tu sei l'eccelso tra gli dèi, e tuttavia
tratti Sita come se fossi un comune essere umano!".
Rama rispose alle divinità: "Io mi considero un essere umano, Rama,
figlio di Dasaratha. Chi io sia e da dove provenga, potete dirmelo
voi!".
Brahma, il Creatore, disse: "In verità tu sei il Signore Narayana.
Tu sei l'Essere cosmico imperituro. Tu sei la verità. Tu sei eterno,
Tu sei il Dharma supremo dei mondi. Tu sei il padre di Indra, il
re degli dèi. Tu sei il solo rifugio dei santi e degli esseri perfetti.
Tu sei l'Om, tu sei lo spirito del sacrificio. Tu sei l'essere cosmico
che ha infinite teste, mani e occhi. Tu sei il sostegno dell'intero
universo. L'intero universo è il tuo corpo. Sita è Lakshmi e tu
sei il Signore Vishnu, che è di colorito scuro ed è il creatore
di tutti gli esseri. Tu sei entrato in un corpo umano per distruggere
Ravana. Tu hai realizzato pienamente il nostro scopo. È una benedizione
essere alla tua presenza; è una benedizione cantare le tue glorie.
Sono veramente beati quelli che ti sono devoti, poiché la loro vita
sarà colma di successo". Non appena Brahma terminò di parlare, il
dio del fuoco emerse dalle fiamme nella sua forma personale, sostenendo
Sita con le sue mani. Sita brillava di tutto il suo splendore. Il
dio del fuoco, testimone di tutto ciò che accade nel mondo, disse
a Rama: "Ecco la tua Sita, Rama. Io non trovo alcuna colpa in lei.
Ella non ha errato, in pensieri, parole o opere. Anche durante il
suo lungo periodo di detenzione nella dimora di Ravana, ella non
lo ha neanche pensato, poiché nel suo cuore c'eri sempre e solo
tu. Accettala: non trattarla duramente e non nutrire il minimo dubbio
su di lei".
Estremamente felice di come erano andate le cose, Rama disse: "In
verità, ero pienamente consapevole della purezza di Sita. Neanche
il potente e malvagio Ravana poteva mettere le mani su di lei con
cattive intenzioni. Tuttavia questo battesimo con il fuoco è stato
necessario, per evitare le calunnie e lo scherno del popolo; perché
sebbene fosse pura, ella ha vissuto a Lanka per molto tempo. Io
sapevo anche che Sita non mi sarebbe mai stata infedele: poiché
noi non siamo differenti l'uno dall'altra, come il sole e i suoi
raggi. Perciò per me è impossibile rinunciare a lei".
Detto ciò, Rama fu felicemente riunito a Sita.
Poi il signore Shiva disse a Rama: "Tu hai compiuto un'impresa difficilissima.
Ora guarda tuo padre, l'illustre re Dasaratha, che appare nel firmamento
per benedirti e salutarti."
Rama e Lakshmana videro quel grande monarca, loro padre, avvolto
in un abito di purezza luminoso del proprio splendore. Ancora seduto
nel suo veicolo celeste, Dasaratha sollevò Rama e, ponendoselo in
grembo, l'abbracciò teneramente e disse: "Né il paradiso né l'omaggio
degli dèi è per me tanto piacevole quanto rivedere te, Rama. Sono
felice di vedere che hai completato con successo il periodo del
tuo esilio e che hai distrutto tutti i tuoi nemici. Ancora adesso
le crudeli parole di Kaikeyi mi tormentano il cuore; ma rivedendoti
e abbracciandoti, quel dolore svanisce. Mantenendo la mia parola,
tu mi hai salvato. Solo ora riconosco che sei la Persona Suprema
incarnatasi in questo mondo come essere umano per uccidere Ravana".
Rama disse; "Ricordi che dicesti a Kaikeyi 'Io ripudio te e tuo
figlio'? Ti prego, ritira quella maledizione, perché essa non affligga
Kaikeyi e Bharata". Dasaratha fu d'accordo. Poi egli si rivolse
a Lakshmana: "Sono contento di te, figlio mio; tu hai guadagnato
un grande merito con il servizio fedele reso a Rama".
Infine re Dasaratha disse a Sita: "Amata figlia mia, non prendertela
per la prova del fuoco alla quale Rama ti ha costretto a sottoporti:
essa era necessaria per rivelare al mondo la tua assoluta purezza.
Con la tua condotta sei stata esaltata sopra tutte le donne". Dopo
avere parlato con loro, Dasaratha ascese in cielo.
Prima di congedarsi da Rama, Indra pregò: "La nostra visita a te
non dev'essere infruttuosa, Rama. Comandami, cosa posso fare per
te?". Rama rispose: "Se davvero sei compiaciuto di me, allora prego
che tutti i vanara che hanno dato la loro vita per me possano tornare
a vivere. Desidero vederli allegri e vigorosi come prima. Desidero
anche vedere il mondo intero fertile e prosperoso".
Indra rispose: "Questa è davvero una cosa molto difficile; tuttavia
non ritiro la mia parola, e quindi esaudirò la tua preghiera. Tutti
i vanara torneranno in vita nelle loro forme di prima, con tutte
le ferite sanate . E come tu hai chiesto, il mondo sarà fertile
e prosperoso". In quell'istante tutti i vanara risuscitarono dai
morti e s'inchinarono a Rama. Gli altri che erano testimoni furono
pieni di meraviglia, e gli dèi videro che Rama aveva avuto appagati
tutti i suoi desideri. Infine gli dèi fecero ritorno alle loro rispettive
dimore.
Vibhishana s'avvicinò a Rama e gli disse: "Ti prego, Rama, ti è
stato preparato un bagno, e anche vestiti e ornamenti da indossare".
Rama però rispose: "Che me ne faccio di bagno, vestiti e ornamenti,
se prima non vedo il nobile Bharata? O Vibhishana, puoi trovare
un modo che ci consenta di tornare rapidamente ad Ayodhya?".
Vibhishana rispose: "Certamente, Rama. Farò in modo che possiate
tornare ad Ayodhya in un solo giorno. Abbiamo qui il velivolo celeste
chiamato Pushpaka che mio fratello Ravana strappò con la forza a
Kubera, il dio della prosperità. Ora è in mio possesso, ma al tuo
servizio. Esso somiglia ad una nuvola e come una nuvola è capace
di volare nel cielo; con esso potrai raggiungere facilmente Ayodhya
senza alcun problema".
Vibhishana fece portare subito l'aeromobile chiamato Pushpaka. Questo
era come un grande palazzo; splendente come il sole, fatto interamente
di oro e diamanti. Persino Rama rimase senza parole nel vederlo.
Poi Rama disse a Vibhishana: "Tutti questi vanara, e altri, ti hanno
aiutato a portare a compimento la tua grande missione . Perciò è
giusto che li onori e li ricompensi con ricchezze e gioielli".
Vibhishana fece secondo il desiderio di Rama. Dopo avere assistito
alla distribuzione dei doni, Rama si preparò a partire per Ayodhya.
Prima di salire a bordo del velivolo egli si rivolse ai capi vanara
riuniti: "Voi mi avete considerato come vostro amico, e mi avete
reso un grandissimo servizio. Ora potete tornare alle vostre dimore.
O Sugriva, anche tu ora puoi tornare a Kishkindha accompagnato dalle
tue truppe. Vibhishana, ti prego, consolida il regno di Lanka, che
adesso è tuo. Con il vostro permesso, faccio ritorno ad Ayodhya".
A nome dei capi vanara e dei principali demoni, Víbhishana espresse
a Rama il loro desiderio: "Anche noi, Rama, desidereremmo accompagnarti
ad Ayodhya. Siamo tutti desiderosi di assistere alla tua incoronazione.
Inoltre vorremmo tributare personalmente i nostri omaggi a madre
Kausalya. Per favore, esaudisci la nostra preghiera".
Felice di udire questo, Rama rispose: "Certamente, il vostro desiderio
aumenta la mia gioia e intensifica la mia delizia. Il mio ritorno
ad Ayodhya circondato da tutti i miei amici, aumenterà la gioia
e la felicità di Bharata e di tutti coloro che ci stanno aspettando".
Felici di avere avuto il permesso di Rama, Sugriva e i capi vanara,
e anche Vibhishana e i suoi ministri, salirono a bordo del magnifico
aeromobile Pushpaka.
Con il permesso di Rama, l'aeromobile Pushpaka decollò emettendo
un forte boato. Sorvolando la città di Lanka, il campo di battaglia
e altri luoghi, Rama li indicò a Sita dicendo; "Guarda la città
di Lanka costruita in cima al monte Trikuta!". In tal modo egli
continuò a indicarle tutti i punti principali sopra i quali volavano.
Mentre stavano sorvolando il territorio di Kishkindha. Sita disse
a Rama: "Signore, mi piacerebbe tornare ad Ayodhya in compagnia
delle mogli di Sugriva e degli altri capi vanara".
Rama ordinò che l'aeromobile atterrasse e quindi disse a Sugriva:
"Fa' che le mogli dei capi vanara salgano a bordo il più presto
possibile così che anche loro ci accompagnino ad Ayodhya". Sugriva
annunciò la bella notizia alle donne di Kishkindha; "Noi tutti saremo
testimoni del trionfante rientro di Rama ad Ayodhya". Senza alcun
indugio esse salirono a bordo, e l'aeromobile decollò di nuovo.
Rama continuò a mostrare a Sita i diversi luoghi visitati nel corso
del suo peregrinare. Il monte Rshyamuka, il lago Pampa, l'eremitaggio
di Sabari, la foresta Janasthana dove Sita era stata rapita, e anche
il luogo dov'era caduto Jatayu. Egli mostrò anche a Sita il loro
eremitaggio.
Più in là le mostrò il fiume Godavari, l'eremitaggio di Agastya,
gli eremitaggi di Sarabhanga e Sutikshna e quello del saggio Atri;
le fece vedere Citrakuta, dove Bharata era andato a incontrarlo,
l'eremitaggio di Bharadvaja, il fiume Gange e la dimora di Guha.
Infine, indicandole Ayodhya, Rama disse: "Ecco laggiù Ayodhya! Ti
prego, Sita, inchinati ad Ayodhya, ora che vi sei ritornata sana
e salva".
Però ancor prima di raggiungere Ayodhya, Rama atterrò vicino all'eremo
del saggio Bharadvaja, s'inchinò a lui e chiese notizie di Bharata
e degli altri membri della famiglia ad Ayodhya.
Bharadvaja disse; "Vestito come un asceta, Bharata attende con ansia
il tuo ritorno, venerando i tuoi sandali posti sul trono. Tutti
stanno bene ad Ayodhya". Inoltre il saggio rivelò di conoscere già
tutto quello che era successo a Rama a partire dal loro ultimo incontro.
"Allora ero triste di vederti andare nella foresta; ora sono felice
di vederti tornare al tuo regno", disse il saggio, e aggiunse: "Esprimi
un desiderio, Rama, e io lo esaudirò".
Rama chiese: "Possano tutti gli alberi sul nostro cammino dare frutto,
anche se questa non è la loro stagione. E che lungo la nostra strada
ci sia abbondanza di miele". Il saggio disse: "E così sia". E subito,
meraviglia delle meraviglie, tutti gli alberi nelle vicinanze si
coprirono di frutti e miele. Tutti i vanara ne godettero a sazietà.
Per volere del saggio, Rama trascorse un giorno nel suo eremo.
Benché Rama avesse accettato con piacere di trascorrere un giorno
all'eremo del saggio Bharadvaja, egli era molto preoccupato per
Bharata e considerò seriamente cosa fare.
Fatto avvicinare Hanuman, Rama gli disse: "Ti prego, Hanuman, recati
immediatamente a Sringaverapura. Là incontrerai Guha, che è un mio
grande amico, a me molto caro. Egli ti indicherà la strada per Ayodhya.
Arrivato ad Ayodhya incontra Bharata e raccontagli tutto quello
che mi è successo dal mio incontro con lui quattordici anni fa fino
ad ora. Ti prego inoltre d'informarlo che domani arriverò ad Ayodhya,
insieme a Sugriva e a Vibhishana. Ti prego di notare con molta attenzione
quale sarà la sua reazione alla notizia che gli darai. Osserva ogni
suo gesto e ogni espressione del suo volto. Nota se la notizia Io
rende felice o se invece lo rattrista. É molto difficile per uno
che ha goduto dei poteri del regno non essere influenzato dal desiderio
di mantenerli. Se sentirai che Bharata vorrà continuare a regnare,
sarò felicissimo di fargli governare il mondo intero".
Con le benedizioni di Rama, Hanuman partì immediatamente per Sringaverapura.
Là incontrò Guha, e dopo essersi presentato gli comunicò la lieta
notizia del ritorno di Rama.
Hanuman riprese il suo volo e raggiunse il piccolo villaggio di
Nandigrama, non lontano dalla città di Ayodhya. Là vide il nobile
Bharata, l'immagine stessa del dolore e dell'angoscia, che vestito
con indumenti ascetici conduceva una vita estremamente austera.
Avvicinandosi a lui con le mani giunte, Hanuman disse a Bharata,
che ben conosceva il Dharma e appariva come l'incarnazione stessa
del Dharma: "Il beato Rama sta bene e chiede di te. Presto lo vedrai
qui". Bharata svenne dalla gioia. Quando riprese i sensi versò lacrime
di gioia e disse ad Hanuman: "Che tu sia un uomo o un dio, certo
sei venuto qui mosso a compassione verso di me". Poi offrì ad Hanuman
migliaia di vacche ed altre cose come dono di gioia.
Bharata gli chiese: "Ti prego, raccontami tutto. Come ha fatto Rama
a ottenere l'amicizia dei vanara, e cosa avvenne dopo?". Per rispondere
a quella domanda, Hanuman raccontò brevemente a Bharata l'intera
storia di Rama. E concluse: "Su richiesta del saggio Bharadvaja,
Rama ha deciso di trascorrere un giorno nel suo eremitaggio; per
questo ha inviato me ad annunciarti la buona notizia. Domani - nell'ora
propizia del Pusyayoga - tu vedrai Rama, che ha già raggiunto le
sponde del sacro Gange e ora si trova nell'eremo del saggio Bharadvaja".
Udendo questo, Bharata fu immensamente felice.
Bharata diede subito inizio ai preparativi per l'accoglienza. Egli
istruì Satrughna: "Che in tutti i templi e in tutti i luoghi di
adorazione si offrano agli dèi delle preghiere di ringraziamento,
con fiori fragranti e strumenti musicali".
Senza perdere tempo, Satrughna ordinò che si livellassero e annaffiassero
le strade lungo le quali il corteo reale sarebbe giunto al palazzo,
e che centinaia di militari formassero un cordone per tenerle sgombre.
Ben presto tutti i ministri e migliaia di uomini con elefanti, cavalli
e carri, uscirono per salutare, Rama. Il gruppo della famiglia reale
si recò a Nandigrama guidato dalla stessa regina madre Kausalya,
seduta nel suo palanchino. Quindi seguivano Kaikeyi e tutti gli
altri membri della corte reale.
Da lì, Bharata guidò il corteo tenendo i sandali di Rama sulla testa,
accompagnato dal parasole bianco e dalle altre insegne reali. Bharata
era l'immagine stessa di un asceta e dal suo volto radiava la gioia
che riempiva il suo cuore al solo pensiero del ritorno di Rama nel
regno.
Bharata si guardava ansiosamente intorno, ma non vedeva alcun segno
del ritorno di Rama. Hanuman lo rassicurò: "Ascolta, Bharata, ora
puoi sentire il rombo dell'aeromobile Pushpaka. E guarda la nuvola
di polvere sollevata dai vanara che corrono verso Ayodhya".
"Rama è tornato!" - queste parole furono pronunciate da migliaia
di persone nello stesso tempo. Ancor prima che il Pushpaka atterrasse,
Bharata salutò umilmente Rama, che era seduto nella parte anteriore
dell'aeromobile. Il Pushpaka atterrò. Quando Bharata s'avvicinò,
Rama lo abbracciò e lo pose sul suo grembo. Bharata s'inchinò a
Rama e a Sita, e salutò Lakshmana. Poi abbracciò Sugriva, Jambavan,
Angada, Vibhishana ed altri. Quindi disse a Sugriva: "Noi siamo
quattro fratelli, e con te siamo cinque. Le buone azioni promuovono
l'amicizia, mentre il male è un segno d'inimicizia".
Rama s'inchinò a sua madre, che per il dolore era diventata emaciata,
e portò grande gioia nel suo cuore. Poi s'inchinò pure davanti a
Sumitra e a Kaikeyi. Infine tutti quanti gli dissero: "Benvenuto,
bentornato, Signore".
Ponendo i sandali di fronte a Rama, Bharata disse: "Rama, ecco il
tuo regno, che ho amministrato per te durante la tua assenza. Mi
considero infinitamente benedetto di poter assistere al tuo ritorno
ad Ayodhya. Con la tua grazia, il tesoro è stato da me decuplicato,
e così pure i granai e la forza della nazione". Rama si sentì felice.
Dopo che tutti furono scesi, Rama ordinò che l'aeromobile Pushpaka
fosse restituito al suo vero proprietario, Kubera.
Bharata diede immediatamente inizio alle procedure per l'incoronazione.
Barbieri esperti tagliarono le ciocche intrecciate dal capo di Rama.
Egli fece un bagno cerimoniale e fu vestito con magnifici abiti
e adornato con gioielli reali. Kausalya stessa aiutò le donne vanara
a vestirsi con abiti reali. Tutte le regine vestirono Sita in maniera
adeguata alla grande occasione. Fu portato il cocchio reale, e salendovi
sopra, Rama, Lakshmana e Sita furono portati in trionfo lungo le
strade di Ayodhya, con Bharata stesso che guidava il cocchio. Quando
giunsero a corte, Rama narrò brevemente ai suoi ministri e consiglieri
gli eventi principali del suo esilio, sottolineando in particolare
l'alleanza con il capo vanara Sugriva e le imprese straordinarie
di Hanuman. Egli li informò anche della sua alleanza con Vibhishana.
Su richiesta di Bharata, Sugriva inviò i migliori vanara a prendere
dell'acqua dai quattro oceani e da tutti i fiumi sacri del mondo.
Poi l'anziano saggio Vasishtha diede inizio alle cerimonie connesse
all'incoronazione. Rama e Sita sedettero su un trono fatto interamente
di pietre preziose. Allora l'eccelso tra i saggi consacrò Rama cantando
gli inni vedici appropriati. Dapprima i brahmana, e poi le vergini,
i ministri, i guerrieri e infine gli uomini di commercio versarono
le sacre acque su Rama. Dopo di questo il saggio Vasishtha fece
sedere Rama sul trono d'oro intarsiato di gioielli, e gli pose sul
capo la corona splendente che era stata fatta dallo stesso Creatore
Brahma. Gli dèi ed altri tributarono i loro omaggi a Rama, offrendo
magnifici doni. Anche Rama fece ricchi doni ai brahmana e ad altri,
ivi compresi Sugriva e gli altri capi vanara.
Poi Rama diede a Sita una collana di perle, dicendole: "Puoi darla
a chiunque desideri". Senza alcun indugio Sita diede quel magnifico
dono ad Hanuman.
Dopo aver partecipato all'incoronazione di Rama, i vanara fecero
ritorno a Kishkindha, mentre Vibhishana e i suoi ministri tornarono
a Lanka.
Rama guardò Lakshmana con grande affetto ed espresse il desiderio
che egli regnasse come principe reggente. Lakshmana non rispose,
perché non voleva quell'incarico. Allora Rama nominò Bharata principe
reggente. Da quel giorno Rama governò la terra per moltissimo tempo.
Durante il regno di Rama non vi furono né povertà né crimine né
paure né ingiustizie. Tutti parlavano costantemente di Rama. Il
mondo intero era stato trasformato in Rama. Tutti erano devoti al
Dharma; perché lo stesso Rama era totalmente devoto al Dharma. Egli
regnò per undicimila anni.
L'amministrazione del regno sotto di Rama fu caratterizzata dalla
prevalenza naturale e spontanea del Dharma. La gente era libera
da ogni tipo di paura. Non c'erano vedove nel paese, e il popolo
non era infastidito dai serpenti e dalle bestie feroci, né soffriva
di alcuna malattia. Non c'erano furti né rapine né alcun tipo di
violenza. I giovani non morivano e gli anziani non dovevano celebrare
i riti funebri per loro. Tutti erano felici, tutti erano devoti
al Dharma. Vedendo soltanto Rama in tutti, nessuno faceva del male
a un altro. Le persone vivevano a lungo e avevano molti figli; godevano
di ottima salute e non conoscevano il dolore. Dappertutto la gente
parlava sempre di Rama; il mondo intero appariva come la forma di
Rama. Gli alberi avevano radici imperiture, e davano sempre frutto
ed erano in fiore tutto l'anno. La pioggia cadeva ogniqualvolta
era necessaria. Vi era sempre una piacevole brezza. I brahmana (i
sacerdoti), i guerrieri, gli agricoltori e i commercianti, e anche
gli appartenenti alla classe servile, erano totalmente liberi dalla
cupidigia ed erano gioiosamente dediti ciascuno al proprio Dharma
e al proprio compito nella società. Non vi era falsità nella vita
delle persone, che erano tutte giuste. La gente era dotata di tutte
le qualità desiderabili e tutti avevano il Dharma come luce guida.
Così Rama regnò sulla terra per undicimila anni, circondato dai
suoi fratelli.
Questa sacra epica chiamata Ramayana, e composta dal saggio Valmiki,
promuove il Dharma, la fama, la lunga vita e, nel caso di un re,
la vittoria. Chi l'ascolta sempre viene liberato da tutti i peccati.
Ascoltando la storia dell'incoronazione di Rama, chi desidera figli
li ottiene, e chi desidera la prosperità la ottiene. Il re conquista
il mondo intero, dopo aver vinto i suoi nemici. Le donne che ascoltano
questa storia saranno benedette con figli come Rama e i suoi fratelli.
E anche i loro figli riceveranno il dono di una lunga vita, dopo
aver ascoltato il Ramayana. Chi ascolta o legge questo Ramayana,
con tale atto propizia Rama. Egli si compiace di lui, e Rama è davvero
l'eterno Signore Vishnu.
Lava e Kusa conclusero: "Questa è la gloriosa epica del Ramayana.
Che tutti possano recitarla, accrescendo così la gloria del Dharma,
del Signore Vishnu. Gli uomini giusti dovrebbero ascoltare regolarmente
questa storia di Rama, che accresce la salute, la lunga vita, l'amore,
la saggezza e la vitalità".
OM TAT SAT
FINE DEL YUDDHA KANDAM
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Libro
settimo: UTTARA KANDAM -Dopo l'incoronazione
Durante il regno di Rama, un giorno si recò da lui una delegazione
di parecchi grandi saggi, con a capo Agastya. Il grande saggio disse
alla guardia del palazzo: "Ti prego, fa' annunciare a Rama che noi
Rishi desideriamo vederlo". Per ordine di Rama, i Rishi furono immediatamente
condotti alla sua presenza.
Il re ricevette i saggi con l'onore dovuto. Dopo aver preso posto
nella corte reale, essi dissero a Rama: "Noi stiamo bene e siamo
felici, e siamo contenti di vedere che anche tu, Rama, stai bene
e sei felice. Per fortuna hai ucciso Ravana, il nemico del mondo.
Non c'è da stupirsi che tu abbia ucciso Ravana; quando prendi le
armi tu sei capace di conquistare i tre mondi. Siamo particolarmente
felici per la morte del figlio di Ravana. Quando abbiamo saputo
della morte di Indrajit, che per tutti gli altri esseri dell'universo
era invincibile, abbiamo gioito; e per questo ti offriamo le nostre
più fervide felicitazioni. Invero quella è stata l'impresa più lodevole:
con essa hai liberato tutti noi da una grande paura". Rama chiese:
"Vi prego, saggi, ditemi perché considerate la vittoria su Indrajit
ancora più lodevole di quella su Ravana? Come fece a diventare così
potente?".
I saggi risposero: "Prima di narrarti la storia di Indrajit, dobbiamo
narrarti quella di Ravana. Ascolta, o Rama. Durante il Satya Yuga
(l'età dell'oro) c'era un saggio brahmano chiamato Pulastya. Egli
era figlio di Dio e pari al Creatore Brahma. Praticò intense austerità
nell'eremitaggio di Trinavindu. In quei giorni, le figlie dei saggi
e dei semidèi solevano giocare nelle vicinanze dell'eremitaggio.
Questo disturbava le austerità di Pulastya, che pronunciò una maledizione:
"Chiunque s'avvicinerà a me rimarrà incinta".
"Tutte coloro che sapevano della maledizione evitavano di andargli
vicino. Ma la figlia del saggio reale Trinavindu non ne era a conoscenza.
Un giorno ella andò in cerca delle sue amiche. Pulastya era impegnato
nella recitazione dei Veda, e la ragazza sedette vicino a lui per
ascoltare. Ben presto ella notò che in lei stava avvenendo un cambiamento.
Spaventata, corse da suo padre e in risposta alle sue domande gli
raccontò l'accaduto. Allora Trinavindu la portò da Pulastya e gliela
offrì in matrimonio dicendo: "O santo, quando sarai stanco per le
tue austerità, ella ti conforterà".
"Pulastya l'accettò, e lei lo servì con grande amore e devozione.
Compiaciuto, il saggio le disse: "Sono felicissimo del tuo servizio
devoto. Perciò ti benedico con questa grazia: darai alla luce un
figlio a me pari sotto ogni aspetto, egli sarà chiamato Paulastya,
e anche Visrava poiché hai concepito mentre ascoltavi la mia recitazione
dei Veda".
"La moglie di Pulastya diede presto alla luce un figlio a cui fu
dato il nome di Visrava. Il saggio Bharadvaja seppe delle nobili
virtù di Visrava e offrì all'asceta la mano di sua figlia.
"Dal loro matrimonio nacque un figlio radioso. Il nonno Pulastya
fu lietissimo della nascita del nipote, al quale diede il nome di
Vaisravana.
"Vaisravana prese la risoluzione di seguire il sentiero della virtù
già da bambino, perché pensò: "Il Dharma è davvero il nobile sentiero,
perciò seguirò il Dharma". E si mise a praticare intense austerità
per mille anni. Il Creatore Brahma si manifestò davanti a lui insieme
a tutti gli dèi e gli chiese di esprimere un desiderio. Vaisravana
disse: "Signore, desidererei essere un protettore del mondo e il
custode della sua ricchezza". Compiaciuto, Brahma gli rispose: "In
verità avevo intenzione di nominare quattro protettori del mondo,
tre dei quali li ho già scelti, e cioè: Yama, Indra e Varuna. Tu
sarai dunque il quarto protettore del mondo, e sarai il custode
della sua ricchezza. Sarai pari agli dèi del cielo". Inoltre Brahma
gli fece dono di un aeromobile, il Pushpaka.
"Vaisravana tornò a casa, andò da suo padre e gli chiese d'indicargli
un posto dove stabilire la sua dimora. Visrava rispose: "Lungo le
rive del Mare Meridionale c'è un monte chiamato Trikuta. In cima
a quel monte il divino architetto Visvakarma costruì per i demoni
una città chiamata Lanka, pari in splendore alla capitale del cielo.
Ma giacché i demoni l'hanno abbandonata per paura del Signore Vishnu,
la città è rimasta disabitata. Penso che dovresti stabilire là la
tua dimora". Il figlio obbedì".
In risposta alla domanda di Rama riguardo all'origine dei demoni,
il saggio Agastya disse: In principio Brahma creò l'acqua, e poi
gli altri esseri. Questi, oppressi dalla fame e dalla sete, implorarono:
"Ti preghiamo, dicci cosa fare". Brahma rispose: "Proteggete con
ogni mezzo". Alcuni dissero: "Noi proteggeremo". Altri risposero:
"Noi adoreremo". "Coloro che hanno detto 'rakshama' (proteggere),
saranno demoni" - disse Brahma - "e coloro che hanno detto 'yakshama'
(adorare), saranno semidèi".
Tra i rakshasa (demoni) ci furono due fratelli: Heti e Praheti.
La nuora di Heti aspettava un bambino. Ella indusse prematuramente
il parto e, abbandonando il bimbo su un monte, andò con il marito
a divertirsi. Il bambino cominciò a piangere. Rudra e Parvati, che
passavano da quelle parti, benedissero il bambino perché diventasse
subito adulto. Parvati decretò: "D'ora in poi le demonesse partoriranno
subito dopo il concepimento dei figli che diventeranno immediatamente
adulti".
Quel bambino era Sukesha, che grazie alla benedizione ricevuta da
Rudra divenne un giovane nobile. A tempo debito un gandharva chiamato
Gramani gli diede in sposa sua figlia Devavati, che in seguito diede
alla luce tre bambini: Malyavan, Sumali e Mali. Questi tre demoni,
venuti a conoscenza dei doni concessi dal Signore a loro padre,
si ritirarono immediatamente nella foresta e praticarono intensissime
austerità.
Compiaciuto, Brahma concesse loro il dono che avevano chiesto: "Desideriamo
essere invincibili, longevi e uniti". Appena realizzarono il pieno
significato del dono che avevano ricevuto, essi divennero impavidi
e cominciarono ad opprimere sia gli dèi che i demoni.
Un essere celeste chiamato Narmada aveva tre figlie, che diede in
matrimonio ai tre demoni; e dalle loro unioni nacquero altri demoni.
Gli dèi e i saggi che venivano tormentati dai demoni chiesero protezione
al Signore Rudra. Ma Rudra rispose: "Io non posso ucciderli, ma
vi darò il mio consiglio. Abbandonando ogni altra attività, andate
dal Signore Vishnu; prendete rifugio in lui. Egli distruggerà certamente
tutti quei demoni".
E così fecero: andarono da Vishnu e gli raccontarono le atrocità
commesse dai demoni. Il Signore li consolò e, dopo aver conferito
loro il dono dell'impavidità, disse: "So già che Sukesha è orgoglioso
di avere ottenuto un dono da Rudra; conosco anche le malefatte dei
suoi tre figli; ma non abbiate timore, vi prometto che li distruggerò
tutti". Gli dèi tornarono nelle loro dimore.
Venuto a conoscenza del piano degli dèi, Malyavan informò gli altri
due fratelli, che però non se ne curarono, sicuri che nessun potere
nell'universo potesse sconfiggerli. Essi giunsero persino a dire:
"Non abbiamo fatto nulla che possa aver causato dispiacere al Signore
Vishnu; certo egli ha perso la testa montato dalla malizia degli
dèi". Perciò decisero di combattere gli dèi.
Migliaia e migliaia di demoni si riunirono a Lanka per far guerra
agli dèi. Salendo sui loro velivoli, e armati fino ai denti con
armi micidiali, tutti quei feroci e potentissimi demoni volarono
verso il cielo (il mondo degli dèi). Guidati dai tre fratelli, essi
invasero la dimora degli dèi lanciando urla furiose.
Il Signore Vishnu venne a sapere dell'invasione e presto apparve
personalmente sul campo di battaglia, impugnando le sue armi divine
e guidando il suo veicolo divino, Garuda, grande quanto una montagna.
Gli dèi e i saggi cantarono le sue glorie. I demoni lo circondarono
ed egli cominciò a colpirli con le sue armi divine.
I demoni si diressero rapidamente verso il sacro monte chiamato
Narayana Giri, scagliandosi contro il Signore Narayana o Vishnu
come gli insetti si scagliano contro una fiamma. Il Signore li sbaragliò
con una pioggia di missili e suonò la sua potente conchiglia. Quel
suono stordì i demoni, che rimasero barcollanti e confusi. Il Signore
Vishnu li distrusse a migliaia.
Sumali venne in aiuto dei demoni e fece loro da scudo contro la
potenza del Signore. Allora il Signore Vishnu si volse contro il
demone e gli staccò gli orecchini e anche i cavalli. Non più sotto
il controllo del demone, i cavalli si misero a correre in diverse
direzioni, come i sensi di un uomo senza autocontrollo.
Mali corse in aiuto del fratello, e vi fu una cruenta battaglia
tra lui e il Signore Vishnu. Un missile del Signore colpì il demone
assorbendone, per così dire, il sangue. Mali colpì Garuda, il veicolo
del Signore, e con grande gioia dei demoni lo costrinse ad allontanarsi
dal campo di battaglia. Non badando alla sconfitta, il Signore Vishnu
lanciò contro Mali il suo disco, che possedeva lo stesso splendore
del sole. Il demone cadde subito esanime.
Dopo la morte di Mali, Sumali e Malyavan si ritirarono dal campo
e si diressero verso Lanka. Nel frattempo Garuda aveva riacquistato
la sua vitalità e con la forza del vento che scaturiva dalle sue
ali spinse i demoni alla disperazione.
Mentre il Signore Vishnu inseguiva i demoni in fuga, Malyavan gli
disse: "Narayana! Non conosci il codice di condotta di un guerriero?
Perché, contraddicendo quel codice, vuoi uccidere coloro che si
sono ritirati dalla battaglia e che quindi non stanno combattendo?".
Il Signore rispose: "Voi siete crudeli, e gli dèi vivono temendovi.
La loro protezione mi è più cara della mia stessa vita. Perciò vi
distruggerò dovunque vi troviate".
Queste parole scatenarono l'ira di Malyavan, che attaccò immediatamente
il Signore con le sue potenti armi. Il Signore ricevette quei missili
e li riscagliò contro lo stesso demone. Gravemente ferito, Malyavan
rimase stordito per un po', pur riacquistando presto le forze. Quindi,
con un potente urlo, egli colpì sia Vishnu che Garuda. Infuriato,
Garuda indirizzò una terribile raffica di vento contro Malyavan
che fuggì a Lanka. E vedendolo ritirarsi, anche Sumali scappò a
Lanka. Incapaci di fronteggiare la potenza suprema del Signore Vishnu,
i demoni guidati da Malyavan e Sumali si ritirarono nel mondo degli
inferi, lasciando Lanka sotto le cure del signore della prosperità.
Ogni volta che sulla terra c'è un declino del Dharma, il Signore
s'incarna per distruggere i demoni e ristabilire il Dharma.
Sumali rifletté a lungo e profondamente sulla sua posizione. Guardando
la bellissima figlia, che era in età da marito, egli si chiedeva
chi avrebbe avuto come sposo. Una ragazza crea molta ansia nelle
famiglie del padre, della madre e del marito: la reputazione di
queste famiglie dipende dalla sua buona condotta. Perciò Sumali
disse alla figlia: "Ti prego, vai da Visrava, il figlio del saggio
Pulastya, e persuadilo tu stessa ad essere tuo marito".
Kaikasi si recò presto dal saggio Visrava, che allora era impegnato
in un grande rituale vedico. Alla conclusione del rito, il saggio
le chiese: "Chi sei e perché sei qui?". La ragazza rispose: "Sono
Kaikasi, figlia di Sumali. Il motivo per cui sono qui, di certo
lo saprai per intuizione". Il saggio si ritirò dentro di sé e, saputo
per quale ragione la ragazza era là, le disse: "Poiché hai cercato
di me in un momento poco propizio, mentre ero impegnato in un rito
terribile, darai alla luce dei figli molto crudeli, ma il tuo ultimo
figlio sarà nobile e virtuoso come me".
A suo tempo Kaikasi diede alla luce un figlio o un mostro con dieci
teste; e il saggio lo chiamò Dashagriva. Poi nacque Kumbhakarna.
Quindi la figlia Surpanakha. Per ultimo nacque il pio Vibhishana.
Essi crebbero rapidamente.
Un giorno Vaisravana (conosciuto anche col nome di Kubera) andò
a trovare suo padre Visrava, e Kaikasi gli presentò Dashagriva.
Il giovane s'ingelosì di Kubera e decise di superarlo in tutto.
Allora i tre ragazzi si misero a praticare austerità. Kumbhakarna
praticò il pancagni-tapas d'estate e restò immerso nell'acqua gelida
d'inverno. Vibhishana rimase in piedi su una gamba per cinquemila
anni. Dashagriva digiunava per mille anni e poi offriva in sacrificio
una delle sue teste; in questo modo egli aveva già sacrificato nove
teste. Mentre stava per offrire la decima, apparve Brahma e offrì
loro un dono: "Esprimete un desiderio, perché i vostri sforzi non
siano vani". Dashagriva disse: "Signore, tutti gli esseri temono
solo la morte. Non esiste nemico come la morte; perciò io chiedo
l'immortalità". Quando Brahma rispose che per le creature è impossibile
non morire, egli chiese di non poter venire ucciso da dèi, semidèi,
demoni, ecc., e sprezzante tralasciò di menzionare l'uomo. Vibhishana
pregò: "Possa la mia mente non deviare dal Dharma, nemmeno di fronte
al più grave pericolo".
Prima di offrire un dono a Kumbhakarna, Brahma chiese alla dea della
parola di far sì che egli non chiedesse qualcosa che avrebbe potuto
causare la distruzione dell'universo. Entrando in lui, la dea intorpidì
la sua mente; ed egli chiese: "Possa io dormire per tantissimi anni".
Brahma concesse loro i doni prescelti.
[NOTA: Il pancagni-tapas è sedere sulla sabbia rovente circondandosi
di fuochi accesi ai quattro lati. Questa storia di Kumbhakarna contraddice
la versione precedente. Molti studiosi pensano che l'intero 'Uttara
Kandam' sia un'interpolazione, un'aggiunta indegna.]
Sumali chiamò Dashagriva e gli disse: "É una fortuna che tu abbia
ottenuto l'ambita invulnerabilità, che certamente ti permetterà
di essere il signore dei tre mondi. Il Signore Vishnu ci costrinse
a lasciare Lanka, ma ora non abbiamo più paura di lui. Lanka appartiene
ai demoni; è il nostro territorio. Dopo la nostra partenza la occupò
tuo fratello Kubera; perciò è giusto che tu la reclami da lui, con
la negoziazione, con la persuasione o, se necessario, con la violenza".
La prima reazione di Dashagriva fu negativa. "Kubera è mio fratello
- disse - come posso combattere contro di lui". Ma Prahasta, un
ministro di Sumali, rispose: "Tra gli eroi non vi è affetto fraterno.
Un tempo c'erano due sorelle, Diti e Aditi, i cui figli erano rispettivamente
demoni e dèi. Poi i fratelli combatterono tra di loro e, con l'aiuto
di Vishnu, gli dèi vinsero e divennero signori dei mondi".
Dashagriva si convinse e inviò lo stesso Prahasta come suo emissario
a reclamare Lanka da Kubera. Senza alcuna esitazione Kubera rispose:
"Lanka mi fu data come dimora da mio padre. Ma torna pure da Dashagriva
e digli che da questo momento Lanka è sua". Così Dashagriva ottenne
Lanka senza combattere. Kubera andò da suo padre Visrava e lo informò
dell'accaduto. Il saggio disse a Kubera: "Sì, Dashagriva me ne ha
accennato, e l'ho rimproverato. Ma dal momento che hai già lasciato
Lanka, vai al Kailash, che sostiene la terra, e vivi là con la tua
gente".
Dashagriva fu incoronato re di Lanka. Poco dopo egli diede sua sorella
Surpanakha in sposa al demone Vidyutjihva. Andando a caccia per
la foresta un giorno Dashagriva incontrò Maya, uno dei figli di
Diti, e gli chiese il motivo del suo vagare. Maya rispose: "A suo
tempo gli dèi mi diedero la ninfa Hema, e con lei ho vissuto felicemente
per molto tempo. Ma circa quattordici anni fa ella mi ha lasciato
per svolgere una missione degli dei. Addolorato per la sua partenza,
vago per la foresta insieme a mia figlia. Da lei ho avuto anche
due figli: Mayavi e Dundubhi". Dashagriva rivelò la sua identità.
Maya gli offrì la mano di sua figlia Mandodari, e Dashagriva l'accettò
con gioia.
Mandodari diede alla luce un figlio che quando nacque pianse così
forte da far tremare Lanka. Per questo Dashagriva lo chiamò Meghanada.
Per il fratello Vibhishana, Dashagriva ottenne come sposa la figlia
del semidio Sailusha, chiamata Sarama. Questa ragazza era nata sulle
rive del lago Manasa. Sua madre aveva ordinato al lago: "Saro ma
vardhata" (Lago, non gonfiarti); perciò alla bambina era stato dato
il nome di Sarama.
E così vissero tutti a Lanka, godendosi la vita.
Su richiesta di Kumbhakarna, Dashagriva fece costruire un palazzo.
Quando fu pronto, Kumbhakarna vi si recò felicissimo ed entrò in
un sonno profondo per un lunghissimo periodo.
Nel frattempo il potente Dashagriva diede inizio alla sua campagna
di distruzione. Egli devastò i giardini e i campi da gioco dei semidèi,
ne sradicò gli alberi e ne inquinò i fiumi.
Il capo dei semidèi, Kubera, venne a sapere dei misfatti di suo
fratello. Pieno di sollecitudine familiare e sperando di dissuaderlo
dal compiere ulteriori malvagità, egli inviò un messaggero alla
corte di Dashagriva. Il messaggero fu ricevuto onorevolmente e amabilmente
dal nobile Vibhishana, che lo presentò a re Dashagriva.
Il messaggero disse: "O re, ho un messaggio per voi da parte di
vostro fratello Kubera. Degnatevi di ascoltarlo mentre lo leggo:
"Io credo sia bene che tu ponga fine alle tue attività distruttive:
hai già fatto abbastanza in questo senso. Penso anche che, se puoi,
dovresti percorrere la via del Dharma. Ho visto la distruzione che
hai arrecato ai giardini celesti. Ho anche sentito dire che hai
ucciso molti saggi e hai tormentato pure gli dèi.
"Tu mi hai scacciato in molte occasioni; tuttavia non si rinnega
un membro della propria famiglia, anche se questi è colpevole di
offese. Mi sono ritirato nell'Himalaya, dove ho praticato intense
austerità. Altamente compiaciuto di me, il Signore Shiva mi è apparso
e mi ha detto 'O signore della prosperità, sono molto compiaciuto
delle tue austerità e della tua devozione. Come frutto delle tue
austerità io ti considero mio carissimo amico. Con la tua devozione
ti sei guadagnato la mia amicizia. D'ora in poi sei mio amico'.
Tornando nella mia dimora, dopo essere stato benedetto dal Signore
Shiva, ho saputo dei tuoi atti distruttivi. Perciò ti supplico d'abbandonare
questa condotta indegna".
Udite le parole del messaggero, Dashagriva andò su tutte le furie
e, stringendo i pugni e digrignando i denti, gridò: "Né tu né lui
siete miei amici. Solo uno stolto si vanterebbe della sua amicizia
con il Signore Shiva. O messaggero, finora pensavo di non dover
fare del male a mio fratello. Ma udite le tue parole e il suo messaggio,
sento che devo abbandonare quest'idea. Sono pronto a conquistare
i tre mondi e a cacciare nella dimora della Morte tutti i protettori
della creazione!".
Detto ciò, Dashagriva tagliò la testa del messaggero e diede il
corpo in pasto ai demoni.
Subito dopo Dashagriva riunì intorno a sé i suoi ministri: Mahodara,
Prahasta, Marica, Suka, Sarana e Dhumraksha. Circondato dalle sue
forze demoniache, egli si diresse verso la dimora di Kubera, con
l'atteggiamento di chi è pronto a dar fuoco al mondo intero. In
poche ore egli raggiunse il luogo chiamato Kailash.
Le sentinelle poste ai confini informarono subito Kubera che suo
fratello Dashagriva aveva invaso il Kailash. Seguì una cruenta battaglia
tra demoni e semidèi.
Quando Dashagriva forzò l'entrata del palazzo, le guardie lo fermarono
e lo colpirono con tutta la loro forza; ma il dono ottenuto dal
Creatore lo rendeva immune a tutto. Quando Dashagriva rispose ai
loro colpi, i semidèi caddero.
Vedendo questo, Kubera mandò il semidio Manibhadra a difendere il
Kailash. Nel frattempo i luogotenenti di Dashagriva avevano ucciso
migliaia e migliaia di semidèi. Visto il modo di combattere leale
dei semidèi e considerata la forza e la slealtà dei demoni - quale
confronto c'era tra le due parti? Manibhadra fu sconfitto.
Facendosi avanti Kubera parlò a Dashagriva, che, illuso dal dono
dell'invincibilità ottenuto dal Creatore, continuava a perpetrare
crimini di ogni genere: "Peccatore! Tu non dai retta al mio saggio
consiglio; ma col tempo realizzerai le cattive conseguenze delle
tue malvagie azioni. Chi offende sua madre, suo padre, i santi e
i precettori, raccoglierà i frutti di tali azioni quando entrerà
nel regno della Morte. Colui che qui non pratica austerità (tapas),
con l'ausilio di questo corpo impermanente, dopo aver lasciato questo
mondo quel folle sarà bruciato (tapyate). Ad ogni modo questo è
certo: ognuno raccoglie inevitabilmente il frutto delle azioni fatte
qui".
Udendo queste parole, i luogotenenti di Dashagriva si ritirarono
dalla battaglia. Ma lo stesso Dashagriva si fece avanti per combattere
contro Kubera. Durante quella battaglia spettacolare, quando Kubera
lanciò il missile del fuoco, Dashagriva lo neutralizzò con il missile
dell'acqua.
Combattendo, Dashagriva assunse varie forme e infine sconfisse Kubera.
Quando Kubera cadde, sconfitto, Dashagriva s'impossessò del suo
veicolo, il Pushpaka (un velivolo spaziale che poteva volare, per
così dire, alla velocità del pensiero, costruito con metalli e pietre
preziose, e resistente al caldo e al freddo), e considerandosi il
conquistatore dei tre mondi s'apprestò a fare ritorno alla sua dimora.
Mentre Dashagriva faceva ritorno a Lanka, d'un tratto il Pushpaka
andò in stallo. Dashagriva rimase perplesso. Vicino al velivolo
apparve: un essere dall'aspetto strano: nano, senza pelo, con gli
arti corti, ma molto potente. Era Nandi, il veicolo divino del Signore
Shiva.
Nandi si rivolse al re dei demoni: "Torna indietro, Dashagriva.
Su quel monte laggiù sta giocando il Signore Shiva. Nessuno può
andare oltre questo limite". Udendo queste parole e guardando l'aspetto
della strana creatura, Dashagriva rise deridendolo.
Adirato, Nandi maledì Dashagriva con queste parole: "Mi hai trattato
con disprezzo perché ho la faccia di un vanara. Perciò, per ucciderti,
nasceranno dei vanara dotati della mia forza e vitalità, aventi
la mia forma e a me pari in valore. Io stesso avrei potuto ucciderti
in questo momento; ma non lo faccio perché ti sei distrutto da solo
con le tue azioni malvagie".
Mentre Nandi pronunciava queste parole, gli dèi e i saggi cantarono
le glorie del Signore e fecero cadere una pioggia di fiori.
Dashagriva fu molto seccato, e s'accinse a sradicare la stessa montagna
che era stata d'ostacolo al suo volo. Il monte tremò, compresi tutti
gli esseri che vi dimoravano. Anche Parvati, la consorte del Signore
Shiva, ebbe timore. Vedendo questo, il Signore Shiva come per gioco
spinse giù la montagna con le dita del piede.
La montagna si assestò. La pressione del piede di Shiva era tale
che le braccia di Dashagriva rimasero incastrate sotto! Il demone
urlò dal dolore. Udendo il suo urlo fragoroso gli dèi, i semidèi,
i demoni e i saggi furono terrorizzati. Essi andarono da Dashagriva
e gli consigliarono di propiziare il Signore Shiva, rassicurandolo:
"Il Signore è un oceano di misericordia e sicuramente ti darà le
sue benedizioni".
Allora Dashagriva cantò le glorie del Signore. Compiaciuto, il Signore
Shiva apparve davanti a lui. Liberato dalla pressione della montagna,
Dashagriva mise in salvo le sue braccia. Il Signore Shiva gli disse:
"Sono contento della tua devozione. Poiché hai gridato forte, facendo
scappare tutti gli esseri in ogni direzione d'ora in poi sarai chiamato
Ravana (ravah = rumore)".
Dashagriva pregò il Signore di conferirgli altri doni: "Concedetemi
di non poter essere ucciso da nessuno se non da un essere umano:
infatti non temo gli esseri umani. Vi prego anche di concedermi
un'arma divina da usare in guerra". Il Signore concesse a Ravana
i doni richiesti e gli diede una spada divina chiamata Candrahasam.
Quindi Ravana fece ritorno alla sua dimora.
Mentre girava per la foresta, un giorno Ravana vide una bellissima
giovane vestita da asceta.
Spinto dalla forte passione, egli l'avvicinò e le chiese: "Chi sei,
donna leggiadra? Tu sei giovane e hai l'aspetto di un'asceta: queste
due cose sono contraddittorie! ".
La ragazza rispose: "Sono la figlia del saggio reale Kusadvaja,
figlio di Brihaspati. Mio padre m'istruì nella recitazione dei Veda;
perciò fui chiamata Vedavati. Molti dèi e semidèi chiesero la mia
mano, ma mio padre desiderava avere come genero il Signore Vishnu
e nessun altro. Saputo di questo, un demone chiamato Sambhu uccise
mio padre; e anche mia madre, che salì sulla pira funeraria di suo
marito. Da allora ho intrapreso intense austerità per onorare il
desiderio di mio padre e ottenere come sposo il Signore Vishnu".
Ravana si fece conoscere e si vantò: "Chi è mai questo Vishnu di
fronte a me? Vieni, diventa mia moglie e goditi la vita". Ravana
l'afferrò per i capelli.
Fortemente adirata dal suo comportamento, Vedavati maledì Ravana
con le seguenti parole: "Non desidero preservare questo corpo che
tu hai toccato; perciò entrerò nel fuoco sacro. O peccatore, poiché
mi hai contaminata, causando con questo la mia morte, io rinascerò
per causare la tua distruzione. Se in me è rimasto qualche merito,
rinascerò senza essere concepita da una donna".
Detto ciò, ella entrò nel fuoco sacro. O Rama, quella Vedavati è
tua moglie Sita; e tu sei lo stesso Signore Vishnu.
In seguito Ravana si recò in un posto dove il re Marutta stava celebrando
un rito sacro assistito dal saggio Samvarta, figlio di Brihaspati.
Quando lo videro, tutti gli dèi assunsero forme diverse: Indra divenne
un pavone, Yama divenne un corvo, Kubera divenne una lucertola e
Varuna divenne un cigno.
Ravana sfidò Marutta. Questi stava per combattere, ma il precettore
gli ricordò: "Se lasci questo rito incompleto, la tua famiglia perirà;
e poi, avendo intrapreso questo rito sacro, non puoi impegnarti
in combattimento". Marutta non reagì.
I demoni dichiararono Ravana vincitore, ed egli divorò tutti i saggi
del posto e andò via.
Felici di essere sfuggiti astutamente alla collera di Ravana, gli
dèi conferirono dei doni agli animali di cui avevano assunto le
forme: da allora il pavone ha occhi sulle penne, il corvo fu liberato
dai dolori della morte, la lucertola ottenne il suo riflesso dorato
e il cigno il suo colore candido.
Dopo la vittoria conseguita durante il rito sacro di re Marutta,
Ravana continuò a girare la terra con l'intenzione di sconfiggere
tutti i re del mondo. La maggior parte di essi cedettero alle sue
richieste senza neanche bisogno di una sfida.
A suo tempo Ravana giunse ad Ayodhya. Qui egli sfidò il re Anaranya,
che però accettò la sfida e combatté contro il demone. Segui una
cruenta battaglia tra i due. Ravana distrusse il meglio delle forze
di Anaranya, mentre quest'ultimo sbaragliò i luogotenenti di Ravana.
Nella sua rabbia crudele, Ravana assestò un colpo poderoso sulla
testa di Anaranya, il quale cadde dal suo veicolo.
Come sorridendo, Ravana disse: "Cos'hai fatto, o re? In tutti i
tre mondi non c'è nessuno che mi sia pari in un combattimento corpo
a corpo".
Anaranya rispose: "Che posso farci, demone: il Tempo è davvero supremo,
e io devo inchinarmi all'inevitabile. Non sono stato sconfitto da
te ma solo dal Tempo. Tu sei servito solo come pretesto. Ma ascolta
quello che ti dico: nella mia stessa dinastia sorgerà un principe
- Rama, figlio di Dasaratha - che vendicherà la mia morte e ti distruggerà
completamente".
Detto questo, Anaranya ascese in cielo e Ravana continuò le sue
imprese.
Vedendo la perversa distruzione degli esseri umani da parte di Ravana,
il saggio Narada lo avvicinò e gli disse: "O re dei demoni, tu hai
guadagnato il dono estremamente prezioso dell'invincibilità nei
confronti di dèi, semidèi e demoni. Ascolta, vorrei darti un consiglio.
Il mondo degli esseri umani è soggetto alla morte; e allora perché
indulgi nella loro uccisione? Non è una perdita di tempo uccidere
questi stolti esseri umani che sono già soggetti alla vecchiaia,
alla malattia e alla morte? E certo che tutti questi esseri dovranno
entrare nella dimora di Yama, il dio della morte. Perciò sfida direttamente
Yama. Se riuscirai a conquistare Yama, avrai conquistato automaticamente
tutti gli esseri mortali".
Il ragionamento di Narada andò a genio a Ravana, che si preparò
a partire subito per la dimora di Yama. Egli disse a Narada: "Invero
io distruggerò anche i signori della creazione".
Subito dopo la sua partenza, il saggio rimase perplesso: tutti gli
esseri hanno paura della morte e nessuno può conquistarla. Cosa
avrebbe potuto fare Ravana contro Yama? Anch'egli s'avviò subito
verso la dimora di Yama.
Narada disse a Yama: "Il demone Dashagriva sta venendo qui per cercare
di sconfiggere te, che sei estremamente difficile da vincere. Perciò
anch'io sono venuto qui".
Mentre stava ancora parlando, udirono il rombo del velivolo di Ravana
che atterrava nelle vicinanze.
Nella luce emessa dal suo veicolo spaziale, Ravana vide con i propri
occhi sia il fato dei malfattori e dei peccatori sia quello delle
persone pie. Egli vide come i peccatori venivano torturati nell'inferno,
e vide anche come le persone pie gioivano nelle regioni celesti.
Usando la forza, egli fece liberare i peccatori dalla morsa dei
servi di Yama. I peccatori furono estremamente felici. I servi di
Yama, invece, s'infuriarono e combatterono contro Ravana. Il demone
lanciò una scarica di missili potentissimi; stando a terra egli
lanciò il terribile missile Pasupata, che arrivò come fuoco accecante
circondato da fumo. I servi di Yama cadevano numerosissimi.
Yama udì le grida pietose dei propri servi e si rese conto che Ravana
stava avendo la meglio su di loro. Armato di vari missili infallibili,
egli emerse dalla sua corte preceduto dalla Morte nella sua vera
forma. Vedendo Yama emergere con furore, tutti gli esseri dell'intero
universo tremarono per la grande paura.
Ravana fu l'unico a non aver paura. Avvicinandosi a Yama, Ravana
lo colpì con varie armi. A sua volta anche Yama andò all'assalto
di Ravana con diverse armi. In questo modo i due combatterono per
sette giorni e sette notti.
Ravana lanciò molti missili potenti contro Yama. Vedendo ciò, la
Morte disse a Yama: "Ti prego, dammi il permesso di distruggere
questo demone malvagio. Nessuno di quelli che cadono sotto il mio
sguardo sopravvive, fosse anche per un'ora".
Yama rispose: "Aspetta, adesso guarda il mio valore". Dicendo questo,
Yama sollevò la più micidiale delle armi, conosciuta come kaladanda,
che uccide tutti gli esseri anche al solo vederla.
Proprio in quel momento apparve sul posto Brahma, il Creatore, che
pacificò Yama con le seguenti parole: "Yama, non dovresti uccidere
Ravana, che è protetto dal dono che gli ho concesso. Metti via il
kaladanda. Esso è infallibile. Se lo usassi contro Ravana; sia che
egli sopravvivesse al colpo sia che ne morisse, la mia parola si
rivelerebbe falsa".
In obbedienza al consiglio di Brahma, Yama mise via il kaladanda.
Neppure Yama però poteva essere sconfitto; perciò egli semplicemente
svanì da quel luogo. Considerandosi il vincitore, Ravana salì sul
Pushpaka e andò via.
In seguito Ravana conquistò i Naga. Poi si recò nel territorio dei
Nivatakavaca. Anch'essi avevano ricevuto un dono dal Creatore Brahma
e godevano di un suo favore speciale. Ravana andò da loro e li invitò
a combattere. Le due forze furono impegnate in battaglia per oltre
un anno, ma nessuna delle due poteva vincere.
Il Creatore Brahma apparve sul posto e disse ai Nivatakavaca: "Voi
non potete vincere Ravana in battaglia. Credo che sia una buona
soluzione unirvi in un'amicizia reciproca. Infatti è solo attraverso
l'amicizia che la gente ottiene la prosperità".
Quindi, avendo il fuoco sacro come testimone, Ravana concluse un
patto d'amicizia con i Nivatakavaca.
Uscendo da lì, Ravana incontrò gli esseri chiamati Kalakeya. Mentre
combatteva contro di loro, egli perse il cognato Vidyutjihva (il
marito di Surpanakha) e anche moltissimi soldati. Ma alla fine Ravana
sterminò i Kalakeya.
Da lì egli si recò nel regno di Varuna. Qui incontrò i figli di
Varuna, che combatterono bene contro di lui. Essi gli dissero che
loro padre Varuna era andato alla corte di Brahma ad ascoltare un
concerto di musica. Tuttavia, avendo sconfitto i figli di Varuna,
Ravana si considerò il conquistatore del mondo e quindi fece ritorno
a Lanka.
Dovunque andasse, quando vedeva una bella ragazza, Ravana la rapiva
e la portava con sé. Così moltissime ragazze erano state portate
via da lui con la forza. Figlie di naga e di gandharva, figlie di
saggi, di demonesse e di dee - il Pushpaka le aveva portate via
tutte ed era stato inondato dalle loro lacrime . Tutte gridavano:
"Il peccato di violare le mogli altrui è veramente senza pari nella
sua gravità, e Ravana vi trova diletto. Perciò egli morirà a causa
di una donna".
Quando rientrò a Lanka, Ravana trovò che sua sorella Surpanakha
era inconsolabilmente addolorata. Alla domanda del fratello ella
rispose: "O re, tu sei la causa della mia vedovanza; tu sei responsabile
della morte di mio marito. Il tuo dovere era quello di proteggermi,
ma in realtà hai rovinato la mia vita".
Ravana le rispose con calma: "Tuo marito è stato ucciso in battaglia;
io non avevo alcuna intenzione di farlo morire. Comunque, tutto
questo è passato. Adesso farò di tutto per renderti felice. Vai
a vivere con nostro fratello Khara; i quattordicimila soldati del
suo esercito saranno per te come fratelli. Tu sarai per loro come
una madre".
Poco tempo dopo Ravana entrò in uno dei parchi di divertimento di
Lanka il cui nome era Nikumbhila. Là vide suo figlio Meghanada impegnato
a celebrare un elaborato rito religioso. Vide che Meghanada indossava
una pelle di daino e aveva l'aspetto di chi è impegnato in un rito
religioso ortodosso. Egli l'abbracciò con affetto e poi gli chiese:
"Che cos'è quello che stai facendo, figlio mio?",
Usana, il sacerdote officiante, rispose: "Signore, tuo figlio ha
completato con successo questi sette riti sacri: l'agnistoma, l'asvamedha,
il bahusuvarnaka, il rajasuya, il gomedha, il vaishnava e il mahesvara.
Egli ha ottenuto le benedizioni dello stesso Signore Shiva, e quindi
potrà muoversi secondo la sua volontà, volare nell'aria e compiere
molti trucchi di magia".
Ravana espresse un leggero dispiacere: "Tutto ciò è indegno di te,
figlio mio. Tu hai offerto sacrifici ai nostri nemici, gli dèi.
Ad ogni modo, tutto ciò che hai fatto è ben fatto. Torniamo a casa".
Raggiunto il suo palazzo, Ravana fece scendere dal Pushpaka le numerose
donne che aveva rapito. Vedendole, Vibhishana si rammaricò immensamente
e ammonì gentilmente il fratello maggiore: "Sicuramente è peccato
rapire le mogli degli altri. E noi dovremo pagare caro questo peccato.
Anzi, la cosa è già evidente! Fratello, nostra cugina Kumbhinasi
è stata rapita dal demone Madhu. Sono certo che il fatto è collegato
direttamente al rapimento di queste donne pie da parte tua. Meghanada
era impegnato nel rito sacro, io ero impegnato nella meditazione
e Kumbhakarna dormiva profondamente. Madhu s'è portata via Kumbhinasi.
Quando l'ho saputo, ho pensato che forse stavano bene l'uno con
l'altra".
Ravana però reagì in maniera diversa. Egli ordinò all'esercito di
prepararsi ad invadere il territorio di Madhu; e fece persino svegliare
Kumbhakarna. Con l'aiuto di tutti - eccetto Vibhishana, che custodiva
Lanka durante l'assenza degli altri fratelli - egli invase Madhupura.
Ravana non riusciva a vedere Madhu. Kumbhinasi però corse incontro
a Ravana, cadde ai suoi piedi e pianse, implorando: "Ti prego, concedimi
la grazia che non mi farai restare vedova. Per una donna onesta
non c'è sventura più grande che restare vedova; questa è la causa
principale di ogni paura e tristezza". Ravana promise di risparmiare
la vita a Madhu. Allora Kumbhinasi tornò dentro e svegliò il marito
che dormiva.
Ella presentò Ravana a Madhu: "Questo è mio fratello Ravana, che
ha bisogno del tuo aiuto nella sua lotta contro gli dèi". Madhu
ricevette Ravana con grande affetto e ospitalità.
In una notte di luna piena, Ravana stava riposando sul monte Kailash.
I soldati delle sue forze armate dormivano.
La luna piena e la brezza soave, la fragranza dei fiori di campo
e la musica degli esseri celesti ebbri d'amore, risvegliarono la
sua passione.
In quel mentre passava vicino a lui una ninfa celeste chiamata Rambha.
Ella era vestita in maniera seducente; e il suo aspetto e il suo
portamento erano tali da sollevare la passione in chi la guardava.
Ravana l'avvicinò e le chiese: "Dove stai andando, o donna leggiadra?
Chi è quella persona fortunatissima che oggi godrà con te dei piaceri
sensuali? No, non andartene lasciandomi qui. Vieni, divertiamoci
insieme. Chi è pari a me nei tre mondi?".
Avvicinata in questa maniera da Ravana, Rambha cominciò a tremare
per la paura; e gli disse: "Sii benevolo con me, signore! Tu sei
il protettore di tutti; non proteggerai forse tua nuora? Io sto
andando a incontrare Nalakubara, il figlio di tuo fratello, e perciò
sono tua nuora. Ti prego, lasciami andare".
Ravana però non era dell'umore di ascoltare questo sermone. Sopraffatto
dalla lussuria, egli afferrò Rambha e la violentò.
Quando la liberò, dopo averla violentata, Rambha era come una ghirlanda
imbrattata o dell'acqua infangata.
Ancora tremante per la paura e la vergogna, ella andò da Nalakubara
e gli narrò tutto quello che le era successo lungo la strada.
Poi cadde ai suoi piedi piangendo, e implorò il suo perdono.
Quando seppe che Ravana aveva osato violare Rambha, Nalakubara entrò
per un po' di tempo in profonda meditazione,
Egli 'vide' tutto ciò che era accaduto a Rambha. Sopraffatto da
una collera immensa, prese dell'acqua con le mani e pronunciò solennemente
questa terribile maledizione:
"Poiché ti ha violentato senza che tu, Rambha, lo desiderassi, egli
non potrà più godere di alcuna donna che non lo desideri. Se mai
provasse a violentare una donna che non lo desiderasse, la sua testa
scoppierebbe in sette pezzi".
Appena Nalakubara pronunciò questa terribile maledizione, tutti
gli dèi, a partire dal Creatore Brahma, gioirono e fecero scendere
una pioggia di fiori.
Quando Ravana venne a sapere di quest'infallibile maledizione, cominciò
a frenarsi dal molestare qualsiasi donna non lo desiderasse.
Ravana rivolse i suoi occhi al cielo e decise di conquistare anche
quello. Quand'egli entrò nel regno degli dèi con il suo potente
esercito , i cieli tremarono e lo stesso Indra rimase scosso sul
suo trono. Egli ordinò a tutti gli dèi di prepararsi a combattere
contro Ravana.
Quindi Indra, il dio del cielo, tremante di paura andò subito dal
Signore Vishnu e si sottomise umilmente a Lui, dicendo: "Di grazia,
Signore, dicci che cosa dobbiamo fare. Ravana, che in virtù dei
doni che ha ricevuto si considera invincibile, è venuto a combattere
contro di noi. Tu sei il nostro solo rifugio, la nostra sola forza
e il nostro unico sostegno. Tu sei il Signore supremo; in te dimorano
tutti i mondi. L'universo ha origine da te e in te ritorna. Ti prego,
dimmi che cosa vuoi che facciamo con questo Ravana".
Il Signore Vishnu rispose: "Conosco già i misfatti di Ravana. Ma
in questo momento non scenderò in battaglia contro di lui. Io, Vishnu,
non potrei mai tornare dal campo di battaglia senza avere ucciso
il nemico; ma adesso questo è impossibile, poiché Ravana è protetto
dal dono ricevuto da Brahma. Comunque ti prometto che lo distruggerò
presto, per la redenzione degli dèi. Perciò per il momento combattilo
tu stesso insieme agli dèi".
Tutti gli dèi scesero in campo guidati da Indra. Nello stesso tempo
i demoni, con a capo Ravana, fecero il loro ingresso nei cieli.
Allora il potente demone Sumali entrò nel campo di battaglia e provocò
molta distruzione tra le forze degli dèi. L'ottavo Vasu, di nome
Savitra, distrusse il veicolo di Sumali. Poi, lanciando un missile
estremamente potente chiamato gada, il Vasu colpì Sumali. Il fuoco
sprigionato dal missile consumò interamente il demone.
Vedendo che il loro capo Sumali era stato ucciso, gli altri demoni
fuggirono in tutte le direzioni.
A questo punto entrò in campo Meghanada. Indra rassicurò gli dèi
dicendo: "Non temete: guardate mio figlio Jayanta che entra in campo
per affrontare Meghanada".
La battaglia tra Meghanada e Jayanta fu molto aspra. Quando Meghanada
usò i suoi poteri magici, vi fu una totale confusione e gli dèi
si uccisero persino tra di loro!
Indra stesso entrò in campo con il suo velivolo celeste. La battaglia
ebbe un nuovo culmine quando Kumbhakarna e altri demoni mostrarono
tutto il loro valore. Vi fu molta distruzione da ambo i lati.
Durante quella spaventosa battaglia, una volta Indra circondò Ravana
con le sue forze divine. Quando Meghanada lo venne a sapere si precipitò
sul posto. Egli usò i suoi poteri magici: nessuno riusciva a vederlo.
Con il suo potere illusorio, Meghanada catturò Indra e lo fece prigioniero.
Poi si rivolse a suo padre Ravana e gli disse: "Vieni, torniamo
a casa, ho catturato lo stesso Indra".
Tutti gli dèi, guidati dallo stesso Creatore Brahma, andarono a
Lanka. Brahma supplicò Ravana: "Il valore di tuo figlio è altamente
encomiabile. E poiché ha conquistato lo stesso Indra, d'ora in poi
egli sarà chiamato Indrajit. Lascia libero Indra, perché continui
a svolgere le sue funzioni nei cieli. Che Indrajit scelga in cambio
qualsiasi dono".
Felicissimo di questo, Indrajit chiese il dono dell'immortalità.
Ma Brahma puntualizzò: "L'immortalità è impossibile in questo mondo
mortale, sia per gli uccelli, gli animali e tutti gli altri esseri.
Perciò ti prego di modificare la tua richiesta".
Indrajit rispose: "Prima d'affrontare un'impresa importante praticherò
regolarmente i riti sacri. Se riuscirò a completarli in tempo, sarò
invincibile; in caso contrario resterò vulnerabile. Inoltre dovrò
restare invulnerabile finché rimarrò seduto nel mio velivolo".
Brahma gli concesse quanto chiesto. Indrajit disse: "La gente cerca
l'immortalità praticando austerità e propiziando gli dèi; ma io
diventerò immortale per mezzo dello sforzo personale e della vigilanza".
Indra fu rilasciato. Brahma gli disse: "Ora ti dirò perché sei stato
preso prigioniero. In principio creai gli esseri e li creai tutti
uguali, dello stesso colore e della stessa forma. Poi contemplai
la mia creazione e desiderai creare un essere particolare. Volli
la certezza che quest'essere particolare fosse assolutamente immacolato
(a = senza; halya = macchia). Era una donna e il suo nome era Ahalya.
Ella divenne la moglie del rishi Gautama. Sopraffatto dalla passione
per lei, un giorno tu la seducesti, approfittando dell'assenza di
suo marito. Il saggio vi sorprese entrambi; e quando scoprì il tuo
misfatto, ti maledì: "Poiché hai sedotto impavidamente mia moglie,
sarai preso prigioniero dal tuo nemico". Gautama maledì anche sua
moglie: "Poiché hai fatto questo, orgogliosa della tua bellezza,
non sarai l'unica donna bella del mondo e così perderai la tua unicità".
Perciò, Indra, ricorda il tuo misfatto. Tu sei stato sconfitto dal
tuo misfatto, non da qualcun altro. Adora immediatamente il Signore
celebrando il sacro rito Vaishnava, e così sarai purificato da ogni
peccato".
Indra seguì il consiglio di Brahma.
Una volta Ravana andò in una città chiamata Mahismati, la capitale
del regno Haihaya, il cui re era Kartavirya Arjuna. Giunto là, Ravana
gridò: "Chi è quell'Arjuna che governa questa città?". Gli fu detto
che Arjuna si stava divertendo nel fiume Narmada.
Ravana andò immediatamente al fiume, e dopo aver fatto il bagno
adorò il Signore nella forma del Linga che pose sulla sabbia.
Poi Ravana notò un fenomeno inspiegabile: il flusso del fiume s'era
improvvisamente arrestato. Tramite le sue spie egli apprese che
Kartavirya Arjuna, che si stava divertendo con delle donne nel fiume,
ne aveva arrestato il corso con le sue stesse mani e aveva creato
un lago artificiale per il proprio piacere.
Udito questo, Ravana desiderò sfidare Kartavirya Arjuna in combattimento.
Tuttavia i ministri di quest'ultimo pregarono il demone d'accettare
la loro ospitalità, passare la notte lì e quindi sfidare il re la
mattina seguente. Essi argomentavano: "Non è eroico sfidare un guerriero
che si sta divertendo con delle donne!".
Ravana era propenso ad accettare, ma nel frattempo il suo esercito
aveva già cominciato a combattere contro i soldati di Kartavirya
Arjuna, creando molto frastuono.
Anche i principali luogotenenti di Ravana erano entrati nella battaglia.
I ministri di Kartavirya Arjuna lo informarono della battaglia,
e anch'egli si precipitò a combattere.
La battaglia fu sanguinosa. Kartavirya Arjuna tirò un potente colpo
con il suo gada e fece perdere i sensi a Prahasta. Tutti gli altri
demoni, incluso Ravana, corsero ad aiutare Prahasta.
Allora Kartavirya Arjuna diresse la sua attenzione verso Ravana,
e con molta facilità lo catturò. Egli legò Ravana come Narayana
aveva legato il re dei demoni Bali.
In quel momento gli dèi e i semidèi fecero scendere una pioggia
di fiori dicendo: "Ben fatto". I demoni gridarono invano: "Liberalo,
liberalo".
Il saggio Pulastya seppe della cattura di Ravana dagli dèi e andò
a intercedere di persona da Kartavirya Arjuna. Quest'ultimo ricevette
il saggio con tutto l'onore e la riverenza dovuti e, dopo averlo
pregato d'accettare la sua ospitalità, gli chiese; "Che cosa posso
fare per te, o santo?".
Il saggio lodò Kartavirya Arjuna per il suo valore e quindi lo pregò
di liberare suo figlio Ravana dalla prigionia. Senza indugio Kartavirya
Arjuna acconsentì alla richiesta del saggio.
Incurante dell'ignominia subita per mano di Kartavirya Arjuna, Ravana
continuò a girare per il mondo in cerca di nuove battaglie e nuove
conquiste.
Una volta egli giunse nel regno di Kishkindha, governato dal potentissimo
vanara Vali. Egli gridò a squarciagola, sfidando Vali a farsi avanti
e a combattere contro di lui. Un ministro di Vali informò il demone
che il suo re era uscito dalla capitale per andare a compiere l'adorazione
serale che celebrava quotidianamente. "Se puoi aspettare un po',
lo vedrai di certo", egli disse, e aggiunse: "Lascia però che ti
avverta! Vedi quella montagna di ossa laggiù: esse appartenevano
ad altri eroi che come te hanno voluto sfidare Vali. Anche se avessi
bevuto il nettare dell'immortalità, il suo effetto durerebbe solo
fino a quando non affronteresti Vali. Se comunque avessi fretta
di morire, allora recati all'Oceano Meridionale, dove troverai Vali".
Ravana non si fece impressionare dalle minacce. Salì sul Pushpaka
e si diresse verso sud. Infine scorse Vali che offriva le sue preghiere
vespertine, e s'avvicinò a lui senza fare il minimo rumore. Per
caso lo vide anche Vali. Senza alcuna difficoltà, Vali imprigionò
Ravana sotto la sua ascella e si librò nell'aria. Tutti gli altri
demoni si misero a urlare e a inseguire Vali, ma invano.
Dopo averlo portato su tutti gli oceani delle quattro direzioni
e avere offerto le sue preghiere a ciascun oceano, sempre tenendo
Ravana sotto l'ascella, Vali fece ritorno a Kishkindha. La, nel
suo giardino, Vali lasciò cadere Ravana, e poi gli chiese: "Da dove
sei venuto".
Pieno di ammirazione, Ravana disse a Vali: "Che forza, che valore,
e quanta maestà! E incredibile che qualcuno abbia potuto tenermi
nella sua morsa come una bestiolina e portarmi fino ai quattro oceani
ai quattro angoli della terra. Tu sei davvero un eroe eccelso. Avendo
avuto prova della tua straordinaria potenza, desidero concludere
un patto d'amicizia con te. D'ora in poi noi due godremo ogni cosa
in maniera indivisa, avremo cioè in comune mogli, figli, città,
regno, piaceri, cibo e rifugio".
Poi essi alimentarono il fuoco sacro e davanti ad esso si strinsero
la mano e conclusero un patto d'amicizia. Ravana visse nella dimora
di Vali per un mese, godendo della sua ospitalità, e infine fece
ritorno a Lanka. Tale era, o Rama, la potenza di Vali, che tu hai
ucciso con tanta facilità.
Così il saggio Agastya concluse la sua narrazione.
[NOTA: Questa storia spiega perché Rama non poteva fidarsi di Vali,
che era amico di Ravana. E giustifica anche l'affermazione di Vali
che avrebbe potuto chiedere facilmente a Ravana di riconsegnare
Sita a Rama.]
Rama disse ad Agastya: "La tua descrizione della forza di Vali e
Ravana è stata meravigliosa. Ma sono certo che Hanuman è più potente
di tutti questi eroi. Tutto ciò che io ho ottenuto: Lanka, Sita,
la vittoria, l'amicizia, e anche il regno, lo devo alla forza di
Hanuman; se non fosse stato per lui, forse non avremmo saputo neanche
dove si trovava Sita. Eppure, come mai egli non poteva uccidere
Vali o Ravana o gli altri?".
Agastya rispose: "Se è tuo desiderio ti racconterò nei dettagli
la storia di Hanuman. Sul monte Sumeru viveva un re chiamato Kesari,
che aveva una moglie di nome Anjana. Hanuman nacque da lei, come
figlio di Vayu, il dio del vento. Mentre la madre era andata a prendere
della frutta per dargli da mangiare, il bimbo scambiò erroneamente
il sole per un frutto e si lanciò nell'aria per coglierlo. Sebbene
il piccolo fosse giunto vicino al sole, quest'ultimo non voleva
bruciare quel bimbo innocente. Al lamento di Rahu, intervenne Indra,
che colpì il bambino e lo fece precipitare a terra. Nella caduta
il suo mento si fratturò, e da questo gli deriva il nome Hanuman.
"Vedendo questo, il dio del vento s'arrabbiò e si ritirò dal mondo.
Nessuno poteva più respirare. Allora tutti gli esseri cantarono
le glorie del dio del vento e cercarono di propiziarlo. Tutti gli
dèi, incluso lo stesso Brahma, andarono a trovarlo. Vayu uscì dalla
sua grotta con il bambino privo di sensi. Al tocco del Creatore,
il bambino tornò in vita. E il dio del vento tornò a muoversi tra
gli esseri quale loro vita.
"Quindi tutti gli dèi glorificarono Hanuman, offrendogli ogni tipo
di doni: salute, libertà dalle malattie, lunghissima vita, invulnerabilità
nei confronti di fulmini e altre armi del genere, il dono di un
potente gada, l'abilità di cambiare la sua forma e quella di muoversi
ovunque a volontà, ecc.
"Ricco di questi doni, Hanuman aveva perso la testa e aveva cominciato
a saccheggiare le foreste e gli eremitaggi, assalendo persino gli
stessi saggi. I saggi sapevano che era invincibile e che godeva
della protezione divina. Perciò lo maledirono: "Tu ci molesti facendo
assegnamento sulla tua forza straordinaria; d'ora in poi non sarai
più consapevole della tua forza per molto tempo". Ma realizzando
il grande ruolo che egli doveva svolgere al tuo servizio, i saggi
modificarono la loro maledizione: "Quando però la tua forza ti sarà
ricordata, la riacquisterai".
"Perciò, benché egli fosse dalla parte di Sugriva nella lotta contro
Vali, non si ricordò della sua forza. E solo per amor tuo che Hanuman
è nato in questo mondo e gli dèi lo hanno creato".
Dopo aver narrato tutte queste storie, Agastya e i saggi si congedarono
da Rama.
Il giorno dopo l'incoronazione di Rama, i bardi di corte cantarono
dolcemente le sue glorie per svegliarlo dal sonno: "Signore, se
tu dormi, tutto il mondo dorme. Perciò svegliati". Rama si alzò
e, dopo le abluzioni, adorò i saggi e Dio.
I re e gli altri ospiti d'onore che erano venuti ad assistere all'incoronazione
lasciarono Ayodhya uno dopo l'altro, dopo essere stati debitamente
onorati da Rama. Rama disse loro: "Invero il malvagio Ravana è stato
ucciso dal Dharma, dalla verità e dalla giustizia, della cui gloria
spirituale voi siete manifestazioni; io sono stato un mero strumento,
un pretesto". Essi a loro volta lo lodarono, considerandosi davvero
fortunati e benedetti.
Rama elargì gioielli preziosi ai capi vanara che lo avevano aiutato
nella grande battaglia contro Ravana e che erano venuti ad Ayodhya
per assistere all'incoronazione. Essi avevano gradito molto il loro
soggiorno ad Ayodhya; un mese era trascorso come fosse stata un'ora.
Anche Rama era stato felice in loro compagnia.
Quindi Rama diede a Sugriva e agli altri capi vanara il permesso
di partire per fare ritorno ognuno al proprio regno.
Egli congedò anche Vibhishana, perché tornasse a Lanka, per governare
Lanka secondo il codice del Dharma' . Rama sottolineò: "Che la tua
mente non concepisca mai un comportamento ingiusto, o re. L'uomo
saggio si attiene al sentiero del Dharma, godendo il governo del
regno per molto tempo".
Poi Hanuman s'inchinò a Rama e gli offrì questa preghiera: "Signore,
possa esserci in me una devozione suprema nei tuoi confronti; possa
la devozione del mio cuore non vacillare mai. Fa' che io viva fintanto
che la tua storia e la tua gloria sono cantate in questo mondo".
Rama disse: "Così sia, Hanuman! La mia storia sarà narrata finché
durerà il mondo; e la tua gloria continuerà fintanto che la mia
storia sarà narrata in questo mondo. Per uno solo dei grandi servigi
che mi hai reso, sono tenuto a darti la mia stessa vita; e per i
numerosi altri rimarrò sempre in debito con te. Uno che ha ricevuto
aiuto, lo restituisce nei momenti di difficoltà dell'altro: ma io
spero che tu non abbia mai bisogno del mio aiuto, e che non ti troverai
mai in difficoltà".
Così dicendo, Rama abbracciò Hanuman e gli concesse il dono prezioso
di una collana che lui stesso aveva portato al collo.
Quindi tutti i vanara e altri capi ancora si congedarono da Rama
con le lacrime agli occhi.
Un giorno, mentre era seduto con i suoi fratelli, Rama udì una voce
eterea che diceva: "Rama, sono il veicolo spaziale Pushpaka. Secondo
il tuo comando, sono stato alla dimora di Kubera; ma egli mi ha
rimandato a te, poiché tu hai conquistato Lanka e hai distrutto
il malvagio Ravana. Kubera è felicissimo di sapere della tua vittoria
e ti prega di usare questo velivolo per muoverti a tuo piacimento
nel mondo. Perciò sono tornato qui da te. Ti prego d'accettare i
miei servigi".
Rama rese omaggio al velivolo spaziale e poi gli ordinò: "Molto
bene, ora vai dove desideri, e torna da me quando ti penserò".
Vedendo i poteri soprannaturali di Rama, Bharata rimase stupefatto,
e disse: "Fratello, davanti a te persino le cose inanimate diventano
esseri senzienti. La gente che vive nel tuo regno è libera dalle
malattie, la durata media della vita s'è allungata. La mortalità
infantile è sconosciuta. Ognuno gode di ottima salute. Persino la
pioggia e il vento ti favoriscono. I cittadini dicono tra loro:
'Sarebbe bello poter avere per sempre un re così'".
Rama fu felice di udire queste cose.
Più tardi, quello stesso giorno, Rama andò nel boschetto di asoka
insieme a Sita. Questo delizioso giardino era pieno di fiori profumati
e bellissimi prati verdi, e inoltre era dimora d'innumerevoli uccelli
variopinti il cui canto rallegrava coloro che l'ascoltavano.
Rama e Sita sedettero nel giardino. Con infinito amore e affetto,
lo stesso Rama porse a Sita la dolce bevanda chiamata maireyakam.
Presto i servitori servirono loro della carne finemente cucinata
e varie altre pietanze prelibate, Gli accompagnatori di corte intrattennero
Sita e Rama con musica e danze.
Così Rama trascorreva la mattina curando gli affari di corte; e
passava le sere in compagnia di sua moglie. Anche Sita trascorreva
la mattina al servizio delle suocere e i pomeriggi in compagnia
dell'amato marito.
Un giorno Rama disse a Sita: "Mia cara, vedo che aspetti un bambino!
Dimmi, che cosa posso fare per renderti felice durante questo periodo
particolarmente fausto".
Sita rispose: "Signore, il mio solo desiderio è quello di rivisitare
le foreste e i sacri eremitaggi dei santi che vivono sulle rive
del sacro Gange".
Rama rispose prontamente: "Certamente, mia cara, partiremo domani
stesso".
I giullari di corte intrattenevano Rama e gli altri principi e dignitari
con racconti umoristici.
Più tardi Rama chiese alle spie e agli agenti segreti: "Ditemi,
che cosa dice il popolo di me, di Sita, e dei miei fratelli Ditemi
tutto senza alcuna riserva".
Dopo molta esitazione, Bhadra riferì al re ciò che diceva qualche
cittadino: "Rama ha fatto ciò che nessun altro ha mai fatto prima:
ha costruito un ponte sull'oceano, è andato a Lanka con l'ausilio
delle forze vanara ed altre forze, ha ucciso Ravana e ha riavuto
Sita. Non so come faccia ad amare ancora Sita così tanto, dopo che
ella è stata rapita da Ravana che se l'è stretta addosso e l'ha
tenuta nel boschetto di asoka per tanto tempo. Bene, allora suppongo
che d'ora in poi neanche noi possiamo disapprovare questo tipo di
condotta da parte delle nostre mogli".
Il volto di Rama mostrava il suo profondo turbamento e la sua ansietà.
Egli sciolse il consiglio di corte e chiese ai suoi messaggeri di
far venire subito i suoi fratelli. Chiamati d'urgenza, i tre fratelli
si precipitarono a corte e rimasero sbigottiti nel vedere il volto
ansioso di Rama. Essi s'inchinarono e rimasero rispettosamente a
distanza.
Rivolgendosi a loro, Rama disse gravemente: "Vi prego d'ascoltare
ciò che ho appena udito. Lo scandalo pubblico sta divorando il mio
cuore. Perché appartengo alla grande dinastia di Ikshvaku; e anche
Sita appartiene a una nobile e rispettabile famiglia. Voi sapete
come Sita fu rapita da Ravana nella foresta Dandaka e come infine
io la riconquistai. Per convincermi della sua purezza, Sita entrò
persino nel fuoco. Lakshmana, tu sei stato testimone alla dichiarazione
dello stesso dio del fuoco che Sita è pura. Nel mio essere più profondo
io so che lei è pura. Perciò l'ho riportata ad Ayodhya con me.
"Tuttavia c'è uno scandalo pubblico riguardo a lei. Chi è soggetto
allo scandalo pubblico in questo mondo, va nei mondi inferiori fino
a quando dura lo scandalo. L'infamia è derisa dagli dèi, e la fama
viene adorata in questo mondo. Invero è proprio per ottenere fama
che la gente intraprende varie attività. Per timore dello scandalo
io potrei anche abbandonare la mia vita e tutti voi, miei cari fratelli;
per non parlare di Sita. Perciò fate come vi dico, e non cercate
neanche di consigliarmi contro. Prendete immediatamente Sita e portatela
in un posto lontano: accompagnatela all'eremo del saggio Valmiki
e lasciatela lì. In effetti, lei stessa desiderava andare a visitare
quegli eremi.
"Giuro che non cambierò la mia risoluzione, e vi prego di non cercare
neanche di dissuadermi".
Trascorsa quella notte, al sorgere del nuovo giorno Lakshmana chiese
a Sumantra di preparare il cocchio reale.
Quando il cocchio fu pronto Lakshmana andò da Sita e le disse: "Tu
avevi chiesto a re Rama di farti visitare gli eremi dei saggi che
vivono sulle rive del fiume Gange. Il re é stato ben lieto di esaudire
la tua richiesta e mi ha comandato di accompagnarti. Perciò o Sita,
sali sul cocchio".
Con il cuore colmo di gioia, Sita corse nei suoi appartamenti, prese
vestiti, gioielli e altri doni che intendeva offrire ai saggi e
alle loro consorti, e ritornò laddove Lakshmana l'aspettava con
il cocchio pronto a partire. Non appena vi salì, il cocchio s'avviò
rapidamente.
Tuttavia Sita notò dei cattivi presagi e fu in ansia per suo marito
e sua suocera. Ella offrì una preghiera per la loro incolumità.
Sita e Lakshmana trascorsero quella prima notte in un ashram sulle
rive del fiume Gautami. La mattina seguente ripresero il viaggio.
Quando furono vicini al sacro Gange, guardando il fiume Lakshmana
si mise a gemere forte, con grande sorpresa di Sita. Ella gli chiese:
"Perché piangi così, Lakshmana? Certo perché senti tanta nostalgia
di tuo fratello Rama. Anch'io la sento. Visiteremo gli eremitaggi
e passeremo stanotte lì, quindi torneremo ad Ayodhya il più presto
possibile".
Sita e Lakshmana salirono sul traghetto per attraversare il Gange.
Ancora una volta Lakshmana cominciò a piangere e a gemere forte.
Poi disse a Sita: "Il mio cuore è triste, Sita. So che il mondo
mi biasimerà per quello che sto facendo. Preferirei morire in questo
momento. Sii misericordiosa, perché non è colpa mia".
Così dicendo, egli cadde ai piedi di Sita piangendo amaramente.
Sita divenne ansiosa e si preoccupò moltissimo. Ella chiese a Lakshmana
di dirle tutto, senza riserve. Lakshmana si alzò e continuò: "Alla
presenza dei membri del suo consiglio, Rama è stato messo a conoscenza
di un terribile scandalo pubblico. È qualcosa che i cittadini di
Ayodhya e del regno dicono. Rama ne fu molto turbato, poi mi disse
qualcosa e si ritirò nel suo appartamento. Non posso ripeterti quelle
parole. Posso dirti soltanto che a causa di quello scandalo il re
ha deciso di abbandonarti. Ti prego di ricordare che egli non ti
accusa, ma ha paura dello scandalo pubblico. Questo è l'ordine del
re: devo accompagnarti all'eremo del saggio Valmiki e lasciarti
là. Il saggio è un grande amico di nostro padre e certamente avrà
la massima cura di te".
Quando udì le terribili parole di Lakshmana, Sita cadde priva di
sensi, sopraffatta dal dolore. Dopo un tempo considerevole, ella
riprese coscienza e si rivolse a Lakshmana con tono angosciato:
"Il mio corpo sembra essere stato creato per soffrire, e io sono
un'incarnazione di sofferenza infinita. Quale terribile peccato
devo aver commesso in una vita precedente? E chi devo aver privato
del suo sposo, per essere soggetta a questo fato pur essendo casta
e innocente?
"Ho già vissuto in passato nella foresta, ma allora avevo con me
il mio signore Rama. Ora come potrei vivere in questa foresta senza
di lui?
"Quando entrerò negli eremi dei saggi, che cosa dirò loro; per quale
motivo sono stata esiliata da Rama? Sarebbe stato meglio che mi
fossi gettata nel Gange; ma il mio signore mi avrebbe accusato della
distruzione della sua dinastia, perché porto in grembo suo figlio.
"O Lakshmana, fa' quello che il Signore ti ha ordinato di fare.
Quando tornerai ad Ayodhya porta i miei devoti inchini al signore
Rama e a mia suocera, e assicura il mio signore della mia purezza
e della mia eterna devozione nei suoi confronti.
"Sono certa che sono stata esiliata solo a causa dello scandalo
pubblico e non perché il mio signore abbia il minimo sospetto sulla
mia castità. Invero, per una donna casta il marito è dio, i parenti
e il guru; egli le è più caro della sua stessa vita; perciò la sua
missione è per lei della massima importanza. É in questo spirito
che mi congedo da te. Ora puoi andare".
Quando Lakshmana scomparve dalla sua vista, Sita scoppiò a piangere,
seduta sulla riva del Gange.
Valmiki andò in riva al Gange e salutò Sita con il dovuto onore
e rispetto.
Egli disse: "Io so che tu sei Sita, figlia di re Janaka e nuora
di re Dasaratha. Tu sei l'amata moglie di Rama. Sapevo che saresti
venuta, e so anche per quale ragione sei qui. Per mezzo dell'occhio
dell'intuizione, acquisito con la pratica di intense austerità,
io so che tu sei assolutamente pura. Io conosco tutto quello che
succede nei tre mondi.
"Vieni! A poca distanza da qui vedrai un eremitaggio di donne ascete
che d'ora in poi si prenderanno cura di te. Non essere triste. Considera
questa la tua casa".
Valmiki condusse Sita nell'eremitaggio femminile e la presentò alle
donne ascete, affidandola alle loro cure.
Quando vide che Sita era entrata nell'eremo del saggio Valmiki,
secondo l'ordine di Rama, Lakshmana fu afflitto dal dolore e disse
a Sumantra, il fedele auriga: "Guarda, Sumantra: quello stesso Rama
che ha conquistato gli dèi, i semidèi e i demoni deve ora patire
questa disgrazia. In precedenza era stato bandito dal suo regno,
e ora viene separato dalla moglie diletta a causa dello scandalo
pubblico. Questo non mi sembra giusto".
Dopo avere ascoltato la sua afflizione, Sumantra gli rispose: "O
Lakshmana, tutto ciò era noto ai saggi da molto tempo. Un giorno
il saggio Durvasa rivelò tutto questo a tuo padre, re Dasaratha.
"Il saggio predisse che Rama sarebbe stato soggetto a molta sofferenza,
che avrebbe esiliato Sita, e più in là anche te. Il re mi ammonì
di non rivelare a nessuno questo segreto. Comunque, ora te l'ho
detto".
A questo punto Lakshmana era ansioso di conoscere tutta la verità,
e Sumantra continuò: "In quel tempo il saggio Durvasa viveva nell'eremo
del saggio Vasishtha. Re Dasaratha andò a trovarlo per rendergli
omaggio e chiedergli qualcosa sulla sua vita e quella dei suoi figli.
"Allora il saggio Durvasa disse a tuo padre: "Ti dirò qualcosa che
ebbe luogo molto tempo fa. Ci fu una guerra tra gli dèi e i demoni.
Gli dèi implorarono la protezione del saggio Bhrigu, ma la moglie
di Bhrigu concesse rifugio ai demoni. Vishnu divenne furioso e in
un accesso di collera recise la testa della donna con la sua arma
rotante. Il saggio Bhrigu fu molto contrariato e maledì lo stesso
Signore Vishnu: "Poiché hai ucciso mia moglie, nascerai come essere
umano e allora sarai separato da tua moglie!".
"Istantaneamente il saggio si ravvide e si dispiacque molto di avere
maledetto lo stesso Signore Vishnu. Comunque, per rassicurarlo,
il Signore Vishnu gli disse che avrebbe fatto l'uso migliore di
quella maledizione, per il beneficio e degli dèi e dei mondi".
"Come risultato di quella maledizione, Vishnu nacque come Rama e
ha dovuto bandire sua moglie Sita. Durvasa predisse anche che Rama
avrebbe governato il mondo per moltissimo tempo, e avrebbe avuto
due figli".
Lakshmana si sentì consolato dalle parole di Sumantra. Il sole tramontò,
ed essi decisero di passare la notte sulla riva del fiume Kosi.
La mattina seguente Lakshmana e Sumantra intrapresero il viaggio
di ritorno e raggiunsero Ayodhya verso mezzogiorno. Ivi Lakshmana
vide Rama che era l'immagine stessa del dolore.
Stringendo con le sue mani i piedi di Rama, Lakshmana offrì questo
consiglio al fratello:
"O Rama, obbedendo al tuo comando ho portato via Sita, lasciandola
sull'altra riva del fiume Gange, affidata alle cure delle donne
ascete che vivono in un eremo là vicino. Ti prego, Rama, non addolorarti
per quello che è successo. Gli uomini saggi come te non si addolorano.
In questo mondo tutti gli oggetti devono perire, tutte le cose che
si elevano devono cadere, ogni incontro deve terminare con la separazione
e la vita deve terminare con la morte. Perciò uno non dovrebbe essere
eccessivamente attaccato alla propria moglie, ai figli, agli amici
e alle ricchezze, poiché è sicuro di doversene separare. Abbandona
questo dolore, perché se ti addolori potrebbe esserci maggiore scandalo
pubblico; proprio quello che desideri evitare".
Rama si sentì risollevato. Il suo dolore era scomparso. Egli ringrazio
e lodò Lakshmana per avergli dato quel consiglio al momento giusto.
Rama continuò: "Negli ultimi quattro giorni, afflitto com'ero dal
dolore ho trascurato i miei doveri di re. Ti prego di riunire i
ministri e tutti gli altri membri della corte reale. Poiché non
è saggio trascurare i doveri reali. Il re che non se ne occupa tutti
i giorni precipita in un orribile inferno.
"A questo proposito ho udito il seguente racconto: C'era una volta
un re chiamato Nriga. Dopo un rito sacro, egli diede in elemosina
migliaia di mucche ai sacerdoti. Una mucca che apparteneva ad un
brahmana venne in qualche modo mischiata con la mandria e fu data
ad un altro brahmana di Kankhal. Il brahmana a cui apparteneva la
mucca scoprì il fatto, e andò a reclamarla. L'altro brahmana rispose
giustamente, affermando che si trattava di un dono del re. Quindi
decisero entrambi di recarsi alla corte del re per risolvere la
questione.
"Il re però era assente, e la disputa non poteva essere ascoltata.
I due brahmana aspettarono alcuni giorni, ma quando videro che neanche
allora il re s'era fatto vivo gli lanciarono la maledizione che
il sovrano sarebbe nato come lucertola e sarebbe rimasto invisibile
in un buco (così com'era rimasto invisibile per tutti quei giorni).
Tuttavia i brahmana dissero che il re sarebbe stato liberato dalla
maledizione quando il Signore Vishnu si sarebbe incarnato come Vasudeva.
Tale è il fato di quei re che trascurano i loro doveri".
Rama continuò: "Nriga riunì i suoi ministri e disse loro: "Vi prego,
installate immediatamente mio figlio Vasu sul trono e incoronatelo
re. Ordinate anche ai nostri architetti reali di costruire per me
una buca nella quale possa vivere abbastanza comodamente durante
l'intero periodo della mia vita maledetta come lucertola. Là trascorrerò
i miei giorni finché non sarò liberato dal corpo di lucertola per
grazia del Signore Vasudeva".
"Poi Nriga disse al re suo figlio: "Ti prego, figlio mio diletto,
aderisci rigorosamente al codice del Dharma. Non deviare dal sentiero
della giustizia. Fa' che il mio fato sia per te un ammonimento:
vedi che cosa ha provocato nel mio caso anche una piccola trasgressione!
Però non addolorarti per me. E esattamente come dev'essere: ogni
azione è seguita dalla reazione a lei appropriata. Si ottiene ciò
che si deve ottenere, si va dove si deve andare, e si riceve qui
(sia come piacere che come dolore) quello che è giusto che si ottenga.
Tutto questo è in perfetta armonia con la giustizia divina, per
il proprio bene". Dopo avere consigliato suo figlio in tal modo,
Nriga andò a ritirarsi nella sua buca".
Rama continuò a narrare a Lakshmana storie simili, per illustrare
come persino grandi saggi avevano maledetto altri, e come in seguito
le loro maledizioni che a prima vista sembravano un male si erano
dimostrate delle benedizioni mascherate per tutti coloro ai quali
erano state rivolte.
Quindi Rama continuò, raccontando la storia di re Nimi:
"Nimi era il dodicesimo figlio del grande re Ikshvaku. Un giorno
egli entrò nella sua capitale chiamata Vaijayanti insieme al saggio
Gautama e ad altri. Entrando in città, egli decise di celebrare
un rito sacro. Per questo invitò suo padre Ikshvaku e chiese al
saggio Vasishtha di officiare il rito. Il saggio gli fece sapere:
"Sono già impegnato a condurre un rito sacro per Indra; verrò da
te non appena avrò concluso quel rito".
"Nimi continuò comunque il suo rito sacro per cinquemila anni. Quando
Vasishtha tornò là, dopo aver concluso il rito di Indra, scoprì
che il suo posto era stato preso dal saggio Gautama. Vasishtha s'adirò
molto; e inoltre vide che, nonostante fosse giorno, Nimi dormiva
profondamente. Questo lo irritò maggiormente e preso da un'incontrollabile
ira lo maledì: "Tu mi hai offeso, prima invitandomi e poi ignorandomi.
Possa il tuo corpo rimanere senza vita". Nimi sentì che era ingiusto
ricevere quella maledizione dal saggio, e pronunciò una
contro-maledizione: "Possa anche tu essere privato del corpo". E
subito rimasero entrambi senza corpo".
Su richiesta di Lakshmana, Rama continuò: "Il radioso saggio Vasishtha
si recò da suo padre Brahma, il Creatore, e gli fece presente la
sua condizione: "Signore, davvero infelice è la sorte di coloro
che sono stati privati del corpo; senza il corpo non si può compiere
nessuna azione. Perciò ti imploro, indicami il modo per ottenere
un altro corpo".
"Brahma rispose: "Ottieni un corpo dalle energie combinate di Mitra
e Varuna, e sarai incarnato senza essere stato concepito da una
donna. Con quel corpo farai grandi azioni virtuose e poi tornerai
da me".
"In quel tempo Mitra e Varuna vivevano insieme, devotamente adorati
da tutti gli dèi. Un giorno la ninfa celeste Urvasi capitò per caso
da quelle parti. Varuna la vide, s'innamorò di lei a prima vista
e le chiese di stare con lui. La ninfa però rispose che, prima di
lui, Mitra le aveva già chiesto di essere sua moglie. "Io ti amo
con tutto il cuore - ella disse a Varuna - ma il mio corpo appartiene
a Mitra".
"Incapace di controllarsi davanti a lei, Varuna fece cadere la sua
energia in un vaso (che già conteneva l'energia di Mitra) .
"Mitra se la prese con Urvasi anche per questa parziale trasgressione
e la maledì a nascere sulla terra come essere umano, e sposare Puruvara
(il figlio di Budha) e vivere sulla terra per un periodo di tempo.
Così ella cadde dal cielo sulla terra.
"Dal vaso emerse un saggio raggiante, il saggio Agastya, che disse
a Mitra: "Non sono tuo figlio!", e andò via. Dopo un po' di tempo
da quel vaso venne fuori il saggio Vasishtha.
"Intanto, sulla terra, i saggi che avevano visto Nimi cadere senza
vita conservarono il suo corpo imbalsamato, e continuarono il loro
rito. Alla conclusione del rito, il saggio Bhrigu disse: "Riporterò
Nimi in vita".
"Anche gli dèi furono lieti di questo miracolo, e chiesero a Nimi:
"Dove vorresti dimorare?". Nimi rispose: "Dimorerò negli occhi di
tutti gli esseri".
Gli dèi esaudirono il suo desiderio e decretarono: "Grazie a te
tutti gli esseri batteranno le ciglia, aprendo e chiudendo gli occhi,
in modo che gli occhi possano godere di un po' di riposo in questi
intervalli".
"Essi avevano ancora il corpo di Nimi. Gli dèi 'rimestarono' quel
corpo e da esso emerse un essere. Poiché era nato (janana) dal rimestare
(mathana) e dal disincarnato (videha) Nimi, l'essere nato in quel
modo fu chiamato Janaka Vaideha di Mithila.
Lakshmana chiese a Rama: "Come mai Nimi, nonostante fosse impegnato
a celebrare un rito religioso, non riuscì a controllare la sua collera
e a trattenersi dal pronunciare la sua
contro-maledizione?"
Rama rispose: "La tolleranza non è cosa abituale a tutti, Lakshmana.
La collera è difficile da controllare per la maggior parte delle
persone. Per illustrare questo fatto, ti racconterò la storia di
re Yayati. Ti prego d'ascoltare.
"Viveva anticamente un re di nome Yayati, che era figlio di Nahusha.
Yayati aveva due mogli: la prima si chiamava Sarmishta, figlia di
Vrishaparva, e l'altra era Devayani, figlia di Usana. Egli ebbe
un figlio da ciascuna delle due mogli: Sarmishta diede alla luce
Puru e Devayani diede alla luce Yadu.
"Il re Yayati amava più Sarmishta che Devayani. Un giorno Yadu disse
alla madre Devayani: "Tu sei nata da nobili saggi e sei nobile tu
stessa. Com'è possibile che sopporti quest'offesa da parte del re
senza dire una parola di protesta o di dispiacere? Io penso che
noi due dovremmo gettarci insieme nel fuoco, e morire bruciati.
Lasciamo che il re si diverta con Sarmishta, senza il minimo ostacolo.
Comunque, se vuoi tu puoi sopportare quest'offesa e questi maltrattamenti;
io non posso, e quindi ti lascerò".
"Udendo le parole del figlio, Devayani andò a chiedere aiuto a suo
padre, il saggio Bhargava o Usana. Quando udì i fatti, il saggio
s'adirò molto e lanciò una maledizione: "Possa Yayati, che preso
dal godimento dei piaceri con Sarmishta trascura il tuo benessere,
essere immediatamente sopraffatto dalla vecchiaia".
"A causa della maledizione del saggio, Yayati divenne subito vecchio.
Tuttavia, per ritardare il giorno fatale, egli chiese ai suoi giovani
figli di prendere per qualche tempo su di loro la sua maledizione,
mentre lui avrebbe continuato a godersi i piaceri della vita. Egli
andò da Yadu, che però non volle nemmeno ascoltarlo. Poi andò dall'altro
figlio, Puru, che invece acconsentì prontamente e si considerò benedetto
dal padre.
"Yayati tornò di nuovo giovane, mentre Puru portava il peso della
sua vecchiaia. Dopo essersi divertito per moltissimo tempo, Yayati
restituì la giovinezza a Puru e si riprese la sua vecchiaia. In
cambio di questo favore, Yayati incoronò Puru re al suo posto. Ma
riguardo a Yadu, Yayati lo maledì: "Tu non hai avuto alcun rispetto
per me, che sono tuo padre. Perciò sarai padre di moltissimi demoni".
"Dopo un po' di tempo Yayati ascese in cielo; e Yadu ebbe moltissimi
demoni come figli".
[NOTA: Yadu era un demone. Il Signore Krishna nacque nella stirpe
di Yadu. I discendenti non ereditano necessariamente la natura dei
loro antenati.]
Un giorno, mentre Rama sedeva nella sua corte, la guardia del palazzo
gli annunciò: "Molti saggi sono giunti alla porta, o re, e desiderano
incontrarti".
Su sollecita richiesta di Rama, i saggi entrarono a corte.
Dopo averli devotamente onorati, Rama disse loro: "Uomini santi!
Che cosa posso fare per voi? Posso conoscere lo scopo della vostra
visita? Vi prego, comandate, e io farò con immensa gioia tutto quello
che desidererete. Questo regno, la mia vita, e tutto il resto, li
mantengo solo per il servizio dei santi. Questo lo dico in verità".
Dopo questa rassicurazione, i saggi dissero a Rama: "In un tempo
remoto c'era un grande demone chiamato Madhu, figlio di Lola. Egli
era un essere giusto e virtuoso, e per questo era amato dagli dèi
e dai saggi. Assai contento di lui, il Signore Shiva gli fece dono
di un tridente che aveva i poteri del suo stesso tridente.
"Il Signore disse a Madhu: "Estremamente compiaciuto di te, ti faccio
dono di questo tridente. Fino a quando non verrà usato contro i
saggi e gli dèi, resterà tuo; altrimenti sparirà".
"Madhu fu immensamente felice e pregò per un altro favore: signore,
fate che questo tridente sia proprietà di tutti i miei discendenti".
"Il Signore, però, concesse un dono leggermente modificato: "La
tua preghiera non deve rimanere inascoltata. Perciò avrai un figlio
al quale farai dono del tridente. Fino a quando egli terrà il tridente
in mano, resterà invincibile".
"Felice del dono ricevuto dal Signore Shiva, Madhu fece ritorno
a casa. Sua moglie Kumbhinasi diede presto alla luce un figlio malvagio
di nome Lavana. Fin dalla sua infanzia Lavana indulgeva in terribili
azioni malvagie. Vedendo questo, Madhu fu molto turbato e dispiaciuto,
e tuttavia non riuscì a fare nulla per cambiarlo. Perciò egli abbandonò
casa e andò via. Comunque, prima di partire, diede al giovane il
tridente del Signore Shiva, rivelandogli le condizioni del dono.
"Con l'ausilio di quel tridente Lavana cominciò a saccheggiare i
tre mondi.
"Tutti i re del mondo, e i santi, gli asceti e gli eremiti hanno
terribilmente paura di Lavana. O Rama, tu sei il nostro solo rifugio.
Ti abbiamo raccontato sinceramente del demone e dell'arma che impugna
. Noi siamo stati felici di sapere che tempo fa uccidesti il malvagio
Ravana. Perciò riteniamo che solo tu puoi salvarci".
Rama domandò: "Dove vive questo demone chiamato Lavana? Cosa mangia?
Che cosa fa?".
I saggi risposero: "O Signore, il demone vive a Madhuvana. Egli
mangia di tutto, ma in particolare predilige divorare gli asceti.
Le sue azioni sono veramente crudeli!".
Rama rassicurò i saggi: "Andate in pace, o santi. Potete considerare
già morto il demone; su questo non c'è dubbio". Poi, volgendosi
ai suoi fratelli, Rama chiese: "Chi è pronto a compiere quest'impresa?".
Bharata si offrì volontario. Satrughna però intervenne e disse:
"Il mio diletto fratello maggiore Bharata ha già avuto abbastanza
infelicità nella sua vita. Lascia che quest'impresa sia affidata
a me".
Rama fu d'accordo e rispose: "Ben detto, Satrughna. Manderò te a
combattere contro Lavana. Anzi, voglio incoronarti subito re di
Madhuvana. Uccidi Lavana, installati sul trono di Madhuvana e governa
quel paese con giustizia".
Questa svolta improvvisa degli eventi sconcertò Satrughna, che rispose:
"Ahimè, che cosa ho fatto! Mi sembra ingiusto che mentre il fratello
maggiore è ancora in vita, il minore sia incoronato. D'altro canto
il tuo comando non dev'essere disobbedito. Tu stesso mi hai spesso
insegnato le sacre Scritture che spiegano la giusta condotta umana,
e io so che non è corretto per un giovane argomentare con un anziano.
Io so che argomentare contro quello che un anziano ha detto, anche
se potrebbe apparire ingiusto, non è corretto. Perciò, Rama, non
discuterò con te, ma farò esattamente ciò che mi hai comandato di
fare, e distruggerò qualsiasi ingiustizia possa trovarsi in me".
Rama celebrò immediatamente l'incoronazione di Satrughna come re
di Madhuvana, prima ancora di inviarlo a combattere contro il demone.
I saggi e tutti gli altri religiosi presenti proclamarono il demone
morto, già dal momento dell'incoronazione di Satrughna! Rama strinse
a sé Satrughna e gli consegnò un'arma dall'incomparabile potenza:
"Carissimo fratello, quest'arma fu creata dallo stesso Creatore
Brahma traendola dal grande oceano; ma finora era rimasta celata.
Il Signore la usò contro i primi demoni, Madhu e Kaitabha; e dopo
la loro distruzione la usò per creare il mondo. Benché la conoscessi,
non l'ho mai usata contro Ravana, perché sapevo che avrebbe causato
un'immensa distruzione...
"Tu sai che Lavana tiene il tridente di Shiva in casa sua e tutti
i giorni attende al suo culto. Poi egli va in giro per procurarsi
il cibo. Se lo sfiderai prima che rientri a casa sua e metta di
nuovo le mani sul tridente, lo sconfiggerai facilmente".
Rama continuò: "Porta con te un grande esercito che ti sostenga
nell'impresa, o Satrughna. Portati denaro e viveri a sufficienza
e distribuiscili ai soldati, perché siano contenti e stiano su col
morale. Fa' accampare l'esercito lontano dalla città e presentati
da solo a Madhuvana, cosicché il demone non abbia sospetti sulle
tue intenzioni. Questo è l'unico modo in cui potrai ucciderlo. E
adesso è il momento migliore per partire; perché è estate, e il
Gange è facile da attraversare".
Dopo aver ricevuto le benedizioni delle regine e di Rama, Satrughna
partì. Infine, dopo aver passato due notti per strada, Satrughna
raggiunse l'eremo del saggio Valmiki. Egli s'inchinò ai piedi del
saggio e poi chiese: "Sant'uomo, permettetemi di restare qui per
una notte. Domani ripartirò per la mia missione".
Il saggio accolse Satrughna con tutto il cuore e gli disse: "Invero
questo è il tuo eremitaggio; esso appartiene a Rama e alla sua famiglia".
Dopo avergli offerto l'ospitalità dell'eremo, il saggio Valmiki
narrò a Satrughna la seguente storia riguardo a un eremitaggio delle
vicinanze:
"C'era una volta un re chiamato Saudasa, che aveva un figlio di
nome Viryasaha. Un giorno, mentre era a caccia, Saudasa vide due
demoni nella foresta intenti a godersi il loro pasto. Pieno di collera,
il re ne uccise uno. L'altro demone maledì Saudasa con queste parole:
"Tu hai ucciso il mio amico, che non ti aveva fatto alcun male;
perciò, a suo tempo, mi prenderò la rivincita su di te".
"Qualche tempo dopo Saudasa volle celebrare il rito del cavallo.
Alla conclusione del rito, il demone prese le sembianze del saggio
Vasishtha e chiese della carne da mangiare. Il re diede ordine di
preparare la carne. E il demone stesso, questa volta nelle sembianze
di un cuoco, preparò un pasto di carne umana.
"Quindi il re servì il vero saggio Vasishtha con quel cibo. Ma il
saggio adirato maledì il re : "Poiché mi hai dato da mangiare della
carne umana, tale sarà il tuo cibo (cioè, diventerai un cannibale)".
"Il re stava per maledire a sua volta il saggio, ma la regina lo
trattenne. La sua ira fluì fuori dalla sua bocca e bagnò i suoi
piedi, che divennero scuri, Per questo egli fu chiamato Kalmashapada.
Allora Vasishtha modificò la sua maledizione e disse: "Essa avrà
effetto solo per dodici anni". Dopo aver vissuto per dodici anni
come un cannibale, il re riacquistò la sua condizione precedente
e il regno che gli apparteneva prima. Quel famoso rito sacro fu
celebrato in quell'eremo laggiù.
Quella notte, mentre Satrughna era ospite nell'eremitaggio di Valmiki,
Sita diede alla luce i figli di Rama.
Nel cuore della notte, alcune persone provenienti dall'eremitaggio
femminile in cui risiedeva Sita si recarono dal saggio Valmiki e
annunciarono: "Signore santo, la moglie di Rama ha dato alla luce
due figli! Ti preghiamo, vieni a benedirli e a proteggerli dagli
spiriti maligni".
Il saggio Valmiki si recò immediatamente dove si trovava Sita, accompagnato
da parecchi saggi anziani. Egli prese un mazzetto d'erba kusa, consacrò
i bambini con dei mantra per proteggerli dagli spiriti maligni e
quindi li toccò con quegli steli d'erba.
Il primogenito fu toccato con la cima dell'erba kusa, e perciò Valmiki
lo chiamò Kusa. L'altro bambino fu toccato con la parte bassa e
terminale (lava) dell'erba, e perciò fu chiamato Lava.
Infine tutte le persone che si trovavano nell'eremo cantarono le
glorie di Rama e Sita.
La mattina seguente Satrughna si recò dal saggio Chyavana e gli
chiese di svelargli i punti forti e i punti deboli di Lavana e del
famoso tridente di cui era in possesso.
Per far comprendere a Satrughna il potere tremendo di quel tridente,
il saggio gli narrò la storia di un suo antenato chiamato Mandhata.
Il saggio Chyavana disse: "Una volta il tuo antenato Mandhata andò
in cielo, con l'intenzione di conquistarlo. Indra gli disse umilmente:
"O re, perché non provi a conquistare tutta la terra, prima di tentare
d'invadere il cielo in questo modo?".
"Mandhata domandò con ira: "La terra è già stata conquistata; chi
c'è sulla terra che non riconosce la mia sovranità?". Indra rispose
calmo: "Lavana".
"Mandhata fece subito ritorno sulla terra e inviò un emissario a
Lavana, perché accertasse se effettivamente egli non riconoscesse
la sovranità di Mandhata. La risposta di Lavana fu rapida e sommaria:
fece un bel pasto del messaggero.
"Fortemente incollerito da questo affronto alla sua potenza, lo
stesso Mandhata in persona si recò a combattere contro Lavana. Per
niente intimorito dalla sfida, Lavana prese il suo tridente e lo
lanciò contro Mandhata. L'arma infallibile tolse la vita al grande
re e ritornò dal demone".
"Tuttavia, non temere - concluse il saggio Chyavana - domani tu
ucciderai il demone Lavana, quando lo sfiderai prima che abbia il
tempo d'afferrare il tridente".
La mattina seguente di buon'ora Satrughna partì da solo verso la
città chiamata Madhuvana. Una volta raggiunta la città, egli s'appostò
in modo tale da bloccare l'ingresso alla casa di Lavana.
Lavana, che era uscito a procurarsi del cibo, tornò poco dopo con
un carico enorme di carcasse di vari animali.
Vedendo Satrughna in piedi che bloccava l'entrata del suo palazzo,
egli gridò: "Chi sei, o folle? Che cosa vuoi fare qui? Io ho ucciso
e divorato migliaia di persone come te, nonostante fossero tutte
ben armate ed eroiche in battaglia. Ovviamente la carne che ho portato
con me non è abbastanza, e tu sei venuto a completarla per me. Ora
ti ucciderò e farò un bel pasto anche di te".
Allora Satrughna rivelò la sua identità, dicendo di essere il fratello
di quel Rama che aveva ucciso il potente Ravana.
Il demone replicò: "Ah, che meraviglia, Ravana era un mio parente
stretto. Come sono fortunato di poter vendicare così facilmente
la sua morte!".
Vedendo che il demone era disarmato, Satrughna lo sfidò ad un combattimento
a corpo a corpo, Lavana accettò, e afferrati degli alberi enormi
cominciò a colpire Satrughna con essi.
Satrughna combatté impavidamente, ma colpendolo con un grosso albero
Lavana gli fece perdere i sensi.
Vedendolo giacere a terra immobile, Lavana pensò che Satrughna fosse
morto. Perciò, senza neanche curarsi di andare a prendere il tridente,
si sedette a consumare il suo pasto.
Nel frattempo, però, Satrughna aveva ripreso i sensi. E senza perdere
altro tempo, egli fissò quel missile micidiale che Rama gli aveva
dato, pronto a sparare, bloccando nello stesso tempo l'entrata del
palazzo, in modo che Lavana non potesse prendere il suo tridente
invincibile.
La forza del missile fu tale che fece paura anche agli dèi, che
erano andati a trovare il Signore per un'ambasciata.
Il Signore li rasserenò: "Questa immensa energia che vi ha impaurito
tutti non è altro che il missile che Satrughna sta per usare nella
battaglia contro Lavana. Esso fu forgiato all'inizio dal Creatore
dell'universo per distruggere i demoni Madhu e Kaitabha. Andate
rapidamente ad assistere al terribile scontro". E gli dèi scesero
sulla terra per assistere alla grande battaglia.
Satrughna fece partire il missile divino contro Lavana, che cadde
subito morto.
E in quello stesso istante il tridente ritornò dal Signore Shiva.
Dopo l'uccisione di Lavana, gli dèi si complimentarono con Satrughna
per la sua impresa sovrumana.
"Questo demone aveva oppresso impietosamente molti dèi e demoni
- essi dissero - ma per fortuna ora l'hai ucciso".
Satrughna pregò gli dèi perché entrassero nella città di Madhupuri.
Gli dèi entrarono in città e la benedirono, augurandole che da allora
in poi essa sarebbe diventata fiorente e prosperosa.
E infatti da quel giorno stesso la prosperità e la pace tornarono
nella città di Madhupuri. Ogni suo abitante era sano, felice e in
pace con sé stesso.
Con Satrughna come re, la giustizia fu riaffermata ovunque, e strade
e giardini furono costruiti dappertutto.
Dedito al benessere della città e del suo regno, in questo modo
passarono dodici anni. Un giorno Satrughna sentì l'intenso desiderio
di rivedere i piedi divini di Rama.
Lungo la via del ritorno ad Ayodhya, Satrughna fece nuovamente sosta
per un giorno all'eremo del saggio Valmiki.
Nel frattempo il saggio aveva composto la famosa epica chiamata
'Rama Carita' (la storia di Rama). E Valmiki volle recitarla a Satrughna
per fargliela ascoltare.
L'epica era perfetta in ogni suo aspetto. Le sue parole erano veritiere,
la narrazione era veritiera. Udendola, Satrughna cominciò a versare
lacrime d'amore, e singhiozzando ripetutamente perse coscienza del
corpo per un po' di tempo.
Anche i soldati lì presenti udirono la commovente storia e furono
rapiti in estasi. Più tardi essi chiesero a Satrughna: "Di chi parla
questa storia? Su che cosa è basato l'intero poema? È vero o stiamo
sognando? Ti preghiamo di chiedere al saggio tutte queste cose".
Satrughna, comunque, si rifiutò di farlo. Egli rispose: "Guerrieri!
Non è corretto da parte nostra chiedere queste cose al saggio. Certamente
in quest'eremo del saggio Valmiki vi sono innumerevoli meraviglie".
Detto questo egli si ritirò nel proprio accampamento.
Ben presto Satrughna entrò nel palazzo di Rama e, con sua immensa
gioia, vide il fratello attorniato dai suoi ministri.
Egli s'inchinò ai piedi del suo re, e poi disse: "Rama, ho eseguito
devotamente i tuoi ordini. Lavana è stato ucciso e io stesso ho
regnato su Madhuvana per un lungo periodo di dodici anni. L'amministrazione
dello stato è stata stabilita su solide basi. Benedicimi, Signore,
poiché senza di te sono come un vitello senza la mucca; permettimi
di stare qui ai tuoi piedi".
Rama abbracciò affettuosamente il fratello e rispose: "Allo stesso
modo anche tu mi sei molto caro, o Satrughna. Ma gli uomini di stirpe
guerriera non si sentono tristi quando sono separati dai loro amici
e parenti; poiché per loro, la protezione del popolo è di primaria
importanza. Resterai dunque con me per sette giorni, e poi tornerai
nel tuo regno".
Satrughna trascorse sette giorni beati in compagnia di Rama e degli
altri suoi fratelli; e l'ottavo giorno ripartì per Madhupuri insieme
a Bharata.
Un giorno, mentre Rama teneva consiglio nella sua corte ad Ayodhya,
un uomo anziano si presentò alle porte del palazzo, portando tra
le braccia il corpicino morto del suo bambino.
L'anziano brahmana gridava piangendo: "Ahimè, cos'ho fatto per meritare
questa sventura? Io non ho mai pronunciato il falso; non ho mai
fatto del male ad alcun essere vivente. Non ricordo di aver mai
fatto una cattiva azione contro qualsiasi essere. E allora, per
quale peccato questo mio figlioletto è morto prima di poter celebrare
le esequie dei suoi genitori?
"Ah, figlio mio, te ne sei andato dopo una vita tanto breve, lasciando
me e tua madre affranti dal dolore. Ma molto presto anche noi ti
seguiremo .
"Una disgrazia come questa non s'è mai sentita; io non ho mai visto
una cosa simile. Dev'esserci senz'altro una ragione. Si sa che cose
del genere avvengono a causa dell'ingiustizia del re. Non c'è dubbio
che il re Rama è responsabile della morte prematura di questo bambino.
"Che il re riporti il bambino in vita, oppure io mi toglierò la
vita qui stesso, davanti all'ingresso del suo palazzo. E allora
che il re e i suoi fratelli si divertano, dopo essersi resi responsabili
della morte di un brahmana.
"Le disgrazie affliggono la nazione governata iniquamente da un
re dalla condotta deplorevole o immorale; è solo in un paese simile
che il popolo è soggetto alla morte prematura".
Profondamente angosciato dalle parole del brahmana, Rama riunì immediatamente
i saggi della sua corte. Dopo averli ricevuti con grande reverenza
e onore, Rama li mise al corrente dell'accaduto.
Notando il grande dispiacere che affliggeva Rama, il saggio Narada
gli disse:
"Rama, ti dirò il vero motivo della morte prematura di quel bambino.
"Nell'epoca conosciuta col nome di Krta o Satya Yuga solo i brahmana,
o le persone sagge e istruite che erano giuste e autocontrollate,
si dedicavano alla pratica delle austerità. Col passare del tempo,
durante l'era conosciuta come Treta Yuga, anche le persone che non
erano tanto sagge e istruite, tanto giuste e autocontrollate - anche
persone d'indole guerriera e dallo spirito marziale - cominciarono
a praticare austerità. Certo già durante quel periodo l'ingiustizia
aveva cominciato ad invadere la terra. Con l'inizio della terza
era, conosciuta come Dvapara, l'ingiustizia dell'era precedente
si era, per così dire, raddoppiata. E persino coloro che erano dediti
alle professioni, al commercio, all'industria e all'agricoltura,
e che quindi erano ancor più lontani dalla via della giusta condotta,
cominciarono a praticare delle austerità, sicuramente per motivi
poco edificanti. Ora già qualcuno che non appartiene a nessuna di
queste classi, e che invece è nato nella classe servile, è impegnato
in austerità: certamente egli non possiede nessuna delle qualificazioni
necessarie. In questa era, la classe dei sudra (la classe servile)
è caratterizzata dall'ingiustizia; il fatto che un membro di tale
classe abbia cominciato a praticare austerità ha causato la morte
del bambino. Se potrai porre rimedio a questo stato di cose, allora
il bambino tornerà in vita".
Udendo questa spiegazione, il morale di Rama si risollevò. Egli
ordinò che il corpo del bambino fosse imbalsamato, e che si consolasse
l'anziano padre. Subito dopo egli pensò al velivolo spaziale Pushpaka,
che in un attimo arrivò sul posto. Salito sul velivolo, Rama perlustrò
la terra a est, a nord e ad ovest, ma non vi scoprì alcuna azione
ingiusta che avrebbe potuto causare quella grande calamità. Poi
egli si diresse verso sud, e nei pressi di una grande montagna vide
un immenso lago. Stando in piedi nel lago, qualcuno stava praticando
intense austerità. Guardandolo, Rama gli chiese: "Per curiosità,
o asceta, desidererei sapere chi sei? In quale comunità sei nato?
E perché stai praticando queste austerità: per ottenere il paradiso
o per un'altra ragione? O forse stai praticando queste austerità,
molto difficili per altri, solo per ottenere un dono. Dimmi sinceramente:
sei un brahmana, un guerriero, un commerciante o un servo?".
L'asceta rispose: "Non ti dirò il falso, o Rama. Ti dirò la verità,
poiché attraverso questa penitenza desidero ottenere lo stato divino.
Io sono un sudra, e il mio nome è Shambuka".
Non appena Shambuka pronunciò queste parole, Rama sguainò la sua
spada radiosa e gli recise la testa.
Gli dèi furono lieti e vollero offrire a Rama un dono.
Rama fece la sua scelta: "O dèi, se siete compiaciuti con me, che
il figlio del brahmana torni in vita; questa è l'unica cosa che
vi chiedo".
Gli dèi risposero: "Questo è già stato fatto, perché nel momento
in cui hai tagliato la testa di Shambuka il figlio del brahmana
è risuscitato. Bene, ora procediamo verso l'eremo del saggio Agastya.
Egli ha vissuto di sola acqua negli ultimi dodici anni e ha appena
concluso il suo periodo d'austerità. Andiamo a trovarlo".
Quando gli dèi arrivarono nel suo eremitaggio, Agastya li ricevette
con sacra devozione. Più tardi essi partirono.
Rama scese dall'aeromobile Pushpaka e s'inchinò davanti al saggio.
Il grande rishi lo accolse con tutto il cuore, e poi gli disse:
"Gli dèi mi hanno detto che hai ucciso l'asceta-sudra, risuscitando
così il figlio del brahmana. Tu sei davvero il Signore Narayana;
in te dimorano tutte le cose. Tu sei il Signore di tutti gli dèi.
Tu sei l'eterno purusha (la persona suprema). Ti prego, passa la
notte qui e riparti domattina. Accetta anche quest'ornamento radioso
di cui solo tu sei degno. È detto che colui che regala ciò che gli
è stato dato acquista moltissimo merito".
Rama chiese al saggio: "Come hai fatto ad avere quest'ornamento?
Ti prego, raccontamelo, sono curioso di saperlo".
Agastya continuò: "Moltissimo tempo fa vivevo in una foresta. Un
giorno m'inoltrai profondamente nel cuore della foresta e vidi un
bellissimo eremitaggio. Trascorsi una notte là. La mattina seguente
vidi un cadavere vicino all'eremitaggio. Mentre mi chiedevo di chi
poteva essere quel corpo, vidi un'altra scena meravigliosa.
"Un veicolo spaziale discese sul posto, e in esso vidi un radioso
essere celeste circondato da ninfe che cantavano e danzavano. Mentre
continuavo a guardare, egli scese dal velivolo, si accomodò e divorò
quel cadavere. Finito il pasto, andò al lago a lavarsi. Quando stava
per risalire sul velivolo, gli chiesi: "Chi sei? Hai l'aspetto di
un dio, ma hai divorato un cadavere. Ti prego di chiarirmi i motivi
di questo strano comportamento"".
Agastya continuò:
Per rispondere alla mia domanda, quell'essere celeste mi raccontò
questa storia:
"Quando vivevo su questa terra ero il figlio del re di Vidharbha
chiamato Sudeva. Egli ebbe due mogli, e da esse ebbe due figli.
Io mi chiamavo Sveta e mio fratello Suratha.
"Alla morte di nostro padre, i cittadini m'incoronarono re. Per
un certo periodo di tempo amministrai il regno con giustizia, e
in seguito mi ritirai nella foresta e praticai intense austerità.
Tuttavia, quando lasciai questo mondo e raggiunsi il più alto reame
celeste, il Brahmaloka, scoprii di essere ancora soggetto alla fame
e alla sete.
"Quando ne chiesi la ragione, il Creatore Brahma mi disse: "Tu hai
fatto penitenze solo con il corpo; perciò soddisferai la tua fame
divorando carne umana. Poiché non hai dato niente a nessuno - né
da mangiare né da bere - sei ancora soggetto alla fame e alla sete
anche in paradiso. Comunque sarai liberato da questa condizione
quando sarai benedetto dall'incontro con il saggio Agastya"".
Quell'essere celeste fu felicissimo di vedermi, perché in quello
stesso istante fu liberato dalla sua miserabile condizione. Come
segno di gratitudine, egli mi indusse ad accettare quest'ornamento
celeste.
Poi Rama chiese ad Agastya: "Perché la foresta chiamata Dandaka
è priva di animali e uccelli? Ti prego, o saggio, illuminami anche
su questo".
Il saggio Agastya continuò:
Anticamente Manu ebbe un figlio chiamato Ikshvaku. Manu lo installò
sulla terra come suo unico imperatore. Inoltre Manu istruì Ikshvaku
nell'arte della giusta amministrazione. E gli disse: "Ecco qui la
verga del castigo, figlio mio. Con questa proteggi il popolo. Il
re che usa questa verga per punire i criminali va in paradiso. Perciò
usa la verga con estremo giudizio. La giustizia è la cosa suprema
in questo mondo".
Poi Manu fece ritorno nella sua dimora.
Ikshvaku ebbe cento figli. L'ultimo era uno stolto che crebbe come
un analfabeta. Il suo nome era Danda, poiché il padre aveva pensato:
'Sicuramente il suo corpo riceverà la verga (danda)'. Ikshvaku gli
affidò la terra tra i monti Vindhya e i monti Saivala. Danda costruì
la capitale del suo regno, che chiamò Madhumantam, e nominò Usana
come suo sacerdote personale.
Mentre Danda governava il suo regno, un giorno gli capitò d'incontrare
Araja, la figlia di Usana (il saggio Sukra). Ella era veramente
bella, e quando Danda la vide fu istantaneamente sopraffatto dalla
lussuria.
Avvicinandola, egli le chiese: "Chi sei, bella fanciulla? La tua
semplice vista mi ha riempito di desiderio per te".
Araja, però, ebbe tanta paura e rispose docilmente: "Ti prego, o
re, non toccarmi, non prendermi con la forza; perché una vergine
è sotto la custodia di suo padre. Mio padre Sukra è il mio tutore
e il mio guru, e anche tu sei suo discepolo. Se egli s'arrabbiasse,
la tua sorte sarebbe triste. Perciò è giusto che tu vada a chiedergli
la mia mano; altrimenti incorrerai in una grande sventura. Quand'è
in collera, mio padre potrebbe ridurre in cenere i tre mondi. Se
invece glielo chiederai, egli sarà lieto di darmi in sposa a te".
Nonostante queste parole, Danda fu inamovibile. Egli sollevò le
mani sulla sua testa in un gesto di saluto e di sottomissione e
ribadì la richiesta di soddisfazione immediata della sua lussuria.
"Ti voglio disse - anche se mi costasse la vita; anche se fosse
un grande peccato da parte mia. Ti amo intensamente. Vieni da me,
timida fanciulla!".
Quindi la prese con la forza. Infine, soddisfatto il suo desiderio,
egli fece ritorno al palazzo, mentre Araja tornò piangendo all'eremo
di suo padre.
Quando il saggio Sukra venne a sapere della violenza di Danda, andò
fuori di sé in preda a un'ira incontrollabile. Egli si volse ai
suoi discepoli e urlò: "Guardate il terribile misfatto dello stolto
Danda. Permettendosi di scherzare così con il fuoco che sono io,
certo egli ha raggiunto la fine della sua vita. Visto che ha osato
commettere questo efferato crimine, dovrà certamente raccogliere
i frutti della sua azione. Entro sette giorni, il re con la sua
famiglia e i suoi amici vedranno la morte. E per sette giorni una
pioggia incessante devasterà il suo regno".
E così fu. I discepoli stessi del saggio lasciarono l'eremitaggio
e si rifugiarono in una foresta vicina. Sukra però comandò a sua
figlia Araja di restare nell'eremo, assicurandole la sua protezione.
Persino le piante e gli alberi che erano intorno a lei furono protetti
dalle benedizioni del saggio.
Così il regno di Danda, il Dandakaranya, divenne disabitato.
Comunque - concluse Agastya - dopo molti anni dei saggi cominciarono
a viverci di nuovo e a praticarvi le loro austerità.
Il giorno seguente, Rama si alzò di buon'ora e recitò le sue preghiere
mattutine. Poi si recò dal saggio Agastya, s'inchinò davanti a lui,
e gli chiese il permesso di tornare al suo palazzo: "Mi considero
veramente benedetto d'essere stato alla tua presenza, o saggio!".
Il saggio Agastya rispose: "Sono sorpreso dalle tue parole, Rama;
poiché in verità tu sei il supremo purificatore e redentore del
mondo intero e di tutti gli esseri che vi dimorano. Chi ha la fortuna
di vederti; anche solo per un'ora, viene completamente purificato,
e diventa degno d'essere adorato anche dagli dèi. Chi invece ti
guarda con occhi maligni, è soggetto alla punizione di Yama, il
dio della morte. Ritorna nel tuo regno e proteggi i tuoi sudditi,
seguendo rigorosamente le leggi del Dharma. Tu infatti sei la mèta
di tutti gli esseri sulla terra".
Rama salì sul veicolo spaziale Pushpaka e fece rapidamente ritorno
al suo palazzo. Rientrato nei suoi alloggi, egli licenziò il velivolo.
Subito dopo, Rama fece chiamare i suoi fratelli, e disse loro:
"Ho compiuto il mio dovere verso l'anziano brahmana, che ha riavuto
suo figlio. Desidererei seguire il sentiero del Dharma e fare qual
cosa di più per acquisire del merito religioso. Ho in mente di celebrare
il rito Rajasuya, insieme a tutti voi che siete la proiezione esterna
de mio stesso sé. Abbiamo sentito dire che Mitra celebrò quel rito
sacro, e lo fece anche Soma, guadagnandosi una fama eterna".
Udendo ciò, Bharata si rivolse a Rama con grande amore e devozione
:
"Rama, tutti i re della terra ti considerano il signore dell'universo.
Essi guardano a te come a un padre. O Rama, tu sei il solo rifugio
di tutti gli esseri sulla terra. Ma il rito Rajasuya è pieno di
conflitti con gli altri re, perché comporta la loro sottomissione
e simili atti di violenza. Quando tu sai che tutti i re sono di
fatto sotto il tuo controllo, non c'è neppure bisogno di sfidarli.
Perciò, ti prego, abbandona l'idea di celebrare il rito Rajasuya".
Rama fu contento delle parole del fratello, e disse:
"Sono felicissimo delle tue parole sagge e coraggiose, o Bharata.
Ho abbandonato l'idea di celebrare il rito Rajasuya, che in effetti
coinvolge l'esecutore in qualche forma di violenza. Certamente,
le persone pie non dovrebbero impegnarsi in azioni che comportino
danno o sofferenza per gli esseri viventi".
Lakshmana disse poi a Rama:
Invece del Rajasuya, penso che dovremmo celebrare il rito dell'Asvamedha.
L'Asvamedha è un grande rito e purifica da tutti i peccati perciò
ti prego di considerarlo.
Ho sentito dire che nei tempi antichi lo stesso Indra celebrò quel
sacro rito per acquisire abbastanza merito per poter uccidere il
suo nemico, il demone Vritra.
In realtà il demone Vritra era un re buono e nobile che governava
il mondo intero con giustizia e saggezza. E nel mondo vi era pace,
abbondanza e prosperità.
Affidando il regno a suo figlio, un giorno Vritra decise di praticare
austerità.
Non appena egli cominciò le sue austerità, Indra si recò dal Signore
Vishnu e disse: "Signore, Vritra sta per cominciare a praticare
delle austerità. Se avrà successo nella pratica, egli diventerà
estremamente potente e nessun altro potrà sottometterlo finché durerà
il mondo. La tua grazia, o Signore, è la sua sola forza. Io ti prego
di trovare un modo per eliminarlo".
Il Signore però rispose: "Finora sono stato amico di Vritra, perciò
non potrei ucciderlo. Tuttavia esaudirò la tua preghiera. Mi dividerò
in tre parti. Una parte entrerà in Indra, l'altra entrerà nella
sua arma, il fulmine, e la terza entrerà nella terra. Con l'ausilio
di queste tre parti, riuscirai a uccidere Vritra".
Mentre gli dèi stavano a guardare sbalorditi, Indra impugnò il suo
fulmine e lo lanciò contro il demone Vritra.
La testa del demone cadde subito a terra rotolando. Ovviamente fu
l'energia divina dello stesso Signore Vishnu che permise il successo
di Indra.
Vritra era un brahmana di nascita. E il terribile peccato di avere
ucciso un brahmana perseguitava e ossessionava Indra.
Allora gli dèi andarono ancora una volta dal Signore Vishnu e lo
pregarono insistentemente: "Signore, per grazia tua Indra ha potuto
uccidere il potente demone Vritra, ma il terribile peccato di avere
ucciso un brahmana lo perseguita. Di grazia, libera Indra da quel
peccato".
Il Signore Vishnu rispose: "O dèi, adoratemi attraverso il sacro
rito dell'Asvamedha, e io libererò Indra dalla paura generata dall'avere
ucciso un brahmana".
Mentre Indra era tormentato dal peccato di avere ucciso un brahmana,
grandi calamità colpivano la terra. I laghi si prosciugavano e i
fiumi andavano in secca; mancava la pioggia e prevaleva la siccità.
Allora gli dèi ricordarono le parole del Signore Vishnu.
Rapidamente tutti gli dèi si riunirono per celebrare il grande rito
dell'Asvamedha. Alla conclusione del rito, il grande peccato dell'uccisione
di un brahmana apparve davanti a loro, dopo aver lasciato Indra.
Quel 'peccato' si divise in quattro parti: una parte vive nelle
acque dei fiumi durante i quattro mesi della stagione delle piogge,
una parte vive nelle terre sterili, una parte vive nelle giovani
donne durante il loro periodo mestruale e la quarta vive in coloro
che scandalizzano o uccidono un brahmana.
Così Indra era stato purificato e redento dal peccato di avere ucciso
un brahmana attraverso il potere del grande rito dell'Asvamedha.
Rama fu deliziato dall'ascolto di questo racconto, e disse a Lakshmana:
"La storia che hai narrato è davvero meravigliosa. Anch'io ho udito
un'altra storia che mette in risalto la gloria del rito dell'Asvamedha.
Ora ve la racconterò.
"Anticamente il saggio Kardama aveva un figlio chiamato Ila. Questi
aveva conquistato il mondo intero e governava la terra con giustizia
e saggezza, trattando tutti gli esseri come suoi figli.
"Un giorno egli si recò nella foresta per andare a caccia. Nel corso
della spedizione capitò nei paraggi del luogo in cui era nato il
Signore Skanda. In quella regione, il Signore Shiva era impegnato
a divertirsi con la dea Parvati, e aveva decretato che tutti gli
esseri che si trovavano in quell'area sarebbero diventati femmine.
"Quando re Ila entrò in quella regione, si accorse che aveva misteriosamente
perso le caratteristiche di uomo ed era diventato una donna. Quando
scoprì che tutto questo era opera del Signore Shiva, disperato egli
cominciò a cantare le glorie di Shiva.
"Compiaciuto con lui, il Signore gli disse: "Chiedimi qualunque
altro dono che non sia quello di ridiventare maschio". Ma Ila non
aveva alcun altro desiderio!
"Vedendo la condizione pietosa di Ila, la devi Parvati disse: "Io
sono l'altra metà del Signore Shiva, ed esercitando il mio privilegio
ti faccio dono della virilità. Perciò tu sarai alternativamente
uomo per un mese e donna nel mese successivo. Mentre sarai donna
dimenticherai di essere uomo, e viceversa"".
Rama continuò la storia di Ila. "Durante il primo mese, Ila, trasformato
in una donna avvenente, andò in giro con tutto il suo seguito, i
cui membri erano stati anch'essi trasformati in donne.
"Un giorno Ila vide Budha, un bel giovane figlio del dio Soma (il
dio della luna). Ella s'innamorò di Budha a prima vista.
"Anche Budha vide Ila e s'innamorò di lei. Egli disse tra sé: "Non
ho mai visto una donna così bella in tutto il mondo; né tra le dee
né tra le donne mortali". Allora si recò all'eremitaggio in cui
vivevano Ila e le sue seguaci, e interrogò quest'ultime riguardo
a Ila. Ma le donne del seguito seppero solo rispondere: "È la nostra
guida, non è sposata, e vive in quest'eremo con tutte noi".
"Tuttavia, grazie alla sua saggezza intuitiva, Budha venne a sapere
l'intera storia. Egli capì che erano tutti uomini (purusha) che
erano stati trasformati in donne. Perciò le chiamò donne-kimpurusha,
e disse loro che avrebbero ottenuto come consorti degli uomini-kimpurusha
(una specie di esseri celesti).
"Quindi Budha andò da Ila, rivelò la sua identità e chiese la sua
mano. Ila acconsentì subito ad essere sua moglie. Insieme essi si
godettero la vita per tutto quel mese.
"Un giorno, dopo la conclusione del primo mese, Ila si svegliò come
uomo. Anticipando quel giorno, Budha aveva cominciato a praticare
intense austerità.
"Ila disse a Budha: "Sono venuto in questa foresta insieme al mio
seguito; e poi mi sono addormentato. Ora non vedo il mio seguito.
Amico, sai forse che ne è stato di loro?".
"Rendendosi conto che Ila aveva dimenticato gli avvenimenti del
mese precedente, Budha disse: "Vi è stata una terribile tempesta
che li ha uccisi tutti. Anche tu hai trovato riparo qui, durante
la tempesta. Non importa: potrai continuare a stare qui, mangiando
frutta, radici, e altro".
"Ila credette alla storia di Budha, e disse: "No, non mi piacerebbe
tornare al palazzo reale senza il mio seguito. Mio figlio Sasabindu
è là, e sicuramente regnerà al posto mio".
"Dopo un mese, Ila diventò di nuovo donna. In questo modo passò
il tempo. Dopo nove mesi Ila e Budha ebbero un bambino, che chiamarono
Pururava.
"Un giorno, dopo la nascita di Pururava, Budha chiese ai saggi:
"Di grazia, o saggi, ascoltatemi. Ila era un grande e nobile re;
e voi sapete come è stato trasformato in una donna. Vi prego di
trovare un modo per fargli riacquistare il suo stato di uomo".
"Il saggio Kardama (padre di Ila) disse: "Non vedo altro rimedio
se non l'adorazione del Signore Shiva; e non vi è rito più grande
di quello dell'Asvamedha per ottenere le sue benedizioni".
"Ben presto tutti i saggi insieme organizzarono il rito dell'Asvamedha
per propiziare il Signore Shiva. Immensamente soddisfatto dalla
celebrazione del sacrificio dell'Asvamedha, il Signore Shiva si
manifestò in mezzo a loro e disse: "O santi, sono molto compiaciuto
dalla vostra devozione, chiedetemi un favore". Essi pregarono: "O
Signore, concedi a Ila di ridiventare uomo". Il Signore Shiva fu
felice di trasformare di nuovo Ila in un uomo.
"I saggi tornarono alle loro dimore e anche re Ila fece ritorno
al suo palazzo.
"Tale è la gloria del sacrificio dell'Asvamedha", concluse Rama.
Poi Rama annunciò: "Alla presenza di saggi e santi come Vasishtha,
Varnadeva, Jabali e Kasyapa, alla presenza dei santi brahmana, e
con l'ausilio dei loro consigli e delle loro benedizioni, libererò
un cavallo sacro ben adornato, come preparazione alla celebrazione
del rito sacro".
Udendo queste parole di Rama, Lakshmana fece riunire immediatamente
i saggi e i brahmana nel palazzo reale.
Inoltre Rama mandò a chiamare Satrughna, Vibhishana, i re dei paesi
vicini e gli uomini religiosi di tutto il mondo.
Quando gli ospiti cominciarono ad arrivare, Rama fece preparare
montagne di cibo di tutti i tipi per servirli in maniera adeguata.
Bharata e Satrughna ricevettero gli ospiti e offrirono loro doni
preziosi. Vibhishana ed altri accolsero devotamente i religiosi
e si dedicarono al loro servizio. I vanara servirono tutti gli ospiti,
avendo cura che nulla fosse trascurato.
Il sacrificio dell'Asvamedha ebbe inizio con indescrivibile magnificenza.
Quando tutti i preparativi furono completati, Rama liberò un magnifico
cavallo, che affidò alla custodia di Lakshmana.
Poi, insieme a tutto il suo seguito, Rama entrò nel luogo di Naimishan,
dove si sarebbe celebrato il rito sacro.
Il rito sacro ebbe inizio e si protrasse per un anno intero. Cibo,
bevande, indumenti, oro e ornamenti scorrevano incessantemente in
quel luogo. Bharata e Satrughna avevano quest'incarico e si preoccupavano
che non vi fosse alcuno che, avendo espresso il minimo desiderio,
restasse insoddisfatto.
I vanara s'impegnarono alacremente al servizio di tutti gli ospiti.
E il nobile Vibhishana servì con zelo i saggi.
Nessuno era debole, sporco o bisognoso. Nessuna necessità rimaneva
inappagata. E prima ancora che venisse espresso, ogni desiderio
era già appagato.
Quelli che volevano oro, ricevevano l'oro; quelli che volevano indumenti,
ricevevano indumenti. Dolci e cibi prelibati erano sempre a disposizione
di tutti.
Tutti gli ospiti dicevano tra loro: "Non abbiamo mai visto una cosa
simile. Né Indra né Soma né Varuna né alcun altro hanno mai celebrato
un rito di così grande splendore".
Altrove, scortato da Lakshmana, il cavallo continuava a vagare per
la terra.
A questo grandioso rito sacro venne anche il saggio Valmiki con
i suoi discepoli. Tra questi vi erano i due fanciulli Kusa e Lava.
Il saggio aveva detto loro: "Cantate gioiosamente il 'Ramayana',
il grande poema epico che vi ho insegnato. Cantatelo davanti ai
saggi o ai brahmana, nei palazzi dei principi e lungo le strade
principali. Cantatelo alle porte del palazzo di Rama e di fronte
ai sacerdoti officianti il rito sacro. Ecco, prendete questi frutti;
essi terranno lontana la stanchezza e proteggeranno le vostre voci
dalla fatica.
"Nel caso Rama vi chiamasse a cantare il poema davanti a lui, fatelo
senza esitazione. Non accettate alcun compenso; infatti, a che servono
l'oro o le ricchezze? Se Rama vi chiedesse di chi siete figli, rispondete
semplicemente: "Siamo discepoli di Valmiki". Ecco, prendete questo
strumento musicale e cantate il poema accompagnandovi con esso".
Così istruiti dal saggio, i giovani figli di Sita attesero con zelo
l'opportunità di cantare il Ramayana.
La mattina seguente i due ragazzi si alzarono presto e offrirono
le loro preghiere mattutine. E come il saggio aveva comandato loro,
cominciarono a cantare. Quindi Rama stesso chiese loro di cantare
il poema.
Il re riunì tutti i saggi e i santi, i re, gli eroi, i sacerdoti,
i narratori, i grammatici e tutti gli altri brahmana che erano interessati
ad ascoltare il grande poema, e quindi chiese ai due ragazzi di
cantarlo davanti a loro. Tutti i membri di quell'augusta assemblea
bevvero il nettare estasiante del poema con le loro orecchie, e
l'affascinante personalità dei due fanciulli con i loro occhi.
Essi dicevano l'un l'altro: "Questi due ragazzi somigliano moltissimo
a Rama, sono il ritratto stesso di Rama. Se non indossassero indumenti
ascetici e non avessero i capelli intrecciati sul capo, avremmo
potuto dire che sono i figli di Rama".
Dopo aver completato la recitazione di venti capitoli, secondo le
istruzioni del saggio Valmiki, i fanciulli si fermarono.
Allora il re chiese a suo fratello di donare ai due ragazzi una
borsa piena d'oro - che però essi rifiutarono educatamente di accettare,
dicendo: "Noi siamo abitanti della foresta e l'oro non ci è di alcuna
utilità".
Rama chiese loro chi fosse l'autore del poema e se esso fosse autentico.
I fanciulli risposero devotamente che il poema era una composizione
del saggio Valmiki e che la sua storia era assolutamente veritiera.
Al termine della giornata, Rama diede loro il permesso di tornare
all'accampamento del saggio. Il giorno seguente, di nuovo, egli
fece recitare loro il poema.
Così trascorsero molti giorni. Rama fece recitare loro il poema
alla presenza di saggi e re, Dalla maniera in cui il poema veniva
recitato, egli concluse che si trattava dei figli di Sita.
Allora Rama inviò dei messaggeri al saggio Valmiki, con questo messaggio:
"Se Sita è libera da condotta impura, che venga qui, scortata dal
saggio Valmiki, e provi la sua purezza. Che ella si presenti domattina
qui, in questa augusta assemblea".
Questo messaggio fu debitamente convenuto al saggio Valmiki, che
rispose ai messaggeri: "Certamente Sita sarà d'accordo a fare secondo
le istruzioni di Rama, perché lei considera suo marito come Dio
stesso".
Quando gli venne riferito questo messaggio, Rama si rivolse ai saggi
e ai re, e disse: "Domani sarete testimoni della purezza di Sita".
Tutti quanti lodarono la sua decisione: "Questo, o Rama, è perfettamente
in sintonia con la tua natura pura e gloriosa".
Trascorsa la notte, all'alba del nuovo giorno Rama riunì in assemblea
tutti i saggi e gli uomini santi come Vasishtha, Vamadeva, Jabali,
Kasyapa, Visvamitra, Dhirghatama, Durvasa e altri.
Tutti attendevano con impazienza lo svolgersi degli avvenimenti
e non vedevano l'ora di vedere la nobile Sita dar prova della sua
castità.
Il saggio Valmiki entrò nell'assemblea seguito da Sita.
Subito vi fu una certa inquietudine nell'assemblea, poiché ognuno
aveva notato quanto Sita fosse triste e addolorata.
Valmiki prese la parola: "Rama, ecco qua Sita, che è devota ai suoi
voti coniugali e la cui condotta è perfettamente retta. Abbandonata
a motivo del pubblico scandalo, ella è vissuta vicino al mio eremitaggio.
Questi due figli di Sita sono figli tuoi, o Rama: dico la verità.
Non ricordo di aver mai pronunciato il falso in vita mia. Ho praticato
austerità per moltissimo tempo: giuro sulle mie austerità che Sita
è pura".
Rama disse: "Anch'io sono certo della purezza di Sita, o saggio.
Ma possente è lo scandalo pubblico a motivo del quale ho dovuto
abbandonare Sita, nonostante io stesso sapessi che era pura. So
anche che questi due ragazzi sono i miei figli".
Nel frattempo anche gli dèi s'erano uniti all'assemblea.
Infine Sita disse: "Se io non ho mai concepito, neppure mentalmente,
il pensiero di un altro uomo all'infuori di Rama, allora, o Terra,
ricevimi. Se con il pensiero, le parole e le azioni ho sempre adorato
Rama, allora, o Terra, ricevimi".
Non appena Sita pronunciò queste parole, un trono celestiale venne
fuori dalla terra. Su di esso era assisa madre Terra. Ella ricevette
Sita tra le sue braccia e, abbracciandola con grande amore, rientrò
nella terra.
Tutti gli esseri - gli dèi, i saggi, i brahmana, i sacerdoti che
erano venuti per celebrare il rito dell'Asvamedha, gli uccelli,
gli animali e persino gli alberi e gli esseri inanimati - tutti
espressero la loro ammirazione, la loro devozione e la loro meraviglia,
ognuno nella propria maniera.
Tutti erano rimasti meravigliati e allibiti dalla maniera miracolosa
in cui Sita era scomparsa all'interno della terra.
Alcuni lodarono e glorificarono Rama, altri lodarono e glorificarono
Sita. Tutti erano colmi di sgomento e di meraviglia.
Quando vide che Sita era stata inghiottita nelle viscere della terra,
Rama fu completamente sopraffatto dal dolore.
Egli gridò forte, piangendo: "Ahimè, Sita mi è stata portata via
sotto i miei stessi occhi. Tanti anni fa la liberai da Lanka, perché
ora non dovrei liberarla dalle viscere della terra? O Terra! Restituiscimi
Sita immediatamente, oppure ti farò assaggiare la mia ira. Dovunque
Sita possa essere ora, riportala subito a me. Se non lo farai, ti
distruggerò insieme alle montagne e alle foreste, e tutta la terra
sarà coperta d'acqua".
Vedendo l'ira di Rama, il Creatore Brahma gli disse: "Non arrabbiarti,
Rama. La casta e devota Sita è andata prima di te nell'aldilà, in
maniera naturale; e presto anche tu sarai riunito a lei. Ascolta
ancora, o Rama: la tua storia fino ad ora è stata magnificamente
narrata nel grande poema del saggio Valmiki. Vi è ancora una parte,
riguardante il prossimo futuro. Ascolta anche quella sezione".
Pronunciate queste parole, Brahma tornò alla sua dimora.
Rama chiese a Valmiki di recitare la storia degli avvenimenti futuri.
Ed essa fu recitata più tardi da Kusa e Lava.
Non vedendo Sita, Rama considerava il mondo vuoto; e, sopraffatto
dal dolore, non aveva pace.
Egli non prese in considerazione la possibilità di pensare ad un'altra
come moglie, e quindi, per la celebrazione dei riti religiosi, usò
un'immagine di Sita fatta d'oro.
Rama governò la terra per moltissimo tempo. Durante l'intero periodo
del suo regno tutti gli esseri godettero di ottima salute e lunga
vita.
Dappertutto vi era giustizia e rettitudine. La terra era prosperosa.
La pioggia cadeva nella misura necessaria e veniva al momento giusto.
Nessuno soffriva di alcuna sventura.
Dopo aver goduto della sua vita con Rama, i suoi figli e i suoi
pronipoti, la madre di Rama - Kausalya - salì in cielo.
Dopo aver condotto una vita retta, anche Sumitra e Kaikeyi andarono
in cielo. Tutte si riunirono in cielo con re Dasaratha. E Rama propiziò
tutti con le doverose e regolari celebrazioni delle cerimonie che
si praticano ogni anno in onore degli antenati defunti.
Dopo diversi anni, lo zio di Rama Yudhajit mandò dal nipote il proprio
guru con un messaggio e un grande carico di coperte di lana, pietre
preziose, indumenti e anche cavalli, come suoi doni per Rama.
Il santo messaggero fu ricevuto con il massimo rispetto, con grande
reverenza e amore. Quindi Rama lo fece sedere su un seggio appropriato
ad un ospite di riguardo e gli chiese come stava suo zio.
Infine egli chiese al brahmana: "Qual era il messaggio di mio zio
per me?".
Il reverendo messaggero disse: "Sulle rive del fiume Sindhu vive
un gandharva chiamato Sailusha, che ha con sé trenta milioni di
soldati eccezionalmente forti. Ti preghiamo di conquistarli con
la tua forza, ed espugnare le città dei gandharva. All'infuori di
te, non abbiamo nessun altro che possa riuscire in quest'impresa".
Rama diede subito il suo consenso, e fece mandare a chiamare Bharata
insieme ai suoi due figli Taksha e Pushkala. Indicandoli, Rama disse
al brahmana: "Questi due giovani, insieme al loro padre Bharata,
conquisteranno presto le schiere dei gandharva".
Detto questo, Rama fece incoronare i due ragazzi come re del territorio
dei gandharva, anticipando così la loro vittoria.
Quindi il reverendo messaggero fece ritorno nel regno Kekaya (di
Yudhajit), e Bharata e i suoi due figli partirono per la loro spedizione
di guerra.
In quindici giorni, Bharata raggiunse il regno Kekaya e unì il suo
esercito a quello di Yudhajit.
Insieme i due eserciti attaccarono le forze dei gandharva. La feroce
battaglia che seguì durò sette giorni.
Volendo porre fine alla lotta, Bharata usò il missile mortale chiamato
Samvarta; e in un batter d'occhio sterminò i trenta milioni di gandharva.
Poi Bharata entrò nel territorio dei gandharva insieme ai suoi due
figli. Egli insediò suo figlio Taksha come re di Takshasila, e suo
figlio Pushkala come re di Pushkalavata.
Le due città prosperarono grandemente sotto il loro dominio.
Bharata trascorse cinque anni con i suoi figli nei loro nuovi territori,
e dopo aver reso stabile la loro amministrazione tornò ad Ayodhya.
Egli si prostrò davanti a Rama e poi lo mise al corrente di quanto
era accaduto. Rama ne fu felicissimo.
Quindi Rama desiderò insediare i due figli di Lakshmana, Angada
e Candraketu, come sovrani di due principati idonei a loro.
Rama disse a Lakshmana: "I tuoi due figli sono forti e valorosi,
e sono all'altezza di governare i loro territori. Li nominerò re.
Pensa ad un territorio adatto per ciascuno di loro. La regione prescelta
dev'essere tale che i sovrani non dovranno avere alcun problema
nel governarla, e gli eremitaggi dovranno essere tranquilli e liberi
da ogni molestia".
Non appena furono trovati i territori adatti, Rama stesso incoronò
re i due ragazzi. Il territorio governato da Angada fu chiamato
Angada, e Candraketu fu installato sul trono di Candrakanti.
Lakshmana rimase con i suoi figli per un po' di tempo, e quando
l'amministrazione dei due regni cominciò a funzionare senza problemi,
egli fece ritorno ad Ayodhya e da Rama.
Mentre Rama continuava ad amministrare il suo impero, il Tempo (o
la Morte) si presentò alle porte del suo palazzo sotto le spoglie
di un asceta.
L'asceta disse a Lakshmana: "Ti prego, informa Rama che è arrivato
un messaggero da parte di uno che è supremamente potente; digli
che desidererei parlare con lui".
Lakshmana informò Rama dell'arrivo dell'asceta. Seguendo le istruzioni
di Rama, Lakshmana fece entrare l'asceta e lo condusse alla presenza
del fratello.
Rama ricevette l'asceta con grande reverenza e lo fece sedere su
un seggio d'oro. Infine Rama gli chiese di comunicare il messaggio
che aveva per lui.
L'asceta però gli rispose: "Posso trasmettere il messaggio soltanto
in privato, o Rama. Perché chiunque lo ascoltasse o ci osservasse
mentre parliamo dovrebbe essere subito messo a morte".
Rama acconsentì a questa condizione. Egli pose Lakshmana fuori della
stanza con l'ordine preciso: "Non permettere ad alcuno di entrare
e interrompere quest'importante conversazione. Chiunque entrerà
nella stanza sarà messo a morte".
Poi, rivolto all'asceta, Rama disse: "Ora ti prego, comunicami l'importante
messaggio che hai per me".
Quando furono soli, l'asceta rivelò la sua vera identità come Tempo
(o Morte) e disse a Rama:
"O Signore, il Creatore Brahma mi ha mandato a te con il seguente
messaggio:
"Un tempo tu avevi ritirato l'universo dentro di te e riposavi sul
grande oceano. Quindi, per mezzo della tua Maya, tu creasti due
esseri potenti, Madhu e Kaitabha. Dopo la loro distruzione, questa
terra fu modellata con la loro carne. Tu stesso affidasti il compito
di proteggere questo mondo a me, che nacqui dal fiore di loto emerso
dal tuo ombelico. E io ho cercato di fare il mio dovere, ponendo
il fardello sulle tue spalle. Nel corso del tempo tu ti sei incarnato
sulla terra, insieme ad altri esseri divini, per la distruzione
di demoni come Ravana. Tutto questo è stato fatto, e ora s'avvicina
il tempo del tuo ritorno. Se tuttavia desiderassi continuare a vivere
sulla terra, naturalmente potresti farlo. Se invece desideri tornare
in cielo, in modo che il cielo possa accoglierti come suo sovrano,
che così sia".
Quando Rama udì questo messaggio, rispose: "La mia manifestazione
è per la protezione dei tre mondi, non solo per la protezione di
questa terra; perciò presto lascerò questo mondo. Farò esattamente
come ha detto il Creatore Brahma".
Mentre erano ancora impegnati in conversazione, si presentò all'ingresso
della loro stanza Durvasa, il grande saggio famoso per la sua terribile
collera. Egli ingiunse a Lakshmana: "Portami subito da Rama".
Quando Lakshmana cercò di discutere umilmente: "Potrei trasmettere
il tuo messaggio a Rama, perché adesso egli è impegnato in un incontro
importante? Oppure, non potresti attendere pochi minuti?", il saggio
divenne estremamente furioso e disse: "Comunica subito a Rama che
io sono qui. Se non lo farai, maledirò lui, te, i tuoi fratelli
e tutta la famiglia reale. Non posso contenere la mia ira".
Udendo queste parole spaventose, Lakshmana rifletté un istante:
"È meglio che io muoia, piuttosto che questo saggio maledica l'intera
famiglia reale". E presa questa decisione, Lakshmana entrò nella
stanza in cui stavano conversando Rama e l'asceta, e informò il
fratello della visita di Durvasa.
Rama congedò l'asceta e uscì; poi s'inchinò davanti al saggio, che
gli disse: "Ho digiunato per mille anni; desidero interrompere il
mio digiuno proprio ora. Dammi da mangiare". Rama gli servì devotamente
del cibo. Durvasa mangiò e quindi andò via.
Pensando alla terribile promessa che aveva fatto all'asceta (che
chiunque avesse interrotto la conversazione sarebbe morto), Rama
divenne triste.
Lakshmana comprese lo stato d'animo di Rama, gli si avvicinò con
reverenza e disse: "Non preoccuparti per me; tutto questo è predestinato
ad accadere. Scacciami, Rama, e onora la tua promessa; perché quando
un uomo disonora la propria promessa va all'inferno".
Rama riunì in consiglio i ministri e i saggi e li informò dell'accaduto.
Allora il saggio Vasishtha prese la parola e disse:
"O Rama, vedo che si sta avvicinando la fine: e ora anche Lakshmana
dev'essere bandito. Questo dev'essere fatto, per amore del Dharma.
Se il Dharma venisse abbandonato, vi sarebbe la distruzione universale".
Quindi Rama disse a Lakshmana: "L'esilio equivale alla pena capitale.
Perciò, o Lakshmana, ti bandisco dal regno".
Lakshmana andò subito via, senza neanche rientrare a casa sua. Continuando
a singhiozzare, egli raggiunse la riva del fiume Sarayu. Sedendo
in meditazione, controllò il respiro e fu pronto ad abbandonare
l'esistenza terrena.
Tutti gli dèi apparvero nel cielo. Senza essere visto da alcun essere
umano, Indra portò Lakshmana in cielo con tutto il corpo.
Gli dèi furono felicissimi che Lakshmana fosse tornato in cielo,
perché questo voleva dire che ben presto anche Rama sarebbe ritornato
tra loro.
Rama fu preso da un dolore inconsolabile e disse: "Desidero abdicare
al trono e ritirarmi nella foresta; desidero seguire Lakshmana".
Perciò egli chiese a Bharata d'ascendere al trono.
Ma il nobile Bharata rispose: "Oh no, Rama, non ho alcun desiderio
per il regno senza di te. Installa sul trono i tuoi figli Kusa e
Lava. Fa' informare anche Satrughna della nostra decisione".
Vasishtha disse di nuovo: "Rama, guarda questi cittadini, tutti
afflitti dal dolore".
Sopraffatto dal dolore, Rama sospirò: "Ah, che cosa devo fare?".
Tutti quanti dissero, come una sola voce: "Con le nostre mogli e
i nostri figli, noi seguiremo Rama e andremo tutti dove andrà lui".
Riflettendo sulla devozione dei cittadini, e anche sulla fine imminente
della sua missione sulla terra, quel giorno stesso Rama installò
sul trono Kusa e Lava, assegnando a ciascuno di loro dei territori
adatti.
Inoltre egli inviò dei veloci messaggeri perché informassero Satrughna
della sua decisione.
I messaggeri comunicarono a Satrughna tutte le notizie sugli ultimi
avvenimenti successi ad Ayodhya: "Rama ha abdicato al trono e vi
ha installato Kusa e Lava. Kusa governa dalla sua capitale Kusavati,
e Lava dalla sua capitale Sravasti. Tutti i cittadini di Ayodhya
hanno deciso di seguire Rama: perciò la capitale è completamente
deserta. Rama ci ha chiesto di metterti al corrente di tutto questo".
Venuto a sapere della distruzione della famiglia reale, Satrughna
installò immediatamente i suoi figli sul trono e da solo, sul suo
veicolo, guidò di gran fretta per raggiungere Rama.
Giunto alla presenza di Rama, Satrughna disse: "Ho installato sul
trono i miei due figli, o Rama, e ho deciso di seguirti".
Rama vide la fermezza della sua determinazione e acconsentì.
Venuti a sapere dell'abdicazione di Rama e della sua imminente ascensione
in cielo, vennero anche tutti i vanara, guidati da Sugriva.
E così pure gli dèi e i saggi erano accorsi alla presenza di Rama.
Sugriva aveva installato sul trono Angada e aveva deciso di seguire
Rama.
Quando arrivò Vibhishana, Rama gli disse subito: "Governa sul regno
di Lanka finché il popolo desidererà che tu lo faccia, finché splenderanno
il sole e la luna, e fino a quando la mia storia sarà raccontata
in questo mondo. Ti prego, Vibhishana, non opporti". E Vibhishana
acconsentì.
Rama benedì Hanuman: "Vivi e gioisci in questo mondo fino a quando
verrà narrata la mia storia, e attieniti sempre alle mie istruzioni,
o Hanuman".
Hanuman s'inchinò in segno di accettazione.
Allora tutti quanti cominciarono a lasciare Ayodhya. Tutte le armi,
i saggi, i brahmana, la dea della prosperità, le sacre scritture,
i sacri mantra - tutti seguirono Rama.
Bharata e Satrughna lo seguirono. Tutti i ministri e gli ufficiali
lo seguirono. E anche tutti i cittadini lo seguirono.
Neanche la più piccola creatura rimase ad Ayodhya.
Tutti seguirono Rama.
[NOTA: Il testo suggerisce che le scritture e i mantra andarono
in forma umana, cioè come studiosi e pandit. Nel capitolo terzo
14-15 vi sono molteplici nomi di creature con la descrizione della
loro creazione. Nel capitolo settimo 25 vi sono i nomi di alcuni
dei riti più importanti. Nel capitolo terzo 25, sesto 44-45 e altrove
vengono dati i nomi dei missili. Nel capitolo sesto 74 si trovano
i nomi di erbe meravigliose. Questi meriterebbero uno studio più
approfondito. Nel capitolo quarto 40 e in alcuni successivi vi sono
i nomi di luoghi, fiumi e montagne che meriterebbero d'essere studiati.]
Rama si diresse verso il fiume Sarayu, e ivi giunto toccò le acque
del fiume con i suoi piedi. Per assistere all'infinitamente fausta
e gloriosa ascensione di Rama, erano giunti colà tutti gli dèi nei
loro veicoli spaziali, ed era venuto lo stesso Creatore Brahma in
persona, nel suo veicolo celeste.
Allora il Creatore disse a Rama: "Vieni, o Vishnu, entra nei tuoi
corpi divini insieme ai tuoi fratelli. Qualunque sia la forma che
desideri assumere, assumila. Liberato dalla Maya con la quale ti
eri ricoperto, tu sei ancora una volta al di là della comprensione
della mente e della parola. Ti prego, ascendi alla tua dimora".
Poi Rama rientrò nello spirito del Signore Vishnu, insieme ai suoi
fratelli. Perciò gli dèi e i saggi adorano Rama come lo stesso Signore
Vishnu.
Rama disse al Creatore Brahma: "Assegna una regione celeste a questi
miei devoti e seguaci, o Brahma".
In obbedienza all'ingiunzione di Rama, Brahma ordinò una regione
celeste conosciuta come Shantanaka, e decretò: "Persino le creature
subumane che lasceranno il corpo fisico pensando a te, o Signore,
raggiungeranno questa regione celeste".
Sugriva rientrò nell'orbita del sole. E gli altri vanara che erano
nati dalle varie divinità rientrarono nelle loro rispettive fonti
d'origine.
Tutti i cittadini e i devoti di Rama entrarono nel fiume Sarayu
e furono istantaneamente trasportati in cielo.
Il Creatore Brahma e tutti gli dèi del cielo furono felici del ritorno
di Rama e degli altri esseri divini.
Questo è il Ramayana! Le sue parti principali furono composte dal
saggio Valmiki e approvate dal Creatore Brahma.
Questo poema è estremamente fausto, e distrugge i peccati di chi
riesce a leggere anche una piccola parte di esso. Invero, questo
Ramayana viene recitato e ascoltato persino nei cieli. Chi lo legge
ogni giorno ottiene qualunque cosa desideri.
OM TAT SAT
FINE DELL'UTTARA KANDAM
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[NOTA: Nell'ultimo
capitolo c'è una specie di nota che dice che Ayodhya restò deserta
finché Rshabha non divenne il suo sovrano, e allora riacquistò la sua gloria.]
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RAMA
GITA
Rama disse: "Tutte le opere portano a un'ulteriore schiavitù e rinascita.
A causa delle due forze contrastanti dell'amore e dell'odio le azioni
sembrano differenti l'una dall'altra. L'uomo compie azioni buone
e cattive con attaccamento, e così ottiene sempre più nascite. Dopo
ogni rinascita vi sono di nuovo azioni. In questo modo il corso
della vita materiale gira come una ruota.
La causa alla base di tutto questo è l'ignoranza. Rimuovere l'ignoranza
è il solo mezzo per distruggere il corso della vita materiale. Soltanto
la conoscenza è capace d'annientare l'ignoranza. L'azione non può
distruggerla, perché nasce dall'ignoranza e non è il suo contrario.
La pratica dell'azione non distrugge né l'ignoranza né l'attaccamento
ma conduce a un maggiore dolore dell'incarnazione. Perciò l'uomo
saggio deve abbandonare l'azione, che è piena di difetti, e dedicarsi
alla conoscenza e alla meditazione.
Che l'uomo saggio, dunque abbandoni ogni azione. Non vi può essere
una combinazione di conoscenza e azione, perché l'azione è contraria
alla conoscenza. Che egli ritiri i sensi da tutti gli oggetti e
si dedichi sempre al raggiungimento dell'autorealizzazione.
Quando uno raggiunge la luce suprema della conoscenza del Sé, che
distrugge l'idea della separazione del supremo Sé e dell'anima individuale,
allora maya - insieme alle sue appendici che causano nascita, rinascita
e azione - svanisce immediatamente.
Quando l'ignoranza è stata annientata dalla conoscenza, che è mera
luminosità, pura e non-duale, essa non potrà riapparire mai più.
Come potrebbe avidya causare ancora delle azioni una volta che è
stata distrutta dalla conoscenza derivata dalle sacre Scritture?
La Taittirya Upanishad ha proclamato con zelo che l'uomo deve assolutamente
rinunciare a tutte le azioni. Anche la Brhadaranyaka Upanishad ha
affermato che soltanto la conoscenza porta al moksha, e mai l'azione,
qualsiasi essa sia.
Che l'uomo pieno di fede e con la mente pura, guadagnando la grazia
del guru, realizzi l'unità del jiva con il Brahman attraverso la
grande formula 'Tat Tvam Asi' (Quello tu sei), e sia felice e stabile
come il monte Meru.
Per realizzare il significato di questa formula bisogna conoscere
il significato delle sue tre parole. 'Tat' e 'Tvam' indicano il
Sé supremo e il sé individuale; 'Asi' indica l'identità di questi
due.
Eliminando gli upadhi - interiorità e distanza - che limitano jiva
e Ishvara, e i dharma che li rendono oggetti di percezione, prendendo
solo la loro essenza interiore di pura coscienza attraverso il metodo
del bhaga-tyaga-lakshana, e conoscendo così il proprio sé, l'uomo
raggiunge lo stato assoluto.
Il corpo grossolano, che è composto dei cinque elementi quintuplicati,
che è la dimora del godimento dei frutti delle azioni (cioè, dolore
e piacere), che ha un inizio e una fine, che è nato dal karma ed
è definito da maya, è l'appendice limitante del Sé.
Il corpo sottile è composto dalla mente, dall'intelletto, dai dieci
sensi e dai cinque prana. Esso nasce dagli elementi non quintuplicati.
Esso spinge il corpo grossolano a sperimentare il piacere, ecc.
È un'altra limitazione del Sé.
Maya è il più importante corpo causale del Sé, ed è inscrutabile
e senza inizio. La sua natura è indescrivibile. A seconda dei diversi
modi di limitazione, Brahman appare come Ishvara o come jiva. L'identificazione
del Sé da parte del sé dev'essere praticata attraverso metodi logici.
Il cristallo appare rosso quando viene messo vicino ad un fiore
rosso. Allo stesso modo il Sé sembra avere la forma delle cinque
guaine a causa della sua prossimità ad esse. Quando uno investiga
e medita sulla grande formula 'Asangoyam Purushah' (il Sé è inviolato)
allora realizza che questo Sé è non-attaccato, senza nascita e non-duale.
La condizione dell'intelletto è triplice: veglia, sogno e sonno
profondo. Questi stati sono dovuti alla sua associazione con le
qualità della natura; e sono in realtà false condizioni dell'intelligenza,
poiché due stati sono assenti quando è presente l'altro. Essi non
hanno la natura del Brahman supremo, che è eterna e assoluta beatitudine.
Uno dovrebbe negare l'intero universo praticando il metodo del 'neti
neti' (non questo, non quello), e avere un assaggio dell'essenza
immortale dell'oceano della Coscienza. Uno dovrebbe rinunciare a
tutto dopo aver preso solo l'essenza dell'esistenza, proprio come
uno getta la buccia e il guscio di un frutto dopo averne succhiato
il succo.
Il Sé non nasce e non muore mai. Non è soggetto ad aumento o diminuzione.
Esso è al di là di qualsiasi aggiunta alla sua grandezza; vale a
dire è insuperabile. È della natura della beatitudine stessa, autoluminoso,
onnipervadente, antico e uno-senza-secondo.
La sovrapposizione è definita come quel processo per mezzo del quale
una cosa diversa da un'altra cosa è falsamente identificata con
quest'ultima, a causa dell'illusione. Come l'idea del serpente si
sovrappone ad un pezzo di corda, così l'idea del mondo è sovrapposta
al Brahman.
L'idea dell'ego o 'io' è la prima sovrapposizione sul Sé, che è
libero dall'imperfezione del pensiero e dell'illusione, ed è la
stessa pura Coscienza. L'idea dell'ego è solo una mera identificazione
erronea con il Sé, che è la causa di tutto, il Brahman senza alcun
male, l'Assoluto supremo.
Il Sé (o Cidabhasa) e l'intelletto sembrano partecipare l'uno agli
attributi dell'altro attraverso un mutuo collegamento o sovrapposizione
dovuto alla loro coesistenza, proprio come il ferro è partecipe
della natura del fuoco quando viene messo nel fuoco. La natura intelligente
del Sé si manifesta nell'intelletto e la natura non-intelligente
dell'intelletto si manifesta nel Sé. Questo è il cid-jada-granthi
o il nodo tra il sé e la materia.
Io sono la grande luce. Io sono non-duale e senza nascita. Io sono
autoluminoso. Io sono estremamente puro. Io sono l'oceano di pura
Coscienza, senza mali, pieno, incarnazione di beatitudine e al di
là dell'azione.
Io sono sempre libero, dotato di un potere inimmaginabile; sono
la conoscenza che i sensi non possono avere. In Me non c'è azione.
Io sono infinito, imperscrutabile. I saggi che sono devoti allo
studio dei Veda meditano giorno e notte su di Me nei loro cuori.
Così uno dovrebbe meditare sempre sul Sé, con zelo incessante. Allora
egli avrà l'illuminazione, che in brevissimo tempo distruggerà l'avidya
insieme ai suoi effetti, come un malato distrugge la malattia prendendo
l'elisir di lunga vita.
Uno dovrebbe sedere in un luogo solitario, ritirare i sensi dalle
loro funzioni, frenare la mente e sottometterla, e concentrarsi
sul puro ideale. Così si dovrebbe meditare sull'Uno, senza alcun
pensiero per un secondo essere, aprendo l'occhio della coscienza
e stabilendosi nel Sé assoluto.
Meditando giorno e notte sul proprio Sé, libero da ogni legame e
dall'egoismo, il saggio dovrebbe attendere finché non si esaurisce
il suo prarabdha karma che gli ha dato il corpo attuale. Allora
egli si fonderà soltanto in Me.
Fino a quando uno non vede tutto come Me, che egli pratichi la devozione
a Me. Io dimoro eternamente nel cuore di colui che ha per Me fede
intensa e devozione.
La conoscenza è considerata di due tipi: essenziale (svarupa) e
psichica (vritti). Delle due, la prima riguarda il nirguna Brahman,
il vero, infinito e beato Assoluto.
L'altra è considerata la pura esistenza psichica che riguarda l'essenza
spirituale indivisa del sé. Questa conoscenza è a sua volta di due
tipi: indiretta e diretta.
La conoscenza indiretta porta la liberazione attraverso un'evoluzione
progressiva, quando ha luogo la dissoluzione del mondo del Creatore.
La conoscenza diretta produce la liberazione immediata, qui stesso,
quando si esaurisce il prarabdha karma.
Quei peccatori che non hanno la coscienza del samadhi, che si gloriano
della mera conoscenza verbale, sempre dediti a fare tutto quello
che desiderano - questi uomini andranno all'inferno.
Come può uno, la cui mente non è distrutta, liberarsi dal samsara?
Come può uno, che non ha coscienza del samadhi, distruggere la propria
mente?
Il saggio sereno e spassionato, sempre devoto alla pratica dello
yoga, non ha mai alcun timore di nulla, neanche di questo samsara
difficile da attraversare.
Il grande yogi, i cui sensi hanno smesso di funzionare - che è libero
dall'agitazione mentale, ecc. , e ha realizzato l'identità del Brahman
e del sé - ottiene la liberazione immediata.
La grande meditazione sull'Esistenza, Conoscenza, e Beatitudine
assoluta, omogenea e senza attributi, è la più alta di tutte le
meditazioni. Essa causa la liberazione istantanea: ed è la meditazione
'Io sono Brahman'.
La conoscenza dell'identità del Brahman e del sé rimuove la falsa
identificazione del sé con il corpo. Chi non ha il senso dell'io
riguardo al corpo è chiamato jivanmukta.
Colui per il quale il mondo non è né permanentemente reale né irreale,
e che è radicato nella coscienza immutabile, è chiamato jivanmukta.
Colui che ha l'esperienza del Sé nel samadhi e ha la stessa esperienza
anche dopo essere uscito dal samadhi, colui che dimora soltanto
nella pura autocoscienza, è un jivanmukta.
Colui che nella sua vita quotidiana nel mondo appare a volte come
un uomo d'azione, a volte come un devoto, qualche volta come uno
yogi, o altre volte come un saggio, questi è un jivanmukta.
La schiavitù sta nel credere 'Io sono il corpo'. La liberazione
sta nella consapevolezza costante 'Io sono Brahman'. Perciò l'uomo
intelligente dovrebbe meditare sempre: 'Io sono Brahman', fondendo
il suo ego nell'Assoluto.
Colui che identifica sé stesso con il corpo ha paura da ogni lato.
Perciò, con ogni possibile sforzo, uno dovrebbe cercare di rinunciare
all'idea che il corpo sia il sé.
A causa dell'esistenza apparente del corpo, che persiste in lui
come una tela bruciata, il jivanmukta dovrà affrontare piccoli problemi
temporanei, ma comunque non rinascerà.
(Il jivanmukta) è un superuomo in cui la pace, l'autocontrollo e
simili virtù emanano costantemente dall'autoconoscenza in maniera
spontanea.
Egli è un superuomo che non ha la benché minima ammirazione neppure
per i più fantastici poteri psichici.
Egli è un superuomo che non si perde vedendo le meravigliose creazioni
del Signore.
Egli è un superuomo che non desidera, neppure nei sogni, i quattro
tipi di salvezza, come: entrare nel regno di Dio, godere della vicinanza
di Dio o della sua forma e del suo potere, ecc .
Chi ha dimenticato l'idea del corpo è un videhamukta, anche quando
continua ad esistere il corpo, che è l'effetto del prarabdha karma.
È un Jivanmuktha colui che ha neutralizzato l'effetto della trasformazione
della sostanza mentale in forme-pensiero e che si è stabilito nell'unica
essenza omogenea e indivisa, grazie alla sua ferma convinzione dell'illusorietà
di ogni altra cosa.
Gli oggetti non toccano colui che è stabilito nell'unica essenza
omogenea. Persino gli dèi lo adorano. Il Vedanta proclama la gloria
della persona la cui delizia risiede nell'unica essenza omogenea.
E considerato 'uno stabilito nella saggezza' colui che neanche per
un momento concepisce il pensiero che anche un solo atomo possa
essere differente dall'essenza omogenea.
È stabilito nella saggezza chi è sempre imperturbato, chi è estremamente
solenne e profondo come l'oceano senza onde, chi trascende azione
e modificazione, chi per la sua condizione è simile a un pitone,
chi è inamovibile come il monte Meru e chi non ha neppure il pensiero
'Io sono un videhamukta'. Pur avendo un corpo, egli è certamente
un videhamukta (un saggio liberato che non ha coscienza del corpo)
.
Meditando continuamente sull'essenza unica ed omogenea di Brahman,
la mente viene rapidamente distrutta insieme alla sua radice. Questo
è certo.
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GLOSSARIO
Agastya: Un grande saggio.
Agni: Il dio del fuoco.
Ahalya: La moglie del saggio Gautama, sedotta da Indra e
redenta da Rama.
Aksha: Figlio di Ravana, ucciso da Hanuman.
Anasuya: La moglie del saggio Atri.
Angada: Il figlio di Vali.
Anjana: La madre di Hanuman.
Asoka-vana: Il boschetto di asoka, dove fu tenuta prigioniera
Sita.
Atri: Un grande saggio incontrato da Rama nella foresta.
Ayodhya: La città capitale del regno Kosala.
Bharadvaja: Un grande saggio amico di Rama e dei suoi fratelli.
Bharata: Fratello di Rama, nato da Kaikeyi. Rifiuta di regnare
durante l'esilio di Rama e amministra il regno vivendo da asceta,
con i sandali di Rama installati sul trono.
Brahma: Il Creatore dell'universo. Il Brahma-loka è il cielo
di Brahma.
Brahmacarya: Il voto di celibato; castità. Il primo periodo
della vita, quello dello studente.
Brahman: L'Assoluto. Dio trascendente e immanente.
Brahmana: Persona che appartiene alla classe sacerdotale.
Colui che conosce Brahman.
Cakra: Disco. Ruota. Arma da getto di forma circolare, propria
di Vishnu.
Citrakuta: Collina sulla quale Rama passò il primo periodo
del suo esilio.
Dandaka: La grande foresta dove Rama trascorse gran parte
del suo esilio.
Dasaratha: Padre di Rama e re del Kosala.
Dharma: La legge spirituale che governa l'universo e la condotta
di tutti gli esseri.
Dushana: Un demone, comandante delle forze di Khara.
Gandharva: Musicista celeste.
Ganga: Il sacro fiume Gange, a volte personificato in una
dea.
Garuda: Considerato un uccello, semidio e veicolo divino
del Signore Vishnu.
Godavari: Un fiume sacro dell'India del sud.
Guha: Un capo tribale molto devoto a Rama e ai suoi fratelli,
che intrattiene lungo il cammino verso la foresta.
Hanuman: Un capo vanara, figlio di Anjana e di Vayu, il dio
del vento. Dotato di forza straordinaria, scopre la prigione di
Sita e contribuisce in innumerevoli modi al successo della missione
di Rama.
Ikshvaku: Un grande antenato di Rama.
Indra: Il re del cielo, il capo degli dèi.
Indrajit: Il figlio di Ravana che conquistò anche Indra.
Fu ucciso da Lakshmana.
Jambavan: Un capo tribale alleato di Rama. Viene considerato
un orso.
Jambumali: Il primo demone ucciso da Hanuman a Lanka.
Janaka: Un grande saggio re di Mithila. Padre adottivo di
Sita.
Janasthana: Parte della foresta abitata dai saggi, che venivano
tormentati dai demoni di Khara.
Jatayu: Considerato un avvoltoio, combatté contro Ravana
mentre questi cercava di portare via Sita.
Kabandha: Un demone di forma insolita che Rama incontrò nella
foresta.
Kaikeyi: Moglie di Dasaratha e madre di Bharata. Chiede che
Rama venga esiliato e che Bharata sia incoronato.
Kailash: Una montagna, dimora leggendaria del Signore Shiva.
Kasyapa: Un grande saggio.
Katisalya: Prima moglie di Dasaratha e madre di Rama.
Khara: Il capo dei demoni, fratellastro di Ravana; fu ucciso
da Rama a Janasthana con tutto il suo esercito.
Kishkindha: Il regno di Vali e Sugriva.
Kosala: Il regno di Dasaratha.
Kshatriya: Un principe o un guerriero.
Kubera: Il dio della ricchezza; chiamato anche Vaisravana.
È fratellastro di Ravana.
Kumbhakarna: Un demone, fratello di Ravana; un gigante potentissimo
che dormiva a lungo.
Kusa: Figlio di Rama; uno dei due gemelli avuti da Sita.
Lakshmana: Figlio di Dasaratha e di Sumitra. Fratello di
Rama e suo costante compagno.
Lakshmi: Consorte del Signore Vishnu. La Madre Divina dispensatrice
di ricchezza e prosperità.
Lanka: L'isola e la città in mezzo all'oceano che era la
dimora di Ravana.
Lava: Figlio di Rama e Sita, fratello gemello di Kusa.
Mandavi: Moglie di Bharata.
Mani: Antenati.
Mandodari: Prima moglie di Ravana.
Manthara: La serva di Kaikeyi che la istigò a fare esiliare
Rama.
Marica: Un demone complice di Ravana.
Mayavi: Figlio di Maya; combatté contro Vali e fu ucciso
da quest'ultimo.
Mithila: La capitale del regno di Janaka.
Nala: Un alleato di Rama e Sugriva; l'architetto che fece
costruire il ponte per attraversare l'oceano.
Nandigrama: Il sobborgo di Ayodhya in cui Bharata visse come
un asceta durante l'esilio di Rama.
Narada: Mitico saggio divino che funge spesso da intermediario
tra dèi e uomini.
Narayana: Altro nome di Vishnu, il Protettore dell'universo.
Uno della Trinità Indù.
Nila: Il comandante generale dei vanara.
Pampa: Un lago nella foresta Dandaka.
Pancavati: Il luogo dove Rama fece costruire la sua capanna
durante l'esilio nella foresta.
Parasurama: Considerato un'incarnazione precedente di Vishnu.
Nato da famiglia brahmana, egli sterminò tutti i re malvagi del
mondo.
Pulastya: Un saggio chiamato anche Paulastya o Visrava; il
padre di Ravana.
Pushpaka: Un veicolo spaziale straordinario. Apparteneva
originariamente a Kubera, ma Ravana glielo rubò; quindi fu usato
da Rama.
Rama: Figlio di Dasaratha e di Kausalya. È l'eroe del Ramayana;
è considerato un'incarnazione di Vishnu.
Ravana: Il re dei demoni, nato da un saggio. Ricevette dal
Creatore il dono dell'invincibilità, che usò per opprimere dèi e
saggi. Rapì Sita e infine fu ucciso da Rama.
Rshyamuka: La collina dove s'era rifugiato Sugriva prima
d'incontrare Rama.
Rshyasringa: Il saggio asceta che aiutò re Dasaratha a celebrare
il rito sacro per ottenere dei figli.
Rudra: Il terzo membro della Trinità, chiamato anche Shiva,
Tryambaka, ecc.
Sabari: Un'anziana asceta molto devota a Rama.
Sagara: Il nome di un re. L'Oceano.
Sampati: Considerato un avvoltoio, figlio di Suparsva e fratello
di Jatayu. Aiuta Hanuman a trovare Sita.
Sarabhanga: Un saggio che viveva nella foresta Dandaka.
Sarama: Pur essendo una demonessa, era amica di Sita nell'asoka-vana.
Sarayu: Un fiume vicino ad Ayodhya.
Satabali: Un capo tribale comandante delle forze vanara.
Satrughna: Fratello di Rama. Figlio di Dasaratha e di Sumitra.
Era il compagno costante di Bharata.
Siddha: Un saggio perfetto. (Siddhashrama: eremo di saggi
perfetti).
Sita: Moglie di Rama. Figlia adottiva di re Janaka. È considerata
un'incarnazione di Lakshmi.
Srutakirti: Moglie di Satrughna.
Subahu: Un demone che contaminava le foreste e i riti sacri
di Visvamitra. Fu ucciso da Rama.
Sugriva: Il re dei vanara, fratello di Vali. Alleato di Rama,
egli organizza l'invasione di Lanka. Sua maglie è Ruma.
Sumantra: Un ministro, amico e auriga di Rama.
Sumitra: La seconda moglie di Dasaratha, madre di Lakshmana
e di Satrughna.
Surasa: Madre dei naga; fu d'ostacolo ad Hanuman durante
il suo volo verso Lanka.
Surpanakha: Sorella di Ravana che cercò di sedurre Rama nella
foresta; fu mutilata sul volto da Lakshmana.
Sushena: Un capo tribale, comandante delle forze vanara e
suocero di Sugriva.
Tara: La moglie di Vali.
Tataka: Una demonessa che ostacolava un rito sacro di Visvamitra;
fu il primo demone ucciso dal giovane Rama.
Trijata: Una demonessa amica di Sita nel boschetto di asoka.
Trikuta: La collina sulla quale sorgeva la città di Lanka.
Urmila: La moglie di Lakshmana.
Vali: Il re dei vanara, fratello maggiore di Sugriva. Rama
uccise Vali dopo la sua alleanza con Sugriva.
Valmiki: Il grande saggio autore del Ramayana. Quando Rama
bandì Sita, ella visse nel suo eremitaggio, dove poi partorì i due
gemelli Kusa e Lava ai quali il saggio trasmise il Ramayana.
Vanara: Considerate delle scimmie; erano probabilmente uomini
'primitivi' abitanti della foresta.
Vasishtha: Un grande saggio. Guru e maestro spirituale di
Janaka, Dasaratha e Rama.
Vayu: Il dio del vento, padre di Hanuman.
Veda: Le principali Scritture sacre; libri di conoscenza.
Ne conosciamo quattro: Rig, Yajur, Sarna e Atharva.
Vibhishana: Il pio fratello di Ravana che lo abbandonò per
cercare rifugio in Rama. Dopo la morte di Ravana fu incoronato re
di Lanka.
Viradha: Il primo demone che Rama uccise durante l'esilio
nella foresta. Nella vita precedente era il saggio Tumburu.
Visvakarma: L'architetto degli dèi.
Visvamitra: Un grande saggio che insegnò a Rama la scienza
militare e gli diede molti missili. D'origine kshatriya, Visvamitra
divenne un saggio brahmana grazie alle proprie austerità.
Yama: Il dio della morte.
Yamuna: Un fiume sacro.
Yudhajit: Fratello di Kaikeyi.
Yuga: Un'era nel ciclo della terra. Ce ne sono quattro: Satya
o Krta, Treta, Dvapara e Kali.
Yuvaraja: Principe ereditario.
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Le
Edizioni Vidyananda
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di libri spirituali che espongono la Verità del Sanatana Dharma
(la Religione o Legge Eterna e Universale).
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