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COSMOGONIA:     Caos    Cosmo     Divinità

TEOGONIA:   GEA    Urano    Ponto

Il Regno di Urano: Il regno di CRONO: Il regno di ZEUS:

Le Ninfe

Le sette spose e la discendenza di ZEUS
Le amanti e i figli di Zeus.

 

 

F O R U M      E S O T E R I C A

   Abbiamo visto che nella storia e documentazione sumera viene descritta una razza di dei, il padre Anu, e i figli Enki, Enlil, ecc.. Nella storia e documentazione greca la famiglia e discendenza degli dei è più vasta e completa, e non inizia con Zeus, che è a noi più conosciuto, ma dalla creazione, quando dal Caos nacque il Cosmo.

   Ancora oggi la nostra vita è impregnata dagli dei di cui i greci ci hanno tramandato nomi e imprese: Giove, Minerva, Venere, Marte, Vulcano, ecc..

   Leggendo gli avvenimenti divini si può fare un paragone con gli dei sumeri e gli dei indù del Maha Bharata e del Ramajana.

Buona lettura.
Cordiali saluti.



e-mail:  giro.castiglione@gmail.com

 

 



DINASTIA MITOLOGICA GRECA



COSMOGONIA
    La contemplazione dei cieli è stata e rimane una delle più lunghe e affascinanti avventure della mente umana. La suggestione, il fascino e lo sgomento che tali osservazioni hanno provocato, in passato fecero sì che astronomia e cosmologia permeassero ogni attività umana. L'uomo "primitivo" viveva immerso nell'Universo circostante con una compartecipazione ben più totalizzante, anche se ovviamente meno consapevole, dell'uomo "moderno". Chi possedeva le chiavi per leggere e interpretare il cosmo suscitava rispetto e timore nelle proprie genti.

    Le inevitabili lacune della conoscenza umana si prestarono spesso ad essere riempite da credenze irrazionali (così almeno è come oggi ci appaiono) che portarono a miti e a dogmi religiosi.
    Anche la cosmologia, complesso di dottrine scientifiche o filosofiche che studiano l'ordine, i fenomeni e le leggi dell'universo, e la cosmogonia, cioè quella unione di miti e di teorie che ogni popolo ha elaborato per rendersi ragione dell'origine dell'Universo, sono state campo di battaglia di un conflitto che ancora oggi si combatte su diversi fronti: quello tra comprensione e ignoranza.
    Le cosmologie più antiche potranno apparirci ingenue: le nostre attuali conoscenze sono in grado di confutare pienamente l'asserzione che, per esempio, sia una lucertola a circondare e così facendo, tenere unito il nostro mondo.
    Esemplifichiamo la questione con una analogia: nel passaggio da due a tre dimensioni, quello che sembrava un piano su cui giacciono due circonferenze completamente separate, ci appare come un anello tagliato orizzontalmente dal piano su cui ci sembrava giacessero le circonferenze. La nostra conoscenza attuale ha, per così dire, aggiunto una dimensione in più al nostro punto di vista scientifico, rendendolo più completo e in grado di smascherare alcuni miti e dogmi [immagine]. Questo "gap" ci rende, in molti casi, indubbiamente più tranquilli e fiduciosi nelle nostre capacità di comprensione rispetto a quelle dei nostri predecessori.
    Ma "per apprendere in quale direzione si sviluppi la fisica, c'è solo un mezzo: confrontare il suo stato attuale con quello di un'epoca anteriore" (M. Planck, La conoscenza del mondo fisico).
    Studiando il passato si diventa più consapevoli del cammino dell'uomo in quella che si può definire "protoscienza" e quindi delle basi su cui poggiano le nostre attuali conoscenze scientifiche.
    Non si può inoltre negare la bellezza e il fascino ancestrale racchiuse nelle "storie del mondo"; gli uomini che ci hanno preceduto le hanno raccontate nel tentativo di rispondere alle stesse domande che ancora oggi sono la spinta di ogni ricerca umana, sia interiore che scientifica.

    Le domande, comuni agli uomini di ogni cultura e civiltà, trovano quindi una prima risposta nelle cosmologie "primitive", se con questo termine intendiamo i sistemi non scientifici nel senso moderno del termine sviluppatisi prima delle teorie greche a tutti note o parallelamente ad esse, ma senza subirne le influenze.
    La lettura delle cosmogonie antiche porta a un'ulteriore riflessione: basterà molto meno di qualche migliaio di anni a trasformare la nostra scienza in "protoscienza".
    Oggi con il termine "energia oscura" si intende quel fluido cosmico dalle proprietà peculiari (come una pressione negativa, capace di produrre una forma di repulsione gravitazionale ) che è stato ipotizzato per l'autoconsistenza dello schema attuale dell'universo: esso appare infatti piatto, ma manca la materia, anche oscura, che potrebbe renderlo tale; per di più appare in espansione accelerata. Se qualcuno sostenesse che un tale fluido (curioso e inquietante il nome che è stato scelto per descriverlo: quintessenza), non è altro che il nutrimento di quella enorme lucertola che racchiude l'universo, espandendosi con esso, nessuno scienziato attuale potrebbe dimostrare il contrario.




    CAOS

    "Lo Spazio che non è contenuto, ma che contiene tutto, è la personificazione primaria della semplice Unità... l'estensione illimitata". "Ma l'estensione illimitata di che cosa?" "L'Ignoto Contenitore di Tutto, la Causa Prima Sconosciuta". Questa è una definizione ed una risposta molto esatta.

    Lo Spazio è il Contenitore ed il Corpo dell'Universo. è un corpo di un'estensione illimitata, i cui princìpi manifestano nel nostro mondo fenomenico soltanto la parte più grossolana.
    " Nessuno ha mai veduto gli Elementi nella loro pienezza". Noi dobbiamo attingere il nostro sapere dalle espressioni originali e dai sinonimi dei popoli primitivi.

    Il Chaos era chiamato dagli antichi privo di senno perché — il Chaos e lo Spazio essendo sinonimi — esso rappresentava e conteneva in sé tutti gli Elementi nel loro stato rudimentale e indifferenziato. Gli antichi facevano dell'Æther il quinto Elemento, la sintesi degli altri quattro; poiché l'Æther dei filosofi greci non era il suo residuo, per quanto in realtà essi avessero molte più cognizioni della scienza attuale su questo residuo (Etere), il quale si considera giustamente quale agente operatore di molte Forze che si manifestano sulla terra.

    Poiché l'Essenza dell'Aether, o lo Spazio Invisibile, era considerata divina in quanto si supponeva che fosse il Velo della Divinità, così essa veniva pure considerata quale intermediaria fra questa vita e quella successiva. Gli antichi ritenevano che quando le Intelligenze attive dirigenti — gli Dèi — si ritiravano da una porzione qualsiasi dell'Æther nel nostro Spazio, o dei quattro regni che essi governavano, allora quella particolare regione cadeva sotto il dominio del male, così chiamato a causa dell'assenza del bene.

    L'esistenza dello Spirito, l'Etere, è negata dal Materialismo, mentre la Teologia ne fa un Dio personale. II cabalista ritiene che ambedue siano in errore, e dice che nell'Etere gli elementi rappresentano soltanto la Materia, le Forze Cosmiche cieche della Natura, mentre lo Spirito rappresenta l'Intelligenza che le dirige. Le dottrine cosmogoniche Ariane, Ermetiche, Orfiche e Pitagoriche, sono tutte basate su una formula incontestabile, cioè che l'Æther e il Chaos, o, nel linguaggio platonico, la Mente e la Materia, erano i due princìpi primordiali ed eterni dell'Universo, del tutto indipendenti da qualsiasi altra cosa. Il primo di essi era il princìpio intellettuale che tutto vivifica, mentre il Chaos era un princìpio liquido "senza forma né intelletto"; dalla loro unione nacque l'Universo, o piuttosto il Mondo Universale, la prima Divinità androgina — divenendo la Materia Caotica il suo Corpo e l'Etere la sua Anima. Secondo la fraseologia di un frammento di Hermeias: "Il Chaos, ottenendo l'intelletto da questa unione con lo Spirito, risplendette di piacere e così fu generato il Protogono, la Luce (Primogenita)". Questa è la Trinità Universale, basata sulle concezioni metafisiche degli antichi, i quali, ragionando per analogia, fecero dell'uomo, che è un composto di Intelletto e di Materia, il Microcosmo del Macrocosmo, o Grande Universo.

    "La Natura aborre il Vuoto", dicevano i Peripatetici, i quali, benché materialisti alla loro maniera, comprendevano forse perché Democrito ed il suo maestro Leucippo insegnassero che i primi princìpi di tutte le cose contenute nell'Universo erano gli Atomi ed il Vuoto. Quest'ultimo significa semplicemente la Forza latente o la Divinità, la quale, precedentemente alla sua prima manifestazione — quando divenne la Volontà che dette il primo impulso a questi Atomi — era il grande Nulla, o Nessuna-Cosa; e di conseguenza, in ogni senso, un Vuoto o Chaos.



    COSMO

    Nelle antiche filosofie, Chaos, Theos, Kosmos, e Spazio, sono identificati per tutta l'eternità come lo Spazio Unico Ignoto, di cui l'ultima parola non sarà forse mai conosciuta. Inoltre, la parola stessa "Dio", al singolare, che include tutti gli Dèi o Theoi, pervenne alle nazioni civili "superiori" da una strana sorgente, da una sorgente interamente e
    preminentemente fallica quale è quella del Lingham indiano nella sua nuda franchezza.
    Alle razze latine esso pervenne dall'ariano Dyaus (il Giorno); agli slavi dal Bacco greco (Bagh-bog); ed alle razze sassoni direttamente dall'ebraico Yod o Jod. Quest'ultimo è maschio e femmina, e Yod è il fallico gancio. Di qui deriva il sassone Godh, il germanico Gott e l'inglese God. Si può dire che questa parola simbolica rappresenti il Creatore dell'Umanità Fisica, sul piano terrestre; ma certamente non aveva niente a che fare con la Formazione o "Creazione" sia dello Spirito che degli Dèi o del Cosmo.

    Chaos-Theos-Kosmos, la Triplice Divinità, è tutto in tutto. Di conseguenza, si dice che essa è maschio e femmina, bene e male, positivo e negativo, l'intera serie delle qualità contrarie. Quando è latente non è conoscibile e diviene la Divinità Inconoscibile. Essa può essere conosciuta soltanto nelle sue funzioni attive, e quindi quale Forza-Materia e Spirito vivente, le correlazioni e la risultante, o l'espressione sul piano visibile, dell'Unità ultima e per sempre sconosciuta. A sua volta questa Triplice Unità produce i Quattro Elementi Primari, conosciuti nella nostra Natura terrestre visibile, ciascuno divisibile in sottoelementi, dei quali circa una settantina sono conosciuti dalla Chimica. Ogni Elemento Cosmico come il Fuoco, l'Aria, l'Acqua e la Terra, partecipando delle qualità e dei difetti dei loro Primari, è, nella sua natura, Bene e Male, Forza o Spirito, e Materia, ecc.; e ciascuno, quindi, è in pari tempo Vita e Morte, Salute e Malattia, Azione e Reazione. Essi formano costantemente la Materia sotto l'impulso incessante dell'Elemento Unico, l'inconoscibile, rappresentato nel mondo dei fenomeni dall'Aether. Essi sono "gli Dèi immortali che danno nascita e vita a tutto".


    Empedocle.

    Empedocle (ca. 450 a.C.), chiamava questi elementi "rizòmata" ("radici", plurale di "rizoma" ) di tutte le cose, immutabili ed eterne. L'unione di tali radici determina la nascita delle cose, e la loro separazione, la morte. Si tratta perciò di apparenti nascite e apparenti morti, dal momento che l'Essere (le radici) non si crea e non si distrugge, ma è soltanto in continua trasformazione.

    L'aggregazione e la disgregazione delle radici sono determinate dalle due forze cosmiche e divine Amore (Eros) e Discordia (Eris, o Odio), secondo un processo ciclico eterno. In una prima fase, tutti gli elementi e le due forze cosmiche sono riunite in un Tutto omogeneo, nel Cosmo, il regno dove predomina Eros. Ad un certo punto, sotto l'azione di Eris, inizia una progressiva separazione delle radici. L'azione della Discordia, non è ancora distruttiva, dal momento che le si oppone la forza dell'Amore, in un equilibrio variabile che determina la nascita e la morte delle cose, e con esse quindi il nostro mondo. Quando poi Eris prende il sopravvento su Eros, e ne annulla l'influenza, si giunge al Caos, dove regna la Discordia e dove è la dissoluzione di tutta la materia. A tal punto il ciclo continua grazie ad un nuovo intervento dell'Amore che riporta il mondo alla condizione intermedia in cui le due forze cosmiche si trovano in nuovo equilibrio che dà nuovamente vita al mondo. Infine, quando Eros si impone ancora totalmente su Eris si ritorna alla condizione iniziale del Cosmo. Da qui il ciclo ricomincia.

    Il processo che porta alla formazione del mondo è quindi una progressiva aggregazione delle radici. Tale unione, non ha carattere finalistico, è assolutamente casuale. E tale casualità si evidenzia a proposito degli esseri viventi. All'inizio infatti le radici si uniscono a formare arti e membra separati, che solo in seguito si uniranno, sempre casualmente tra di loro. Nascono così mostri di ogni specie (come ad esempio il Minotauro), che, dice Empedocle quasi anticipando Charles Darwin, sono scomparsi solo perché una selezione naturale favorisce alcune forme di vita rispetto ad altre, meglio organizzate e perciò più adatte alla sopravvivenza.

    Per Empedocle le quattro radici sono anche alla base della conoscenza. Egli infatti sostenne che i processi della percezione sensibile (degli oggetti esterni) e della conoscenza razionale fossero possibili solo in quanto esisteva una identità di struttura fisica e metafisica tra il soggetto conoscente, ossia l'uomo, e l'oggetto conosciuto, ossia gli enti della natura. Sia l'uomo che gli enti erano formati da analoghe mescolanze quantitative delle quattro radici ed erano mossi dalle medesime forze attrattive e repulsive. Questa omogeneità rendeva possibile il processo della conoscenza umana, che si basava dunque sul criterio del simile. Infatti così affermò Empedocle: «noi conosciamo la terra con la terra, l'acqua con l'acqua, il fuoco con il fuoco, l'amore con l'amore e l'odio con l'odio».



    La Tetraktys pitagorica

    Per i pitagorici, la "Tetraktys" rappresentava la successione aritmetica dei primi quattro numeri naturali (o più precisamente numeri interi positivi), un «quartetto» che geometricamente «si poteva disporre nella forma di un triangolo equilatero di lato quattro», ossia in modo da formare una piramide che sintetizza il rapporto fondamentale fra le prime quattro cifre e la decade: 1+2+3+4=10. «A dimostrazione dell'importanza che il simbolo aveva per Pitagora [c. 575 a.C. - c. 495 a.C.], la scuola portava questo nome e i suoi discepoli prestavano giuramento sulla tetraktys.»


    Il significato simbolico.

    A ogni livello della tetraktys corrisponde uno dei quattro elementi:


      1° livello. Il punto superiore: l'Unità fondamentale, la compiutezza, la totalità, il Fuoco

      2° livello. I due punti: la dualità, gli opposti complementari, il femminile e il maschile, l'Aria

      3° livello. I tre punti: la misura dello spazio e del tempo, la dinamica della vita, la creazione, l'Acqua

      4° livello. I quattro punti: la materialità, gli elementi strutturali, la Terra.

    A sua volta il dieci rimanda all'Unità poiché 10=1+0=1. Inoltre «nella decade "sono contenuti egualmente il pari (quattro pari: 2, 4, 6, 8) e il dispari (quattro dispari: 3, 5, 7, 9), senza che predomini una parte". Inoltre risultano uguali i numeri primi e non composti (2, 3, 5, 7) e i numeri (4, 6, 8, 9) secondi e composti. Ancora essa "possiede uguali i multipli e sottomultipli: infatti ha tre sottomultipli fino al cinque (2, 3, 5) e tre multipli di questi, da sei a dieci (6, 8, 9)". Infine, "nel dieci ci sono tutti i rapporti numerici, quello dell'uguale, del meno-più e di tutti i tipi di numero, i numeri lineari, i quadrati, i cubi. Infatti l'uno equivale al punto, il due alla linea, il tre al triangolo, il quattro alla piramide"». Forse «è nata così la teorizzazione del "sistema decimale" (si pensi alla tavola pitagorica)», tuttavia solo per quanto riguarda la Grecia e non per l'intera storia della civiltà e della matematica, che attesta la preesistenza di tale intuizione rispetto ai Pitagorici.



    Aristotele

    A questi quattro elementi Aristotele ne aggiungerà un quinto che egli chiamerà Etere e che costituisce la materia delle sfere celesti.

    L'etere (confluito in latino come Æther), sinonimo di quintessenza (dal latino medievale quinta essentia), era un elemento che secondo Aristotele si andava a sommare agli altri quattro già noti: il fuoco, l'acqua, la terra, l'aria.

    Aristotele credeva che l'etere fosse eterno, immutabile, senza peso e trasparente. Proprio per l'eternità e l'immutabilità dell'etere, il cosmo era un luogo immutabile, in contrapposizione alla Terra, luogo di cambiamento.

    Secondo gli alchimisti medievali, l'etere sarebbe il composto principale della pietra filosofale. Essi indicarono con l'etere o quintessenza la forza vitale dei corpi, una sorta di elisir di lunga vita: Quella cosa che muta i metalli in oro possiede altre virtù straordinarie: come, ad esempio, conservare la salute umana integra sino alla morte e di non lasciar passare la morte (se non dopo due o trecento anni). Anzi, chi la sapesse usare potrebbe rendersi immortale. Questo lapis non è certamente nient'altro che seme di vita, gheriglio e quintessenza dell'intero universo, da cui gli animali, le piante, i metalli e gli stessi elementi traggono sostanza.


    L'intera allegoria è altamente filosofica, e in realtà la troviamo ripetuta in tutti gli antichi sistemi di filosofia. Così la ritroviamo in Platone, il quale, avendo pienamente abbracciate le idee che Pitagora aveva portate dall'India, le rielaborò e le pubblicò in una forma più intelligibile di quella del misterioso sistema numerico originale del Saggio di Samo. Così, in Platone, il Kosmos è il "Figlio", che ha per Padre e Madre il Pensiero Divino e la Materia.

    La scienza moderna considera con disprezzo la Cosmolatria come una superstizione. Però, prima di deriderla, la scienza stessa dovrebbe, come consigliava uno scienziato francese, "riformare completamente il proprio sistema di educazione cosmopneumatologica.



    I moderni Caos - Energia - Vuoto
    Il "vuoto" appare come "nulla" ed in termini matematici lo si definisce come "zero" , perché esso è lo stato di "vuoto" o di "energia zero" = energia potenziale del "vuoto", che però di fatto non è un vuoto assoluto ma e' un pieno totale; infatti gli scienziati hanno scoperto recentemente che il "vuoto" non è vuoto, ma alla temperatura dello zero assoluto vi è una energia fondamentale E, che chiamano "Energia duale" E = E+ ed E- (energia duale ed indissolubile).

    Definizione di E
    E+, e' formata dai famosi "Puncta" di Ruggero Boscovich, scienziato del700, che per primo formulò una teoria unificata fra micro cosmo e macrocosmo, teoria simile ad alcune moderne.
    Questa Energia E, si manifesta per contrapposti (E+ ed E-), ciò significa che il "Puncta", che ha la caratteristica di sembrare una "particella" in realta' e' un buco puntiforme virtuale CentroMosso = un vortice, questo "buco" è eternamente instabile e quindi in moto eternamente potenziale, e quando incontra - interagisce - un altro puncta (dello stesso tipo di energia a potenziale diverso E- ), forma una coppia, vi si avviluppa e forma di conseguenza, per il suo intrinseco movimento centro mosso, un vortice di energia/moto (Energia Cosmica) che li "lega assieme", li coniuga, li sposa, formando l'insieme denominato: "particella" multiforme ("parte" di un insieme di "celle" )= curvatura dello spazio-tempo e dell'ETERe fluttuante, ma eternamente stabile in loco ed in eterno movimento sussultorio, come le onde nella massa dell'oceano .
    L'Energia null'altro e' che la "variazione pulsante dell'Etere.


    Definizione di Vuoto e di campo
    La teoria quantistica dei Campi della fisica moderna ci costringe ad abbandonare la classica distinzione fra particelle materiali e vuoto. La teoria del campo gravitazionale di Einstein e la teoria dei campi mostrano entrambe che le particelle non possono essere separate dallo spazio che le circonda. Da una parte, esse determinano la struttura di questo spazio, mentre dall'altra non possono venire considerate come entità isolate, ma devono essere viste come condensazioni di un campo continuo che è presente in tutto lo spazio.
    Nella teoria dei campi, il campo è visto come la base di tutte le particelle e delle loro interazioni reciproche.
    "II campo esiste sempre e dappertutto (e' il nome moderno dell'Etere degli antichi), non può mai essere eliminato. Esso è il veicolo di tutti i fenomeni materiali. è il "vuoto" dal quale il protone crea i mesoni n. L'esistere e il dissolversi delle particelle sono semplicemente forme di moto del campo".
    Infine, la distinzione tra materia e spazio vuoto dovette essere abbandonata quando divenne evidente che le particelle virtuali possono generarsi spontaneamente dal vuoto, e svanire nuovamente in esso, senza che sia presente alcun nucleone o altra particella a interazione forte. Qui un "diagramma vuoto-vuoto" per un processo di questo tipo: tre particelle - un protone (p), un antiprotone (f), e un pione (n) - emergono dal nulla e scompaiono nuovamente nel vuoto.
    Secondo la teoria dei campi, eventi di questo tipo avvengono di continuo. Il vuoto è ben lungi dall'essere vuoto.
    Al contrario, esso contiene un numero illimitato di particelle che vengono generate e scompaiono in un processo senza fine.
    In questo aspetto della fisica moderna c'è dunque la più stretta corrispondenza con il Vuoto del misticismo orientale. Il "vuoto fisico" — come è chiamato nella teoria dei campi — non è uno stato di semplice non-essere, ma contiene la potenzialità di tutte le forme del mondo delle particelle. Queste forme, a loro volta, non sono entità fisiche indipendenti, ma soltanto manifestazioni transitorie del Vuoto soggiacente ad esse. Come dice il sùtra, "la forma è vuoto, e il vuoto in realtà è forma".
    La relazione tra le particelle virtuali e il vuoto è una relazione essenzialmente dinamica; il vuoto è certamente un "Vuoto vivente, cioe' intelligente" = Vuoto QuantoMeccanico -, pulsante in ritmi senza fine di "creazione e distruzione", che si puo' definire un eterno "amplesso".
    La scoperta della qualità dinamica del vuoto è considerata da molti fisici uno dei risultati più importanti della fisica moderna. Dall'avere una funzione di vuoto contenitore dei fenomeni fisici, il "nuovo" vuoto è passato ad essere una qualita' e quantità dinamica della massima importanza.
    I risultati della fisica moderna sembrano quindi confermare le parole del saggio cinese Chang Tsai: "Quando si conosce che il Grande Vuoto è pieno di Ki, si comprende che non esistono cose quali il non-essere".




    DIVINITA'

    La Cosmogonia, oltre agli elementi (Fuoco, Aria, Acqua, Terra), considera anche le divinità. Queste divinità esistono come essenze vitali oscure e capricciose finché Eros non le induce ad armonizzare ed acquisire delle personalità più clementi come la Concordia. E allora Caos, miscuglio indescrivibile ed inestricabile, incomincia a delinearsi come Cosmo e quindi ordine.
    Le divinità derivano o direttamente dal Caos, oppure dalla interazione fra le entità divine stesse (Erebo e la Notte "Nyx" generano i loro opposti Etere e il Giorno):

    • Erebo: una specie di abisso senza fondo fatto di tenebre.
    • Tartaro: il luogo sotterraneo in cui i malvagi subivano i dovuti tormenti.
    • Nyx: la notte buia e misteriosa che dava però riposo e portava buoni consigli;
    • Emera: Il giorno.
    • Destino ( o Fato):  una divinità ora benigna e ora ostile, in ogni modo divinità potentissima ed inesorabile dai voleri imperscrutabili, alla quale tutti gli altri dèi dovevano sottomettersi e ubbidire.
    • Niente e nessuno poteva cambiare ciò che egli aveva stabilito.
    • Ubris: Tracotanza, insolenza compiuta verso gli dei. Il sentimento dell'uomo di volersi fare pari agli dei, puntualmente punito severamente.
    • Dione l'istinto sessuale
    E altre divinità:
    il Biasimo, la Pena, il Sonno, i Sogni, l'Inganno, la Brama, la Rissa, il Travaglio, l'Oblio, la Fame, la Vecchiaia, la Morte, ...

 

 

 



TEOGONIA
    GEA
    (Gaia o la Tellus romana) non nasce dal Caos, ma sorge o si desta quando Eros inizia a interagire con Eris per ripristinare il Cosmo. E' la prima Dea, madre di tutti gli Dei e degli uomini.

    Come vedremo negli eventi divini, gli dei per procreare si uniscono fra di loro, ma si possono unire pure alle divinità derivate dal Caos, e pure con gli uomini. Gea invece creò i primi suoi figli da se stessa:

  • URANO ( il cielo stellato).
  • PONTO (il mare profondo)


  • PONTO e Gea procrearono:
  • Nereo: il mare in bonaccia, fu il padre delle Nereidi
  • Taumante: Il maestoso mare. Padre delle Arpie e di Iride.
  • Euribia: la violenza del mare tempestoso, sposò il Titano Crio
  • Forco e Ceto: Fratello e sorella, i pericoli del mare in tempesta.
  • E dalla loro unione nacquero le Fòrcidi, ossia le Graie e le Gorgoni, ed un serpente dal terribile aspetto. Quest'ultimo era il custode nelle caverne dei pomi aurei.

    le Graie (Enio, Perfredo e Dino) erano tre vecchie dai capelli grigi ed un solo occhio che facevano da sentinelle alle Gorgoni  (Steno, Eurialo e Medusa). Di queste, le prime due erano immortali e non potevano invecchiare, la terza invece era mortale. Esse abitavano "sull'altra riva dell'inclito Oceano, all' estremità del mondo presso il soggiorno della Notte, dove si trovano le Esperidi dalla voce sonora".

    Medusa, il cui nome in greco significa "colei che domina", inizialmente era stata una donna bellissima con capelli meravigliosi. Poseidone si innamorò di lei, si trasformò in uccello e la rapì. La sedusse nel tempio di Atena, e Medusa nascose il volto dietro l'egida della dea. Atena, offesa sia per averli scoperti nel suo tempio, sia perchè la Gorgone aveva osato vantare i suoi capelli come più belli di quelli della dea, la punì trasformandola in mostro con gli occhi di fuoco, la lingua penzolante, con zanne enormi e serpi al posto dei capelli. Inoltre, pietrificava chiunque la guardasse.


 

 

 




Gea come sposo scelse Urano e assieme governarono il creato dando inizio a...

Il REGNO DI URANO Gea (la Dea Madre) e Urano (il cielo stellato) generarono:

  • tre Ecatonchiri (o Centimani): Briareo (o Egemone), Gie (o Gige) e Cotto.
      Gea li generò fecondata dalla pioggia che Urano fece cadere dal cielo sulla Terra.
      Ognuno di loro aveva cento braccia e cinquanta teste che sputavano fuoco, il resto del corpo (quindi dal busto in giù) era di aspetto umano.
      Non erano giganti, ma uomini. Sono i primi mostri ad apparire nella "cronologia mitologica" greca; sono perciò appartenenti a quella schiera di mostri che è stata definita come "Prima Generazione Cosmica". Una progenie rinnegata degli dei, che le stesse divinità hanno paura di affrontare.
  • tre Ciclopi: Bronte (tuono), Sterope (fulmine) ed Arge (lampo).
      In epoca arcaica gli antichi mitografi distinguevano tre stirpi di ciclopi:

    • I figli di Urano e Gea appartengono alla prima generazione divina di Ciclopi. "Costruttori", che avrebbero costruito tutti i monumenti preistorici che si vedevano in Grecia, in Sicilia e altrove, costituiti da blocchi enormi il cui peso e dimensione sembrano sfidare le forze umane (le "mura ciclopiche");
    • Poi c'erano gli alti conoscitori dell'arte della lavorazione del ferro: Ciclopi aiutanti di Efesto (Vulcano). Ciclope (significa 'occhio rotondo'). Caratterizzati dalla presenza di un solo occhio.
    • Nell'Odissea di Omero (libro IX), Ulisse incontra in Sicilia i loro figli: i barbari Ciclopi, che, ormai scordata l'arte degli avi che lavoravano come fabbri, vivevano dediti alla pastorizia e isolati l'uno dall'altro in caverne.
      « Questi si affidano
      ai numi immortali: non piantano alberi,
      non arano campi; ma tutto dal suolo
      per loro vien su inseminato e inarato,
      orzo e frumento e viti che portano vino
      nei grappoli grossi, che a loro matura
      la pioggia celeste di Zeus »
      (Odissea, IX,07-111)

      Omero dà il nome di uno solo di loro, Polifemo, che fece prigioniero Ulisse e i suoi compagni.
    •       Una qualche verità storica riguardo all'esistenza di una popolazione o tribù che rispondesse al nome di "Ciclopi" ci viene data da Tucidide nel libro VI delle sue Storie allorquando si accinge a parlare delle popolazioni barbare esistenti in Sicilia prima della colonizzazione greca.
      Così scrive:
          « Si dice che i più antichi ad abitare una parte del paese fossero i Lestrigoni e i Ciclopi, dei quali io non saprei dire né la stirpe né donde vennero né dove si ritirarono: basti quello che è stato detto dai poeti e quello che ciascuno in un modo o nell'altro conosce al riguardo. »

          L'ipotesi più attendibile rimane oggi quella secondo cui i Ciclopi, antichi fabbri, fossero in realtà degli artigiani emigrati da oriente fino alle isole Eolie dove si sono trovate tracce della lavorazione dei metalli.
         I riscontri archeologici potrebbero così confermare il mito che li voleva residenti proprio su tali Isole. La presenza di un occhio solo potrebbe essere una tradizione legata all'usanza di coprire con una benda l'occhio sinistro per proteggerlo dalle scintille ovvero da un ipotetico tatuaggio sulla fronte rappresentante il Sole, essere cui questi antichi artigiani poterono probabilmente essere devoti.

  • 12 Titani:

    Sei maschi

  • Oceano
  • Ceo
  • Crio
  • Iperione
  • Giapeto
  • Crono

  • Sei femmine (Titanidi)

  • Tea
  • Rea
  • Temi
  • Teti
  • Febe
  • Mnemosine

    •     Vivevano su una montagna della Tessaglia. Erano talmente forti che ancora oggi si usa dire uno sforzo o una forza titanica per indicare una forza veramente grande.

          Urano, disgustato dall'aspetto mostruoso dei suoi figli, i Ciclopi e gli Ecatonchiri  e ossessionato dall'idea che potessero privarlo un giorno del dominio dell'universo, li fece sprofondare tutti al centro della terra.



    IL SANGUE DI URANO
      Gea, triste e irata per la sorte che Urano il suo sposo aveva destinato ai figli decise di reagire. Costruì all'insaputa di Urano un falcetto con del ferro estratto dalle sue viscere e radunati i suoi figli Titani, tentò di convincerli a muovere guerra contro il padre. Ma uno solo, il più giovane osò seguire il consiglio della madre, il titano Crono, che armato dalla madre, si nascose nella Terra ed attese l'arrivo del padre. Era infatti abitudine di Urano, discendere la notte dal cielo per abbracciare la sua sposa nell'oscurità. Non appena Urano si presentò, Crono saltò fuori e con una mano immobilizzò il padre, mentre con l'altra lo evirava con il falcetto.

      I genitali di Urano caddero a fecondare la schiuma del mare, e da una conchiglia nacque . . .
  • Afrodite la dea dell'amore.

      Nata dalla spuma fecondata del mare, dentro una conchiglia, fu spinta da Zefiro sulla spiaggia dell'isola di Cipro.

      Afrodite venne subito accolta a Cipro dalle Ore che erano le figlie di Temi (dea dell'ordine dei sessi, insito nella natura);esse la rivestirono perché era emersa dalla conchiglia nuda. Soltanto dopo essere stata vestita, adornata e incoronata, Afrodite con solenne pompa, fu introdotta all'Olimpo, dove tutti gli dei furono conquistati dal suo fascino; un po' meno le dee, gelose di vedere offuscato il loro prestigio femminile, e sopra tutte, Giunone e Minerva. La conchiglia fu da allora considerata un animale marino sacro alla grande dea dell'amore.

      La Venere dei Romani, dea della bellezza e dell'amore sensuale; era rappresentata, il corpo cinto di rose e di mirto, velato il fiore della sua femminilità da una misteriosa cintura, tirato il carro da passeri, colombi e cigni, col giocondo corteggio del riso, dei giochi, dello zefiro, delle grazie e degli amorini.
      Nonostante l'aspra gelosia di Giunone (ERA) non impedì però a questa, di implorare in prestito dalla rivale il prezioso cinto, quando tentò di riaccendere l'amoroso fuoco, ormai assopito, nel marito Giove, l'eterno infedele: e, in quella congiuntura, Ermete (Mercurio) trovò modo di trafugare, sagace maestro di frodi, dalle stesse mani di Giunone l'afrodisiaco Cinto che Afrodite stentò poi a recuperare.


      Dea dell'amore e della bellezza, rappresenta l'attrazione tra le parti dell'universo. Simboleggia anche l'istinto naturale di fecondazione e di generazione con cui gli esseri si riproducono con i quattro elementi in eterno.

      Amata dagli dèi e dai mortali, Afrodite aveva una sfera di potenza vastissima; era venerata con vari epiteti alludenti alla sua qualità di suscitatrice della vegetazione e protettrice della navigazione o dei combattenti (in tal caso era venerata accanto ad Ares).Gli epiteti di "celeste" e di "tutto il popolo" sono riferiti ad Afrodite quale dea dell'amore spirituale e sensuale. Il suo culto era originario di Cipro ma la più antica sede era l'isola di Citera. In Occidente ebbe il maggior centro in Sicilia.

      Le Moire assegnarono ad Afrodite un solo compito divino, quello di fare l'amore; ma un giorno Atena la sorprese mentre segretamente tesseva un telaio, e si lagnò che tentasse di usurpare le sue prerogative; Afrodite le fece le scuse e da quel giorno non alzò più nemmeno un dito per lavorare.

      Diede figli ad Ares, Efesto, Dioniso, Ermes; ebbe Enea, dall'eroe Anchise, ma il suo grande amore fu àdone. All'antichissima, e certo più diffusa, tradizione di Afrodite terrestre e sensuale, fu col tempo contrapposta, sull'autorevole testimonianza del poeta Esiodo, l'altra celeste e spirituale, simbolo della forza animatrice della natura, e rappresentata con in mano lo scettro ed in fronte una stella.


      Ares e Afrodite

      Ben di rado Afrodite cedeva in prestito alle altre dee il magico cinto che faceva innamorare chiunque lo portasse, poiché era molto gelosa dei suoi privilegi. Zeus l'aveva data in sposa a Efesto, il dio fabbro zoppo. Ma il vero padre dei tre figli che diede alla luce, Fobo, Deimo e Armonia, era Ares, l'impetuoso, litigioso e ubriacone dio della guerra. Efesto non si accorse di essere ingannato finché gli amanti non indugiarono a letto troppo a lungo nel palazzo di Ares in Tracia, ed Elio, sorgendo nel cielo, lì scoprì intenti ai loro piaceri, e andò a raccontare tutto a Efesto.
      Efesto, furibondo, si ritirò nella sua fucina e forgiò una rete di bronzo, sottile come un velo ma solidissima, e la assicurò segretamente ai lati del suo talamo. Quando Afrodite ritornò dalla Tracia, tutta sorrisi e con la scusa pronta (assicurò infatti che si era recata a Corinto per sbrigare certe faccende), Efesto le disse: "Perdonami, cara consorte, ma debbo recarmi per una breve vacanza a Lemno, la mia isola favorita". Afrodite non si offrì di accompagnarlo, anzi, non appena Efesto fu partito, mandò a chiamare Ares, che si precipitò al palazzo. Ambedue si coricarono senza perder tempo nel talamo di Efesto, ma all'alba si trovarono prigionieri della reteº, completamente nudi e senza possibilità di scampo. Efesto, ritornato dal suo viaggio, li colse sul fatto e invitò tutti gli dei a far da testimoni al suo disonore. Annunciò poi che non avrebbe liberato la moglie finché non gli fosse stata restituita la preziosa dote che aveva dovuto pagare a Zeus, padre adottivo della sposa.
      Gli dei accorsero subito per vedere Afrodite nell'imbarazzo, ma le dee, per un delicato senso di pudore, rimasero a casa. Apollo, canzonando Ermes, gli disse: "Scommetto che non ti spiacerebbe trovarti al posto di Ares, con la rete e il resto." Ermes giurò sulla sua testa che non gli sarebbe dispiaciuto affatto, anche se le reti fossero state tre anzichè una, e, mentre le dee scuotevano la testa in segno di disapprovazione, Ermes e Apollo scoppiarono in una gran risata.
      Zeus era così disgustato che rifiutò di restituire la dote o di intromettersi in un litigio tanto volgare tra moglie e marito, dichiarando che Efesto era stato uno sciocco a mettere in piazza gli affari suoi. Poseidone che, al vedere il nudo corpo di Afrodite, si era subito innamorato di lei e a fatica celava la sua gelosia per Ares, finse di prendere le parti di Efesto. "Poiché Zeus rifiuta di venirti in aiuto", gli disse, "propongo che Ares, per riavere la libertà, ti paghi il valore equivalente alla dote di cui si discuteva poc'anzi." "Benissimo", disse Efesto di cattivo umore, "ma se Ares non mantiene la promessa dovrai prendere il suo posto sotto la rete." "In compagnia di Afrodite?", chiese Apollo ridendo. "Non posso nemmeno immaginare che Ares non mantenga la promessa", disse Poseidone, "ma se non la mantenesse, sono disposto a pagare il debito in vece sua e a sposare Afrodite." Così Ares fu rimesso in libertà e ritornò in Tracia, mentre Afrodite andò a Pafo, dove recuperò la propria verginità bagnandosi nel mare.
      Afrodite ringraziò a modo suo anche Poseidone per essere intervenuto in suo favore, e gli generò due figli, Rodo ed Erofilo. Inutile dire che Ares non mantenne la sua promessa, sostenendo che, se Zeus si era rifiutato di pagare, egli poteva fare altrettanto. Alla fine Efesto rinunciò al risarcimento, perché era pazzamente innamorato di Afrodite e non aveva intenzione di divorziare da lei.


      Anchise ed Enea

      Benché Zeus, contrariamente a quanto taluni sostengono, non giacesse mai con Afrodite, sua figlia adottiva, la magica cintura agiva anche su di lui sottoponendolo a una tentazione continua, ed egli infine decise di umiliare la dea facendola innamorare disperatamente di un mortale. Costui fu il bell'Anchise, re dei Dardiani, nipote di Ilo: una notte, mentre egli dormiva nella sua capanna di mandriano sul monte Ida, presso Troia, Afrodite si recò da lui travestita da principessa frigia, il corpo avvolto in un manto di un bel rosso sgargiante, e si giacque con Anchise su un letto di pelli d'orso e di leone, mentre le api gli ronzavano intorno. Quando all'alba si separarono, Afrodite rivelò al giovane la sua identità e gli fece promettere di non dire ad alcuno che era andato a letto con lei. Anchise, atterrito all'idea di aver svelato la nudità di una dea, la supplicò di risparmiargli la vita. Afrodite lo rassicurò dicendo che non aveva nulla da temere e che il loro figliolo sarebbe diventato famoso. Alcuni giorni dopo, mentre Anchise stava bevendo in compagnia di certi amici, uno di essi gli chiese: "Non pensi sia più piacevole andare a letto con le figlia del Tal dei Tali anziché con Afrodite?" "No", rispose sbadatamente Anchise, "perché sono andato a letto con tutti e due e il paragone mi sembra assurdo".
      Zeus udì questa vanteria e scagliò contro Anchise una folgore che l'avrebbe ucciso senz'altro, se Afrodite non l'avesse salvato all'ultimo momento proteggendolo con la magica cintura. La folgore scoppiò ai piedi di Anchise senza ferirlo, ma lo spavento fu tale che il giovane da quel giorno non riuscì più a raddrizzare la schiena e Afrodite, dopo avergli generato il figlio Enea, perse ogni interesse per lui.


      Dioniso e Priapo

      Afrodite cedette poi alle lusinghe di Dioniso e gli generò Priapo, un orrendo fanciullo dagli enormi genitali: fu Era che gli diede quell'osceno aspetto, in segno di disapprovazione per la promiscuità di Afrodite. Priapo è giardiniere e porta sempre con sé un coltello da potatura.
      Nato deforme con pancia enorme, lingua lunga e membro mostruosamente smisurato.
      Nascendo così brutto Afrodite lo rinnegò e lo abbandonò ad Abarnis (campo dei mentitori) regione intorno a Lampsaco nella Misia. Lo allevarono dei pastori che dalla sua mostruosità fallica ne avevano tratto dei buoni auspici per la fertilità dei campi e delle greggi.

      Il culto di Priapo risale ai tempi di Alessandro Magno e fu largamente ripreso anche dai Romani, soprattutto collegato ai riti dionisiaci e alle orge dionisiache. Così Priapo divenne il dio dell'istinto sessuale e della forza generativa maschile e della fertilità delle campagne: proteggeva gli orti e le vigne dai ladri e dai golosi uccelli. Spesso, cippi di forma fallica venivano usati a delimitare gli agri di terra coltivabile. Questa tradizione è continuata nel corso dei secoli, infatti ancora oggi, possiamo trovare diversi esempi di cippi fallici in Italia, nelle campagne di Sardegna, Puglia (soprattutto nella provincia di Lecce) e Basilicata o nelle zone interne di Spagna, Grecia e Macedonia.

      Nell'arte romana, veniva spesso raffigurato in affreschi e mosaici, generalmente posti anche all'ingresso di ville ed abitazioni patrizie. Il suo enorme membro era infatti considerato un amuleto contro invidia e malocchio. Inoltre, il culto del membro virile eretto, nella Roma antica era molto diffuso tra le matrone di estrazione patrizia a propiziare la loro fecondità e capacità di generare la continuità della gens. Per questo, il fallo veniva usato anche come monile da portare al collo o al braccio. Sempre a Roma, le vergini patrizie, prima di contrarre matrimonio, facevano una particolare preghiera a Priapo, affinché rendesse piacevole la loro prima notte di nozze.

      Dopo un banchetto Priapo, ubriaco, tentò di fare violenza A Estia, ma un asino col suo raglio svegliò la dea che dormiva e gli altri dèi, che lo costrinsero a darsi alla fuga. L'episodio ha un carattere di avvertimento aneddotico per chi pensi di abusare delle donne accolte in casa come ospiti, sotto la protezione del focolare domestico: anche l'asino simbolo della lussuria condanna la follia criminale di Priapo.

      Ogni anno a Priapo veniva sacrificato un asino, questo rito venne istituito dallo stesso Priapo. Ad espiazione dell'accaduto il dio pretese un sacrificio annuale di un asino. Anche a causa dell'importanza che esso aveva nella vita contadina, sia per una sorta di analogia fra i membri virili di Priapo e dell'asino.

      Era figurato come vecchio barbuto seminudo munito di falce e con un enorme membro eretto.
      Ispirò la poesia Priapea dai versi e dai contenuti alquanto sconci. Ci sono giunti all'incirca 80 carmi priapei.


      Plutone ed Erice

      "Dalla vita sciolse la cintura, ricamata e variopinta,
      dov'erano racchiusi tutti gli incanti; vi erano amore, desiderio,
      dolci parole e la seduzione che rapisce la mente...".

      Omero (Iliade - canto XIV)

      Così Omero dice di Venere e della sua cintura che potrebbe benissimo essere caduta sulla Terra a stringere la vetta del monte Erice, e qui, aver seminato tutti i suoi incantamenti. Qui, "Venere, dall'alto della sua vetta, vide Plutone( il dio degli Inferi) che ancora vagava, e stretto a sé il suo alato figliolo disse: Armi e mani mie, figlio, strumento della mia potenza, prendi le frecce con cui vinci tutti, o Cupido, e scagliane una veloce nel petto del dio a cui è toccato in sorte l'ultimo dei tre regni …" (Ovidio, Metamorfosi, libro V - 360- 368), decretando in un momento la sorte del dio delle tenebre, di Proserpina, della madre Cerere, colei che fece dono del grano agli abitanti dell'isola Trinacria, e di un'altra città, anch'essa a giocar con le nuvole nel cuore più alto dell'isola.
      Qui, su questo monte che porta il nome del re , nacque Erice per volere di Afrodite e di Plutone, tutto si riconcilia e trova fondamento: la bellezza e l'immensità convivono stretti in un unico sguardo, infinito e sublime oggi come nel giorno in cui Venere allevava quì il suo piccolo Cupido.

      Erice era dunque eroe e re degli Elimi, ed è il nome che diede alla montagna sulla cui cima venne edificato il tempio di Afrodite Ericina, sua madre. La nascita della città è però anche egata alla figura di Enea che condivide con il re Elimo la madre. Nella narrazione virgiliana, Enea approda sulla costa ai piedi del monte e celebra il rito funebre per il padre Anchise. L'incidente di alcune navi lo costringe poi a lasciare qui alcuni suoi compagni che fondano, appunto, la città.
      Essendo Ercole giunto dunque nel territorio di Segesta, Erice , che era un gran lottatore (come sappiamo anche dall'episodio di Entello che sfida il campione troiano, nel V libro dell'Eneide) lo invitò ad un duello: se avesse perduto, gli avrebbe ceduto il suo territorio, se invece avesse vinto, Ercole gli avrebbe dovuto cedere i buoi: « Quando Ercole si avvicinò alle località della zona di Erice, lo invitò alla lotta Erice, il figlio di Afrodite e di Bute, che allora era re di quei luoghi. Alla contesa era aggiunta un'ammenda: Erice avrebbe consegnato la regione, Ercole i buoi. Ma la prima condizione irritò Erice perché, messa la regione a confronto con essi, i buoi erano di valore di gran lunga inferiore. Quando però, replicandogli, Ercole dichiarò che se li avesse persi sarebbe stato privato dell'immortalità, Erice approvò il patto e combattè».
      La lotta si concluse con l'uccisione di Erice: Ercole vincitore continuò il suo viaggio, ma lasciò il regno del suo avversario agli abitanti della regione, concedendo loro di goderne i frutti finché « non fosse comparso e non li avesse chiesti uno dei suoi discendenti » (Diodoro, ivi). Così con questo mito veniva a costituirsi come un'ipoteca politico-culturale su Erice e sul suo territorio" (V. Adragna, Erice, Trapani).
      Più tardi due Eraclidi, Dorieo e Pirro, facendosi forti di questo mito (la cui elaborazione letteraria risale, con ogni probabilità, alla perduta Gerioneide del poeta Stesicoro), rivendicarono per sé il territorio lasciato loro, per così dire, in eredità dal mitico antenato. Prima di Dorieo e di Pirro un altro discendente di Ercole, Pentatlo di Cnido, venne nella Sicilia occidentale, ma Diodoro (V, 9) non specifica se questi fosse giunto nell'isola a rivendicare i possedimenti lasciati da Ercole.

      Ermes ed Ermafrodito

      Lusingata dall'aperta dichiarazione di Ermes, Afrodite passò una notte con lui, e il frutto di quella breve avventura fu Ermafrodito, creatura dal doppio sesso. Ermafrodito era un giovinetto con seno femminile e lunghi capelli. Come l'androgino, o donna barbuta, l'ermafrodito ebbe una certa notorietà per le sue anormalità fisiche, ma da un punto di vista religioso ambedue simboleggiano il periodo di transizione tra il matriarcato e il patriarcato. Ermafrodito è il divino paredro che si sostituisce alla regina e porta un seno finto. Androgine è la figura della madre di un clan pre-ellenico che ha rifiutato l'ordine patriarcale e allo scopo di mantenere le sue prerogative e legittimare i figli nati da lei e da un padre schiavo, si mette una falsa barba, come accadeva in Argo. Dee barbute come Afrodite cipria e dei effeminati come Dioniso corrispondono a questi stati sociali di transizione.

      Afrodite fu per antonomasia la dea della bellezza quando vinse la gara suscitata dalla dea della Discordia tra lei, Era e Atena, promettendo al giudice, che era il figlio di Priamo, Paride Alessandro, il possesso della donna più bella del mondo, cioè Elena, moglie di Menelao, re di Sparta; e creando così i prodromi della guerra di Troia.

      Durante tutta la guerra ella accordò la sua protezione ai Troiani e a Paride in particolare, e anche ad Enea, che aveva generato con Anchise. Ma la protezione di Afrodite non potè impedire la caduta di Troia e la morte di Paride. Tuttavia riuscì a conservare la stirpe troiana e grazie a lei Enea, col padre Anchise e il figlio Iulo (o Ascanio), riuscì a fuggire dalla città in fiamme e a cercarsi una terra dove darsi una nuova patria. In tal modo Roma aveva come particolare protettrice Afrodite-Venere: ella passava per essere l'antenata degli Iulii, i discendenti di Iulo, a loro volta discendenti d'Enea, e perciò della dea. Per questo Cesare le edificò un tempio, sotto la protezione di Venere Madre, la Venus Genitrix.

      La bellezza di questa divinità è stata celebrata da poeti e scrittori antichi e moderni che ne hanno messo in risalto attributi particolari della personalità e si sono comunque sentiti affascinati da lei. Amore sacro dunque, e amore profano, forza primigenia della natura, dea protettrice di tutte le forma di vita e presso molti popoli.
      Il pomo che la Paolina Borghese (1805-1808) di Antonio Canova tiene nella mano sinistra richiama la "Venere Vincitrice" del giudizio di Paride che avrebbe potuto scegliere tra Giunone (il Potere), Minerva (la Scienza) e Venere.



      Anche l'arte figurativa si ispirò particolarmente alla dea che rappresentò l'essenza stessa della bellezza e l'espressione più appassionata della gioia di vivere. Le famose Veneri della scultura greca, quali quelle di Prassitele, di Fidia, di Scopas, o la Venere imperiale del Canova, così come le rappresentazioni pittoriche, dagli affreschi pompeiani ai dipinti di soggetto mitologico susseguitisi nel corso dei secoli, ci forniscono sempre, nella rappresentazione delle belle forme, la possibilità di avvicinarci all'idea della bellezza assoluta come espressione del dono che gli dei fecero agli uomini per rallegrarli, per vivificarli o per consolarli.



    * * *



    Il sangue che sgorgava copioso dalla ferita di Urano, si sparse sulla terra da cui furono generati:

  • Le Erinni, divinità infernali;
    • Culto:

      Le Erinni sono divinità antiche. La parola sta a significare uno spirito dell'ira e della vendetta. Le Erinni perseguitavano in particolare chi si macchiava di delitti di sangue nell'ambito familiare, rendendo folle il colpevole o adoprandosi in modo tale che altri mortali si vendicassero su di lui. Si accanivano anche contro gli spergiuri, contro chi disobbediva a genitori e anziani; punivano – non solo sulla terra ma anche nell'aldilà – la mancanza di rispetto verso i deboli, la violazione delle leggi dell'ospitalità, il comportamento impietoso verso i supplici e in generale chiunque non rispettasse, spinto da tracotanza, le norme etiche. Le Erinni avevano un santuario a Colòno (sobborgo di Atene) ed erano venerate ad Argo e a Sicione. Nei sacrifici venivano loro offerti soprattutto agnelli neri e una bevanda costituita da miele e acqua.


      Secondo Esiodo esse furono generate dal sangue sgorgato dall'evirazione di Urano che cadde sulla Madre Terra a fecondarla (ci sono altre versioni riguardo alla loro nascita). Sono sorelle del Terrore, della Destrezza, della Collera, della Lite, del Giuramento, della Vendetta, dell'Intemperanza, dell'Alterco, del Trattato, dell'Oblio, della Paura, del Valore, della Battaglia; ma sono anche sorelle di Afrodite, anche lei nata dall'evirazione di Urano ed esattamente dalla spuma dei suoi genitali che caddero in mare.


      Descrizione delle Erinni.

      Le Erinni sono esseri vegliardi, serpenti per capelli, teste di cane, corpi neri come il carbone, ali di pipistrello e occhi iniettati di sangue. Stringono nelle mani pungoli dalle punte di bronzo, fiaccole e fruste che constavano di cinghie guarnite di ferro: le loro vittime muoiono in preda ai tormenti.

      Non sempre le Erinni erano alate. Il loro alito e la loro traspirazione erano insopportabili. Dai loro occhi colava una bava velenosa. La loro voce somigliava talvolta al muggito dei buoi. Per lo più esse si avvicinavano però abbaiando, perché non meno di Ecate anch'esse erano cagne. Non si conosce il numero esatto delle Erinni ma si fa spesso riferimento a tre di loro: Aletto ( l'incessante), Tisifone (la rappresaglia) e Megera (l'ira invidiosa). Ma può succedere, che venga invocata una sola per tutte, un'unica Erinni. Meglio conosciute come le Furie ( o anche Manie), esse possiedono molteplici nomi che le identificano. Non conviene citare il loro nome nel corso di una conversazione, ecco perchè di solito le si chiama "Eumenidi", cioè "le Gentili". Le Erinni vivono nell'Erebo, sono le compagne di Ecate e il loro compito è quello di punire i crimini di parricidio e di spergiuro: ascoltano le lagnanze mosse dai mortali contro l'insolenza dei giovani nei riguardi dei vecchi, dei figli nei riguardi dei genitori, degli ospitanti nei riguardi dell'ospite e delle assemblee cittadine nei riguardi del supplice e puniscono tali crimini inseguendo senza posa i colpevoli, di città in città, di regione in regione.Le Erinni sono la personificazione dei rimorsi di coscienza, capaci di uccidere un uomo che per trascuratezza o sbadataggine abbia infranto un tabù. Costui impazzirà, si getterà giù da una palma di cocco o si avvolgerà il capo in un mantello (come Oreste) e rifiuterà di mangiare o di bere finché morrà di inedia, anche se nessuno, all'infuori di lui, conosce la sua colpa. Il metodo comunemente usato in Grecia per purificare chi si era macchiato di omicidio era di sacrificare un maiale e mentre l'ombra della vittima ne beveva avidamente il sangue, lavarsi in acqua corrente, radersi il capo per cambiare aspetto e partire per l'esilio per un anno intero, in modo da far perdere le tracce all'ombra assetata di vendetta. Se il sangue versato però era quello di una madre, la maledizione che ricadeva sul capo dell'omicida era così potente che gli abituali mezzi di purificazione non bastavano, e per non ricorrere al suicidio bisognava amputarsi un dito con un morso. La Nemesi è la personificazione della vendetta Divina (inizialmente era considerata la "debita esecuzione" dell'annuale dramma di morte). Le Erinni, ovvero i rimorsi di coscienza, sono quindi sorelle della Nemesi, la Vendetta Divina.
      Il quinto giorno di ogni mese lasciavano le loro dimore per recarsi sulla terra e punire i colpevoli accompagnate dal Terrore, dalla Rabbia e dal Pallore e una volta raggiunti i colpevoli gli rodevano il cuore. Secondo alcuni autori avevano anche il compito di ottenebrare la mente degli uomini e di condurli quindi al delitto ed alla sventura.


      Aletto, Tisifone e Megera.

      Aletto entrò nel Panteon degli dei romani col nome di Furina ed al suo culto fu preposto un flamen minor. Tra le sue apparizioni letterarie, si ricordano quelle nell'Eneide di Virgilio (libro VII), nella Divina Commedia di Dante (Inferno, canto IX) e nell'Enrico VI di Shakespeare (Parte II, 5.5.39). Nella mitologia greca il nome Megera significa "l'invidiosa". Megera era preposta all'invidia ed alla gelosia e induceva a commettere delitti, come l'infedeltà matrimoniale. Tisifone era incaricata di castigare i delitti di assassinio: patricidio, fratricidio, matricidio, omicidio. Un mito racconta che si innamorò di Citerone, che uccise col morso di uno dei serpenti presenti sul suo capo.


      Il mito di Oreste.

      Figlio di Agamennone e Clitemnestra, era fratello di Elettra e di Ifigenìa. Dopo l'assassinio del padre a opera di Clitemnestra e del suo amante Egisto, viene messo in salvo dalla sorella Elettra presso Stròfio re della Fòcide, marito della sorella di Agamennone. Qui Oreste è allevato insieme a Pìlade, figlio di Strofio, e tra i due nasce una amicizia così profonda, che quando Oreste, divenuto adulto, decide di tornare ad Argo per vendicare l'uccisione del padre, Pilade lo accompagnerà. Perseguitato dalle Erinni, dopo il matricidio, egli vaga in preda alla follia da un luogo all'altro finché non giunge, su consiglio di Atena, ad Atene e si sottopone al giudizio del tribunale della città, l'Areòpago, da cui è assolto. Le Erinni vengono placate con l'istituzione del culto delle Eumenidi: così termina il racconto nell'Orestea di Eschilo, rappresentata nel 458 a.C.


      L'Orestea di Eschilo (459-458 a.C.).

      Prima che Oreste si potesse vendicare su Clitemnestra ed Egisto, rispettivamente sua madre e l'amante, uccisori del padre Agamennone, l'oracolo di Delfi lo avvisò che le Erinni non avrebbero facilmente perdonato un matricidio e gli donò, in nome di Apollo, un arco di corno col quale respingere i loro attacchi, se fossero divenuti insopportabili. Oreste, con l'aiuto della sorella Elettra, riuscì a far credere a Clitemnestra di portare le ceneri del suo defunto figlio, ed ella per la gioia della scampata vendetta chiamò Egisto. Oreste trafisse Egisto con una spada e decapitò, secondo alcune versioni, la madre, che cadde accanto al cadavere dell'amante. Altri autori negano che Oreste abbia ucciso Clitemnestra con le proprie mani e affermarono che la consegnò ai giudici i quali la condannarono a morte e sua unica colpa, seppur si può chiamare colpa, fu di non aver interceduto in favore della madre. E' improbabile che le Erinni siano state introdotte a caso nel mito che pare contenga un ammonimento morale contro la minima disobbedienza o il minimo insulto di un figlio nei confronti della madre. Anche il rifiutarsi di difendere la causa della propria madre, per quanto malvagia essa fosse, era una colpa sufficiente, secondo l'antica legge, per scatenare la persecuzione delle Erinni. Egisto e Clitemnestra vennero sepolti fuori dalle mura di Micene e durante la guardia di notte alle tombe, le Erinni apparvero ad Oreste e agitarono i loro flagelli. Esasperato da quei feroci attacchi, l'arco di corno donatogli da Apollo non gli fu d'aiuto. Oreste si abbandonò su un giaciglio dove giacque per 6 giorni, il capo avvolto in un mantello, rifiutando sia di cibarsi sia di lavarsi. Giunse da Sparta il vecchio Tindareo che accusò Oreste di matricidio e ingiunse ai capi micenei di giudicarlo. Tindareo sosteneva che Oreste doveva limitarsi a permettere ai suoi concittadini di esiliare la madre. E se avessero chiesto la sua morte, avrebbe dovuto intercedere in suo favore. I giudici commutarono la sentenza di morte in sentenza di suicidio. Oreste, Pilade ed Elettra decidono di punire Menelao per essersi schierato a sfavore loro uccidendo Elena, sua moglie, responsabile della guerra di Troia, ma intercede Apollo che prende Elena e la porta con sé nell'Olimpo e colà ella divenne immortale e Oreste ricevette la protezione di Apollo. Oreste si mise in cammino per Delfi, sempre inseguito dalle Erinni. Apollo promise che avrebbe interceduto per lui, ma intanto Oreste doveva partire in esilio per un anno e, solo una volta finito l'esilio, recarsi ad Atene e abbracciare l'antica statua di Atena annullando la maledizione. Mentre le Erinni ancora dormivano Oreste fuggì, ma l'ombra della defunta Clitemnestra entrò nel sacro recinto e incitò le Erinni ad eseguire il loro compito, ricordando che esse avevano spesso ricevuto dalle sue mani libagioni di vino e crudeli banchetti di mezzanotte. Le Erinni allora partirono di nuovo all'inseguimento, sprezzanti delle minacce di Apollo ed erano instancabili, nonostante Oreste si purificasse spesso con sangue di maiale e acqua corrente. Tali riti tuttavia bastavano appena a placare le sue tormentatrici per un'ora o due e ben presto egli perse il senno. Di fronte all'isola di Cranae si trova una pietra grezza chiamata Pietra di Zeus Guaritore, sulla quale Oreste sedette e fu temporaneamente guarito dalla follia. Lungo la strada che conduce da Megalopoli a Messene sorge il santuario delle Dee Folli (appellativo delle Erinni di Clitemnestra che colpirono Oreste con una crisi di follia). Vi è anche un piccolo tumulo con sopra un dito di pietra e chiamato La Tomba del Dito e indica il luogo dove Oreste, in preda alla disperazione, si amputò un dito per placare le Nere Dee, e alcune di loro divennero Bianche e Oreste recuperò il senno. Egli poi si rasò il capo e fece un'offerta espiatoria alle Dee Nere e un'offerta di ringraziamento alle Bianche. Libagioni di vino, anziché di sangue, e offerte di ciocche di capelli, anziché dell'intera chioma, sono varianti di questo rito propiziatorio, dal significato ormai scordato, così come lo è l'attuale consuetudine di vestirsi di nero che non è più messa coscientemente in rapporto con l'antica usanza di ingannare le ombre dei morti alterando il proprio aspetto. Dopo un anno di esilio Oreste si recò ad Atene, entrò nel tempio di Atena, sedette e abbracciò il simulacro. Arrivarono le Nere Erinni, ansimanti per la corsa ed iniziarono ad accusarlo presso gli ateniesi. Atena, udite le suppliche di Oreste, ordinò all'Areopago di giudicare quello che allora era soltanto il secondo caso di omicidio che ad esso si presentava. Apollo apparve nel processo in veste di difensore e la più vecchia delle Erinni come pubblica accusatrice. Apollo sostenne che oramai la società era divenuta patriarcale e che dunque l'uccisione della madre non era poi così grave come lo si riteneva una volta (sovvertimento della società matriarcale). La votazione si chiuse alla pari e Atena diede il suo voto decisivo in favore di Oreste. Le Erinni minacciarono che se la sentenza non fosse stata mutata esse avrebbero versato nell'Attica una goccia del sangue del loro cuore che avrebbe isterilito il suolo, distrutte le messi e ucciso tutti i fanciulli di Atene. Pare che in realtà fosse un eufemismo per indicare una goccia di sangue di mestruo, anziché di cuore. Un antichissimo sortilegio praticato dalle streghe che volevano maledire una casa o un campo consisteva nel corrervi attorno nude nella direzione opposta a quella del sole per nove volte mentre erano mestruate. Atena per placare le Erinni fece loro un'offerta irrinunciabile di un santuario e di vari culti che avrebbero avuto ad Atene (libagioni, riti propiziatori). Alcune accettarono l'offerta e si chiamarono da quel momento in poi Venerande. Le altre, che non accettarono la trasformazione della società da matriarcale a patriarcale, continuarono a perseguitare Oreste. Oreste le chiamò Eumenidi.



      L' Oreste di Euripide (408 a.C.).

      Nell'Oreste di Euripide la vicenda si svolge ad Argo, dove Oreste incalzato dalle Erinni e in preda a un delirio che non gli dà tregua (simbolo evidente dei rimorsi e del turbamento interiore per il matricidio) attende di essere giudicato dal tribunale argivo. L'arrivo di Elena e Menelao con la figlia Ermione fa nascere in Oreste la speranza di trovare in Menelao una difesa e un sostegno. Invano, poiché egli spaventato anzi dall'ira del vecchio Tìndaro, che frattanto era sopraggiunto, e dalla collera dei cittadini, non si schiera dalla parte di Oreste e mantiene un atteggiamento molto cauto. Elettra e Oreste sono condannati a morte: viene loro concesso di potersi uccidere anziché morire lapidati. Oreste, Elettra e Pilade tramano allora di uccidere Elena, per punire il vile comportamento di Menelao, e di prendere in ostaggio Ermione barattando con lei la salvezza. Elena però, colpita da Oreste, si sottrae alla morte con una misteriosa sparizione. Sopraggiunge allora Menelao, che vuole riprendersi la figlia e vendicarsi per quanto accaduto alla moglie, ma Oreste e Pilade minacciano di uccidere Ermione. Solo l'intervento di Apollo come deus ex machina risolverà la vicenda: il dio rivela infatti di aver posto in salvo Elena per ordine di Zeus e predice a Oreste che dovrà recarsi ad Atene e sottostare a un processo di cui saranno arbitri gli dèi; sposerà inoltre Ermione, mentre a Pilade toccherà Elettra.

      Secondo un'altra versione ancora del mito – seguita da Euripide nell'Ifigenia in Tauride – Apollo avrebbe predetto a Oreste che sarebbe guarito dal suo delirio entrando in possesso del simulacro di Artemide - che si trovava nel Chersonèso taurico - e portandolo in Attica. Arrivati in Tauride, Oreste e Pilade sono però fatti prigionieri dagli indigeni che intendono sacrificarli alla dea, in quanto stranieri, secondo un barbaro rituale. Sacerdotessa di Artemide era però Ifigenìa, sorella di Oreste; i due fratelli si riconoscono, e dopo aver rubato la statua fuggono insieme a Pilade.


      Riflessioni: La colpa da espiare.
      (Di Adalberto Bonecchi)

      Noi oggi possiamo sorridere per i tratti caratteriali degli dei che popolavano il loro Olimpo, ma essi hanno avuto il coraggio di non fantasticare la promessa di una paciosa vita ultraterrena come base dell'agire umano. Nelle Eumenidi di Eschilo si scontrano due giustizie: l'antica delle Erinni e la nuova di Apollo, che avvertiamo più consona con il nostro sentire odierno. La nuova coscienza dei Greci ha potuto recepire questo senso della giustizia solo come proveniente da un dio, secondo le modalità del pensiero di allora. E' questo il presupposto per la trasformazione delle terrificanti Erinni in Eumenidi, le "benevole", in un'assimilazione del Terrore Divino nel tribunale umano. Apollo è il giovane dio che le vecchie dee calpesta, per proteggere il suo supplice. Apollo le scaccia: non accetta la scusa che Clitemnestra ha si ucciso, ma senza versare sangue di consanguinei. Apollo, rappresentante di una nuova organizzazione sociale non più basata solo su vincoli di sangue, ricorda che così dicendo esse vilipendono Afrodite, la dea dell'amore che sostiene che il talamo nuziale è vincolo assai più grave del giuramento e la giustizia lo protegge. Il momento è drammatico e lo scontro fortissimo tra la vecchia concezione basata appunto su vincoli di sangue diretti e la nuova, in cui Afrodite è simbolo di unioni non più consanguinee. Il verdetto dell'Aeropago sancirà il compromesso tra queste due visioni. Il protettore di questi nuovi legami è Apollo, addirittura in modo provocatorio istigando il matricidio e proteggendo chi l'ha compiuto. Ma ai Greci questa visione doveva sembrare eccessiva, se Eschilo non ha lasciato l'ultima parola al dio, ma invia Oreste ad Atena e a un tribunale che dovrà mediare tra visioni del mondo e dei rapporti umani tanto differenti. La costituzione dell'Aeropago è un momento di grande civiltà, nonostante la truculenza dei delitti: il "colpevole", infatti, non è semplice preda dei propri deliri interiori materializzati nelle Erinni, ma può passare attraverso un momento di giudizio collettivo, in cui il suo gesto acquista nuovo significato. Quale che sia il responso del tribunale, esso giungerà finalmente dall'esterno e non sarà il semplice effetto di una dialettica interiore senza speranza. Le Erinni infatti sono il senso di colpa, il ricordo, il rimpianto. All'inizio del secondo stasimo, il coro delle Erinni è ancora una volta turbato, al pensiero delle rovine a cui porteranno le nuove leggi, se la causa di Oreste, il matricida, dovesse prevalere: a quel punto ognuno si sentirà autorizzato a compiere qualsiasi misfatto, in particolare nell'ambito della propria famiglia di origine. Le Erinni innalzano dunque un canto al terrore, come fondamento della convivenza e saggezza: una sorta di posto di guardia nel cuore degli uomini. La sentenza dell'Aeropago rigetta la vecchia giustizia familiare, non scaccia le Erinni, ma anzi le Innalza a difesa della città nella forma mitigata delle Eumenidi. La tragedia segna il passaggio adolescenziale dalla legge familiare alla legge di gruppo, ma, come nell'Atene del V secolo, questo passaggio non elimina le Erinni, bensì le eregge a protettrici della dimensione collettiva. La paura e un'angoscia di fondo sempre pronta a emergere restano così il marchio del rapporto con l'Altro, con cui non è possibile una relazione paritaria, ma solo una sottomissione basata sulla paura. Nell'Aeropago si combatte una battaglia tra legge materna familiare e legge paterna sociale. Lo sostiene chiaramente Apollo quando, difendendo Oreste, afferma che la morte di Clitemnestra non può essere considerata alla stessa stregua di quella di Agamennone, nobile eroe onorato da Zeus dello scettro regale. E' dunque superiore Agamennone a Clitemnestra, perché la sua condizione è regale, cioè riconosciuta dalla comunità: per giunta egli è stato ucciso per mano di una donna e non in guerra. E quando le Erinni si appellano al principio della consanguineità, ricordando che Oreste uccidendo la madre ha versato sangue delle proprie vene, Apollo svilisce la funzione della madre nella procreazione, affermando che generatore è colui che getta il seme, mentre la madre è semplice contenitore del feto. Vi è qui nel suo estremismo, certamente oggi non condivisibile, un'idea meno arcaica della procreazione. Atena vota in favore di Oreste, anche perché ella è stata generata dal padre, senza l'aiuto del grembo materno. La sentenza è nota: i voti pro e contro Oreste sono pari, ma siccome in caso di parità sarà il giudizio di Atena a fare la differenza, il matricida è salvo. Questa sentenza, che fonda l'ordine giuridico, è dunque contraddittoria: i nuovi dei e la nuova giustizia non hanno sconfitto le vecchie tradizioni e l'ambiguità tragica, irrisolvibile, permane. Le Erinni minacciarono, se la sentenza non fosse stata mutata, di lasciar cadere sull'Attica una goccia di sangue del loro cuore, che avrebbe isterilito il suolo, distrutte le messi e ucciso tutti i fanciulli di Atene. Il sangue di cui si parla in realtà è il sangue versato fra i consanguinei, che rompe la successione delle generazioni; è il sangue di mestruo e degli aborti delle donne, segno mortifero della mancata fecondazione. Ma Atena traduce la minaccia di Erinni anche in un senso strettamente politico: il Male che può minare la forza della città sono anche, soprattutto, gli odi intestini che pure Erinni ha il potere di aizzare. Per far desistere Erinni dai propositi di maleficio, Atena offre loro una serie di vantaggi (omaggi e onori). (Peithò = la Persuasione). Perché la parola persuasiva non è sufficiente a regolamentare i rapporti tra gli esseri umani? Perché la necessità del rispetto e del timore? Ma oltre che sul piano sociale, anche su quello più strettamente individuale non possiamo non chiederci perché siano così rari gli esseri umani che sanno vivere decentemente senza bisogno di essere terrorizzati dall'idea del carcere, degli inferni o, quanto meno, da implacabili Erinni interiori.


  • Le ninfe Melie (ninfe dei Frassini) protettrici delle greggi;
      Le ninfe erano delle divinità inferiori che personificavano i diversi aspetti della natura.

      Si diceva che le ninfe abitassero nei fiumi, nelle fonti, nei torrenti, nei mari, ecc. e facevano sovente parte della corte di divinità maggiori.

      Le ninfe assumevano nomi diversi a seconda dei luoghi che abitavano: le Nereidi del mare, le Oceanine dell'Oceano, le Agrostine dei campi, le Naiadi delle acque dolci, le Avernali del mondo dei morti, le Oreadi dei monti, le Napee dei boschi, le Auloniadi delle valli e dei burroni, le Driadi e le Amadriadi delle piante, le Alseidi dei boschi, le Meliadi dei frassini.

      Le ninfe non era immortali ma avevano una vita lunghissima e rimanevano giovani per sempre. Erano rappresentate come delle fanciulle giovani e bellissime, nude e con lunghissimi capelli.


  • I Giganti.
    • Creature gigantesche dalla forza spaventosa, simbolo della forza bruta e della violenza sconvolgitrice della natura quali i terremoti e gli uragani:
      Alcioneo, Encelado, Efialte, Pallante, Ippolito, Porfirione, Mimante, Grazione, Polibote, Olto, Clizio, Agrio, Toante, Eurito

      - I NEFILIM
      La teoria prevalente per stabilire un legame tra la scienza e i Giganti (Nephelim) è quella che sostiene che i Nephilim fossero neandertaliani sopravvissuti (oppure i loro resti ossei), o forse un ibrido tra Homo sapiens e uomo di Neanderthal. Questa teoria assomiglia a quella che associa la leggenda dei draghi alle ossa di dinosauro.


      Molti studiosi pensano che l'uomo moderno abbia condiviso gli stessi territori dei neandertaliani per molti millenni, e che la regione del Vicino Oriente sia stata l'ultimo habitat per uno sparuto numero di tribù superstiti di Homo sapiens neandertalensis o di H. neandertalensis. Dunque, è concepibile che sia rimasta una memoria popolare di queste tozze e forti creature, tramutata in leggenda che evolse successivamente in popolari racconti mitologici, più o meno adattati al loro gusto dalle varie civiltà. Ad esempio, in Sardegna, creature ancestrali, tozze e pelose sono raffigurate dalle maschere dei "Mamuthones".


      - TAVOLETTE SUMERE
      Secondo Zecharia Sitchin, 450.000 anni fa un popolo proveniente dallo spazio e da un pianeta chiamato Nibiru atterrò sul nostro pianeta e attraverso un esperimento genetico creò l'uomo. Sembra che Sumeri Assiri e Babilonesi abbiano identificato questo pianeta nel Dio Marduk, il re degli Dèi. Così Nippur si popolò di Dèi. Venivano dal pianeta Nibiru che ogni 3600 anni appare nel nostro sistema solare. Giunsero 450.000 anni fa e appartenevano tutti al popolo dei Nefilim, il popolo dei razzi, gli Dèi...


      - LA TEORIA DEGLI ANTICHI ASTRONAUTI - GENESI UMANO-RETTILE -
      Zecharia Sitchin ed Erich Von Daniken hanno scritto libri sostenendo che i Nephilim siano i nostri antenati e che noi siamo stati creati (con l'ingegneria genetica) da una razza aliena.
      Nei voluminosi libri di Sitchin si impiega l'etimologia della lingua semitica e traduzione delle tavolette in scritta cuneiforme dei Sumeri per identificare gli antichi dei mesopotamici con gli angeli caduti (i "figli di Elohim" della Genesi). Osservando che tutti gli angeli vennero creati prima della Terra, lui constata che non possono essere della Terra... e dunque, potrebbero tutti essere considerati semanticamente come dei puri "extraterrestri".

      Nei suoi libri David Icke presenta una teoria simile, nella quale esseri interdimensionali rettiliani danno luogo ad una progenie servendosi dell' ingegneria genetica, con tratti fisici di alta statura, pelle chiara, e suscettibilità a qualsiasi forma di suggestione ipnotica (che a suo parere, avviene quando i "demoni" posseggono la loro progenie e pretendono fedeltà), ed afferma che questa linea di sangue rimane in controllo del mondo sin dai giorni dei Sumeri fino ad oggi .
      Va detto, per completezza, che le teorie di David Icke sono considerate da alcune comunità di ufologi come vero e proprio Debunking.


      - ANUNNAKI
      Nella mitologia sumera il termine Anunnaki, ossia "figli di An", indica l'insieme degli dèi sumeri.

      Essi erano costituiti in un'assemblea, presieduta da An, dio del cielo. Tale assemblea si componeva dei sette supremi, di cui facevano parte i quattro principali dei creatori (An, Enlil, Enki, Ninhursag), con l'aggiunta di Inanna, Utu e Sin e di 50 dei minori, detti anche Igigi.
      Vi è un'interpretazione non ortodossa di un traduttore dal sumerico (Zecharia Sitchin) che indicherebbe negli Annunaki degli alieni provenienti da Nibiru, un pianeta del nostro sistema solare.


      Nel Vecchio Testamento biblico, nel Libro della Genesi, vengono citati i Nephilim; è ormai dato quasi certo che i Nephilim (o nefilim) null'altro sarebbero che gli Anunnaki stessi.


      - INTERPRETAZIONE DI ZECHARIA SITCHIN

      Il nome accadico Anunnaki vuol dire "Coloro che dal Cielo sono venuti sulla Terra". Secondo Zecharia Sitchin il "cielo" degli Anunnaki cui si riferiscono i testi sumerici, detto Ni.bi.ru, era il "pianeta del transito", il "centro del cielo", cioè un pianeta del nostro Sistema Solare.

      Sitchin è uno studioso ben noto a chi segue la cosiddetta archeologia spaziale: è nato in Russia ma è cresciuto in Palestina, e qui ha acquisito una completa padronanza della lingua ebraica antica e moderna, studiando in modo approfondito le lingue semitiche ed europee, l'Antico Testamento, la storia e l'archeologia del Medio Oriente.


      In particolare, ha compiuto ricerche sul mito di Gilgamesh e sui racconti biblici. Gilgamesh è un re semileggendario di Uruk (quinto re della I dinastia, forse realmente esistito attorno al 2600 a.C.), la sua leggenda ha dato luogo a una serie di poemi; nel corso del II millennio a.c., gli scribi accadici ne hanno fatto un'epopea in dodici canti, il cui soggetto è la ricerca illusoria dell'immortalità. Uno degli episodi, quello concernente il Diluvio con il personaggio di Utnapishtim, presenta notevoli analogie col racconto del Diluvio biblico.
      Nei testi sumerici scritti in grafia cuneiforme si trovano altre cronache affini ai racconti biblici come, ad esempio, la creazione dell'uomo. La prima colonia di Sumer fu la città E.ri.du, nome che significa letteralmente "Casa costruita lontano", essa sorgeva su una collina eretta artificialmente alla foce dell'Eufrate, in mezzo alla edinu, che significa "pianura", o anche E.din, "Patria dei Giusti", da cui deriva "Eden", biblico nome del giardino paradisiaco, prima dimora terrestre dell'uomo.

      Le teorie di Sitchin sono esposte in una serie di libri facenti parte di un vasto progetto editoriale, iniziato nel976 e denominato The Earth Chronicles (Cronache della Terra). Come molti sostenitori della paleoastronautica, Sitchin è convinto che opere come La Bibbia, L'epopea di Gilgamesh, le iscrizioni reali degli Accadi e dei Sumeri, debbano essere considerate come vere e proprie documentazioni storico-scientifiche; e da questi testi ne ricava che la nascita e lo sviluppo della vita sulla Terra sarebbe stata guidata da esseri extraterrestri. Nella Bibbia questi esseri vengono chiamati col nome di Nephilim (o Nefilim, dalla parola ebraica Nafal, "caduti") che significa "coloro che sono scesi (o caduti) sulla Terra dal Cielo", mentre nella lingua degli Accadi questi esseri diventano gli Anunnaki, che letteralmente significa "coloro che sono venuti sulla Terra".

      Gli Anunnaki avrebbero avuto un ruolo importante nella veloce evoluzione della civiltà umana e in particolare di quella sumerica. I signori di Nibiru, sin dall'antichità, sarebbero scesi sulla Terra per sfruttare le risorse minerarie del nostro pianeta. All'inizio furono inviate delle sonde automatiche per verificare l'abitabilità del nostro mondo. Quando il pianeta Nibiru giunse nel punto della sua orbita più vicino alla Terra fu inviata una prima spedizione umana capeggiata da Enlil, un nome che ricorre spesso nella mitologia dei Sumeri. I luoghi scelti furono la Valle del Nilo, la Valle dell'Indo e la Mesopotamia.

      - RITROVAMENTO REPERTI ARCHEOLOGICI
      18/09/2007 Rinvenuti scheletri umani giganti nel "The Empty Quarter" (Il Settore Vuoto), nel Nord dell'India. E se fossere uomini vissuti hai tempi dei dinosauri ?

      Tutto ha avuto inizio da una normale attività esplorativa nel deserto Indiano, in un luogo chiamato "The Empty Quarter" (Il Settore Vuoto), nel Nord dell'India. In questa regione sono venuti alla luce i resti di uno scheletro umano di taglia eccezionale (vedere comparazione nell'immagine).

      La scoperta è stata fatta nel 2004 dal Team National Geographic (Divisione Indiana), con l'appoggio dell'Esercito Indiano, poiché l'area è sotto la giurisdizione dell'Esercito. Sembra che siano state trovate anche delle tavolette con iscrizioni che affermavano che gli dei Indiani, come il mitologico "Brahma", avessero generato persone di taglia eccezionale: molto alti, grandi, e assai potenti, in grado di poter abbracciare un grosso tronco di albero e sradicarlo.

      La Mitologia Greca ricca di leggende tramandate sui giganti, ne ha fatto gli dei che stiamo trattando in questo compendio mitologico.

      Urano, riuscì però a scappare lontano e da allora mai più si avvicinò alla Madre Terra, sua sposa.

      Il governo della terra, sarebbe toccato a Oceano, il più anziano fratello, ma Crono, con l'inganno, riuscì a impossessarsi del trono e a regnare sul creato.

     

     

     



    Il REGNO DI CRONO

      La prima cosa che fece Crono fu quella di liberare i suoi fratelli dalla prigionia alla quale il padre li aveva relegati ad eccezione dei Ciclopi e degli Ecatonchiri nei confronti dei quali nutriva seri dubbi sulla loro lealtà nei suoi confronti. Questo, da parte sua, fu un errore che negli anni a venire gli sarebbe costato molto caro. Ma i Titani proclamarono Crono signore dell'universo.

      Nella tradizione orfica, Crono è il primo Dio che ha regnato sul cielo e sulla terra, ha portato alle leggende dell'età dell'oro. Si raccontava in Grecia che, in quei tempi lontanissimi, egli regnasse ad Olimpia. In Italia, in cui Crono è stato identificato con Saturno, si poneva il suo trono sul campidoglio. Gli si attribuiva il regno dell'Africa, della Sicilia e, in genere, di tutto l'occidente mediterraneo. Più tardi, quando gli uomini erano diventati malvagi, con la generazione del bronzo e soprattutto del ferro, Crono era risalito al cielo.

      Esiodo raccontava un mito relativo alle differenti razze che si sono succedute dall'origine dell'umanità: oro, argento, bronzo e ferro, per esprimere il progressivo svilimento della razza umana. A queste quattro ne aggiunse una quinta, quella della stirpe divina degli uomini-Eroi che precede l'ultima età, quella del ferro, come estremo tentativo di recupero prima dell'inevitabile caduta finale. All'inizio, quindi, c'era una razza d'oro. Si era nel periodo in cui Crono regnava ancora in Cielo. Gli uomini vivevano allora come gli dei, liberi d'affanni, al riparo dalle fatiche e dalla miseria, non conoscevano la vecchiaia ma trascorrevano i giorni sempre giovani tra i banchetti e le feste; giunto il tempo di morire, si addormentavano dolcemente; non erano sottomessi alla legge del lavoro, tutti i beni appartenevano a loro spontaneamente, la terra produceva naturalmente abbondante raccolto ed essi, in mezzo ai campi, vivevano in pace.

      Crono scelse Rea, sua sorella, come sposa e insieme governarono sugli dei e sugli uomini. Ma la sua tranquillità fu minata da un triste vaticinio. Poichè Urano e Gaia, depositari della saggezza e della conoscenza dell'avvenire, gli avevano predetto che sarebbe stato detronizzato da uno dei suoi figli. Terrorizzato, per tentare di ingannare il destino, iniziò a divorare i suoi figli non appena nascevano, tenendoli così prigionieri nelle sue viscere. Così generò e successivamente divorò Estia, Demetra, Era, Ade e Poseidone. Adirata per vedersi privata in tal modo di tutti i suoi figli, Rea, incinta di Zeus, fuggì a Creta e qui partorì segretamente. Poi, avvolgendo un masso con panni, lo diede a Crono perchè lo divorasse. Egli lo inghiottì senza accorgersi dell'inganno.

      Nel frattempo il piccolo Zeus era stato portato in una caverna del monte Ida nell'isola di Creta e affidato alle cure della ninfa Amaltea che possedeva una capra che aveva due capretti la quale costituiva l'orgoglio del suo popolo per le superbe corna ricurve all'indietro e per le mammelle ricche di latte, degne di allattare il grande Zeus.
      Un giorno la capra si spezzò un corno urtando contro un albero perdendo metà della sua bellezza. Il corno fu raccolto da Amaltea che lo ricolmò di frutta ed erbe e lo donò a Zeus. Zeus una volta diventato il re degli dei, pose Amaltea fra le costellazioni e rese fecondo il corno che ancor oggi porta il suo nome, cornucopia (dal latino "cornu=corno" e "copia = abbondanza").
      Anche l'ape Panacride nutriva Zeus dandogli il miele ed un'aquila gli portava ogni giorno il nettare dell'immortalità. I suoi pianti erano coperti dai Cureti che battevano il ferro per impedire ad alcuno di sentire i suoi vagiti.

      Quando fu adulto, Zeus, aiutato da Meti, una delle figlie di Oceano, fece assorbire a Crono una droga che lo costrinse a vomitare tutti i figli divorati. Questi, guidati dal loro giovane fratello Zeus, dichiararono guerra a Crono, che aveva come alleati i suoi fratelli Titani. La guerra durò dieci anni, e un'oracolo della terra promise infine la vittoria a Zeus se avesse preso come alleati gli esseri fatti un tempo precipitare da Crono nel Tartaro. Zeus li liberò e riportò la vittoria. Allora Crono e i Titani furono incatenati al posto degli Ecatonchiri, che divennero i loro guardiani.


      Oceano

        Oceano è il potente flusso primordiale dell'acqua che gira attorno alla terra.
        E' rappresentato come un fiume che scorre attorno al disco piatto che è la Terra, delimitandone le frontiere più lontane, sia a est che a ovest. Man mano che la conoscenza della Terra si faceva più precisa, il nome d'Oceano fu riservato all'Oceano Atlantico, il limite occidentale del mondo antico. Nell'antichità si credeva che le stelle e il sole sorgevano e tramontavano nelle sue acque.
        Teti sua moglie è una corrente d'acqua, come un grande fiume che vi si muove dentro, e con Oceano da vita a tutte le le sorgenti, i fiumi e il mare. I figli di Oceano, i fiumi, sono migliaia (Acheloo, Alfeo, Ladone, Eridano, Meandro, Simoenta, Strimone, Eveno, Scamandro, Nilo). Altrettante le figlie, le Oceanine.le quali si unirono a un gran numero di dei e mortali per generare molti figli: Stige (la maggiore), Elettra, Doride (moglie di Nereo), Asia, Calliroe, Climene (moglie di Giapeto), Eurinome (antica regnante dell'Olimpo scacciata in seguito da Crono e Rea), Europa, Meti (la prima moglie di Zeus), Clizia, Dione, Criseide, Calipso, Pleione (madre delle Pleiadi e delle Iadi), Anfitrite (moglie di Poseidone), ninfe, antiche divinita' protettrici dei pozzi, delle sorgenti e dei ruscelli.
        L'acqua è il principio di tutte le cose. Essa e' il simbolo della vita e della fecondità. Numerosi sono i miti relativi a sorgenti e fontane dell'eterna giovinezza e della vita, e numerose le credenze sulle acque miracolose che guariscono da tutte le malattie dell'anima e del corpo.
        L'acqua e' elemento che provoca la pioggia benefica e la rinascita delle sorgenti, della vegetazione e dell'agricoltura per la vita degli animali e degli uomini, il riscatto dei terreni dalla desertificazione o la forza eversiva quando e' rotto il suo equilibrio nel territorio.

        Oceano, nelle cui acque si bagnavano le fanciulle greche prima delle nozze, aveva un'inesauribile potenza generatrice e perciò era considerato come il capostipite di antiche famiglie.

        Oceano non è mai stato in buoni rapporti con Crono, in quanto sarebbe dovuto spettare a lui il dominio sul mondo dopo Urano, dato che lui era il più anziano. Infatti, nella Titanomachia, Oceano non appoggiò il fratello e rimase neutrale.

      Ceo

        Fra i Titani rappresentava l'intelligenza. Sposò sposò sua sorella, la "brillante" Febe, con la quale generò Leto (Latona) e Asteria.

        Ceo era il portavoce della saggezza di suo padre Urano, e di sua madre Gea. In questo senso le sue due figlie erano i due rami di chiaroveggenza: Leto e suo figlio Apollo presiedevano la potenza della luce e del cielo. La figlia Asteria fu la sposa del titano Perse, che gli diede una figlia che chiamarono Ecate: ammantata dal denso alone di mistero, insidioso e terrifico, che conferiscono la notte, le tenebre e gli spiriti dei morti.



      Crio

        Dio della forza, rappresenta l'ideale della forza e della potenza fisica. E' l'Ariete del cielo.

        Crio è il meno famoso. E' uno dei pochi che non si è sposato con una sua sorella Titanide; infatti, sua moglie è Euribia, figlia di Gaia e Ponto, ed ebbero Astreo, Pallante (figlia di cui sarà Nike, la Vittoria), Perse.

        Unendosi con Eos figlia di Iperione, ha generato i Venti (Zefiro, Borea, Noto, Eosforo).



      Iperione

        Dio del sole, della vigilanza e dell'osservanza, Si unì in matrimonio a sua sorella Teia, dal quale ebbe tre figli: Elio (il Sole), Eos (l'Aurora) e Selene (la Luna).

        Elios sorge ogni mattina dall'Oceano per condurre il carro del sole e data la capacità del sole di penetrare dappertutto, è invocato come testimone nei giuramenti.

        Eos, Dea dell'aurora, è destinata ad alzarsi presto per agevolare il lavoro del fratello Elios.

        Selene, Dea della luna, percorre il cielo sopra un carro trainato da quattro buoi bianchi.



      Giapeto

        Sposò Climene, una delle figlie di Oceano e Teti, dalla quale ebbe quattro figli: Atlante, Menezio, Prometeo ed Epimeteo. Dunqueè il progenitore degli uomini.,perché attraverso Prometeo, si ricollega Deucalione, il padre della stirpe umana, dopo il diluvio universale. Mentre Pirra, moglie di Deucalione, sarebbe figlia di Epimeteo e Pandora.
        Atlante possedeva il giardino delle Esperidi, dove maturavano i famosi pomi d'oro. Ebbe una numerosa discendenza. figlie sue furono le Pleiadi avute da Pleione, da Etna ebbe le Iadi, da Esperide le Esperidi.

        Fu pietrificato da Perseo con la testa della Medusa, venne identificato con le montagne che portano il suo nome.



      Tea

        Titanide, sorella e sposa di Iperione con cui generò Elios, Selene ed Eos (Il sole, la luna e l'aurora). "E Teia ad Elios grande die' vita, e a Selene lucente, ed all'Aurora, che brilla per quelli che stan su la terra, e pei Beati, ch'àn vita perenne, signori del cielo, poscia che ad Iperïóne, domata in amore soggiacque" (Esiodo, Teogonia).



      Rea

        Personificazione delle forze della natura, dea della terra e degli animali, veniva rappresentata accompagnata da sacerdoti (coribanti), da leoni e da altri animali selvaggi
        Rea sposò suo fratello Crono che, per evitare di perdere il potere così come era capitato a suo padre Urano (spodestato da Crono stesso), prese a divorare i figli via via che Rea li partoriva. Per prima divorò Estia quindi Demetra, Era, Ade e Poseidone.
        Rea era furiosa. Mise al mondo Zeus, il suo terzo figlio maschio, sul Monte Liceo, in Arcadia (o secondo altre versioni a Creta, dove era fuggita precedentemente) e dopo aver tuffato Zeus nel fiume Neda lo affidò alla madre Terra. A Crono invece era stata recapitata una pietra avvolta in fasce al posto di suo figlio Zeus. Così il Titano ingoiò la pietra mentre Zeus fu nascosto in una grotta a Creta dove visse sino al momento in cui costringerà il padre con un potente veleno a rigettare i fratelli.

        Rea (o Cibele) Aveva il compito di proteggere la fertilità, la natura, il grano mietuto e posto nei granai. Venerata come madre degli dei, tutelava le montagne e le fortezze. Essendo raffigurata con una corona che aveva la forma delle mura di una città, presso i romani era nota anche come Mater turrita.

        Al culto di Cibele erano preposti sacerdoti eunuchi chiamati Coribanti, che guidavano i fedeli in riti orgiastici accompagnati da urla selvagge e da una frenetica musica di flauti, tamburi e cembali.

        Sta a rappresentare insieme a Crono la regalità, anteriore all'avvento di Zeus.

        Il suo culto si diffuse in gran parte nella Grecia continentale in cui si dava ai propri santuari il nome di metroon (Olimpia, Atene, il Pireo, ecc.),
        A Roma, questo culto fu introdotto, in 204 a.C. Per riceverla, si costruì un tempio sul palatino e si commemorò ogni anno quest'evento con la festa di megalesia, accompagnata da giochi megalesiani (4-10 aprile). La grande festa annuale di Cibele comprendeva cerimonie simboliche dove si rappresentava la storia degli amori della dea, il dolore, la mutilazione, la morte ed il resurrezione di Atys, suo figlio; processioni di sacerdoti (coribanti), che camminavano con la statua in legno della dea; corse, danze, ecc., tutto ciò evocando l'agonia della morte della vegetazione e, quindi, il suo grande risveglio.
        Gli strumenti del culto erano il coltello incoronato, il corno, il flauto di Frigia, i cembali, le castagnette, il timpano.
        Le rappresentazioni dell'immagine di Cibele sono numerose, soprattutto nell' Asia minore. All'origine, un semplice meteorite simbolizzava la dea: tale era la pietra nera di Pessinonte. Poco a poco, sotto l'influenza dello antropomorfismo greco, si rappresentò Cibele sotto le caratteristiche di una donna seduta che tiene un leone sulle proprie ginocchia, o affiancata da due leoni.



      Temi:

        Temi non è la dea della Giustizia come erroneamente si crede, ma la dea delle leggi naturali e perciò vigila su quanto è lecito ed illecito, regola la convivenza fra gli dèi, fra i mortali e i due sessi.

        La Giustizia invece è rappresentata da una delle Ore, Dike (sua figlia), I cui attributi sono la spada e la bilancia assieme alla cornucopia e agli occhi bendati (l'imparzialità della legge) e simboleggia il diritto e la giustizia. è spesso rappresentata come una donna con l'aria autorevole che tiene i piatti d'una bilancia con la quale pesa le argomentazioni delle controparti.

      Teti

        Sposa Oceano, uno dei suoi fratelli, e diviene madre di tutti i fiumi del mondo e degli esseri femminili acquatici detti Oceanine.

        è lei che quando il figlio Achille, angustiato da Agamennone per la sottrazione della bella Briseide, va in riva al mare a sfogarsi, apparendogli gli domanda:

        Figlio, a che piangi? e qual t'opprime affanno?
        Dì, non celarlo in cor; meco il dividi.
        (Iliade I).
        E saputo il fatto subito va sull'Olimpo da Zeus:
        Innanzi a lui
        la Dea s'assise; colla manca strinse
        le divine ginocchia; e colla destra
        molcendo il mento, e supplicando, disse:
        - Giove padre, se d'opre e di parole
        giovevole fra' numi unqua ti fui,
        un mio voto adempisci.

        Col cuore amareggiato di madre chiede a Zeus di volgere la guerra a favore dei troiani in modo da fare un dispetto ad Agamennone.
        Il Sommo Dio acconsente per poi ricambiare nuovamente le sorti quando Achille addolorato ed infuriato per la morte dell'amico Patroclo riprende la battaglia.


        Teti si identificava con una enorme massa d'acqua che scorreva nell'oceano pur restandone distinta e rappresentava l'elemento femminile fertile dei mari e dei fiumi che nutriscono la terra. La sua dimora era localizzata nell'estremo Occidente, oltre il giardino delle Esperidi, dove tramonta il sole.
        E' un meraviglioso giardino difeso dalle Esperidi dove fruttificano arance e limoni, simbolo della fecondità e dell'amore (ancor oggi i fiori di arancio), e una delle fatiche di Ercole fu quella di portare agli uomini questi pomi d'oro.

        Quando Aesacos, figlio di Priamo e di Alexirhoe , dopo la morte della moglie Asterope non riuscì a darsi pace cercando più volte la morte, gettandosi in mare da un'erta rupe, Téthys si mosse a compassione e lo tramutò in un uccello pescatore; in tal modo potè abbandonarsi alla sua ossessione, senza offendere il creato.

        Teti aveva cinquanta Nereidi come assistenti, sirene gentili figlie della ninfa Doride e di Nereo figlio di Ponto e di Gea.



      Febe

        Sposata al fratello Ceo, da lui ebbe Asteria e Leto (o Latona), madre di Apollo e Artemide.

        E' la dea ispiratrice negli oracoli prima dell'avvento di Apollo. E' lei che dona il potere all'oracolo di Delfi e Apollo l'attributo di "Febo", lo prende da lei. Per il suo genetliaco Apollo riceve in regalo l'oracolo da Febe perché attraverso Latona, è suo nipote.



      Mnemosine

        MNEMOSINE è la memoria che gli Esseri figli di ERA dovranno usare per affrontare le contraddizioni nella loro esistenza. MNEMOSINE è il conoscere le cose attraverso le quali il soggetto prende le decisioni nelle quali esercita la propria volontà. Esercitando la propria volontà il soggetto sceglie i migliori adattamenti per costruire sé stesso.

        Fu amata dal nipote Zeus, che le si presentò sotto forma di pastore.
        Mnemosine e Zeus giacquero insieme per nove notti sul monte Pierio e dopo un anno nacquero nove figlie: le Muse.

        Attraverso MNEMOSINE si aprono dei "canali di passione" con i quali collegare il singolo Essere alla MNEMOSINE universale. Questi "canali di passione" quando praticati dall'Essere della Natura e dall'Essere Umano, travolgono come una valanga emozionale l'Essere figlio di ERA. Questa Coscienza di Sé sono le MUSE!

        Esiodo elenca nove muse. Ogni MUSA è un "canale di passione" capace di condurre l'Essere Umano che la evoca fuori dai confini della ragione. E' un canale che può portare l'Essere Umano nell'infinito collegandolo alla MNEMOSINE che figlia di URANO STELLATO e GAIA fa risuonare tutte le voci dell'infinito.

        Le mani, le passioni e l'intuire è la triade attraverso la quale gli Esseri Umani possono riuscire ad uscire dalla ragione e giungere nell'infinito che li circonda. La mani, le passioni e l'intuire portano a praticare l'impeccabilità dell'individuo che chiama la MUSA a sorreggere il suo cammino di uscita dalla ragione. Proviamo ad elencare le MUSE nominate da Esiodo: CLIO, EUTERPE, TALIA, MELPOMENE, TERSICORE, ERATO, POLIMNIA, URANIA e CALLIOPE. Quale di queste MUSE è la più importante? Quella praticata dal singolo individuo! Quella che emerge dentro la singola persona, diversa da ogni persona e praticata in maniera soggettiva!



          Sotto il regno di Crono la terra conobbe l'età dell'oro, ma la sua tranquillità fu minata da un triste vaticinio: gli fu infatti predetto che il suo regno avrebbe avuto fine per mano di uno dei suoi figli. Terrorizzato, per tentare di ingannare il destino iniziò a divorare i suoi figli non appena nascevano, tenendoli così prigionieri nelle sue viscere.
      Rea, disperata, subito dopo la nascita del suo ultimogenito Zeus, si recò da Crono e anziché presentargli il figlio, gli consegnò un masso avvolto nelle fasce che Crono ingoiò senza sospettare nulla.

     

     

     



    IL REGNO DI ZEUS

          Nel frattempo il piccolo Zeus era stato portato in una caverna del monte Ida nell'isola di Creta e affidato alle cure della ninfa Amaltea che possedeva una capra che aveva due capretti la quale costituiva l'orgoglio del suo popolo per le superbe corna ricurve all'indietro e per le mammelle ricche di latte, degne di allattare il grande Zeus.
      Un giorno la capra si spezzò un corno urtando contro un albero perdendo metà della sua bellezza. Il corno fu raccolto da Amaltea che lo ricolmò di frutta ed erbe e lo donò a Zeus. Zeus una volta diventato il re degli dei, pose Amaltea fra le costellazioni e rese fecondo il corno che ancor oggi porta il suo nome, cornucopia (dal latino "cornu=corno" e "copia = abbondanza").
      Anche l'ape Panacride nutriva Zeus dandogli il miele ed un'aquila gli portava ogni giorno il nettare dell'immortalità. I suoi pianti erano coperti dai Cureti che battevano il ferro per impedire ad alcuno di sentire i suoi vagiti.


      La conquista del regno celeste:



      Titanomachia. Quando Zeus fu grande, salì in cielo e con l'inganno fece bere a Crono una speciale bevande preparata da Metis che gli fece vomitare i figli che aveva divorato e dopo ciò dichiarò guerra al padre per impossessarsi del suo scettro. I Titani si schierarono al fianco del fratello Crono da cui ne scaturì una guerra chiamata Titanomachia.

      Ebbe così inizio una lunga guerra che durò dieci anni che vide da una parte Crono, al cui fianco si schierarono i Titani e dall'altra Zeus, al cui fianco c'erano i suoi fratelli Poseidone e Ade.

      Entrambe le parti si battevano senza esclusione di colpi. La terra era devastata dai Titani che con la loro forza cambiavano i contorni della terra, distruggendo montagne scagliandole nell'Olimpo, il monte più alto della Grecia, dove Zeus ed i suoi fratelli avevano stabilito il proprio regno.

      La guerra sarebbe andata avanti ancora per parecchio tempo se Gea non fosse intervenuta per consigliare a Zeus di liberare i Ciclopi e stringere un'alleanza con loro. I Ciclopi, per ripagare Zeus di avergli reso la libertà fabbricarono per lui le armi che sarebbero entrate nella leggenda e con le quali avrebbe retto il suo regno dalla cima dell'Olimpo: le folgori.
      Zeus liberò anche gli Ecatonchiri, che con le loro cento braccia iniziarono a scagliare una quantità infinita di massi contro gli alleati di Crono che assieme alle folgori scagliate da Zeus, decretarono la vittoria finale.
      Sulla sorte che Zeus fece fare al padre Crono ci sono diverse ipotesi. Secondo alcuni fu condotto a Tule e sprofondato in un magico sonno. Secondi altri, Crono viene liberato dalle catene, riconciliato con Zeus e dimorante nelle Isole dei Beati. Questa tradizione considera Crono come un re buono, il primo che abbia regnato sul cielo e sulla terra, e generò le leggende dell'Età dell'Oro. Si narrava in Grecia che in tempi lontanissimi egli regnasse ad Olimpia su un mondo felice di pace e abbondanza. Presso i Romani - dove Crono fu assimilato a Saturno (pur essendo, questi, una divinità di origine propriamente italica) - si favoleggiava della beata Età dell'Oro e si poneva il trono del dio, costruito da Romolo stesso, sul Campidoglio.

      Certa è invece la sorte che fu destinata ai Titani: furono incatenati nel Tartaro, e la loro custodia fu affidata agli Ecantonchiri.
      Gli antichi per spiegare la causa dei terremoti, immaginavano i Titani sprofondati nelle viscere della terra, schiacciati da montagne e isole ed i loro tentativi di liberarsi sarebbero la causa dei terremoti.

      Da un dialogo (Luciano: Saturnali) tra Crono detronizzato e vecchio, ed un suo sacerdote: " (…) Crono: Ti dirò. In prima essendo vecchio e perduto di podagra (e questo ha fatto creder al volgo che io ero incatenato) io non potevo bastare a contenere la gran malvagità che c'è ora: quel dover sempre correre su e giù, a brandire il fulmine, e folgorare gli spergiuri, i sacrileghi, i violenti, era una fatica grande e da giovane; onde con tutto il mio piacere la lasciai a Zeus. Ed ancora mi parve bene di dividere il mio regno tra i miei figlioli, ed io godermela zitto e quieto , senza aver rotto il capo da quelli che pregano e che spesso domandano cose contrarie, senza dover mandare i tuoni, i lampi e talora i rovesci di grandine. E così da vecchio meno una vita tranquilla, fo buona cera, bevo del nettare più schietto, e fo un po' di conversazioncella con Giapeto e con altri dell'età mia; ed egli si ha il regno e le mille faccende. (…)" 

      Terminava così il regno di Crono, secondo sovrano della divina famiglia e aveva inizio quella di Zeus, terzo sovrano e figlio suo.
      Zeus, dopo la sconfitta del padre Crono ed avere precipitato gli alleati del padre, i Titani, nel Tartaro, regnava sereno sulla stirpe divina e sugli uomini.
      (Omero: Iliade, VIII, 3)
      "Su l'alto Olimpo il folgorante Giove
      Tenea consiglio. Ei parla e riverenti
      stansi gli Eterni ad ascoltar: M'udite
      Tutti ed abbiate il mio voler palese;
      E nessuno di voi, nè Dio nè Diva,
      Di frangere s'ardisca il mio decreto;
      Ma tutti insieme il secondate ...
      ... degli Dei son io
      Il più possente ... "


      La Gigantomachia
      La gigantomachia è la guerra che i Giganti ingaggiarono contro gli Dei dell'Olimpo, aizzati dalla loro madre Gea e dai Titani incatenati.
      Gea, si era recata infatti a Pallade, dove avevano dimora i Giganti, suoi figli generati con Urano. Ad essi chiese aiuto per muovere guerra contro Zeus. I Giganti, acconsentendo alla richiesta della madre, forti anche della profezia secondo la quale nessun immortale sarebbe stato in grado di batterli, guidati da Porfirione, il più forte tra loro e da Alcioneo, si recarono nell'Olimpo e iniziarono quella che gli storici chiamarono GIGANTOMACHIA.

      La profezia della loro invincibilità nei confronti degli immortali era nota anche a Zeus, pertanto lo stesso decise di far partecipare alla lotta, oltre a tutti gli dei, anche il semidio Eracle (noto anche come Ercole), suo figlio, generato assieme ad Alcmena .

      I Giganti che parteciparono furono ventiquattro, altissimi e terribili, con lunghi capelli inanellati e lunghe barbe e code di serpenti a coprire i piedi. Per raggiungere la vetta dell'Olimpo dovettero mettere tre monti uno sopra l'altro.

      Alcioneo ne fu il capo. Fu anche il primo che Eracle abbatté. Fu la volta di Porfirione: riuscì quasi a strangolare Era ma, ferito al fegato da una freccia di Eros, la sua brama omicida si trasformò in lussuria e tentò di violentare la dea. Zeus divenne pazzo di gelosia e abbatté il gigante con una folgore. Eracle lo finì a colpi di clava.


      Efialte ebbe uno scontro con Ares che, sempre con l'aiuto di Eracle, riuscì a trarsi in salvo. E la storia si ripete con Eurito contro Dioniso, Clizio contro Ecate, Mimante contro Efesto, Pallade contro Atena: alla fine tocca sempre a Eracle dare il colpo di grazia.


      Demetra ed Estia, donne pacifiche, stanno in disparte, mentre le tre dispettose Moire scagliano pestelli di rame da lontano.

      Scoraggiati, i Giganti superstiti scappano. Atena riesce a scagliare un grosso masso contro Encelado che crolla in mare e diventa l'isola di Sicilia. Poseidone strappa un pezzo a Coo e lo scaglia nel mare, dove diventa l'isola di Nisiro, nel Dodecaneso. Ermes abbatte Ippolito e Artemide Grazione, mentre i proiettili infuocati lanciati dalle Moire bruciano le teste di Agrio e Toante.

      Sileno, il satiro nato dalla Terra, si vantò di aver fatto scappare i Giganti col raglio del suo asino, ma Sileno era sempre ubriaco, e veniva accolto all'Olimpo solo per ridere di lui.


      Zeus contro Tifone
      In realtà però, una nuova minaccia si affacciava all'orizzonte che avrebbe portato Zeus ad intraprende un'ennesima lotta contro un temibile nemico: Tifone.
       
      Quando gli dei ebbero vinto i Giganti, Gea, ancora piu' adirata, si unisce al Tartaro e, in Cilicia, partorisce Tifone che aveva natura mista, di uomo e di bestia. Per la statura e la forza,Tifone era superiore a tutti i figli di Gea e non aveva eguali sulla terra.
      La sua forza e la sua imponenza superavano di gran lunga quelle di tutti i figli della Terra.

      Fino alle cosce aveva una forma umana, ma di spaventosa enormità: era più grande di tutte le montagne, e la sua testa spesso sfiorava le stelle.
      Le sue braccia aperte toccavano da una parte il tramonto e dall'altra l'aurora, e terminavano con cento teste di serpente.
      Dalle cosce in giù, invece, aveva smisurate spire di vipera: se le stendeva, gli arrivavano fino alla testa, e producevano orrendi sibili.
      Tutto il suo corpo era alato; un pelo irsuto gli ondeggiava sulla testa e sulle guance, e gli occhi sprizzavano fiamme.

      Con tutta la sua mostruosa grandezza, Tifone si mise a scagliare massi infuocati contro il cielo, fra urla e sibili. Dalla bocca delle sue cento teste sgorgavano torrenti di fuoco reso ancora più orribile dall'ira che lo animava. Così spaventoso e così enorme era Tifone quando sferrò il suo attacco contro lo cielo. Quando gli dei videro che assaliva il cielo, la sorpresa e lo spavento fu tale che andarono a rifugiarsi in Egitto,e poiché lui li inseguiva,si trasformarono in animali (Apollo in corvo, Artemide in gatta, Afrodite in pesce, Ermes in cigno, ecc.), lasciando da solo Zeus ad affrontarlo.
      Il combattimento fu lungo. Zeus dapprima iniziò a scagliare le sue folgori, poi, mano mano che Tifone si avvicinava, lo colpì ripetutamente con la falce. Il mostro sembrava vinto ma quando Zeus si avvicinò per scagliare il colpo mortale, fu afferrato da Tifone per le gambe ed immobilizzato. Tifone fu rapido a strappargli la falce con la quale gli recise i tendini delle mani e dei piedi.
      Zeus era vinto.
      Tifone decise quindi di nascondere Zeus in Cilicia, rinchiudendolo in una grotta chiamata Korykos, mentre i suoi tendini, deposti in una sacca di pelle d'orso, li affidò alla custodia della dragonessa Delfine, metà fanciulla e metà serpente.
      Il suo destino sarebbe stato segnato, quando Ermes, figlio di Zeus, ripresosi dallo spavento decise di reagire. Rubò la sacca a Delfine e trovata la grotta dove era stato imprigionato il padre, lo liberò e lo curò rendendolo nuovamente forte e potente.
      Zeus, iniziò allora una nuova aspra e dura lotta contro Tifone, che riuscì a sconfiggere scagliandogli addosso l'isola di Sicilia e ad imprigionarlo sotto il monte Etna, dove ancora giace. Le eruzioni del vulcano altro non sarebbero che le fiamme scagliate da Tifone per la rabbia di essere stato vinto.
      (Ovidio: Metamorfosi 346-358): "(...) la vasta isola della Trinacria si accumula sulle membra gigantesche, e preme, schiacciando con la sua mole Tifone, che osò sperare una dimora celeste. Spesso, invero, egli si sforza e lotta per rialzarsi, ma la sua mano destra è tenuta ferma dall'Ausonio Peloro, la sinistra da Pachino; i piedi sono schiacciati dal (Capo) Lilibeo, l'Etna gli grava sul capo. Giacendo qui sotto, il feroce Tifone getta rena dalla bocca e vomita fiamme. Spesso si affatica per scuotersi di dosso il peso della terra, e per rovesciare con il suo corpo le città e le grandi montagne. Perciò trema la terra, e lo stesso re del mondo del silenzio teme che il suolo si apra e si squarci con larghe voragini."

      Dopo questa ennesima lotta sostenuta da Zeus, seguì un nuovo periodo di tranquillità. Gli dei fecero ritorno all'Olimpo dove Zeus aveva stabilito la loro dimora.

     

     

     



    POSEIDONE (Nettuno)

      Poseidone (Nettuno per i Romani) era, nella mitologia ellenica, il dio del mare, della navigazione, delle tempeste e dei terremoti. Con Zeus e Ade s'era diviso il regno di Crono, Poseidone fu uno degli dei più potenti dell'Olimpo.

      Abitava negli abissi del mare Egeo, presso la Tracia, in una casa rilucente d'oro. Andava per mare ritto su di un cocchio d'oro e con un tridente nella mano destra come simbolo di comando, trainato da cavalli marini che galoppavano sul pelo dell'acqua, mentre tutte le creature marine accorrevano gioiose, tributando un caldo saluto al loro signore.

      Aveva per attributi il tridente, regalo dei ciclopi, il toro, il delfino ed il cavallo che avrebbe addomesticato. Nelle sue vaste stalle vi erano cavalli bianchi dalla criniera d'oro e dagli zoccoli di bronzo; vi era pure un carro d'oro con cui comandava ai mostri marini ed alle tempeste.Il culto di Poseidone era molto importante nell'antica Grecia perché i greci erano per lo più pescatori e marinai. Era inoltre considerato anche il dio dei terremoti che provocava sbattendo il suo formidabile tridente.
      A Poseidone/Nettuno era sacro anche il delfino, sempre apprezzato dai marinai in quanto il suo apparire era segno di mare calmo e, quando nuotava vicino alle imbarcazioni, si riteneva che contribuisse a mantenerle in rotta.


      I Greci, grandi navigatori, ovviamente avevano un particolare culto per la massima divinità marina. Non vi fu luogo o città della Grecia dove non venissero innalzate statue o templi per il dio che squassava le onde col tridente. Gli fu costruito un tempio sull'istmo di Corinto e là si svolgevano i giochi Istmici, ai quali accorrevano tutti i Greci. Gli si intitolavano anche città, come Paestum, nell'Italia meridionale, che nacque come Posidonia, ossia città di Poseidone.

      I marinai rivolgevano preghiere a Poseidone perché concedesse loro un viaggio sicuro e talvolta come sacrificio annegavano dei cavalli in suo onore. Quando mostrava il lato benigno della sua natura Poseidone creava nuove isole come approdo per i naviganti ed offriva un mare calmo e senza tempeste. Quando invece veniva offeso e si sentiva ignorato allora colpiva la terra con il suo tridente provocando mari tempestosi e terremoti, annegando chi si trovasse in navigazione ed affondando le imbarcazioni.

      E al dio delle acque era stata consacrata anche una pianta: il pino. Le navi erano infatti quasi interamente costruite con tavole di legno di pino (o di cedro del Libano), considerato il migliore per la loro realizzazione.

      Veniva onorato il 23 luglio, con le festività dei Neptunalia, a cui furono poi uniti i ludi Neptunialicii (dal III secolo a.C.) Il suo tempio si trovava al Circo Flaminio all'interno del Campo Marzio a Roma. Nella mitologia Romana aveva una divinità associata (paredra) detta a volte Salacia a volte Venilia.

      In onore al Dio Nettuno, vi è anche la città di Nettuno, nella provincia di Roma nel Lazio.


      Avendo cospirato con Era e Apollo contro Zeus, venne punito ed esiliato nella Troade al servizio di Laomedonte. Questi gli negò il compenso pattuito per la costruzione delle mura della città. Poseidone, irato, fece scaturire dal mare un mostruoso drago. Per placarlo, il re dovette esporre la figlia Esione per essere divorata dal mostro. La giovane fu salvata e liberata da Eracle che uccise il mostro.

      Per punizione per aver offeso Zeus, Poseidone ed Apollo furono mandati a servire il re di Troia Laomedonte: questi disse loro di costruire un'enorme cinta muraria che corresse tutt'attorno alla città, promettendo di ricompensarli per questo servizio, ma poi non mantenne la parola data. Per vendicarsi, Poseidone mandò ad attaccare la città un mostro marino che però venne ucciso da Eracle.

      Dall'umore instabile come il mare era ora sorridente e benevolo ora burrascoso e violento, con il suo tridente aveva il potere di rendere il mare calmo o agitato. poteva cambiare forma a suo piacimento: simbolo dell'incostanza del mare.
      Le sue contese con altre divinità si spiegano col fatto che egli era anche dio delle acque terrestri, prima che il suo regno fosse ridotto al solo mare.

      Atena era in competizione con Poseidone per diventare la divinità protettrice della città di Atene che, all'epoca in cui si svolge questa leggenda, ancora non aveva un nome. Si accordarono in questo modo: ciascuno dei due avrebbe fatto un dono agli Ateniesi e questi avrebbero scelto quale fosse il migliore, decidendo così la disputa. Poseidone piantò al suolo il suo tridente e dal foro ne scaturì una sorgente. Questa avrebbe dato loro sia nuove opportunità nel commercio che una fonte d'acqua, ma l'acqua era salmastra e non molto buona da bere. Secondo altre versioni Poseidone offrì invece il primo cavallo Atena invece offrì il primo albero di ulivo adatto ad essere coltivato. Gli Ateniesi scelsero l'ulivo e quindi Atena come patrona della città, perché l'ulivo avrebbe procurato loro legname, olio e cibo. Si pensa che questa leggenda sia sorta nel ricordo di contrasti sorti nel periodo Miceneo tra gli abitanti originari della città e dei nuovi immigrati.

      Poseidone, avido di regni terrestri, un giorno rivendicò l'Attica piantando il suo tridente nell'acropoli di Atene facendo scaturire, immediatamente, un pozzo d'acqua salata che vi si trova ancora. Più tardi, durante il regno di Cecrops, arrivò Atena venne e si installò in modo più piacevole piantando il primo ulivo vicino al pozzo. Poseidone, furioso, la sfidò in combattimento ed Atena era pronta ad accettare se Zeus non si fosse interposto e non avesse ordinato loro di sottoporsi ad un arbitrato. Zeus non emise un verdetto, ma tutti gli altri dei sostennero Poseidone e tutte le dee sostennero Atena. E così, a maggioranza di una voce, il tribunale decretò che Atena aveva più diritti sul territorio perché lo aveva dotato di un regalo più utile.
      Poseidone contese ad Atena anche Trézène, una città del Peloponneso; in quest'occasione Zeus diede l'ordine che la città fosse divisa tra i due e ciò che fu sgradevole all'uno ed all'altro.

      Contese Corinto a Elios, ma ricevette soltanto l'istmo, mentre l'acropoli restò ad Elios. Furioso, provò a prendere a Era l'Argolide ed era pronto a combattere ancora, rifiutando di apparire dinanzi ai suoi pari olimpici, che, diceva, erano prevenuti contro lui. Di conseguenza, Zeus sottopose l'affare ai dio-fiumi Inachos, Céphise ed Asterione, e il giudizio che scaturì fu a favore di Era.
      Rivendica anche l'invenzione della briglia, benché Atena l'abbia inventata prima di lui; ma non gli contestano di avere istituito le corse dei cavalli.


      Poseidone fu allevato dai Telchini di Rodi e si unì alla loro sorella Alia, che gli dette sei maschi e, secondo alcune tradizioni, anche la figlia Rodo, da cui il nome dell'isola di Rodi. Afrodite fece impazzire i figli, inducendoli ad attentare alla propria madre, per cui Poseidone li precipitò nei visceri della terra con un colpo di tridente.

      Glauco è una figura della mitologia greca, figlio di Poseidone e di una Naiade.
      Come il padre fu una divinità del mare. La sua figura appare ne Le Argonautiche di Apollonio Rodio e nelle Metamorfosi (libro XIII) di Ovidio.
      Secondo la leggenda, nacque umano, praticò l'attività di pescatore, la sua immortalità e la sua natura di divinità marina derivarono da un'erba magica. Il suo corpo mutò sembianze, assumendo una forma di coda di pesce nella parte inferiore.
      Si ricordano i suoi amori, da quello per Scilla fino al tentativo di circuire Arianna. Glauco cercò di sedurre Scilla senza successo, impedito da Circe che lo coprì di ridicolo.

      Poseidone, innamoratosi di Anfitrite, una delle Nereidi figlie di Nereo e di Doride, la chiese in sposa ma la fanciulla intimorita, per timidezza fuggì via nascondendosi nelle acque dell'Oceano, oltre le colonne d'Ercole. Il dio inviò, allora, un delfino alla sua ricerca e ritrovatala la convinse alle nozze. La novella sposa, gelosa di Scilla la mutò in un mostro dai dodici piedi e dalle sei bocche che divoravano i marinai che attraversano lo Stretto di Messina.
      Da Anfitrite ebbe figli Tritone, Bentesecime e una figlia di nome Roda (spesso confusa con Rodo), poi moglie di Elio, dio del Sole.

      Da Eurite Poseidone ebbe il figlio Alirrozio, protagonista di due diverse versioni del mito: secondo la prima, tentò di usare violenza ad Alcippe figlia del dio Ares, che quindi lo uccise; secondo l'altra, Alirrozio si adirò perché l'Attica era stata destinata ad Atena anziché al padre Poseidone e, per rappresaglia, cercò di recidere l'ulivo che la dea aveva donato a quella regione; ma l'ascia gli cadde dalle mani e gli tagliò la testa.

      Da Ifimedia, figlia di Triope, ebbe i giganti Oto ed Efialte, detti Aloadi, che crescevano in modo smisurato: quando raggiunsero l'altezza di quasi venti metri decisero di assaltare l'Olimpo e dare battaglia agli dei, manifestando l'intenzione di prosciugare il mare, riempiendolo di massi, e di allagare la terra. Suscitarono quindi le ire divine e, secondo una versione, furono fulminati da Zeus; secondo un'altra, furono uccisi con l'inganno da Artemide, che assunse le forme di una cerbiatta e si slanciò tra i due, che si trafissero a vicenda nella fretta di colpirla.

      Amò anche Alope figlia di Cercione, contro il volere del padre di lei, ed ebbe un figlio che fu abbandonato dalla nutrice nella foresta. Poseidone mandò una giumenta, animale a lui sacro, per allattare il bambino che, dopo diverse disavventure, fu allevato da un pastore e chiamato Ippotoo, poi capostipite della tribù degli Ippotoontidi. Alope fu invece messa a morte da Cercione e fu trasformata in fonte da Poseidone.
      Secondo una diversa versione del mito, Poseidone era padre dello stesso Cercione re di Eleusi e possedeva forza e crudeltà smisurate: costringeva alla lotta i viandanti e poi squartava i vinti, legandoli alle cime ravvicinate di alberi opposti, che poi rilasciava, provocando così lo smembramento delle sue vittime. Fu ucciso da Teseo.

      Eufemo, nato da Poseidone e da Europa, eccelleva nella corsa al punto da poter scivolare sulle acque senza bagnarsi i piedi.
      Secondo alcuni mitografi, succedette a Tifi come pilota della nave Argo e prese parte alla caccia contro il Cinghiale Calidonio, figlio della scrofa Fea. Era questi grande come un toro, con setole acuminate come dardi, zanne lunghe come falci e alito che uccideva chiunque lo respirasse. Fu mandato da Artemide a devastare il paese di Oeneo, re di Calidone.

      Una delle figlie di Poseidone, Lamia, fu amata da Zeus e mise al mondo la Sibilla Libica. Le Sibille erano profetesse rivelatrici degli oracoli di Apollo, e molte sono le sacerdotesse con questo nome e le leggende che le riguardano. Secondo una delle tante storie, la prima profetessa fu appunto la figlia di Lamia, chiamata Sibilla dai Libici.

      Una donna mortale di nome Tiro, discendente di Eolo, era sposata con Creteo (dal quale aveva avuto un figlio, Esone), ma era innamorata di Enipeo, una divinità fluviale: la donna si offrì ad Enipeo che però la rifiutò. Un giorno Poseidone, incapricciatosi di Tiro, assunse le sembianze di Enipeo e dalla loro unione nacquero i due gemelli Pelia e Neleo. Abbandonati alla nascita dalla madre, furono nutriti dalla giumenta inviata da Poseidone, cui l'animale era consacrato. Secondo una leggenda, Pelia fu colpito da un calcio della giumenta che gli deturpò il volto, da cui il suo nome, derivato dal greco pelion, cioè "livido". Diventati adulti, i due gemelli ritrovarono la madre, soggetta alle angherie della propria matrigna Sidero; Pelia uccise quest'ultima, nonostante ella si fosse rifugiata nel tempio di Era, e tale sacrilegio fu la causa della sua morte, dopo una vita lunga e densa di fatti e misfatti.

      Dalla ninfa Satiria - considerata figlia di Minosse, re di Creta - Poseidone ebbe Taranto, eponimo della città omonima, mentre il nome di lei fu dato al locale Capo Satirione. Così si giustifica la tradizione che attribuisce origini cretesi alla città di Taranto.

      Amico - il Gigante nato anch'egli dal dio del mare, che aveva inventato il pugilato e il cesto, e regnava sui Bebrici in Bitinia - metteva a morte, prendendoli a pugni, gli stranieri che approdavano nella sua terra. Quando vi sbarcarono gli Argonauti egli li sfidò in combattimento; Polluce accettò la sfida e, con la sua prontezza e abilità, riuscì vincitore sulla violenza del gigante. La posta della lotta era che il vincitore avrebbe ucciso l'avversario, ma Polluce si contentò di far promettere ad Amico, vincolandolo con un solenne giuramento, di rispettare in futuro gli stranieri.

      I poemi omerici ci narrano di Poseidone che insieme ad Apollo costruì le mura inespugnabili di Troia, per ricompensare il re Laomedonte della sua ospitalità.
      Nell'Odissea Poseidone svolge un ruolo importante a causa del suo odio e irriducibile ira nei confronti di Ulisse, che gli aveva accecato il figlio Polifemo. L'inimicizia di Poseidone nei suoi confronti impedisce per molti anni ad Odisseo di fare ritorno ad Itaca nel lungo viaggio di ritorno in patria, malgrado gli interventi a favore del suo protetto di Atena e dello stesso Zeus.

      Demetra era alla ricerca di sua figlia Persefone, stancata e scoraggiata dalla sua ricerca era poco pronta trattare innamoramenti con nessun dio o Titano, allora si trasformò in giumenta ed andò nutrirsi con il gregge di un certo Oncos, figlio di Apollo che regnava a Oncéion in Arcadia. Ma non riuscì ad ingannare Poseidone, che si trasformò anch'egli e venne a congiungersi ad essa; da quest'unione nacquero la ninfa Despoena ed il cavallo selvaggio Aerione.

      Argolide fu essiccata da Poseidone, furioso che questo territorio che ambiva gli era stato rifiutato. Fu allora che Amymoné ricevette da suo padre Danaos l'ordine di scoprire una fonte per dissetare la popolazione e soprattutto, con la sua condotta, di non dispiacere a Poseidone. Ma, in cammino, incontrò un satiro che tentò di violentarla e chiamò Poseidone che cacciò l'imprudente lanciandogli il suo tridente; l'arma si piantò in una roccia da cui scaturì, immediatamente, una fonte limpida e fresca che Amymoné supplicò di lasciare scorrere. Poseidone, che si era innamorato, acconsentì a condizione che la giovane donna si fosse data a lui; Amymoné non esitò un solo momento e da quest'unione nacque Nauplios.

      Figlio di Poseidone e della Pleiade Alcione è Irieo, padre di Orione e re di Iria, città della Beozia. Secondo altre leggende, Irieo era invece un umile contadino che, per aver accolto nella sua capanna Zeus, Poseidone ed Ermes, fu premiato con l'esaudimento di un desiderio. Chiese pertanto un figlio, che gli dei fecero nascere fecondando la pelle del bue sacrificato in loro onore. Quel figlio fu Orione.
      Secondo altre versioni, il gigantesco cacciatore Orione era invece figlio dello stesso Poseidone e di Euriale. Accolto nei cieli in forma di costellazione, era apportatore di pioggia. Dice Virgilio (Eneide, I, 873-877, nella trad. di A. Caro): "... quando / Orion tempestoso i venti e 'l mare / Sì repente commosse, e mar sì fero / Venti sì pertinaci, e nembi e turbi / Così rabbiosi ..." Così pure Parini (La caduta,-4): "Quando Orion dal cielo / Declinando imperversa, / E pioggia e nevi e gelo / Sopra la terra ottenebrata versa, / ...".

      Poseidone ebbe un rapporto sessuale con Medusa sul pavimento del tempio di Atena che, per vendicarsi dell'affronto, trasformò la Gorgone in un mostro. Quando, tempo dopo, fu decapitata dall'eroe Perseo dal suo collo emersero il cavallo alato Pegaso ed il gigante Crisaore.

      con Melanto si unì sotto forma di delfino, da cui il nome Delfo del figlio; e suoi figli sembrano essere anche i Lestrigoni, giganti antropofagi che attaccarono le navi di Ulisse, quindi collocati tra il Lazio e la Campania.

      Figlio suo è anche l'aggressivo gigante Anteo figlio di Gea (o Gaia, la Madre Terra) che costringeva tutti coloro che attraversavano la sua terra - la Libia o il Marocco - a lottare con lui. Dopo averli vinti e uccisi, con i loro crani ornava il tempio dedicato a Poseidone. Era invulnerabile finché toccava con i piedi la madre Terra che gli infondeva rinnovato vigore, ma Eracle, durante il suo passaggio in Libia, riuscì ad averne la meglio, sollevandolo sulle spalle.

      Da Lisianassa Poseidone ebbe Busiride che figura nella leggenda come re d'Egitto, posto sul trono da Osiride quando questi intraprese il viaggio intorno alla terra. Tuttavia il suo nome non compare nelle dinastie faraoniche e potrebbe essere una deformazione di "Osiride".
      Era un tiranno crudele, colpevole di molti misfatti, al quale l'indovino cipriota Frasio aveva vaticinato che solo il sacrificio di un forestiero, una volta l'anno, avrebbe allontanato la carestia che si era abbattuta sull'Egitto. Il vate fu quindi la prima vittima e lo stesso Eracle, transitando per il Paese, fu catturato e destinato al sacrificio, ma riuscì a sciogliersi dai vincoli e a riacquistare la libertà, dopo aver ucciso Busiride e tutti i sacerdoti.

      Secondo una leggenda era figlio di Poseidone - e non di Oceano, come tutti i fiumi - anche Acheloo, dio del fiume omonimo, oggi Aspropotamo. Come dio-fiume aveva il potere di assumere qualunque forma e quindi si trasformò in serpente e poi in toro per combattere Eracle quando questi chiese in moglie Deianira, già sposata con Acheloo. Nella lotta che ne seguì, Eracle gli strappò un corno e Acheloo si dichiarò vinto; rinunciò a Deianira e donò al rivale il proprio corno che, consacrato a Copia, dea dell'abbondanza (cornu copiae), acquistò il potere di elargire fiori e frutti in quantità. Mutilato e sconfitto, Acheloo si gettò nel fiume, che prese il suo nome.

      Legato al ciclo di Eracle è un altro figlio di Poseidone, chiamato Sileo, che aveva per fratello Diceo, ossia "il Giusto", cioè di nome e di fatto l'opposto del fratello. Questi era infatti il crudele padrone di una vigna, in Tessaglia, e costringeva i passanti a lavorare per lui, prima di metterli a morte. Eracle, ricevuto l'ordine di punire Sileo, si mise al suo servizio ma, invece di accudire le viti, devastò la vigna e uccise lo stesso Sileo con un colpo di zappa. Poi si innamorò della figlia di lui e la sposò ma, di lì a poco, dovette assentarsi e la giovane morì per il dolore del distacco. Lo stesso Eracle fu trattenuto a forza dal gettarsi sulla pira funebre dell'amata moglie.

      Con Afrodite ebbe figli: Rodo, Erice, Erofilo

     

     

     


    ADE
      Ade era figlio di Crono e di Rea, e i suoi fratelli e sorelle erano Estia, Demetra, Era, Zeus e Poseidone. Secondo il mito venne divorato dal padre insieme ai suoi fratelli e sorelle.

      Ade partecipò alla Titanomachia, nell'occasione in cui i Ciclopi gli fabbricarono la kunée, un copricapo magico in pelle d'animale che gli permetteva di diventare invisibile: si poté introdurre così segretamente nella dimora di Crono rubandogli le armi e, mentre Poseidone minacciava il padre col tridente, Zeus lo colpì con la folgore.

      In seguito, ricevette la sovranità del mondo sotterraneo e degli Inferi, quando l'universo fu diviso con i suoi due fratelli Zeus e Poseidone, che ottennero rispettivamente il regno dell'Olimpo e del mare.

      Viene annoverato saltuariamente fra le divinità olimpiche, nonostante questo sia contrario alla tradizione canonica; Ade è d'altra parte assai poco presente nella mitologia, essendo essenzialmente legato ai racconti mitologici legati agli eroi: Orfeo, Teseo ed Eracle sono tra i pochi mortali ad averlo incontrato. Inoltre la tradizione lo vuole riluttante ad abbandonare il mondo dell'aldilà: le uniche due eccezioni si ricordano per il rapimento di Persefone e per ricevere alcune cure dopo essere stato ferito da una freccia di Eracle.

      Nella mitologia latina inizialmente Plutone è definito Signore degli Inferi, e solo successivamente Signore dell'Ade. Altro termine utilizzato è Averno, nome del lago dal quale si può accedere agli inferi.

      La leggenda lo vuole padrone delle greggi solari, al pascolo nell'isola Erizia, la cosiddetta isola rossa, dove il Sole muore quotidianamente. Il pastore era chiamato Menete.

      Persefone:
      Ade, innamorato di Persefone, la rapì con l'accordo di Zeus mentre stava raccogliendo dei fiori in compagnia delle ninfe, secondo il mito nelle attuali pianure di Enna. Sua madre, Demetra, disperata per la scomparsa della figlia, la cercò per nove giorni arrivando fino alle regioni più remote: il decimo giorno, con l'aiuto di Ecate ed Elio, seppe che il rapitore era il dio degli Inferi. Adirata, Demetra abbandonò l'Olimpo e scatenò una tremenda carestia in tutta la terra, affinché questa non offrisse più i suoi frutti ai mortali e agli dei. Zeus tentò allora di riconciliare Ade e Demetra, affinché si evitasse la fine del genere umano: inviò il messaggero Ermes al fratello, ordinandogli di restituire Persefone, a patto che ella non si fosse cibata del cibo dei morti. Ade non si oppose all'ordine ma, poiché Persefone era effettivamente digiuna dal rapimento, la invitò a mangiare prima di tornare dalla madre: le offrì così un melograno, frutto proveniente dagli Inferi, in dono. In procinto di mettersi sulla via di Eleusi, uno dei giardinieri di Ade, Ascalafo, la vide mangiare pochi grani del melograno: in questo modo si compì dunque il tranello ordito da Ade, affinché Persefone restasse con lui negli Inferi. Allo scatenarsi nuovamente dell'ira di Demetra, Zeus propose un nuovo accordo, per cui, dato che Persefone non aveva mangiato un frutto intero: sarebbe rimasta nell'oltretomba solamente per un numero di mesi equivalente al numero di semi da lei mangiati, potendo così trascorrere con la madre il resto dell'anno; avrebbe trascorso così sei mesi con il marito negli Inferi, e sei mesi con la madre sulla terra. La proposta fu accettata da entrambi, e da quel momento si associarono la primavera e l'estate ai mesi che Persefone trascorreva in terra dando gioia alla madre, e l'autunno e l'inverno ai mesi che passava negli Inferi, durante i quali la madre si struggeva per la figlia.

      Menta e Leuce:
      Secondo Ovidio e Strabone, Ade tentò di approfittarsi della ninfa Menta. Persefone, gelosa del marito, si dispiacque dell'unione e si infuriò quando Menta proferì contro di lei minacce spaventose e sottilmente allusive alle proprie arti erotiche molto sviluppate. Persefone, sdegnata, la fece a pezzi: Ade le consentì di trasformarsi in erba profumata, la menta, ma Demetra la condannò alla sterilità, impedendole di produrre frutti.

      Leuce, un'altra ninfa figlia di Oceano, fu rapita da Ade e trasformata da Persefone in pioppo bianco presso la fontana della Memoria.

      Per Ade si sacrificavano, unicamente nelle ore notturne, pecore o tori neri, e coloro che offrivano il sacrificio voltavano il viso: secondo Omero, infatti, Ade era il più ripugnante degli dei. Il suo culto non era molto sviluppato ed esistono poche statue con sue raffigurazioni.

      Dei pochi luoghi di culto a lui dedicati, il solo degno di nota è Samotracia, mentre si suppone ne esistesse un secondo situato nell'Elide, a nord ovest del Peloponneso; è possibile che un altro centro del suo culto si trovasse ad Eleusi, strettamente connesso con i misteri locali. Euripide indica che Ade non riceveva libagioni rituali.

      Veniva solitamente rappresentato come un uomo maturo, barbato e feroce, spesso seduto su un trono e dotato di una patera e di uno scettro, con il cane a tre teste protettore degli Inferi, Cerbero. A volte si trovava anche un serpente ai suoi piedi. Indossa molto spesso un elmo, oppure un velo che gli copre il volto e gli occhi.

      Si hanno sue rappresentazioni in moltissimi contesti ceramici, soprattutto nelle pìnakes di Locri Epizefiri. Altri esempi si conoscono in alcuni affreschi della Tomba dell'Orco (altro nome del dio) a Tarquinia, mentre ad Orvieto se ne ha una raffigurazione all'interno della Tomba Golini I. Per la Grecia si ricordano un trono del Partenone attribuito a Fidia ed una base colonnare da Efeso, più esattamente dal Tempio di Artemide. Nel mondo romano i sarcofagi, soprattutto in età tardo antica, usavano rappresentare il ratto di Proserpina e dunque una raffigurazione del dio infernale.

     

     

     


    ERA

      Considerata regina dell'Olimpo.Di matronale bellezza, di impeccabili costumi, proteggeva la castità del matrimonio e la santità del parto. Fu dai Romani assimilata all'italica Giunone.
      Figlia di Crono e di Rea, fu la terza ad essere stata ingoiata dal padre.

      Fu allevata nella casa di Oceano e Teti, e poi nel giardino delle Esperidi. Zeus amava segretamente Era già dal tempo in cui Crono regnava sui Titani, ma, come spesso accade ai giovani, non sapeva come fare a dichiararle il suo amore.
      Particolare è il modo in cui fu sedotta da Zeus . Egli, per conquistarla, scatenò un tremendo temporale e, trasformatosi in cuculo, si lasciò bagnare per bene. Quando dopo la pioggia la Dea decise di fare una passeggiatina vide il povero uccellino e, commossa, lo prese in mano per riscaldarlo. Come lo fece, Zeus assunse le sue vere sembianze e la sedusse.
      Sulla cima del monte Ida sposò Zeus. Era è la patrona del matrimonio propriamente detto e rappresenta l'archetipo simbolico dell'unione di uomo e donna nel talamo nuziale, tuttavia non è certo famosa per le sue qualità di madre. I figli legittimi nati dalla sua unione con Zeus sono Ares, Ebe (la dea della giovinezza), Eris (la dea della discordia) ed Ilizia (protettrice delle nascite).

      Nei tempi più antichi la sua associazione più importante era quella con il bestiame, come dea degli armenti, venerata specialmente nell'isola Eubea detta "ricca di mandrie". Il suo epiteto più comune nei poemi omerici, "boopis", viene sempre tradotto "dall'occhio bovino" dal momento che, come i Greci dell'età classica, la nostra cultura rifiuta la più naturale traduzione "dal volto di vacca" o "dall'aspetto di vacca": un'Era dalla testa bovina come il Minotauro verrebbe percepita come un oscuro e spaventoso demone. Tuttavia sull'isola di Cipro sono stati trovati dei teschi di toro adattati ad essere usati come maschera, il che suggerisce un probabile antico culto dedicato a divinità con un simile aspetto.

      Era veniva ritratta come una figura maestosa e solenne, spesso seduta sul trono mentre porta come corona il "Polos", il tipico copricapo di forma cilindrica indossato dalle dee madri più importanti di numerose culture antiche. In mano stringeva una melagrana, simbolo di fertilità e di morte usato anche per evocare, grazie alla somiglianza della sua forma, il papavero da oppio. Omero la definiva la Dea dagli occhi "bovini" per l'intensità del suo regale sguardo. Le bastava agitarsi sul trono per fare tremare l'Olimpo, al suo sposo Zeus, bastava aggrottare le ciglia per avere lo stesso risultato.
      Nelle raffigurazioni ellenistiche il carro di Era era trainato da pavoni, una specie di uccello che in Grecia è rimasta sconosciuta fino alle conquiste di Alessandro: Aristotele, l'istitutore di Alessandro si riferiva a quest'animale come all'"uccello persiano". Il motivo artistico del pavone fu riportato molto più tardi, quando si fusero tra loro le figure di Era e Giunone.In epoca arcaica, un periodo durante il quale ad ogni dea dell'area egea era associato il "suo" uccello, veniva associato ad Era anche il cuculo che appare in alcuni frammenti che raccontano la leggenda dei primi corteggiamenti alla vergine Era da parte di Zeus.

      L'importanza di Hera fin dall'età arcaica è testimoniata dai grandi edifici di culto che vennero realizzati in suo onore.
      I templi di Era costruiti in due dei luoghi in cui il suo culto fu particolarmente sentito, l'isola di Samo e l'Argolide, risalgono al VIII secolo a.C. e furono i primissimi esempi di tempio greco monumentale della storia (si tratta rispettivamente dell'Heraion di Samo e dell'Heraion di Argo).

      Nella cultura greca classica, gli altari venivano costruiti a cielo aperto. Era potrebbe essere stata la prima divinità a cui fu dedicato un tempio dotato di un tetto chiuso, che fu eretto circa nell'800 a.C. a Samo, e fu successivamente sostituito dall'Heraion, uno dei templi greci più grandi in assoluto. I santuari più antichi, per i quali vi sono meno certezze circa la divinità a cui erano dedicati, erano realizzati secondo un modello Miceneo chiamato "casa-santuario". Gli scavi archeologici di Samo hanno portato alla luce offerte votive, molte delle quali risalenti al VIII e VII secolo a.C., che rivelano come Era non fosse considerata soltanto una dea greca locale di ambiente egeo: attualmente il museo raccoglie statuette che rappresentano dèi, supplici e offerte votive di altro tipo provenienti dall'Armenia, da Babilonia, dalla Persia, dall'Assiria e dall'Egitto, a testimonianza dell'alta considerazione di cui godeva questo santuario e del grande flusso di pellegrini che attirava.


      Era fu sempre fedele al suo sposo e fu perciò venerata come simbolo della santità e della devozione coniugale. Della sua fedeltà diede prova specialmente quando ISSIONE, re dei Lapiti, invitato da Giove ad un banchetto tra gli dei osò corteggiarla, tradendo così il sacro rispetto dell'ospitalità e la stima di cui il re degli dei lo aveva onorato.
      La Dea infatti avvertì subito il marito, che, astutamente, per cogliere sul fatto l'intraprendente e punirlo come meritava, escogitò una insidia veramente singolare. Prese una nuvoletta, le diede le forme e la fisionomia di Giunone: si nascose poi fra le altre nuvole e attese gli eventi. Di nulla sospettando, Issione cadde nel tranello e, sorpreso da Giove mentre tentava con parole di miele la bella nuvola, fu da lui condannato nel Tartaro a girare su se stesso senza posa, per l'eternità, legato a una ruota infuocata, spinta da venti furiosi. Dalla nuvola di Issione Giove fece poi nascere i CENTAURI, mostri dal corpo di cavallo con forma umana dal petto in su, perché rimanesse il ricordo del suo tradimento.

      A tanta fedeltà della moglie - come già si è detto - non ne corrispondeva altrettanta da parte di Giove. Da ciò l'ira continua di Giunone, che, superba, gelosa, vendicativa, perseguitava spietatamente non solo le Dee, le Ninfee e le donne amate da Giove, ma anche gli innocenti figli che da loro nascevano. L'Olimpo spesso tremava per i fragorosi litigi della coppia divina, e guai a chi osava frapporsi!!!!
      Così, quando da Giove e da ALCMENA, regina di Tebe, nacque ERCOLE, Giunone lo perseguitò fin dalla nascita mandando sulla sua culla due serpenti che lo uccidessero (ma il prodigioso fanciullo li strozzò entrambi con le proprie mani!), e poi costringendolo a servire il re EURISTEO (che gli impose le famose dodici fatiche!) nella speranza che morisse affrontando pericoli e mostri di ogni genere.
      Un'altra volta Giove s'innamorò di IO, giovane principessa greca. Per fare in modo che nessuno, e in particolare Giunone, sospettasse qualcosa, escogitò un nuovo stratagemma: trasformò la giovinetta in giovenca. Giunone capì l'inganno e astutamente… gliela chiese in dono. Giove, per non tradirsi, fu costretto a stare al gioco: " Prendila pure! E' tua! Di giovenche ce ne sono tante! ". La dea, per nulla ingannata da quella faccia tosta, avuta la Giovenca, la diede in custodia ad ARGO, un gigante che aveva cento occhi, cinquanta dai quali, a turno, rimanevano sempre spalancati quand'egli dormiva.
      La partita sembrava ormai definitivamente chiusa a favore di Giunone, sennonché Giove, per liberare la sua amata giovenca, incaricò MERCURIO di addormentare completamente il severo custode con una dolce, soporifera melodia e poi di ucciderlo. Allora Giunone, furibonda, si vendicò contro l'infelice Io per mezzo di un tafano che incominciò a punzecchiarla tanto furiosamente, che la povera Giovenca fu costretta ad una fuga precipitosa fino al lontano Egitto, dove, finalmente, ad un tocco di Giove, riebbe la figura umana e fu quindi venerata dagli Egizi come una dea dal nome di ISIDE. Anche l'ira, di Giunone, allora, si placò; ma la dea, non dimentica dei servigi resi del fedelissimo e sfortunato Argo, volle che i suoi cento occhi ornassero la coda del pavone a lei sacro, che, come abbiamo già ricordato, con i suoi cangianti, purissimi colori è il simbolo dell'incantevole cielo stellato.
      I suoi simboli sacri erano la vacca ed il pavone.



      Moglie fedele e gelosa era famosa per perseguitare le amanti ed i figli di Zeus e per non dimenticare mai alcuna offesa.

      Le vendette di Era venivano tramandate in varie leggende, tra di esse probabilmente la più famosa è quella nei confronti del principe troiano Paride che le aveva preferito Afrodite in una gara di bellezza e che, per questa ragione, aiutò i greci nella guerra di Troia finché la città non venne distrutta.



      Efesto:
      Era, resa gelosa dal fatto che Zeus era diventato padre di Atena senza di lei (infatti l'aveva avuta da Metide), decise di per ripicca di mettere al mondo Efesto senza la collaborazione del marito, semplicemente battendo il suolo con la mano, un gesto di grande solennità nella cultura greca antica. Rimasta però disgustata al vedere la bruttezza di Efesto lo scagliò giù dall'Olimpo. Efesto si vendicò del rifiuto subito dalla madre costruendole un trono magico che, una volta che ella vi si sedette, non le permise più di alzarsi. Gli altri dèi pregarono più volte Efesto di tornare sull'Olimpo e liberarla, ma egli rifiutò ripetutamente. Allora Dioniso lo fece ubriacare e lo riportò sull'Olimpo incosciente, trasportandolo con un mulo. Efesto accettò di liberare Era, ma solo dopo che gli fu concessa in moglie Afrodite.

      Eracle:
      Era era la matrigna dell'eroe Eracle, nonché la sua principale nemica. Quando Alcmena era incinta di Eracle, Era tentò di impedirne la nascita facendo annodare le gambe della puerpera. Fu salvata dalla sua serva Galantide che disse alla dea che il parto era già avvenuto, facendola desistere. Scoperto l'inganno, Era trasformò Galantide in una donnola per punizione.
      Quando Eracle era ancora un bambino, Era mandò due serpenti ad ucciderlo mentre dormiva nella sua culla. Eracle però strangolò i due serpenti afferrandoli uno per mano, e la sua nutrice lo trovò che si divertiva con i loro corpi come fossero giocattoli.
      E fu per il suo accanimento, per la volta che scatenò una tempesta contro l'eroe, che Zeus adirato la appese nel cielo con un'incudine d'oro appesa ai piedi.

      Una descrizione dell'origine della Via Lattea dice che Zeus aveva indotto con l'inganno Era ad allattare Eracle: quando si era accorta di chi fosse, l'aveva strappato via dal petto all'improvviso e uno schizzo del suo latte aveva formato la macchia nel cielo che ancor oggi possiamo vedere (un'altra versione afferma che fu Ermes ad avvicinare Eracle al seno di Era, che era addormentata, per fargli bere il latte benedetto. A causa di un morso di Eracle, però, la dea si sveglio e, per togliere il seno di bocca ad Eracle, cadde una goccia del suo latte formando la Via Lattea). Gli Etruschi dipinsero un Eracle adulto e già con la barba attaccato al seno di Era.

      Era fece in modo che Eracle fosse costretto compiere le sue famose imprese per conto del re Euristeo di Micene e, non contenta, tentò anche di renderle tutte più difficili. Quando l'eroe stava combattendo contro l'Idra di Lerna lo fece mordere ad un piede da un granchio, sperando di distrarlo. Per causargli ulteriori problemi, dopo che aveva rubato la mandria di Gerione, Era mandò dei tafani per irritare e spaventare le bestie, quindi fece gonfiare le acque di un fiume in modo tale che Eracle non potesse più guadarle con la mandria, costringendolo a gettare nel fiume enormi pietre per renderlo attraversabile. Quando finalmente riuscì a raggiungere la corte di Euristeo, la mandria fu sacrificata in onore di Era. Euristeo avrebbe voluto sacrificare alla dea anche il Toro di Creta, ma Era rifiutò perché la gloria di un simile sacrificio sarebbe andata di riflesso anche ad Eracle che l'aveva catturato. Il toro fu così lasciato andare nella piana di Maratona diventando famoso come il Toro di Maratona.

      Alcune leggende dicono che Era alla fine si riconciliò con Eracle, dato che l'aveva salvata da un gigante che tentava di stuprarla, e gli concesse anche come moglie sua figlia Ebe.


      Eco:
      Una volta, Zeus convinse una ninfa di nome Eco a distrarre Era dai suoi amori furtivi. Quando Era scoprì l'inganno condannò la ninfa a non aver più una voce propria e a poter, da allora in poi, soltanto ripetere le parole altrui.

      Latona:
      Quando Era venne a sapere che Latona era incinta e che il padre era Zeus, con un incantesimo impedì a Latona di partorire facendo sì che ogni terra ove si recasse risultasse ostile nei suoi confronti. Latona trovò l'isola galleggiante di Delo, che non era né terraferma né una vera e propria isola ed era troppo inospitale per poterla peggiorare. Su questa partorì mentre veniva circondata da cigni. In segno di gratitudine Zeus fissò Delo, che da allora fu sacra ad Apollo, con quattro pilastri. Vi sono anche altre versioni della storia. In una di queste Era rapì la figlia Ilizia, la dea della nascita, per impedire a Latona di cominciare il travaglio, ma gli altri dèi la costrinsero a lasciarla andare. Alcune leggende dicono che Artemide, nata per prima, aiutò la madre a partorire Apollo, mentre un'altra sostiene che Artemide, nata il giorno precedente sull'isola Ortigia, aiutò la madre ad attraversare il mare fino a giungere a Delo per mettere al mondo il fratello.

      Callisto e Arcade:
      Callisto, una ninfa che faceva parte del seguito di Artemide, fece voto di restare vergine, ma Zeus si innamorò di lei e assunse l'aspetto di Apollo (secondo altre versioni di Artemide stessa) per adescarla e sedurla. Era allora, per vendicarsi del tradimento, trasformò Callisto in un'orsa. Tempo dopo Arcade, il figlio che Callisto aveva generato con Zeus, quasi uccise per errore la madre durante una battuta di caccia e Zeus, per proteggerli da ulteriori rischi, li mise in cielo trasformandoli in costellazioni.

      Semele e Dioniso:
      Dioniso era figlio di Zeus e di una mortale. Era, gelosa, tentò di uccidere il bambino mandando dei Titani a fare a pezzi Dioniso dopo averlo attirato con dei giocattoli. Nonostante Zeus fosse riuscito infine a scacciare i Titani con i suoi fulmini, erano riusciti a divorarlo quasi tutto e ne era rimasto solo il cuore salvato, a seconda delle versioni della leggenda, da Atena, Rea, o Demetra. Zeus si servì del cuore per ricreare Dioniso, ponendolo nel grembo di Semele (per questo Dioniso diventò conosciuto come "il due volte nato"). Le versioni della leggenda sono comunque molte e varie.

      Io:
      Un giorno Era stava per sorprendere Zeus con una delle sue amanti, chiamata Io, ma Zeus riuscì ad evitarlo all'ultimo, trasformando Io in una giovenca bianca. Era, tuttavia, ancora insospettita, chiese a Zeus di darle la giovenca in dono. Una volta ottenutala, Era la affidò alla custodia del gigante Argo, perché la tenesse lontana da Zeus. Il re degli dèi allora ordinò ad Ermes di uccidere Argo, cosa che il dio fece addormentando il gigante dai cento occhi grazie al suono del suo flauto e poi tagliandogli la testa. Era prese gli occhi del gigante e, per onorarlo, li pose sulle piume della coda del pavone, il suo animale sacro. Quindi mandò un tafano a tormentare Io, che cominciò a fuggire per tutto il mondo conosciuto, fino a giungere in Egitto dove, dopo aver partorito il figlio Epafo, riacquistò forma umana.

      Lamia:
      Lamia era una regina della Libia della quale Zeus si era innamorato. Era per vendicarsi trasformò la donna in un mostro, ed uccise i figli che aveva avuto da Zeus. Una diversa versione della leggenda dice che Era le uccise i figli e Lamia si trasformò in un mostro per il dolore. Lamia venne anche colpita da Era con la maledizione di non poter mai chiudere gli occhi, in modo che fosse per sempre condannata a vedere ossessivamente l'immagine dei suoi figli morti. Zeus, per consentirle di riposare, le concesse il potere di cavarsi temporaneamente gli occhi e poi rimetterli al loro posto.

      Gerana:
      Gerana era una regina dei Pigmei che si vantò di essere più bella di Era. La dea, furibonda, la trasformò in una gru e proclamò solennemente che gli uccelli suoi discendenti sarebbero stati in eterna lotta contro il popolo dei Pigmei.

      Altre leggende su Era:

      Cidippe:
      Cidippe, una sacerdotessa di Era, doveva partecipare ad una cerimonia in onore della dea. Dato che il bue che avrebbe dovuto essere aggiogato al suo carro non arrivava, i suoi due figli, Bitone e Cleobi, trainarono essi stessi il carro per 8 km per permetterle di prendere parte al rito. Cidippe rimase impressionata dalla loro devozione e chiese ad Era di premiare i suoi figli con il miglior dono che una persona potesse ricevere. Come risposta, Era dispose che i fratelli morissero nel sonno senza soffrire.

      Tiresia.
      Tiresia era un sacerdote di Zeus: quando era giovane si imbatté in due serpenti arrotolati tra loro e, con un bastone, uccise il serpente femmina. Fu allora improvvisamente trasformato in una donna e, cambiato sesso, divenne una sacerdotessa di Era, si sposò ed ebbe dei figli (tra i quali Manto). Altre versioni dicono che diventò invece una famosa ed abile prostituta. Passati sette anni, Tiresia trovò altri due serpenti intrecciati e questa volta uccise il serpente maschio, recuperando il suo sesso originario. A questo punto, dato che era stato sia uomo che donna, Era e Zeus lo convocarono per chiedergli, visto che aveva vissuto entrambi i ruoli, se durante il rapporto amoroso provasse più piacere l'uomo o la donna. Zeus sosteneva fosse la donna, Era naturalmente l'opposto. Quando Tiresia si mostrò propenso a confermare le tesi di Zeus, Era lo accecò infuriata. Zeus allora, non potendo rimediare a ciò che la consorte aveva fatto, per compensarlo del danno gli diede il dono della profezia.

      Una versione diversa della leggenda di Tiresia dice che fu invece accecato da Atena per averla vista mentre faceva il bagno nuda, e Zeus gli diede la profezia per le suppliche di sua madre Cariclo.


      Mitopsicologia:

      L'esegesi psicologica del mito di Era descrive un archetipo di donna e moglie abbastanza particolare: l'obiettivo della donna Hera è il controllo e la gestione del ménage familiare, più che la ricerca di un'intesa sessuale col proprio uomo.

      Tali donne non ricercano di godere della presenza del proprio compagno, ma costruiscono case lustre e contemplative, tavole ben preparate, facciate dipinte e infiorate per i vicini.

      Era-Giunone, Vesta e altre dee del focolare, dedite al matrimonio come istituzione, non sono amanti particolarmente eccitanti: lo dimostrano i continui tradimenti di Zeus.
      Tali donne sono sessualmente povere, piene di inibizioni. L'eros è messo alla porta, e il rapporto coniugale ne risulta appiattito. Con una donna così, sopprimendo la relazione erotica, il rapporto d'amore si sposta sul modello di altri affetti familiari, come la sorella e la madre.

      Se il partner della donna Hera non è una persona forte, risulta spesso essere più vicino al bambino viziato, prima dalla mamma e poi dalla moglie.
      Altrimenti tale marito è simile a Zeus. E allora la perfetta donna Hera prorompe in violente e vocianti scenate: come ci raccontano i miti l'Olimpo intero tremava, quando la regina degli dèi era infuriata.
      Tale donna non è gelosa in senso erotico, ma è posseduta da una gelosia impersonale, poiché "qualcosa" nel suo focolare non va come lei vuole che vada. La donna Hera, seppur conosca le attività libertine dell'uomo Zeus, non chiede il divorzio, non rompe il legame coniugale, poiché quello che conta di più è l'istituzione del matrimonio, e non la coppia.

     

     

     


    DEMETRA

      Demetra, Cerere presso i romani, era figlia di Crono e Rea, e apparteneva alla prima generazione divina degli dei Olimpi, i fratelli Zeus, Ade e Poseidone e le sorelle Era ed Estia e fu inghiottìta per seconda dal padre.
      Demetra era dea di alto rango: figlia di Crono e di Rea, e sorella di Zeus, dunque una pari del signore degli uomini e degli dei. Questa parità virtuale si realizzava a volte come autonomia rispetto alla sovranità di Zeus.
      Demetra era la dea delle plebi rustiche in opposizione all'aristocrazia cittadina che si riferiva a Zeus come fonte del suo potere; era la dea che prometteva una specie d'immortalità oltretombale contro l'ordine di Zeus che fissava nella mortalità l'invalicabile limite umano; era la dea delle esperienze mistiche che elevavano l'uomo all'altezza degli dei, mentre l'ordine di Zeus considerava ogni sconfinamento dall'umano come il peccato per eccellenza (hýbris) e lo puniva inesorabilmente. Questa posizione di Demetra la metteva in relazione con altre divinità ugualmente opposte a Zeus, quali Ade, Posidone e Dioniso.

      Raramente è stata ritratta con un consorte o un compagno: l'eccezione è rappresentata da Giasione, il giovane cretese che giacque con Demetra in un campo arato tre volte e fu in seguito, secondo la mitologia classica, ucciso con un fulmine da un geloso Zeus. Con Giasione ebbe Pluto, il dio della ricchezza.

      Poseidone una volta inseguì Demetra che aveva assunto l'antico aspetto di dea-cavallo. Demetra tentò di resistere alla sua aggressione, ma neppure confondendosi tra la mandria di cavalli del re Onkios riuscì a nascondere la propria natura divina; Poseidone si trasformò così anch'egli in uno stallone e si accoppiò con lei. Demetra fu letteralmente furibonda per lo stupro subito, ma lavò via la propria ira nel fiume Ladona. Dall'unione nacquero una figlia, il cui nome non poteva essere rivelato al di fuori dei Misteri Eleusini, ed un cavallo dalla criniera nera chiamato Arione. Anche in epoche storiche, in Arcadia Demetra era adorata come una dea dalla testa di cavallo.



      Le storie orfiche accennano al suo congiungimento con Zeus dal quale è nata Core o Persefone, l'unica figlia di Demetra.
      Cerere, madre di Proserpina, era la dea che insegnò agli uomini l'arte del coltivare la terra. La figlia, di leggiadra bellezza, amava lo sbocciare dei fiori e si trastullava tra i campi.

      Un giorno di primavera, il Dio Plutone (Ade), re del mondo sotterraneo e fratello di Giove, sbucò in Sicilia dal lago di Pergusa rimanendo estasiato dalla visione davanti ai suoi occhi: in mezzo ai prati, la giovane Proserpina, assieme alle ninfe che la accompagnavano, raccoglieva fiori variopinti e profumati. Plutone se ne innamorò e - naturalmente - la rapì.

      Elios, il dio Sole, informò dell'accaduto Demetra (Cerere). La madre per nove giorni e nove notti cercò Proserpina, per tutta la terra, facendosi luce di notte con un pino da lei divelto e acceso nel cratere dell'Etna. Le ricerche furono però infruttuose e Cerere si adirò, prendendosela con gli uomini: siccità, carestie e pestilenze si abbatterono sull'umanità. Gli uomini allora chiesero l'intervento di Giove, supplicandolo di trovare una soluzione; Giove voleva porre rimedio facendo tornare Proserpina sulla terra ma ella non volle tornare, perchè aveva provato il dolce sapore del melograno, simbolo d'amore, donatole da Plutone. Giove, impietosito dal dolore della sorella Cerere, stabilì allora che Proserpina abitasse per otto mesi, da gennaio ad agosto, sulla terra assieme alla madre e per quattro mesi da settembre a dicembre, sotto terra col marito Plutone. Questi quattro mesi sono chiaramente quelli invernali, durante i quali le sementi vengono messi sotto terra e la maggior parte della vegetazione ingiallisce e muore.
      Nel pantheon classico greco, Persefone ricoprì il ruolo di moglie di Ade, il dio degli inferi. Diventò la dea del mondo sotterraneo. Inutile aggiungere che, in questo modo, implicitamente Giove aveva deciso che in Sicilia le stagioni fossero solo due, a tutto beneficio delle generazioni future di turisti di tutto il mondo, che in questa regione trovano uno tra i più temperati climi del mondo.
      Oggi si parla sempre più spesso dei cambiamenti climatici e della sparizione delle stagioni intermedie quali autunno e primavera. Sarà una constatazione dei fatti, ma mitologicamente parlando, così era stato disposto dall'ALTO!



      Demetra, come Rea e Gea, era venerata come Madre Terra; ma Gea figurava l'elemento delle forze primordiali, Rea figura la potenza generatrice della terra, mentre, Demetra figura la divinità della terra coltivata, la dea del grano, dell'ordine costituito. Con il dono dell'agricoltura, base di civiltà per tutte le popolazioni, Demetra dà agli uomini anche le norme del vivere civile e, di conseguenza, le leggi.
      Il suo campo d'azione comprendeva la cerealicoltura e le istituzioni civili, riferite all'introduzione dell'agricoltura. Veniva significativamente chiamata la "Legislatrice" , attributo che identifica Demetra in colei che insegnando agli uomini la coltivazione dei cereali li sottrae alla barbarie e li fa partecipi di una civiltà fondata sulle leggi.
      Demetra ruppe ogni relazione col mondo di Zeus (l'Olimpo) e andò a vivere tra gli uomini, cui insegnò la coltivazione dei campi e diede i principi fondamentali del vivere civile. In una versione di questo mito, consegnataci da un famoso poema attico del sec. VI a. C. (l'Inno a Demetra, attribuito a Omero), la dea si rifugia a Eleusi, presso il re Celeo, e qui introduce le iniziazioni misteriche, che, in questo contesto, stanno al posto dell'agricoltura come fattore di miglioramento della condizione umana.

      Mentre stava cercando la figlia Persefone, Demetra assunse le sembianze di una vecchia di nome Doso e con quest'aspetto fu accolta con grande senso dell'ospitalità da Celeo, re di Eleusi nell'Attica. Questi le chiese di badare ai suoi due figli, Demofoonte e Trittolemo, che aveva avuto da Metanira. Per ringraziare Celeo della sua ospitalità, Demetra decise di fargli il dono di trasformare Demofoonte in un dio. Il rituale prevedeva che il bimbo fosse ricoperto ed unto con l'ambrosia, che la dea stringendolo tra le braccia soffiasse dolcemente su di lui e lo rendesse immortale bruciando nottetempo il suo spirito mortale sul focolare di casa. Demetra una notte, senza dire nulla ai suoi genitori, lo mise quindi sul fuoco come fosse un tronco di legno ma non poté completare il rito perché Metanira, entrata nella stanza e visto il figlio sul fuoco, si mise ad urlare di paura e la dea, irritata, dovette rivelarsi lamentandosi di come gli sciocchi mortali non capiscano i rituali degli dei.

      Invece di rendere Demofoonte immortale, Demetra decise allora di insegnare a Trittolemo l'arte dell'agricoltura, così il resto della Grecia imparò da lui a piantare e mietere i raccolti. Sotto la protezione di Demetra e Persefone volò per tutta la regione su di un carro alato per compiere la sua missione di insegnare ciò che aveva appreso a tutta la Grecia. Tempo dopo Trittolemo insegnò l'agricoltura anche a Linco, re della Scizia, ma costui rifiutò di insegnarla a sua volta ai suoi sudditi e tentò di uccidere Trittolemo: Demetra per punirlo lo trasformò allora in una lince.

      Il mito degli agricoltori nasce intorno al VII-VIII millennio prima di Cristo quando si trovano già ampie testimonianze di quell'età che venne chiamata l'età dell'agricoltura e che significò, per la storia dell'umanità, un grande progresso. Ma, anche in questo periodo - come nel periodo della caccia - la natura continuava a mantenere per l'uomo un gran numero di segreti e solo attraverso il mito l'uomo può ordinare il suo mondo, può trovare una logica per quello che accade. In questo periodo, rispetto all'età della caccia, lo scenario mitico cambia profondamente anche se i miti della caccia non scompaiono, anzi, finiscono per sovrapporsi a volte a quelli degli agricoltori.


      I CEREALI:
      La scoperta dei cereali contribuì nel Pleistocene a rendere più facile la vita e a creare una certa sicurezza fisica e morale.
      Aumentarono le nascite, diminuì la mortalità infantile e ci si poté permettere di tenere con sé gli anziani e i malati. E' possibile che i rapporti di forza tra uomini e donne, giovani e vecchi diventassero più sfumati, mentre la presenza degli anziani in una società è molto importante, implicando le nozioni di memoria, tradizione, esperienza, radici culturali.
      E non senza motivo la Cultura con l'iniziale maiuscola, quella di interi popoli, e la coltivazioni delle piante derivano dalla stessa parola.
      Le donne, addette alla raccolta dei vegetali notarono come il seme proveniente da spighe non aperte desse, a seguito di nuove semine, un cereale più resistente. A partire da quel momento, cominciarono a delinearsi i culti delle dee madri tutelari dei raccolti e delle messi, ormai posti sotto il segno della femminilità feconda. In tali culti si può scorgere sia il ricordo di antiche raccoglitrici, sia un evidente rapporto con il simbolismo generale della donna: le analogie fra il "grembo" della terra e quello materno, o tra la permanenza ciclica della vegetazione e la fisiologia femminile si sono senz'altro affacciate alla mente dei primi agricoltori, tanto più che il grano seminato in autunno richiede nove mesi prima di essere raccolto in estate.

      Gli uomini molto primitivi non hanno conosciuto attrezzi per frantumare il grano perché avevano mandibole talmente forti da rompere anche le noci. In seguito, quando la forza della mandibola è retrocessa ed è aumentata l'intelligenza, l'uomo si è aiutato a frantumare il grano con delle pietre.

      La tostatura di cereali poteva essere adottata prima dell'immagazzinamento contro l'attacco di muffe e parassiti. Le granaglie venivano immagazzinate e conservate in silos sotterranei, documentati in molti villaggi neolitici. Si tratta di fosse circolari o pozzetti scavati nel terreno, che talvolta conservano ancora parte dell'originaria chiusura in argilla; le pareti di queste fosse potevano essere rivestite di argilla indurita e arrossata dal fuoco. I chicchi potevano quindi essere ridotti in farina tramite la macinatura, utilizzando le macine, grandi pietre piatte, sulle quali si sfregava una pietra più piccola, lunga e stretta, il macinello. L'uso di macine e macinelli è generalizzato in tutti i periodi della Preistoria e della Protostoria, arrivando fino alla piena età storica. La materia prima utilizzata per questi strumenti consisteva in rocce dal potere abrasivo.

      Raffigurazioni dell'antico Egitto mostrano come questo duro lavoro venisse svolto da schiave, che lo effettuavano inginocchiate sulla pietra per macinare. Più tardi i molini primitivi furono sostituiti da altri più potenti. nell'Antica Grecia e nella Roma repubblicana, vennero azionati da schiavi oppure da animali come asini e cavalli.

      I primi mulini a mano preistorici consistevano di un "piatto" di roccia di grande resistenza sul quale veniva sparsa una manciata per volta di frumento. I chicchi venivano frantumati con altra pietra dura, focaia, di forma rotondeggiante o piatta.

      Il mulino idraulico si diffuse nel mondo Greco - Romano dal° secolo a.C. mentre era presente in Cina già dal V° secolo a.C. Veniva ubicato in prossimità di corsi d' acqua, rapide, cascate, torrenti, poiché aveva bisogno di tanta acqua per consentire alla macina superiore, collegata con un asse verticale ad una ruota di pale sulla quale precipitava con violenza l' acqua, di attivare il sistema molitorio. Invenzione antica, il mulino ad acqua é tuttavia medioevale dal punto di vista della diffusione. Tutte le testimonianze indicano il I secolo a.C. come periodo e l'area dell' Oriente mediterraneo come culla dell'invenzione di questa macchina.



      Amata in quanto apportatrice di messi, Demetra era anche ovviamente temuta, in quanto capace, all'inverso, di provocare carestie, come ricorda il mito di Erisittone che, avendola offesa tagliando degli alberi da un frutteto sacro, ne venne punito con una fame insaziabile.

      Demetra viene solitamente raffigurata mentre si trova su un carro, e spesso associata ai prodotti della terra, come fiori, frutta e spighe di grano. A volte viene ritratta insieme a Persefone.

      L'iconografia di Demetra è nota dai testi, dagli ex voto dei santuari e da numerose opere d'arte. Da tipi di tradizione forse micenea, in cui la dea è raffigurata con teste animalesche (cavallo, capra, mucca), si passa, soprattutto dal sec. VI a. C., al tipo tradizionale della dea stante o seduta in trono con chitone e himátion, in capo il pólos, il kálathos o il modio e nelle mani lo scettro, le fiaccole oppure le spighe. Oltre a statuette fittili, monete, raffigurazioni vascolari e rilievi eleusini, nei quali Demetra appare in compagnia della figlia Persefone e di Trittolemo.

      Col suo mito gli antichi si riferirono ai cicli della natura, delle stagioni, dei raccolti, in particolare ai frutti della terra che trascorrono parte dell'anno nascosti sotto la superficie per poi sbocciare e fruttificare. Al nucleo centrale della leggenda di Demetra, il cui significato era rivelato solo agli iniziati dei Misteri di Eleusi, si aggiunsero in varie epoche miti secondari, come quello della violenza che subì da Poseidone. Un'altra leggenda vuole che Demetra si sia innamorata di Iasione dal quale ebbe Pluto, la ricchezza.Tutti i miti, anche se contraddittori, sono comunque concordi nel non attribuire un marito a Demetra, che generò i suoi figli al di fuori di ogni vincolo coniugale.

      Negli scritti di Teocrito si trovano tracce di quello che fu il ruolo di Demetra nei culti arcaici:

      * "Per i Greci Demetra era ancora la dea dei papaveri"
      * "Nelle mani reggeva fasci di grano e papaveri"

      Una statuetta d'argilla trovata a Gazi sull'isola di Creta, rappresenta la dea del papavero adorata nella cultura Minoica mentre porta i baccelli della pianta, fonte di nutrimento e di oblio, incastonati in un diadema. Appare dunque probabile che la grande dea madre, dalla quale derivano i nomi di Rea e Demetra, abbia portato con sé da Creta nei Misteri Eleusini insieme al suo culto anche l'uso del papavero, ed è certo che nell'ambito dei riti celebrati a Creta, si facesse uso di oppio preparato con questo fiore.

      Quando a Demetra fu attribuita una genealogia per inserirla nel Pantheon classico greco, diventò figlia di Crono e Rea, sorella maggiore di Zeus. Le sue sacerdotesse erano chiamate Melisse.

      Cerere era già presente nel Pantheon dei popoli italici preromani, specialmente gli osco umbro sabelli e fu, in seguito, identificata con la dea greca Demetra. Il suo culto era inizialmente associato a quello delle antiche divinità rustiche di Liber e Libera e presentava delle similitudini con i riti celebrati a Eleusi in onore di Demetra , Persefone e Iacco (uno dei nomi di Dioniso).

      Tale culto è attestato al santuario dei3 altari di Lavinio grazie al ritrovamento di una lamina metallica sulla quale vi è l'iscrizione Cerere(m) auliquoquibus, interpretata come offerta alla dea di interiora dell'animale sacrificato, bollite in pentola.Un suo santuario a Roma era ai piedi dell'Aventino, fondato nel V secolo a.C.. In suo onore si celebravano le "Cerealia", ogni2 aprile, durante le quali venivano sacrificati buoi e i maiali, ed offerti frutta e miele. Si compivano anche sacrifici per purificare la casa da un lutto familiare.


      Cerere è legata anche al mondo dei morti. Una fossa che veniva aperta soltanto in tre giorni particolari, il 24 agosto, il 5 ottobre e l'8 novembre. Questi giorni sono dies religiosi, vale a dire che ogni attività pubblica veniva sospesa perché l'apertura della fossa metteva idealmente in comunicazione il mondo dei vivi con quello sotterraneo dei morti. In quei giorni non si attaccava battaglia con il nemico, non si arruolava l'esercito e non si tenevano i comizi. L'apertura del mundus era un momento delicato e pericoloso, non tanto per paura che i morti uscissero in massa invadendo il mondo dei vivi ma al contrario perché, il mundus avrebbe attratto i vivi nel mondo dei morti, specialmente in occasione di scontri e battaglie.

      Un altro riferimento al mondo dei morti sembra essere il termine cerritus che significa "invaso dallo spirito di Cerere". Il termine indica qualcuno che oggi si definirebbe "posseduto" (come il termine analogo larvatus). Secondo Renato Del Ponte questo termine potrebbe rivelare un'antica concezione della dea come mater larvarum ("madre degli spettri"), anche in relazione al fatto che il termine cerritus viene definito da Marziano Capella come vox obsoleta, "termine antiquato" quindi "arcaico"

     

     

     


    ESTIA

      Dea del focolare domestico. Era la prima figlia di Crono e di Rea, quindi sorella maggiore di Zeus. Per diritto di nascita era una delle dodici maggiori divinità dell'Olimpo, dove tuttavia non abitava, cosicché non protestò quando Dioniso crebbe d'importanza e la sostituì nella cerchia dei dodici. Poiché non si coinvolse nelle storie di guerra che hanno tanta parte nella mitologia greca.

      Il suo culto è uno dei più semplici ed è quasi privo di leggende. E' la meno conosciuta fra le divinità più importanti dell'antica Grecia. Era tuttavia tenuta in grande onore, veniva invocata e riceveva le offerte migliori in ogni sacrificio che i mortali presentavano agli dèi.
      Viene descritta come 'la venerabile vergine Estia', una delle tre dee che Afrodite non riesce a sottomettere, a persuadere, a sedurre o anche soltanto a 'risvegliare a un piacevole desiderio'. Fece voto di castità non perché non fosse bella, infatti Afrodite fece sì che Poseidone e Apollo si innamorassero di Estia e chiesero la sua mano, ma lei aveva fatto giuramento di restare vergine e così li respinse entrambi. Zeus, data la decisione della sorella di restare vergine ed evitando così un possibile concorrente al trono,respinse le loro proposte.
      Persino il dio Priapo che tentò di farle violenza non ci riuscì perchè il raglio di un asino svegliò la dea che dormiva dopo un banchetto, e gli altri dei che lo costrinsero a darsi alla fuga. L'episodio ha un carattere di avvertimento aneddotico per chi pensi di abusare delle donne accolte in casa come ospiti, sotto la protezione del focolare domestico: anche l'asino, simbolo della lussuria, condanna la follia criminale di Priapo.

      Insieme alla sua equivalente divinità romana, Vesta, non era nota per i miti e le rappresentazioni che la riguardavano, e fu raramente rappresentata da pittori e scultori con sembianze umane, in quanto non aveva un aspetto esteriore caratteristico. La sua presenza si avvertiva nella fiamma viva, posta al centro della casa, del tempio e della città. Il simbolo di Estia era un cerchio. I suoi primi focolari erano rotondi e così i suoi templi. Né abitazione né tempio erano consacrati fino a che non vi aveva fatto ingresso Estia, che, con la sua presenza, rendeva sacro ogni edificio. Era una presenza avvertita a livello spirituale come fuoco sacro che forniva illuminazione, tepore e calore.

      Suo attributo è il focolare, santuario della pace e della concordia. Suo simbolo era il cerchio e la sua presenza era avvertita nella fiamma viva posta nel focolare rotondo al centro della casa e nel braciere circolare nel tempio di ogni divinità.

      Estia compariva spesso insieme a Ermes, messaggero degli dèi, noto ai romani come Mercurio, la cui effigie fu una pietra a forma di colonna, chiamata erma.
      Nelle case, il focolare rotondo di Estia era posto all'interno, mentre il pilastro fallico di Ermes si trovava sulla soglia. Il fuoco di Estia provvedeva calore e santificava la dimora, mentre Ermes rimaneva sulla soglia a portare fortuna e a tenere lontano il male. Anche nei templi queste due divinità erano legate l'una all'altra.
      Così, nelle dimore e nei tempIi, Estia ed Ermes erano insieme ma separati. Ciascuno dei due svolgeva una funzione distinta e preziosa.
      Estia provvedeva il luogo sacro dove la famiglia si riuniva insieme: il luogo dove fare ritorno a casa.
      Ermes dava protezione sulla soglia della porta ed era guida e compagno nel mondo, dove la comunicazione, la capacità di orientarsi, l'intelligenza e la buona fortuna sono tutti elementi assai importanti.

      Ogni città, nell'edificio principale, aveva un braciere comune, il pritaneo, dove ardeva il fuoco sacro di Estia, che non doveva spegnersi mai. Poiché le città erano considerate un allargamento del nucleo familiare, era adorata anche come protettrice di tutte le città greche.
      Nelle famiglie, il fuoco di Estia provvedeva a riscaldare la casa e a cuocere i cibi.

      Era nota per i miti e le rappresentazioni che la riguardavano: la sua importanza stava nei rituali simbolizzati dal fuoco.
      Perché una casa diventasse un focolare, era necessaria la sua presenza. Quando una coppia si sposava, la madre della sposa accendeva una torcia sul proprio focolare domestico e la portava agli sposi nella nuova casa, perché accendessero il loro primo focolare. Questo atto consacrava la nuova dimora.

      Dopo la nascita di un figlio, aveva luogo un secondo rituale estiano.Il neonato diventava membro della famiglia dopo cinque giorni dalla nascita, con un rito in cui il padre lo portava camminando attorno al focolare, come simbolo della sua ammissione nella famiglia.

      Ogni volta che una coppia o una comunità si accingevano a fondare una nuova sede, Estia li seguiva come fuoco sacro, collegando la vecchia residenza con la nuova, forse come simbolo di continuità e di interdipendenza, di coscienza condivisa e d'identità comune.
      I coloni che lasciavano la Grecia, portavano con sé una torcia accesa al pritaneo della loro città natale, il cui fuoco sarebbe servito a consacrare ogni nuovo tempio ed edificio. Un rito che sopravvive anche nelle Olimpiadi moderne.
      Estia provvedeva al luogo dove sia la famiglia che la comunità si riunivano insieme: il luogo dove si ricevevano gli ospiti, il luogo dove fare ritorno a casa, un rifugio per i supplici. La dea e il fuoco erano una cosa sola e formavano il punto di congiunzione e il sentimento della comunità, sia familiare che civile.

      Per lungo tempo credetti stoltamente che ci fossero statue di Vesta,
      ma poi appresi che sotto la curva cupola non ci sono affatto statue.
      Un fuoco sempre vivo si cela in quel tempio
      e Vesta non ha nessuna effige, come non ne ha neppure il fuoco.
      (Ovidio, Fasti, V, 255-258)

      Più tardi, nell'antica Roma, il suo fuoco sacro veniva custodito dalle Vestali, che dovevano incarnare la verginità e l'anonimato della Dea. In un certo senso, ne erano la rappresentazione umana, sue immagini viventi, al di là di ogni raffigurazione scolpita o pittorica.
      Le fanciulle scelte come vestali venivano portate al tempio in età molto giovane, per lo più quando non avevano ancora sei anni. Tutte vestite allo stesso modo, con i capelli rasati come neo iniziate, qualunque cosa le rendesse distinguibili e riconoscibili veniva eliminata. Vivevano isolate dagli altri, erano onorate e tenute a vivere come Estia: se venivano meno alla verginità le conseguenze erano atroci. I rapporti sessuali della vestale con un uomo profanavano la dea, e come punizione la vestale veniva sepolta viva in una piccola stanza sotterranea, priva di aria, con una lucerna, olio, cibo e un posto per dormire. La terra soprastante veniva poi livellata come se sotto non ci fosse niente. In tal modo la vita della vestale (personificazione della fiamma sacra di Estia) che cessava di impersonare la dea veniva spenta, gettandovi sopra la terra, come si fa per spegnere la brace ancora ardente nel focolare.

      Estia era la maggiore delle tre dee vergini. A differenza delle altre due, non si avventurò nel mondo a esplorare luoghi selvaggi come Artemide, o a fondare città come Atena. Rimase nella casa o nel tempio, racchiusa all'interno del focolare.
      A uno sguardo superficiale, l'anonima Estia sembra avere poco in comune con un'Artemide dalla vivace intraprendenza o con un'intelligente Atena dall'armatura dorata. Eppure, qualità fondamentali e impalpabili accomunavano le tre dee vergini, per quanto fossero diverse le loro sfere di interesse o le loro modalità d'azione. Tutte e tre erano "complete" in , se stesse', qualità che caratterizza la dea vergine. Nessuna di Ioro fu vittima di divinità maschili o di mortali. Ciascuna aveva la capacità di concentrarsi su quanto la interessava, senza lasciarsi distrarre dal bisogno altrui o dal proprio bisogno degli altri.

      L'archetipo Estia ha in comune con le altre due dee vergini una messa 'a fuoco' della coscienza (è la dea del 'focolare'). Tuttavia, l'orientamento di questa messa a fuoco è diverso. Artemide o Atena, che sono orientate verso il mondo esterno, si concentrano sul conseguimento di mete o sulla realizzazione di progetti.
      Estia invece si concentra sull'esperienza soggettiva interna: quando medita, ad esempio, è completamente concentrata.
      La percezione di Estia avviene attraverso lo sguardo interiore e l'intuizione di ciò che sta accadendo. La modalità estiana ci permette di stabilire un contatto con quelli che sono i nostri valori, mettendo a fuoco ciò che è significativo a livello personale. Grazie a questa polarizzazione interna noi possiamo percepire l'essenza di una situazione, intuire il carattere degli altri e comprenderne il modello di comportamento o il significato delle azioni. Questa prospettiva interiore dà chiarezza, in mezzo alla miriade di particolari confusi che si presentano ai nostri sensi.
      L'introversa Estia, quando si occupa di ciò che la interessa può anche diventare emotivamente distaccata e percettivamente disattenta a quanto la circonda. In aggiunta alla tendenza a ritirarsi dalla compagnia degli altri, il suo essere 'una in sè stessa' è una qualità che ricerca la tranquillità silenziosa, che si ritrova più di tutto nella solitudine.

      Estia è il 'punto fermo' che dà senso all' attività, il punto di riferimento che consente a una donna di rimanere ben salda in mezzo al caos del mondo esterno, al disordine o alla consueta agitazione della vita quotidiana. Quando Estia è presente nella personalità di una donna, la sua vita acquista un senso.
      Il focolare di Estia, di forma circolare, con il fuoco sacro al centro, ha là stessa forma del mandala, un'immagine usata nella meditazione come simbolo di completezza e di totalità. A proposito del simbolismo dei mandala, Jung ha scritto: "Il loro motivo di base è l'idea di un centro della personalità, di una sorta di punto centrale all'interno dell' anima al quale tutto sia correIato, dal quale tutto sia ordinato e il quale sia al tempo stesso fonte di energia. L'energia del punto centrale si manifesta in una coazione pressoché irresistibile, in un impulso a divenire ciò che si è; così come ogni organismo è costretto, quali che siano le circostanze, ad assumere la forma caratteristica della propria natura. Questo centro non è sentito né pensato come lo, ma, se così
      si può dire, come Sé".
      Il Sé è ciò che sperimentiamo internamente quando sentiamo un rapporto di unità che ci collega all' essenza di tutto ciò che è fuori di noi. A questo livello spirituale, 'unione' e 'distacco' sono paradossalmente la stessa cosa.
      Quando ci sentiamo in contatto con una fonte interna di amore e di luce (metaforicamente, scaldate e illuminate da un fuoco spirituale), questo 'fuoco' scalda coloro che amiamo e con cui condividiamo il focolare e ci tiene in contatto con chi è lontano.
      Il sacro fuoco di Estia ardeva sul focolare domestico e nei templi. La dea e il fuoco erano una sola cosa e univano le famiglie l'una all' altra, le città-stato alle colonie. Estia era l'anello di congiunzione spirituale fra tutti loro. Quando questo archetipo permette la concentrazione sulla spiritualità, l'unione con gli altri è un' espressione del Sé.
      Estia, in quanto dea del focolare, è l'archetipo attivo nelle donne che considerano le occupazioni domestiche un' attività significativa e non semplicemente 'le faccende di casa'. Con Estia, la cura del focolare diventa un mezzo attraverso il quale la donna, insieme alla casa, mette ordine nel proprio sé.
      La donna che è in contatto con questo aspetto archetipico, nello svolgere le mansioni quotidiane sente nascersi dentro un senso di armonia interiore.
      Attendere alle cure domestiche è un' attività che induce alla concentrazione e che equivale alla meditazione. Se dovesse parlare del proprio mondo interno, la donna Estia potrebbe scrivere un libro intitolato Lo Zen e l'arte della cura della casa. Si dedica alle faccende domestiche perché la interessano di per sé e perché le piace. Trae una pace profonda da quello che fa, come accade a ogni donna che vive in una comunità religiosa, per la quale ogni attività viene compiuta 'al servizio di Dio'.
      Quando Estia è presente, la donna si dedica ai lavori della casa con la sensazione di avere davanti a sé tutto il tempo possibile. Non tiene d'occhio l'orologio, perché non si muove sulla base di un orario e non 'inganna il tempo'. Si trova quindi in quello che i greci chiamavano kairos, tempo propizio: 'sta partecipando àl tempo', e ciò la nutre psicologicamente (come succede in quasi tutte le esperienze dove perdiamo il senso del tempo). Mentre smista e ripiega la biancheria, rigoverna i piatti e mette in ordine, non ha fretta, ed è pacificamente concentrata in ogni cosa che fa.
      Le custodi del focolare rimangono sullo sfondo mantenendo l'anonimato: spesso la loro presenza è data per scontata e non sono personalità che fanno notizia o diventano famose.

      L'archetipo Estia fiorisce nelle comunità religiose, specialmente là dove si coltiva il silenzio.
      Gli ordini contemplativi cattolici e le religioni orientali la cui pratica spirituale si basa sulla meditazione forniscono un buon ambiente per le donne Estia.
      Le vestali e le suore hanno in comune questo modello archetipico. Le giovani donne che entrano in convento rinunciano alla precedente identità. Il loro primo nome viene cambiato e il cognome non viene più usato. Vestono tutte allo stesso modo, si sforzano di praticare l'altruismo, vivono una vita di castità e dedicano quella vita al servizio religioso. Poiché le religioni orientali attirano molti occidentali, tanto negli ashram quanto nei monasteri è possibile trovare donne che impersonano Estia. Entrambe le discipline mettono in primo piano la preghiera o la meditazione. Subito dopo segue la cura della comunità (o governo della casa), che viene svolta nel convincimento che sia anch'essa una forma di adorazione.
      La maggior parte delle donne Estia che vivono in un tempio sono anche creature anonime che partecipano in modo discreto ai riti quotidiani della spiritualità e alle cure domestiche della comunità religiosa.
      Donne famose che appartengono a queste comunità combinano l'aspetto Estia con altri archetipi forti: santa Teresa di Avila, famosa per i suoi scritti mistici, combinava Estia con un aspetto Afrodite; Madre Teresa di Calcutta, Premio Nobel per la Pace, sembra una combinazione di Estia e della materna Demetra.
      Le superiore di conventi che si rivelano abili amministratrici e sono mosse dalla spiritualità, accanto a Estia, hanno forti tratti Atena.


      Come sorella maggiore della prima generazione degli dèi dell'Olimpo e zia nubile della seconda generazione, Estia aveva la posizione di un' anziana onorata.
      Si teneva al di sopra o al di fuori degli intrighi e delle rivalità della sua divina parentela ed evitava di farsi coinvolgere dalle passioni del momento. Quando nella donna è presente questo archetipo , gli eventi non hanno su di lei lo stesso impatto che sugli altri.
      Quando Estia è la dea presente, la donna non è 'attaccata' alla gente, agli esiti, al possesso, al prestigio o al potere. Si sente completa così com'è. Poiché la sua identità non è importante, non è legata alle circostanze esterne, e quindi niente che possa accadere la esalta o la sconvolge.
      Possiede la libertà interiore dal desiderio concreto, la libertà dall' azione e dalla sofferenza, libertà dalla necessità interna ed esterna e tuttavia è circondata da una grazia di senso, una bianca luce immobile eppure mobilissima.
      Il distacco di Estia dà a questo archetipo la qualità della 'donna saggia'. è come una donna anziana che abbia visto tutto e ne sia venuta fuori con lo spirito non offuscato e il carattere temprato dall' esperienza.
      La dea Estia era onorata nei templi di tutti gli altri dèi. Quando Estia condivide il 'tempio' (o la personalità) con altre divinità archetipiche, dà a obiettivi e propositi la sua dimensione di saggezza.
      In questo senso, la donna Era che reagisce con dolore alla scoperta dell'infedeltà del compagno, se possiede anche l'archetipo Estia, non sarà vulnerabile come è caratteristico di quella dea. Gli eccessi di tutti gli altri archetipi vengono mitigati dal saggio consiglio di Estia, una presenza forte, portatrice di una verità, di una visione spirituale profonda.

      Il pilastro (Erma) e l'anello circolare sono diventati rispettivamente il simbolo del principio maschile e di quello femminile.
      In India e in altri paesi dell'oriente pilastro e cerchio sono 'accoppiati'. Il lingam fallico rivolto verso l'alto penetra la yoni o anello, che si trova sopra di lui, come nel gioco del lancio dei cerchi. Qui, pilastro e anello si fondono, mentre greci e romani mantennero collegati, ma separati, questi due simboli che rappresentavano Ermes e Estia.
      A sottolineare ulteriormente questa separazione, Estia è una dea vergine, che non verrà mai penetrata, è la più anziana degli dèi dell'Olimpo ed è anche la zia nubile di Ermes, che veniva considerato il più giovane tra loro: un'unione estremamente improbabile.
      Dal tempo dei greci in poi, le culture occidentali hanno messo l'accento sulla dualità, su una separazione o differenziazione fra maschile e femminile, mente e corpo, logos ed eros, attivo e ricettivo, che divennero tutti, rispettivamente, và!ori superiori e inferiori.
      Quando Estia ed Ermes venivano entrambi onorati presso il focolare domestico e nei templi, i valori femminili estiani erano, semmai, i più importanti: alla dea andavano infatti i più alti onori. A quei tempi la dualità era complementare. Ma da allora, Estia ha perso valore ed è stata dimenticata. I suoi fuochi sacri non vengono più custoditi e ciò che rappresentava non è più onorato. Quando i valori femminili legati al suo archetipo vengono dimenticati e disonorati, l'importanza del santuario interno - il viaggio interiore per trovare senso e pace - e della famiglia come santuario e sorgente di calore, diminuisce o va perduta. Scompare anche il senso di sottostante legame con gli altri, così come, negli abitanti di una città, di un paese o della terra, il bisogno di sentirsi uniti da un vincolo spirituale comune.

      A livello mistico, Estia ed Ermes rappresentano le idee archetipiche dello spirito e dell' anima.
      Ermes è lo spirito che accende l'anima. In questo senso, è come il vento che soffia sulla brace sotto cui cova il fuoco, al centro del focolare, e che fa alzare la fiamma.
      Allo stesso modo, le idee possono infiammare sentimenti profondi e le parole possono dare espressione a ciò che fino allora era rimasto inesprimibile e illuminare ciò che era stato percepito in modo oscuro.

     

     

     


    IL GENERE UMANO

      Prometeo "colui che è capace di prevedere".

      Figlio di Giapeto e  dell'oceanina Asia ( o Climene, Figlia di Oceano e di Teti) viveva con il fratello Epimeteo il cui nome vuol dire "colui che comprende in ritardo". Entrambi facevano pertanto parte della famiglia dei Titani che avevano osato sfidare Zeus quando aveva combattuto contro Crono, suo padre, per impossessarsi del trono. Prometeo però, a differenza dei fratelli, si era schierato con Zeus ed aveva partecipato alla lotta solo quando oramai volgeva al termine. Come premio aveva ricevuto di poter accedere liberamente all'Olimpo anche se, nel profondo del suo cuore, i sentimenti che Prometeo provava nei confronti di Zeus non erano amichevoli a causa della sorte che questi aveva destinato ai suoi fratelli .

      La nascita del primo uomo.

      Zeus, per la stima che riponeva in Prometeo, gli diede l'incarico di forgiare l'uomo che modellò dal fango e che animò con il fuoco divino.

      A quell'epoca, gli uomini erano ammessi alla presenza degli dei, con i quali trascorrevano momenti conviviali di grande allegria e serenità. Durante una di queste riunioni tenuta a Mekone, fu portato un enorme bue, del quale metà doveva spettare a Zeus e metà agli uomini. Il signore degli dei affidò l'incarico della spartizione a Prometeo che approfittò dell'occasione per vendicarsi del re degli dei.

      Divise infatti il grosso bue in due parti ma in una celò la tenera carne sotto uno spesso strato di pelle e nell'altra, macinò insieme le ossa ed il grasso che ricoprì con un sottile strato di pelle tanto da far sembrare quest'ultima il boccone più succulento. Zeus, poiché gli toccava la prima scelta, optò per la parte all'apparenza più ricca. Subito dopo accortosi dell'inganno, più che mai irato, privò gli uomini del fuoco, riportandolo nell'Olimpo. Prometeo, considerata ingiusta la punizione, rapì qualche scintilla dall'Olimpo nascondendola in un giunco e riportò così il fuoco agli uomini.

      Zeus, accortosi dell'inganno che Prometeo gli aveva perpetrato, decise una punizione ben più grande di quella che aveva destinato ai suoi fratelli: ordinò ad Ermes e ad Efesto d'inchiodare Prometeo ad una rupe nel Caucaso, dove un'aquila (Echidna) durante il giorno gli avrebbe roso il fegato con il suo becco aguzzo mentre durante la notte si sarebbe rigenerato.

      Ecco come Luciano racconta il meritato (a suo giudizio) supplizio di Prometeo (Dialoghi):

      E poi mi stanno a dire che Prometeo
      Non meritava d'esser inchiodato
      A quelle rupi? Egli ci diede il fuoco,
      Ma niente altro di buono. Fece un male,
      Per qual, cred'io, tutti gli Dei l'aborrono:
      Le femmine formò! Numi beati,
      Che brutta razza! Ora, ammogliati; ammoglia.
      Tutti i vizi con lei t'entrano in casa.

      La nascita della prima donna

      Zeus, non contento della punizione che aveva inflitto a Prometeo, decise di punire anche la stirpe umana.

      Dato che nel mondo non esisteva ancora la donna Zeus diede incarico ad Efesto di modellare un'immagine umana servendosi di acqua e di argilla che non avesse nulla da invidiare alla bellezze delle dee, per l'infelicità del genere umano. Efesto fu tanto bravo nel modellarla che la donna che ne ebbe origine era superiore ad ogni elogio e ad ogni possibile immaginazione. Tutti gli dei furono incaricati da Zeus di riporre in lei dei doni: Atena le donò delle vesti morbide e leggere a significare il candore, fiori per adornare il corpo ed una corona d'oro mentre Ermes pose nel suo cuore pensieri malvagi e sulle curve sinuose delle sue labbra, frasi tanto seducenti quanto ingannevoli.

      Narra Esiodo (Le opere e i giorni)

      "L'adornò del cinto
      E delle vesti, le donar le Grazie
      E Pito veneranda aurei monili,
      E de' più vaghi fior di primavera
      L'Ore chiamate, le intrecciar corone.
      Ma l'uccisor d'Argo, Mercurio, a lei,
      Ché tal di Giove era il voler, l'ingegno
      Scaltri d'astuzie e blande parolette
      E fallaci costumi …"

      A questa creatura fu dato nome Pandora (dal greco "pan doron" = "tutto dono") perché ogni divinità dell'Olimpo le aveva fatto un regalo.

      Mancava solo il regalo di Zeus che fu superiore a tutti gli altri doni. Egli infatti, donò alla fanciulla un vaso (il vaso di Pandora), con il divieto di aprirlo, contenente tutti i mali che l'umanità ancora non conosceva: la vecchiaia, la gelosia, la malattia, la pazzia, il vizio, la passione, il sospetto, la fame e così via.

      Quindi Zeus affidò la fanciulla ad Ermes perché la portasse in dono a Prometeo che però, pensando ad un inganno, rifiutò il dono. Allora Zeus ordinò ad Ermes di portarla a Epimeteo, fratello di Prometeo, che appena la vide si innamorò di lei e l'accettò come sua sposa nonostante i moniti del fratello che gli aveva raccomandato di non accettare alcun dono dagli dei.

      Racconta Esiodo (Le opere e i giorni)

      "Aveva Prometeo a lui
      Fatto divieto d'accettar mai dono
      Venutogli da Giove, ché funesto
      Esser questo potea; ma, del fratello
      Obliando Epimeteo i saggi avvisi.
      Accettollo, e del male, allor che il dono
      Era già suo, di subito s'accorse."

      Dopo poco che Pandora era sulla terra, presa dalla curiosità aprì il vaso. Da esso veloci corsero come fulmini sulla terra tutti i castighi che Zeus vi aveva riposto: la malattia, la morte, il dolore, e tanti altri, fino ad allora sconosciuti. L'unico dono buono che Zeus aveva posto nel vaso rimase incastrato sotto il coperchio che subito Pandora aveva chiuso: era l'Elpis, la speranza.

      La leggenda narra che dopo trent'anni Prometeo fu liberato dal supplizio da Eracle (Ercole) che recatosi fino alla cima del Caucaso con una freccia uccise l'aquila liberando così Prometeo al quale Zeus concesse di ritornare nell'Olimpo.

      Racconta Esiodo (Le opere e i giorni)

      "Di propria mano scoperchiato il vaso,
      Che i mali in sé chiudea, questi si sparsero
      Tra i mortali, e sol dentro vi rimase
      All'estremo dell'orlo la Speranza,
      Perché la donna, subito, il coperchio
      Riposto, il volo a lei contese. Tale
      Era il cenno di Giove. A stuolo a stuolo
      Vagano intanto i mali, e n'è ripiena
      La terra e il mare, e n'è ripiena
      La terra e il mare; assalgono le genti
      Il di e la notte insidiosi e taciti,
      perché la voce accortamente il Nume
      Loro preclude."

      In questo modo fu punito il genere umano per non avere rispettato il volere del re degli dei, sovrano di ogni creatura e di ogni altra cosa sulla terra e nel cielo.


      Il diluvio universale

      Zeus, nell'età del bronzo, epoca nella quale gli uomini erano crudeli e sanguinari e trascorrevano la loro vita ad uccidere ogni essere vivente che incontravano, disgustato dalla natura stessa dell'uomo, decise di cancellare l'umanità dalla terra allagando tutta la terra con un diluvio universale.
      Prometeo, appreso dell'imminente diluvio che Zeus aveva deciso di scatenare sul mondo corse da suo figlio Deucalione per avvertirlo di quello che stava per accadere. Deucalione, che all'epoca era il re della Tessaglia, costruì allora un'arca nella quale si rifugiò con la moglie Pirra, figlia di Epimeteo e di Pandora, sua cugina e moglie, prima che iniziasse il diluvio. Appena ebbero finito di costruirla iniziò il diluvio universale che implacabile spazzò ogni forma di vita sul pianeta abbattendosi per nove giorni e per nove notti. Il decimo giorno, cessata la pioggia, l'arca si arenò sul monte Parnaso (Pindaro, Olimpiche 9, 41 ss.).
      Qui aspettarono che le acque si ritirassero, e quando misero piede sulla terra ferma scesero a valle e la prima cosa che fecero i due naufraghi fu di offrire un sacrifico in onore di Zeus per ringraziarlo di averli salvati e andarono a pregare Temi presso il fiume Cefiso. Zeus, commosso, disse a Deucalione che avrebbe esaudito un suo desiderio e questi allora chiese che la terra fosse ripopolata. La sua preghiera fu tanto accorata che Zeus consigliò allora a Deucalione di andare a Delfi, per interpellare l'oracolo. Una volta presso l'oracolo, Deucalione lo interrogò e questi gli consigliò "Andando via dal tempio velatevi il capo, slacciatevi le vesti e alle spalle gettate le ossa della grande madre".

      Per lungo tempo Deucalione e Pirra pensarono a cosa potessero essere le ossa dell'antica madre, fino a quando capirono che sicuramente si trattava delle pietre, in quanto sia lui che Pirra discendevano da Gea, la Madre Terra e le ossa non potevano essere altro che le sue pietre.
      E così entrambi si velarono il capo e si incamminarono buttandosi alle spalle delle pietre, e da quelle gettate da Pirra nascevano delle donne mentre da quelle gettate da Deucalione nascevano degli uomini. Così, dopo il diluvio mandato da Zeus, Pirra divenne la madre del genere umano ripopolando la terra con le pietre e la terra si ripopolò del genere umano.(Inde genus durum sumus experiensque laborum / et documenta damus qua simus origine nati "(Ovidio, Metamorfosi I, 414-415).
      Quando Deucalione morì venne sepolto vicino al tempio di Zeus in Atene (Ovidio, Metamorfosi I,77-415).

      ELLENO: Figlio di Decaulione e di Pirra. Fu il capostipite di tutti i Greci, per via dei figli e dei nipoti che furono a loro volta capostipiti delle varie genti greche. I nomi dei parenti e delle genti greche: dal nipote Acheo vennero gli Achei; dal figlio Doro i Dori; dal nipote Ion gli Ioni; dal figlio Eolo gli Eoli.

      Racconta Luciano nei Dialoghi (Dialoghi, V): "... Onde in un attimo venne quel si gran abisso ai tempi di Deucalione, che tutto andò sommerso nelle acque: e ne scampò solo una barchetta approdata sul monte Licoride, nella quale fu serbata la semenza di questa razza umana, che doveva rigerminare più scellerata di prima."

     

     

     




    Le NINFE

    • Epigee (ninfe terrestri)
      • Agrostine , dei campi.
      • Aloniadi, dei burroni.
      • Oreadi> o Orestiadi, delle montagne (vedi Eco).
        • Napee, delle valli.
        • Alseidi, dei boschi e della pelle.
        • Auloniadi
        • Lemoniadi, ninfe dei proci.
      • Coricidi
    • Driadi (o Amadriadi), che vivevano ciascuna in una quercia o comunque in una pianta (una di esse è Crisopelea).
      • Meliadi o Melie, delle piante di frassino.
      • Epimelidi, protettrici dei meli e degli ovini.
      • Ileori
      • Esperidi
    • Idriadi (ninfe acquatiche)
      • Avernali, dei piedi invernali.
      • Oceanine
        • Nefeli
      • Aliadi
        • Psamidi
        • Nereidi, del mare (dette anche Oceanine o Malie).
      • Naiadi o Efidriadi o Idriadi, delle sorgenti.
        • Eleadi
        • Potameidi, dei fiumi.
        • Limnìadi o Lìmnadi, dei laghi e degli stagni.
        • Creneidi e Pegee, delle fonti.
    • Ninfe celesti
      • Pleiadi
      • Iadi
      • Eliadi
      • Alcionidi
    • Lampadi, ninfe invernali.
    • Tiadi, chiamate anche Menadi o Baccanti da Esiodo, in quanto le ninfe sono per la maggior parte, delle creature umane.
    • Ninfe Cure, nutrici di neonati.

     

     

     





    LE SETTE SPOSE E LA DISCENDENZA DI ZEUS

      Zeus oltre ad essere il dio supremo di tutti gli dei era una divinità celeste dispensatrice di luce, di calore e da lui dipendevano tutti gli eventi atmosferici era infatti anche il re del tuono, dei lampi, dei fulmini mediante i quali manifestava la sua approvazione o no.
      La sua casa era l'Olimpo dal quale regolava tutto l'ordine universale e nelle sue mani era il destino di tutti gli uomini anche se la sua volontà era sottoposta ad una volontà suprema, quella del Fato le cui leggi e decisioni neanche il potente re degli dei poteva cambiare.
      Aveva diversi soprannomi tra i quali ricordiamo: Zeus Horkios in quanto il suo nome rendeva sacri i giuramenti; Zeus Xenios come dio dei vaticini e dell'ospitalità; Zeus Efestios come difensore del focolare domestico; Zeus Soter come salvatore del popolo.



    1. Zeus/METIS

      figlia di Oceano e di Teti (che impersonificava la saggezza, la ragione e l'intelligenza), fu la prima moglie di Zeus ma che fece una triste fine in quanto sia Urano che Gea avevano predetto a Zeus che sarebbe stato detronizzato da un figlio di Metis pertanto quando questa rimase incinta di Atena Zeus la ingoiò per essere sicuro di mantenere il regno.

      Tutto ebbe inizio quando a Zeus, in quel periodo sposo di Metis, fu predetto da Gea e da Urano che un giorno Metis avrebbe partorito due figli, il secondo dei quali lo avrebbe detronizzato. Zeus, spaventato da quella profezia e dato che Metis era incinta del loro primo figlio, decise di non correre rischi e la ingoiò.

      Il tempo riprese a scorrere sereno per Zeus che si era anche dimenticato della fine che aveva fatto fare alla moglie. Un giorno però iniziò ad essere assalito da violentissime fitte alla testa. Non potendole sopportare chiese ad Efesto di colpirlo in testa con il suo martello. Efesto si rifiutava di eseguire l'ordine in quanto non capiva cosa stesse succedendo ma date le urla e le insistenze di Zeus alla fine lo colpì violentemente in testa. Nel momento stesso in cui il suo martello toccò la testa di Zeus l'Olimpo tremò, i lampi sconquassarono il cielo e dal suo cranio uscì una densa nuvola nella quale si trovava una creatura, vestita con una lucente armatura, che teneva alla sua destra un giavellotto: era nata Atena, la dea guerriera che si sarebbe contrapposta ad Ares personificazione della guerra brutale e violenta.


      I mitografi diedero alla sua nascita una concezione naturalistica e videro in Atena la personificazione del lampo che disperde le nuvole e riporta il sereno (da qui il suo epiteto di Glaucopis, cioè dagli occhi scintillanti).

      Atena manifestò doti non solo come guerriera ma anche come donna saggia ed accorta. Infatti divenne ben presto anche la dea della ragione, della arti, della letteratura, della filosofia, del commercio e dell'industria. Era la personificazione della saggezza e della sapienza in tutti i campi delle scienze conosciute. Insegnò agli uomini la navigazione, ad arare i campi, ad aggiogare i buoi, a cavalcare ed alle donne insegnò anche a tessere, a tingere e a ricamare. Era anche una dea fiera che puniva severamente chi osava competere con lei

      Con il passare del tempo Atena chiese al padre che le fosse consacrata una regione della terra che la potesse onorare. Già da diverso tempo però Poseidone era in attesa che Zeus gli assegnasse una regione e fu così che tra le due divinità si accese una violenta disputa per avere il dominio sull'Attica.

      Zeus, dato che non sapeva che fare decise allora di proclamare una sfida tra Poseidone ed Atena: chi tra i due avesse fatto alla città il dono più utile, ne avrebbe avuto la supremazia e Cecrope fu posto ad arbitro della contesa.


      Cecrope è il primo leggendario re di Atene. Nacque dal suolo stesso dell'Attica, ed era rappresentato con un corpo da uomo terminante con una coda di serpente.
      Nell'antichità, infatti, il serpente era uno dei simboli della terra. A lui sono attribuiti i primi segni di civiltà, come l'abolizione dei sacrifici cruenti, il principio della monogamia, l'invenzione della scrittura e l'uso di seppellire i morti. La tomba di Cecrope sembra sia da collocarsi, secondo il mito, sull'acropoli di Atene, nei pressi dell'Eretteo.
      Quando la sfida iniziò alla presenza di tutti gli dei, Poseidone toccò con il suo tridente la terra e fece saltar fuori una nuova creatura che mai prima di allora si era vista, il cavallo che da quel momento popolò tutte le regioni della terra e divenne un grande aiuto per la vita dell'uomo.

      Atena, dal canto suo percosse il suolo con il suo magico giavellotto e in conseguenza di ciò scaturì dal terreno un albero di olivo.

      Cercrope, decise che fosse Atena la vincitrice e da quel giorno la capitale dell'Attica fu chiamata Atene in onore della dea.

      Da quel momento la vita iniziò a scorrere serena in Attica ed Atena insegnava al suo popolo le scienze e le arti.



        Aracne,

        figlia del tintore Idmone, era una fanciulla che viveva nella città di Colofone, nella Lidia, famosa per la sua porpora. Era molto conosciuta per la sua abilità di tessitrice e ricamatrice in quanto le sue tele erano considerate un dono del cielo tanto erano piene di grazia e delicatezza e le persone arrivavano da ogni parte del regno per ammirarle.
        Aracne era molto orgogliosa della sua bravura tanto che un giorno ebbe l'imprudenza di affermare che neanche l'abile Atena, anche lei famosa per la sua abilità di tessitrice, sarebbe stata in grado di competere con lei tanto che ebbe l'audacia di sfidare la stessa dea in una pubblica gara.
        Atena, non appena apprese la notizia, fu sopraffatta dall'ira e si presentò ad Aracne sotto le spoglie di una vecchia suggerendo alla stessa di ritirare la sfida e di accontentarsi di essere la migliore tessitrice tra i mortali. Per tutta risposta Aracne disse che se la dea non accettava la sfida era perchè non aveva il coraggio di competere con lei. A quel punto Atena si rivelò in tutta la sua grandezza e dichiarò aperta la sfida.
        Una di fronte all'altra Atena ed Aracne iniziarono a tessere le loro tele e via via che le matasse si dipanavano apparivano le scene che le stesse avevano deciso di rappresentare: nella tela di Atena erano rappresentate le grandi imprese compiute dalla dea ed i poteri divini che le erano propri; Aracne invece, raffigurava gli amori di alcuni dei, le loro colpe ed i loro inganni.
        Quando le tele furono completate e messe l'una di fronte all'altra, la stessa Atena dovette ammettere che il lavoro della sua rivale non aveva eguali: i personaggi che erano rappresentati sembrava che balzassero fuori dalla tela per compiere le imprese rappresentate. Atena, non tollerando l'evidente sconfitta, afferrò la tela della rivale riducendola in mille pezzi e tenendo stretta la spola nella mano, iniziò a colpire la sua rivale fino a farla sanguinare.
        Aracne, sconvolta dalla reazione della dea, scappò via e tentò di suicidarsi cercando di impiccarsi ad un albero. Ma Atena, pensando che quello fosse un castigo troppo blando, decise di condannare Aracne a tessere per il resto dei suoi giorni e a dondolare dallo stesso albero dal quale voleva uccidersi ma non avrebbe più filato con le mani ma con la bocca perchè fu trasformata in un gigantesco ragno.

        Racconta Ovidio (Metamorfosi, IV, 23 e segg.): " (...) Accetta Minerva la sfida ... la dea dai biondi capelli si corrucciò del felice successo e stracciò la trapunta tela che scopre le colpe dei numi e colpì con la spola di citoriaco bosso più volte la fronte di Aracne. Non lo patì l'infelice: furente si strinse la gola con un capestro e restò penzoloni. Atena, commossa, la liberò, ma le disse: - Pur vivi o malvagia, e pendendo com'ora pendi. E perchè ti tormenti nel tempo futuro, per la tua stirpe continui il castigo e pei tardi nepoti -. Poscia partendo la spruzza con sughi di magiche erbette: subito il crime toccato dal medicamento funesto cadde e col crine le caddero il naso e gli orecchi: divenne piccolo il capo e per tutte le membra si rimpicciolisce: l'esili dita s'attaccano, invece dei piedi, nei fianchi: ventre è quel tanto che resta, da cui vien traendo gli stami e, trasformata in un ragno, contesse la tela di un tempo" .
        Scrive Dante Alighieri (Purgatorio, XII, 43-45):
        O folle Aragne, sì vedea io te
        Già mezza ragna, trista in su li stracci
        De l'opera che mal per te si fé.

        Ancor oggi, quando si vede un ragno tessere la sua tela, si ripensa alla sorte toccata alla tessitrice della Lidia condannata per il resto della sua vita a quel triste destino perchè aveva osato essere più abile di una dea.


        Tiresia

        Tramandato da Callimaco, Nonno di Panopoli, Properzio, Apollodoro. L'indovino avrebbe perso la vista per punizione di Atena; la dea, infatti, fu vista dal giovane Tiresia mentre faceva il bagno nuda, cosa che era assolutamente proibita ai mortali. La pena, di solito era la morte, ma a Tiresia fu risparmiata in virtù dell'amicizia della dea con la madre del giovane Tiresia: la dea, anzi, come compensazione della perdita della vista diede a Tiresia anche la facoltà di vaticinare.
        Tiresia è come indovino, prima di tutto un mediatore fra gli dei e gli uomini: pertanto questo fatto gli permette di partecipare dell'immortalità che caratterizza gli dei. In effetti Tiresia, che visse per sette generazioni, non conobbe in termini reali la morte. Dunque, questa posizione privilegiata gli permette di essere un mediatore, di avere una posizione particolare proprio all'interno delle generazioni regali della casa reale di Tebe non solo tra i vivi, ma anche tra i morti della famiglia stessa. Da un certo punto di vista questa trascendenza può apparire come una trasgressione all'ordine abituale delle cose, fondato sul rispetto delle opposizioni, stabilito una volta per tutte all'origine del mondo. Inoltre, Tiresia è oggetto egli stesso di una repressione che viene dagli dei; essi, infatti, mal sopportano che i loro segreti siano rivelati agli uomini da un indovino che, a sua volta, sta anche dalla parte degli uomini, esseri che, talvolta, non riconoscono in lui l'autorità di un indovino. (…) Ecco perché Tiresia, oltre ad essere stato reso cieco dagli dei, che, per supplire a questa mutilazione gli hanno donato il bastone (che a sua volta e il simbolo dello statuto da intermediario che l'indovino occupa), non è creduto dagli uomini che lo prendono in giro e qualche volta lo insultano. Nell'analisi del primo episodio della prima versione (A), si è dimostrato che questo tipo di relazioni si organizzava, questa volta, attorno alla figura di un serpente, il guardiano di tutte le potenze che Gaia, la Terra, raccoglie (…) Il serpente appariva come il guardiano e il dispensatore della potenza divina (...) Ecco perché anche una coppia di serpenti intrecciati attorno ad un bastone può diventare, per un indovino, l'emblema della sua funzione di mediatore, la cui bisessualità successiva non ne è che un aspetto. D'altra parte, il serpente intrattiene dei rapporti privilegiati con la vita e la morte; e in effetti sotto forma di serpente che le anime tornano alla terra e, inoltre, il fatto che egli si spogli ogni anno della sua pelle (che corrisponde alla sua vecchiaia), fa sì che questo animale sia considerato un essere dotato di una longevità straordinaria, del tipo di quella di cui è proprio dotato Tiresia.


        Narciso

        La storia che andiamo a narrare è la più conosciuta della mitologia greca e sono tante le sue versioni. Noi prendiamo spunto da quanto ci narra Ovidio nelle Metamorfosi per narrare le vicende di questo giovane la cui bellezza, pari a quella di un dio, fu la causa della sua stessa rovina.
        Il fanciullo di cui parliamo si chiama Narciso ed era figlio della ninfa Liriope e del fiume Cefiso(1)che, innamorato della ninfa, la avvolse nelle sue onde e nelle sue correnti, possedendola. Da questa unione nacque un bambino di indescrivibile bellezza e grazia. La madre, poichè voleva conoscere il destino del proprio figlio, si recò dal vate Tiresia per sapere il suo futuro.
        Era questo il più grande fra tutti gli indovini che la sorte aveva reso cieco perchè aveva osato porre i suoi occhi sulle nudità della dea guerriera Atena che, dopo averlo punito per la sua audacia rendendolo cieco, gli fece dono del vaticinio.
        Tiresia dopo aver ascoltato le richieste di Liriope le disse in tono greve che suo figlio avrebbe avuto una lunga vita se non avesse mai conosciuto se stesso. Liriope, che non comprese la profezia dell'indovino, andò via e con il passare degli anni dimenticò quanto gli era stato profetizzato.
        Gli anni passarono veloci e Narciso cresceva forte e di una bellezza tanto dolce e raffinata che tutte le persone che lo rimiravano, fossero esse uomini o donne, si innamoravano di lui anche se Narciso rifuggiva ogni attenzione amorosa. Si racconta della sua insensibilità e vanità tanto che un giorno regalò una spada ad Aminio, un suo acceso spasimante, perchè si suicidasse ed Aminio tanto era grande il suo amore per Narciso, si trafisse il cuore sulla soglia della sua casa.
        Aminio morente invocò gli dei perchè vendicassero la sua morte e al suo grido rispose Artemide, che fece innamorare Narciso di se stesso.


        La Ninfa Eco

        ebbe la ventura di incrociare Narciso, incontro nefasto che fu la rovina di entrambi i giovani.
        Si narra che la sposa di Zeus, Era, la cui gelosia era nota a tutti gli dei e a tutti i mortali, era sempre alla ricerca dei tradimenti del marito e sfortuna volle che un giorno si rese conto che la compagnia e le continue chiacchiere della ninfa Eco, altro non erano che un modo per tenerla a bada e distrarla per favorire gli amori di Zeus dando il tempo alle sue concubine di mettersi in salvo. Grande fu la sua rabbia quando apprese la verità e la sua ira si manifestò in tutta la sua potenza: rese Eco destinata a ripetere per sempre solo le ultime parole dei discorsi che le si rivolgevano.
        Racconta Luciano (Epigrammi "A una statua di Eco")
        "Questa è l'Eco petrosa amica di Pane,
        Che rimanda, ripete le parole,
        E ti risponde in tutte le lingue umane;
        E più scherzare coi pastori suole.
        Dille qualunque cosa, odila e poi
        Vanne pei fatti tuoi."

        Un giorno mentre Narciso era intento a vagare nei boschi e a tendere reti tra gli alberi per catturare i cervi, lo vide la bella Eco che, non potendo rivolgergli la parola, si limitò a rimirare la sua bellezza, estasiata da tanta grazia. Per diverso tempo lo seguì da lontano senza farsi scorgere e Narciso, intento a rincorrere i cervi, nè si accorse di lei nè si accorse che si era allontanato dai compagni ed aveva smarrito il sentiero. Iniziò Narciso a chiamare a gran voce, chiedendo aiuto non sapendo dove andare. A quel punto Eco decise di mostrarsi a Narciso rispondendo al suo richiamo di aiuto e si presentò protendendo verso di lui le sue braccia offrendosi teneramente come un dono d'amore e con il cuore traboccante di teneri pensieri.
        Ma ancora una volta la reazione di Narciso fu spietata: alla vista di questa ninfa che si offriva a lui fuggi inorridito tanto che la povera Eco avvilita e vergognandosi, scappò via dolente. Si nascose nel folto del bosco e cominciò a vivere in solitudine con un solo pensiero nella mente: la sua passione per Narciso e questo pensiero era ogni giorno sempre più struggente che si dimenticò anche di vivere ed il suo corpo deperì rapidamente fino a scomparire e a lasciare di lei solo la voce. Da allora la sua presenza si manifesta solo sotto forma di voce, la voce di Eco, che continua a ripetere le ultime parole che gli sono state rivolte.




        Gli dei vollero allora punire Narciso per la sua freddezza ed insensibilità e mandarono Nemesi, dea della vendetta, che fece si che mentre si trovava presso una fonte e si chinava per bere un sorso d'acqua, nel vedere la sua immagine riflessa immediatamente il suo cuore iniziò a palpitare e a struggersi d'amore per quel volto così bello, tenero e sorridente.
        Racconta Ovidio (Metamorfosi III, 420 e segg.):
        "Contempla gli occhi che sembrano stelle, contempla le chiome degne di Bacco e di Apollo, e le guance levigate, le labbra scarlatte, il collo d'avorio, il candore del volto soffuso di rossore ... Oh quanti inutili baci diede alla fonte ingannatrice! ... Ignorava cosa fosse quel che vedeva, ma ardeva per quell'immagine ..."
        Non consapevole che aveva di fronte se stesso, ammirava quell'immagine e mandava baci e tenere carezze ed immergeva le braccia nell'acqua per sfiorare quel soave volto ma l'immagine scompariva non appena la toccava.
        Rimase a lungo Narciso presso la fonte cercando di afferrare quel riflesso senza accorgersi che i giorni scorrevano inesorabili, dimenticandosi di mangiare e di bere sostenuto solo dal pensiero che quel malefico sortilegio che faceva si che quell'immagine gli sfuggisse, sparisse per sempre(4).
        Alla fine morì Narciso, presso la fonte che gli aveva regalato l'amore anelando un abbraccio dalla sua stessa immagine.
        Quando le Naiadi e le Driadi andarono a prendere il suo corpo per collocarlo sulla pira funebre si narra che al suo posto fu trovato uno splendido fiore bianco che da lui prese il nome di Narciso.
        Narra Ovidio (Metamorfosi III 420 e segg.):
        "Languì a lungo d'amore non toccando più cibo nè bevanda. A poco a poco la passione lo consumò, e un giorno vicino alla fonte ... reclinò sull'erba la testa sfinita, e la morte chiuse i suoi occhi che furono folli d'amore per sé. ... Piansero le Driadi, ed Eco rispose alle grida dolenti. Già avevano preparato il rogo, le fiaccole, la bara, ma il suo corpo non c'era più: trovarono dove prima giaceva, un fiore dal cuore di croco recinto di candide foglie".
        E gli antichi narrano ancora che a Narciso non fu di lezione passare ad un'altra vita in quanto, mentre attraversava lo Stige, il fiume dei morti per entrare nell'Oltretomba, continuava a cercare il suo amato, riflesso nelle acque del nero fiume.
        In qualunque modo sia morto Narciso è certo che questo mito è arrivato sino a giorni nostri. Pittori, musicisti, scrittori, psicologici, continuano a trarre ispirazione dalla storia di questo giovane. Era superbo? Era egocentrico? Era egoista? Era ingenuto? Ognuno ne dia l'interpretazione che ritiene più consona anche se è certo che in fondo il giovane Narciso cercava solo una cosa: l'amore, come ogni creatura che popola questa terra.


     

     

     



    2. Zeus / Temi
      Nel mondo antico la Giustizia era una Dea, chiamata Dike quando rappresentava la giustizia umana, e chiamata Temi quando indicava la giustizia come legge eterna. Il suo nome significa "irremovibile", e quindi va considerata come un'astrazione: essa è l'ordine cosmico ed il suo nome veniva invocato nei giuramenti.

      Essa era la personificazione della regola naturale e sociale, e perciò vigila su quanto è lecito ed illecito, regola la convivenza fra gli dèi, fra i mortali e i due sessi. L'ideale di Giustizia di cui è emblema, era collegato con il Destino, il Tempo e la Morte.

      Dall'unione di Temi con Zeus nacquero:

        ASTREA (o Diche) Dea della giustizia, considerata il principio fondamentale per lo sviluppo di ogni società civile, perché diffuse i sentimenti di giustizia, come fece la madre prima di lei, e di bontà.

        Secondo il mito la dea viveva in mezzo agli uomini, durante l'età dell'oro dopo disgustata dalla degenerazione morale del genere umano, dapprima si rifugiò nelle campagne, e poi, al principio dell'età del ferro, risalì definitivamente in cielo, dove splende sotto l'aspetto della costellazione della Vergine.

        LE ORE
        In origine Le Ore attiche erano solamente due, Tallo (germoglio) e Carpo (frutto), nomi alludenti alla semina e alla crescita del frutto delle piante. Esiodo nella Teogonia ne indica tre e simboleggiavano il regolare scorrere del tempo nell'alterna vicenda delle stagioni (primavera, estate ed autunno fusi insieme, inverno); poi ne fu aggiunta una quarta (allusione all'autunno); in epoca romana finirono col personificare le ore vere e proprie, divenendo 12 e da ultimo 24. Le ore si presentano in duplice aspetto:

        * in quanto figlie di Temi (l'Ordine universale) assicuravano il rispetto delle leggi morali;
        * in quanto divinità della natura presiedevano al ciclo della vegetazione.

        Questi due aspetti spiegano i loro nomi:

        * Eunomia, la Legalità;
        * Diche, la Giustizia;
        * Irene, la Pace;

        oppure:

        * Tallo, la Fioritura primaverile;
        * Auso, il Rigoglio estivo;
        * Carpo, la Fruttificazione autunnale.

        Le Ore sorvegliavano le porte della dimora di Zeus sull'Olimpo (le aprivano e le richiudevano disperdendo o accumulando una densa cortina di nuvole), servivano Giunone - che avevano allevata -, attaccavano e staccavano i cavalli dal suo cocchio e da quello di Elio; inoltre facevano parte del corteo di Afrodite - insieme con le Cariti - e di Dioniso.

        Gli antichi le rappresentavano come leggiadre fanciulle stringenti nella mano un fiore o una pianticella, immaginandole peraltro brune ed invisibili con riferimento alle ore della notte; ma, se si eccettua un presunto matrimonio di Carpo con Zéfiro, non ne fecero le protagoniste di alcuna leggenda. Le onoravano con un culto particolare ad Atene (dove fu loro consacrato un tempio), ad Argo, a Corinto, ad Olimpia.

        Le Moire

        Le Moire è il nome dato alle figlie di Zeus e di Temi o secondo altri di Ananke. Ad esse era connessa l'esecuzione del destino assegnato a ciascuna persona e quindi erano la personificazione del destino ineluttabile.

        Erano tre: Cloto, nome che in greco antico significa "io filo", che appunto filava lo stame della vita; Lachesi, che significa "destino", che lo svolgeva sul fuso e Atropo, che significa "inevitabile", che, con lucide cesoie, lo recideva, inesorabile. La lunghezza dei fili prodotti può variare, esattamente come quella della vita degli uomini. A fili cortissimi corrisponderà una vita assai breve, come quella di un neonato, e viceversa. Si pensava ad esempio che Sofocle, uno dei più longevi autori greci (90 anni), avesse avuto in sorte un filo assai lungo. Grandissimo onore diede loro ZEUS prudente,
        le quali concedono agli uomini mortali di avere il bene e il male

        Si tratta di tre donne dall'anziano aspetto che servono il regno dei morti, l'Ade.
        Il sensibile distacco che si avverte da parte di queste figure e la loro totale indifferenza per la vita degli uomini accentuano e rappresentano perfettamente la mentalità fatalistica degli antichi greci.

        Pindaro, in epoca più tarda, le indicò invece come le ancelle di Temi, al suo matrimonio con Zeus.

        Esse agivano spesso contro la volontà di Zeus. Ma tutti gli dei erano tenuti all'obbedienza nei loro confronti, in quanto la loro esistenza garantiva l'ordine dell'universo, al quale anche gli dei erano soggetti.

        Si dice anche che avessero un solo occhio grazie al quale potevano vedere nel futuro e che spartivano a turno tra loro.
        Delle Moire (o Parche) parla anche Virgilio nell'Eneide, nel famoso verso: "Sic volvere Parcas" ("Così filano le Parche").

     

     

     



    3. Zeus / Eurinome

      Eurinome, Oceanina figlia di Oceano e di Teti. Mangiare, pascolare, nutrirsi, questo è essere EURINOME, un fare divino anche dal punto di vista psichico: fagocitare! Il fagocitare è il fare proprio, non come possesso, ma come qualche cosa che diventa parte di te; indistinguibile da te; partecipe della tua Coscienza di Te! Questo fagocitare come fare divino, fra gli Esseri della Natura diventa il mangiare.

      Ha tre figlie, le tre CARITI rappresentano un potere incredibile nella vita degli Esseri Umani. Il loro farsi DEI li porta a sviluppare nei Sistemi Sociali umani, Quale la bellezza, ma anche la riconoscenza, il favore, il piacere e la gioia. La manifestazione di queste DEE negli Esseri della Natura li rende Radiosi (AGLAIA), Gioiosi (EUFROSINE) e Fiorenti (TALIA). A Roma le CARITI saranno identificate con le tre GRAZIE. La gioia e la ricchezza al seguito di APOLLO assieme alle MUSE.

      Nela Teogonia di Esiodo si narra:
      « [...]
      Ed Eurinóme, figlia d'Ocèano, dal fulgido aspetto,
      tre Grazie guancebelle gli diede: Eufrosíne, Talía
      vezzosa, Aglaia: quando guardavano, a loro dal ciglio
      stillava amor, che scioglie le pene: il lor guardo, un incanto.


     

     

     




    4. Zeus/DEMETRA
      DEMETRA, assieme a Gea e a Rea, era, venerata come Madre Terra; ma Gea figurava l'elemento delle forze primordiali, Rea figura la potenza generatrice della terra, mentre Demetra figura la divinità della terra coltivata, la dea del grano, dell'ordine costituito. Con il dono dell'agricoltura, base di civiltà per tutte le popolazioni, Demetra dà agli uomini anche le norme del vivere civile e, di conseguenza, le leggi. Demetra, figlia di Crono e di Rea era la madre di Persefone, avuta dal fratello Zeus.

      Proserpina (o Persefone)
        Persefone era la dea della vegetazione primaverile. Crebbe in Sicilia fino al giorno in cui Ade il signore dei morti, la rapì.
        Un giorno Persefone, mentre coglieva dei fiori con altre compagne si allontanò dal gruppo e all'improvviso la terra si aprì e dal profondo degli abissi apparve Ade, dio dell'oltretomba e signore dei morti che, col permesso di Zeus, la rapiva perché da tempo innamorato di lei. La portò negli inferi per sposarla ancora fanciulla contro la sua volontà.

        Demetra, accortasi che Persefone era scomparsa, per nove giorni corse per tutto il mondo alla ricerca della figlia sino alle più remote regioni della terra. Ma per quanto cercasse, non riusciva né a trovarla, né ad avere notizie del suo rapimento.

        All'alba del decimo giorno venne in suo aiuto Ecate, che aveva udito le urla disperate della fanciulla mentre veniva rapita ma non aveva fatto in tempo a vedere il volto del rapitore e suggerì pertanto a Demetra di chiedere ad Elios, il Sole. E così fu. Elios disse a Demetra che a rapire la figlia era stato Ade.

        Inutile descrivere la rabbia e l'angoscia di Demetra, tradita dalla sua stessa famiglia di olimpici. Demetra abbandonò l'Olimpo e per vendicarsi, decise che la terra non avrebbe più dato frutti ai mortali così la razza umana si sarebbe estinta nella carestia. In questo modo gli dei non avrebbero più potuto ricevere i sacrifici votivi degli uomini di cui erano tanto orgogliosi.

        La dea si mise quindi a vagare per il mondo per cercare di soffocare la sua disperazione, sorda ai lamenti degli dei e dei mortali che già assaporavano l'amaro gusto della carestia.

        Il suo pellegrinaggio la portò ad Eleusi, in Attica, sotto le spoglie di una vecchia, dove regnava il re Celeo con la sua sposa Metanira. Demetra fu accolta benevolmente nella loro casa e divenne la nutrice del figlio del re, Demofonte.

        Col tempo Demetra si affezionò al fanciullo che faceva crescere come un dio, nutrendolo, all'insaputa dei genitori, con la divina ambrosia, il nettare degli dei.
        Attraverso Demofonte la dea riusciva in questo modo a saziare il suo istinto materno, soffocando il dolore per la perduta figlia. Decise anche di donare a Demofonte l'immortalità e di renderlo pertanto simile ad un dio, ma, mentre era intenta a compiere i riti necessari, fu scoperta da Metanira, la madre di Demofonte. A quel punto Demetra, abbandonò le vesti di vecchia e si manifestò in tutta la sua divinità facendo risplendere la reggia della sua luce divina.

        Delusa dai mortali che non avevano gradito il dono che voleva fare a Demofonte, si rifugiò presso la sommità del monte Callicoro dove gli stessi Eleusini gli avevano nel frattempo edificato un tempio.

        Il dolore per la scomparsa della figlia, adesso che non c'era più Demofonte a distrarla, ricominciò a farsi sentire più forte che mai e a nulla valevano le suppliche dei mortali che nel frattempo venivano decimanti dalla carestia.
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        Alla fine Zeus, costretto a cedere alle suppliche dei mortali e degli stessi dei, inviò Ermes, il messaggero degli dei, nell'oltretomba da Ade, per ordinargli di rendere Persefone alla madre. Ade, inaspettatamente, non recriminò alla decisione di Zeus ma anzi esortò Persefone a fare ritorno dalla madre. L'inganno era in agguato. Infatti Ade, prima che la sua dolce sposa salisse sul cocchio di Ermes, fece mangiare a Persefone un frutto di melograno, compiendo in questo modo il prodigio che le avrebbe impedito di rimanere per sempre nel regno della luce.

        Persefone ignorava il trucco di Ade: chi mangia i frutti degli inferi è costretto a rimanervi per l'eternità. Secondo altre interpretazioni, il frutto che nel mito stabilisce il contatto con il regno dell'oltretomba non è il melograno ma, a causa delle sue virtù narcotiche e psicotrope, l'oppio, la cui capsula è peraltro straordinariamente simile (eccetto che per le dimensioni, più ridotte) al frutto del melograno.

        Grande fu la commozione di Demetra quando rivide la figlia ed in quello stesso istante, la terrà ritornò fertile ed il mondo riprese a godere dei suoi doni.

        Solo più tardi Demetra scoprì l'inganno teso da Ade: avendo Persefone mangiato il frutto di melograno nel regno dei morti, era costretta a farvi ritorno, ogni anno, per un lungo periodo.

        Con l'intervento di Zeus si giunse ad un accordo, per cui, visto che Persefone non aveva mangiato il frutto intero, sarebbe rimasta nell'oltretomba solo per un numero di mesi equivalente alla quantità del mezzo frutto da lei mangiato, potendo trascorrere con la madre il resto dell'anno. Così Persefone avrebbe trascorso sei mesi con il marito negli inferi e sei mesi con la madre sulla terra. Demetra allora accoglieva con gioia il periodico ritorno di Persefone sulla Terra, facendo rifiorire la natura in primavera ed in estate.

        Allora Demetra decretò che nei sei mesi che Persefone fosse stata nel regno dei morti, nel mondo sarebbe calato il freddo e la natura si sarebbe addormentata, dando origine all'autunno e all'inverno, mentre nei restanti sei mesi la terra sarebbe rifiorita, dando origine alla primavera e all'estate.

        Gli antichi adombrarono in questo mito riferimenti impliciti ai cicli della natura, delle stagioni, dei raccolti, in particolare ai frutti della terra che trascorrono parte dell'anno nascosti sotto la superficie per poi sbocciare e fruttificare. Questo era un mito che esaltava insieme il valore del matrimonio (sei mesi a fianco dello sposo), la fertilità della Natura (risveglio primaverile), la rinascita e il rinnovare la vita dopo la morte, motivi questi che rendevano la dea Persefone particolarmente popolare e venerata. A lei si sacrificavano vacche nere e sterili, il suo emblema è il papavero, e aveva la base del suo culto in Sicilia, in Beozia e ad Eleusi.

        A Persefone si sacrificavano giovenche nere e il suo emblema è il papavero. Aveva la base del suo culto in Sicilia, in Beozia, ad Eleusi, e in suo onore si eseguivano i giochi Tarentini che duravano tre giorni ed erano caratterizzati da un'eccessiva sfrenatezza. Era celebrata in Grecia con le feste Eleusine ed in Sicilia le Antesforie. Nella mitologia latina presiedeva alla crescita ed al germogliare delle messi. In suo onore si celebravano i giochi Tarentini che duravano tre giorni ed erano caratterizzati da un'eccessiva sfrenatezza.

        Testimonianze magno-greche del culto dedicato a Persefone sono oggi rappresentate dal notevole quantitativo di reperti rinvenuti nell'area di Reggio Calabria, soprattutto presso gli scavi di Locri Epizefiri dei quali uno smisurato numero di Pinakes (tavolette votive in terracotta) è custodito al Museo Nazionale della Magna Grecia di Reggio; mentre la magnifica "Statua di Persefone" esposta oggi al museo di Berlino, fu trafugata da Locri nel911 o da Taranto nel 1912, ed acquistata da un emissario del Kaiser di Prussia dopo aver migrato per Spagna e Francia. Un ulteriore testimonianza del culto di Persefone ci viene da Oria, dove fu presente ed attivo dal VI secolo a.C. fino all'età romana, un importante santuario (oggi sito presso Monte Papalucio), dedicato alle divinità Demetra e Persefone. Qui vi si svolgevano culti in grotta legati alla fertilità. Gli scavi archeologici svolti negli anni ottanta, infatti, hanno evidenziato numerosi resti composti di maialini (legati alle due divinità) e di melograno. Inoltre, a sottolineare l'importanza del santuario, sono state rinvenute monete di gran parte della Magna Grecia, e migliaia di vasi accumulatisi nel corso dei secoli come deposito votivo lungo il fianco della collina. Di particolare interesse sono alcuni vasetti miniaturistici ed alcune statuette raffiguranti colombe e maialini sacri alle due divinità cui era dedicato il luogo di culto. Altri esempi di ritrovamenti della Kore si hanno a Gela, una delle capitali della Magna Grecia. Diversi reperti sono custoditi presso il Museo Regionale di Gela, tra i più ricchi presenti nell'Isola.

        KORE
        Kore, altro nome di Proserpina, è l'archetipo della fanciulla, nata e cresciuta in un ambiente profondamente femminile, allegra e leggera, sempre positiva, in cui si accentua il lato sventato, di giovine imprevidente: la donna Persefone è distratta, svagata, poetica. è attratta da Ade, il lato oscuro degli uomini, e di lui ha bisogno, ma necessita di tornare periodicamente dalla madre, in quella primavera della quale si nutre da sempre: è di solito una casa ricca di affetti, di cose, di cultura femminile, che le impediscono di crescere veramente. Ade è costretto ad aspettarla pazientemente, ma sa che tornerà. Per questi motivi Persefone è considerata la dea della vegetazione primaverile ma anche una divinità lunare per la coincidenza della sua "comparsa - scomparsa" con le fasi della luna.



     

     

     




    5. Zeus/MNEMOSINE
      Mnemosine è la personificazione della memoria (e secondo altre fonti anche del canto e della danza), titanide, figlia di Urano (il Cielo) e Gea (la Terra).
      Dopo la sconfitta dei Titani gli dei chiesero a Zeus di creare un gruppo di divinità che cantassero la vittoria. Mnemosine fu amata da Zeus il quale le si presentò sotto forma di pastore. Giacquero insieme per nove notti sui monti della Pieria e dopo un anno nacquero nove figlie: le Muse. Le Muse furono rese responsabili di ispirare canti funebri, la poesia, il dramma e la danza...per questa ragione è solito che gli artisti invochino la protezione e l'ispirazione delle Muse. Compaiono spesso associate alla compagnia di Apollo e Pegaso. Saffo fu considerata da molti essere la decima Musa. La nostra parola "museum" deriva dal termine"museion" che è il tempio dedicato alle Muse; e anche Musica.

      Le genealogie differiscono, ma tutte evidentemente si ricollegano, più o meno indirettamente, a concezioni filosofiche sul primato delle musica nell'Universo; le Muse infatti presiedono al pensiero in tutte le sue forme: eloquenza, persuasione, saggezza, storia, matematica, astronomia.

      A partire dall'epoca classica il numero nove s'è imposto e ciascuna, a poco a poco, ha ricevuto una determinata funzione, d'altronde variabile secondo gli autori; si ammette in genere la lista seguente: Calliope - poesia epica, Polimnia - pantomima, Euterpe - flauto, Tersicore - danza, Erato - lirica corale, Melpomene - tragedia, Talia - commedia, Urania - astronomia, Clio - storia.

        CLIO
          è la celebrazione. CLIO sono le storie della vita. Le storie della specie. Le storie delle trasformazioni dei Sistemi Sociali. Raccontare cosa fu il passato per conoscere i meccanismi attraverso i quali costruire il futuro. Quante cose sono dimenticate nella memoria degli Esseri Umani ma non sono perdute. Ogni cosa ha partecipato a costruire quello che noi siamo. Ogni cosa è dentro di noi e ci circonda. Un ululato di un lupo, un'umana imprecazione, il canto di una civetta. Nulla è andato perduto. Tutto è manipolazione di quanto esiste e manifestazione di quanto è esistito. Ricorda e celebra! Celebra e segui le orme e gli insegnamenti di chi ha costruito un'esperienza.

        EUTERPE
          è la MUSA della musica strumentale.
          E' un altro "canale di passione" generato nell'Essere Umano per la musica auletica. La musica del flauto. EUTERPE è la trasformazione di un Essere Umano nel divino, che usando uno strumento, un oggetto, per costruire armonie riesce ad entrare in relazione con le armonie dell'universo. EUTERPE è la trasformazione dell'Essere Umano per entrare in sintonia con l'oggetto che suona e poi con i suoni dell'universo. Se al tempo di Esiodo questo strumento era il flauto, oggi come oggi gli strumenti sono numerosi.

        TALIA
          la  MUSA, perché c'e anche una CARITE (una Grazia).
          Un altro "canale di passione" è la Musa TALIA. La passione per la vita intesa come una commedia che deve essere recitata sul palcoscenico del mondo. Una recitazione che impegna chi la esegue al punto tale da co|||| propria personalità a cambiare d'umore e di emozione a seconda del personaggio che intende recitare o della situazione che si appresta a rappresentare.

          TALIA la manifestazione della Follia Controllata nell'Essere Umano attraverso la quale costui affronta il mondo, gli spettatori del mondo. Reagisce nei confronti dei fenomeni percepiti che gli arrivano dal mondo. Un Essere Umano che decide come deve rappresentarsi. Quando deve rappresentarsi. Un Essere Umano che sceglie di organizzare la propria apparenza in funzione del raggiungimento di uno scopo nei confronti degli spettatori. E ride TALIA! La sua comicità è arte della rappresentazione. E' la sua Follia davanti alla quale lo spettatore altro non fa che ridere, divertirsi: quanto è sciocca TALIA! Quanto è immenso il suo progetto di vita; quanto è serio! Quanto è sciocco lo spettatore: costruisce il suo giudizio guardando TALIA anziché pescarlo dal proprio cuore! E TALIA fa ridere lo spettatore. Nel farlo ridere nasconde la fierezza, la determinazione e la durezza del proprio progetto.

        MELPOMENE
          è come TALIA! Se TALIA presenta il lato allegro e comico col quale nasconde la propria determinazione e il proprio progetto di vita, MELPOMENE presenta la sua disperazione, la sua tragedia con cui nascondere il proprio progetto di vita. TALIA fa ridere lo spettatore; MELPOMENE lo fa piangere! Due modi diversi attraverso i quali rappresentare la follia controllata degli Esseri Umani. Due modi diversi per rappresentare le umane passioni con cui nascondere i progetti attraverso i quali affrontare la vita. MELPOMENE costringe lo spettatore a vivere delle sue stesse passioni e delle sue stesse traversie. Lo costringe ad essere partecipe. Costringe l'attenzione dello spettatore ad adeguarsi alla sua storia.

        TERSICORE
           è la danza. Provate ad addestrarvi a danzare: Rappresentare l'universo attraverso il fluire delle movenze. La trasformazione soggettiva che comporta. L'uso dell'Attenzione che ciò implica. La manipolazione della propria soggettività attraverso la quale devono fluire le rappresentazioni della vita, dei sentimenti, delle emozioni che dal mondo arrivano al soggetto che danza e che questo ritrasmette al mondo che lo guarda. Danzare significa rappresentare. Rappresentare quei fenomeni e quelle tensioni che hanno inciso i propri sentimenti attraversando la propria attenzione.

          L'individuo che danza manipola sé stesso.
          All'inizio è una manipolazione dell'azione fisica, ma a mano a mano che questa procede diventa manipolazione delle sue emozioni, dei suoi sentimenti della sua percezione del mondo. La direzione del suo sentire sarà soltanto sua, come soltanto sua sarà la rappresentazione del mondo, ma lui la trasmette. Lui prende il suo sentire e costruisce una rappresentazione che dona agli Esseri della propria specie. Non è il sentire che gira vuoto nella vita, ma è il sentire che viene rappresentato attraverso la manipolazione della soggettività dell'attore.

        ERATO
          è un canale di passione proprio degli Esseri della Natura attraverso il quale si manifesta AFRODITE. E' il canto armonioso, la passione dell'amore e il travolgere delle emozioni che attraversano gli Esseri figli di ERA. Quando le passioni amorose travolgono gli Esseri, ogni prescrizione, ogni tabù imposto dalla ragione crolla! Si rimescola l'Energia Vitale e si sfondano i confini posti dalla ragione. Nuovi fenomeni, nuovi giudizi si formano negli Esseri Umani, tutto cambia: la ragione stessa!

          Gli DEI TITANI posero dei fondamenti nell'universo e ZEUS genera i canali di passione per i figli di ERA affinché non rimanessero prigionieri di tristi e grigi confini. Attraverso quei canali di passione i figli di ERA possono muovere i loro passi e la passione amorosa è calata tanto profondamente negli Esseri figli di ERA da rappresentare l'attività emozionale primaria sulla quale si innestano tutte le altre passioni.

          ERATO è il canto d'amore. Il canto di passione di ogni Essere che si fonde con la vita. ERATO vive di questa passione; ERATO è questa passione; ERATO alimenta questa passione.

        POLIMNIA
          è un "canale di passione" molto legato agli Esseri Umani. Le passioni POLIMNIA le esprime con le parole e la mimica. Parole e mimica che necessitano di altrettanta disciplina che per suonare uno strumento o per danzare esprimendo sentimenti, sensazioni ed emozioni. Parole che travolgono, parole che offendono, parole che coinvolgono, parole che affascinano! Gesti! Gesti di offerta, gesti di rabbia, gesti cortesi e gesti di passione.

          Sembra quasi normale POLIMNIA nelle azioni degli Esseri Umani, nel loro corrugare la fronte o farsi scuotere da riso irrefrenabile. Passione che esce dai gesti, passione che si esprime con le parole davanti ad un uditorio che deve essere coinvolto, travolto, appassionato oppure indignato e rabbioso!

          Per far questo, per ottenere questo risultato è necessario essere coinvolti! Non si tratta della Follia Controllata di TALIA né di quella di MELPOMENE; si tratta di una piccola pietra che si mette in moto generando una valanga.

          TALIA e MELPOMENE nascondono l'intento allo spettatore. L'attore crea l'inganno per giungere al proprio INTENTO. Si tratta dell'arte della rappresentazione sul palcoscenico della vita. Lo spettatore ride e piange, si diverte e si commuove, ma rimane uno spettatore al di là della rappresentazione dell'attore. L'attore mantiene le distanze dallo spettatore: io sono colui che agisce! Lo spettatore assiste.

          POLIMNIA non divide gli Esseri in attivi e passivi, ma fra chi la manifesta e chi ancora non la manifesta, ma deve essere chiamato a manifestarla. L'arte di POLIMNIA è quella di mettere in moto gli Esseri Umani. "Alle armi, difendiamo la patria!"

          C'è una POLIMNIA che percepisce le emozioni del mondo e le trasmette risvegliando la POLIMNIA in ogni Essere che assiste alla sua rappresentazione

        URANIA
          Quanto è piacevole guardare il cielo stellato; quante emozioni! Il cielo stellato è in grado di dare all'Essere Umano, il senso dell'INFINITO in cui è immerso.

          Che grande "canale di passione" è URANIA! Figlia di ZEUS e calata negli Esseri Umani affinché non perdano il contatto con l'INFINITO dal quale sono emersi: URANO STELLATO! Quante notti gli Esseri Umani hanno trascorso ammirando il mondo sopra la loro testa. Un mondo sempre vario che hanno descritto e popolato di Esseri fantastici. La loro fantasia ha tentato di mettere ordine in un INFINITO nel quale il loro sentimento e le loro emozioni si perdono. Per loro "fortuna" la ragione ha ritagliato lo spazio della descrizione altrimenti l'Essere Umano avrebbe rincorso ogni voce e ogni sussurro che da quell'immenso sarebbe giunto a lui senza la possibilità di costruire la disciplina del proprio sentire. Senza la possibilità di costruire la propria esistenza! "Fortuna"? No! Necessità! L'Essere Umano è divenuto in questo modo perché quelle erano le condizioni e ZEUS poteva ritagliare delle condizioni nell'insieme in cui esisteva.

          Gli Esseri della Natura separati dall'INFINITO per fondare la propria Coscienza di Sé. Nello stesso tempo attori nell'INFINITO legati da un "canale di Passione" che permette loro di anelare alla LIBERTA' intesa come movimento in spazi senza confini.

          URANIA è un sussurro dell'immenso. Un immenso nel quale Esseri Umani si sono immersi tentando di mettere ordine. Descrivendo e catalogando, ma sempre in quell'immenso facevano correre la loro fantasia. Sempre in quell'immenso facevano rifugiare i propri desideri e, quando questi prendevano forma, erano sempre pregnati del Potere dell'Immenso che alimentava il sentire e la determinazione degli Esseri che a quell'immenso anelavano.

        CALLIOPE
          Esiodo dice: "e Calliope, che è la più illustre di tutte!".
          La MUSA che esprimo è la più importante di tutte in quanto io la esprimo. Se io esprimessi una diversa o diverse MUSE queste sarebbero le più importanti. Lo sono perché attraverso quei canali di passione costruisco il mio cammino nell'infinito. Altri cammini, altri "canali di passione" mi sono sconosciuti. Non li conosco, non li alimento, loro mi ignorano! E' più illustre perché quella si esprime attraverso il mio fare e il mio esistere.

          Quante gesta e quante storie racconta CALLIOPE. Storie epiche in cui gli Esseri Umani dettero l'assalto al cielo della conoscenza e della consapevolezza. Grandi Eroi e grandi DEI hanno alimentato CALLIOPE che tramandandone le gesta ha mantenuto un "canale di passione" vivo e attento nella ragione dell'Essere Umano e del grigiore della vita alla quale spesso è costretto. Certo, mi alzo al mattino per lavorare, ma ERCOLE ha compiuto le sue fatiche ed è diventato un DIO. Certo guardo le mani distrutte dal lavoro o la noia del quotidiano, ma CRONOS ha tagliato i genitali di URANO STELLATO e ZEUS ha abbattuto CRONOS e lottato contro i TITANI. Certo è dura spaccare la terra, ma in un maggese tre volte arato, DEMETRA a GIASONE generò PLUTO, la tensione alla ricchezza e al benessere!

          In ognuna delle storie che CALLIOPE ricorda e racconta ci sono io! C'è ogni Essere Umano che le ascolta. C'è la sua identificazione con l'eroe. C'è il suo sogno del balzo nell'infinito. Il suo sogno di uscita dal quotidiano. Il suo sogno di eternità!

        CONCLUDENDO

        Le MUSE sono delle Coscienze di Sé che generatesi da ZEUS mantengono aperta la comunicazione fra gli Esseri circoscritti nella ragione e l'infinito circostante. Vivere le MUSE (e quant'altre MUSE che non conosciamo) consente agli Esseri figli di ZEUS ed ERA di percorrere il sentiero virtuoso della costruzione del proprio corpo luminoso e di bussare alle porte dell'OLIMPO rivendicando il riconoscimento di sé stessi in quanto DEI.




     

     

     




    6. Zeus/LETO (Latona)

      Latona nacque dai titani Febe e Ceo, possedeva i poteri del progresso tecnologico e vegliava sulla tecnologia e sui fabbri. I suoi poteri erano molto simili a quelli di Efesto (Vulcano). Generò da Zeus i gemelli Apollo e Artemide cacciatrice, personificazione della luna.

      Leto, a causa di una maledizione lanciatale dalla moglie di Zeus, Era, di cui il Dio temeva le ire e la gelosia, non trovò ospitalità da nessuno, anzi inseguita dal serpente Pitone,  per poter mettere al mondo i due bambini fu costretta a  vagare per il Mar Egeo in cerca di un luogo che non avesse mai visto la luce del sole: per questo motivo Zeus fece emergere dal mare un'isola fino ad allora sommersa che, di conseguenza, il sole non aveva ancora toccato. Si trattava dell'isola di Delo (Ortigia nel Mar Egeo) e Leto vi partorì aggrappata ad una palma sacra.
      Altri miti riportano che la vendicativa Era, pur di impedirne la nascita, giunse a rapire Ilizia, dea del parto. Solo l'intervento degli altri déi, che offrirono alla regina dell'Olimpo una collana di ambra lunga nove metri, riuscì a convincere Era a desistere dal suo intento.
      Artemide nacque per prima, dopo soli sei mesi di gestazione ed aiutò poi la madre a dare alla luce Apollo che nacque invece il settimo mese.
      Partoriti Apollo e Diana, Latona in segno di gratitudine fissò l'isola a quattro pilastri emergenti dal fondo marino per darle stabilità. I figli di Latona in seguito uccisero il serpente, sul monte Parnaso, per vendicarsi delle sofferenze inflitte alla madre.

      Artemide (Diana),
        Nella mitologia greca, è una figura molto complessa.
        Come Apollo è il dio del sole, Artemide è la dea della luna. E' anche identificata più comunemente come la dea della caccia che armata di arco e di frecce, seguita dal suo corteo di ninfe, corre per monti e praterie alla ricerca di selvaggina non risparmiando i coraggiosi che osano sfidarla.

        Era, per sua espressa richiesta, vergine ma era adorata anche come dea del parto e della fertilità perché si diceva avesse aiutato la madre a partorire il fratello Apollo.  Nei secoli Artemide/Diana,Ecate e Selene/Luna divennero una triade lunare contemplata nel (neo)paganesimo,nell'esoterismo e nella wicca.

        In Arcadia era considerata la progenitrice del popolo e venerata come Agròtera (dea della natura selvaggia), ma era adorata e celebrata allo stesso modo in quasi tutte le zone della Grecia. I più importanti luoghi di culto a lei dedicati si trovavano a Delo (sua isola natale), Braurone, Munichia (su una collina nei pressi del Pireo) ed a Sparta.

        Nella Ionia, la "Signora di Efeso", una dea che viene identificata con Artemide, era oggetto di uno dei culti più importanti,  infatti questa divinità era considerata la protettrice della natura ed il suo culto era tanto forte e radicato che rimase fin agli inizi dell'era cristiana. Il Tempio di Artemide ad Efeso, una delle sette meraviglie del mondo, fu probabilmente il più conosciuto centro dedicato al suo culto all'infuori di Delo. Negli Atti degli apostoli i fabbri efesini , quando sentono la loro fede minacciata dalla predicazione di Paolo, si levano a difenderla con fervore gridando: "Grande è Artemide degli efesini!!".

        Le fanciulle ateniesi di età compresa tra i cinque e dieci anni venivano mandate al santuario di Artemide a Braurone per servire la dea per un anno: durante questo periodo le ragazze erano conosciute come "arktoi" (orsette). Una leggenda spiega le ragioni di questo periodo di servitù narrando che un orso aveva preso l'abitudine di entrare nella cittadina di Braurone e la gente aveva cominciato a nutrirlo, in modo che in breve tempo l'animale era diventato docile ed addomesticato. Una giovinetta prese ad infastidire l'orso che, secondo una versione la uccise, secondo un'altra le strappò gli occhi. Ad ogni modo il fratello della ragazza uccise l'orso, Artemide andò per questo in collera e pretese che le ragazze prendessero il posto dell'orso nel suo santuario come riparazione per la morte dell'animale.

        Le più antiche rappresentazioni di Artemide nell'arte greca dell'età arcaica la ritraggono come "Potnia Theron" (La regina degli animali selvatici): una dea alata che tiene in mano un cervo e un leopardo, qualche volta un leone e un leopardo. Nell'arte classica greca era abitualmente ritratta come vergine cacciatrice , con una corta gonna, gli stivali da caccia, la faretra con le frecce d'argento ed un arco. Spesso è ritratta mentre sta scoccando una freccia e insieme a lei vi sono o un cane o un cervo. Gli attributi caratteristici della dea variano spesso: l'arco e le frecce sono talvolta sostituiti da delle lance da caccia. Vi sono rappresentazioni di Artemide vista anche come dea delle danze delle fanciulle, ed in questo caso tiene in mano una lira, oppure come dea della luce mentre stringe in mano due torce accese e fiammeggianti.

        Solo nel periodo post-classico si possono trovare rappresentazioni di un'Artemide che porta la corona lunare, simbolo della sua identificazione con la dea Luna, mentre nei tempi più antichi, sebbene questa identificazione fosse già presente, questo tipo di iconografia non fu mai usata.

        L'infanzia di Artemide non è raccontata da alcun mito giunto fino a noi, ma un poema di Callimaco – "la dea che si diverte usando l'arco sulle montagne" – ne riporta un suggestivo aneddoto. Giunta all'età di tre anni Artemide, sedendo sulle ginocchia del re degli dei, chiese al padre Zeus di far avverare alcuni suoi desideri: per prima cosa chiese di restare per sempre vergine, poi di non dover mai sposarsi e di avere sempre a disposizione cani da caccia con le orecchie basse, cervi che tirassero il suo carro e ninfe come compagne di caccia ("sessanta fanciulle danzanti, figlie di Oceano, tutte di nove anni, tutte piccole ninfe di mare"). Il padre la assecondò e realizzò i suoi desideri.  Tutte le sue compagne rimasero così vergini ed Artemide vigilò strettamente sulla loro castità.

        Atteone:
        Un giorno Artemide stava facendo il bagno nuda in una valle sul monte Citerone quando arrivò il principe tebano Atteone, che stava andando a caccia. Si fermò a guardarla, affascinato dalla sua incantevole bellezza, e ne fu talmente incantato che, senza accorgersene, calpestò un ramo e per il rumore Artemide si accorse di lui. Restò così disgustata dal suo sguardo fisso sul suo corpo nudo che decise di lanciargli addosso dell'acqua magica e trasformarlo in un cervo: in questo modo i suoi cani, scambiandolo per una preda, lo uccisero sbranandolo. Una versione alternativa della storia narra che Atteone si fosse vantato di essere un cacciatore migliore di lei e che quindi la dea lo trasformò in cervo, facendolo divorare per vendetta.

        Adone:
        Secondo alcune versioni della leggenda di Adone, Artemide mandò un cinghiale selvaggio ad uccidere il giovane per punirlo per essersi vantato di essere un cacciatore migliore della dea. Secondo altre, invece, Adone era uno degli amanti di Afrodite, così Artemide lo uccise per rendere la pariglia ad Afrodite per la morte di Ippolito, uno dei suoi favoriti.

        Callisto:
        Una delle ninfe compagne di Artemide, Callisto, perse la verginità per mano di Zeus, che andò da lei trasformato in Apollo o, secondo altre versioni, in Artemide stessa: infuriata, la dea la trasformò in un'orsa. Il figlio di Callisto, Arcade, per poco non uccise la madre durante una battuta di caccia, ma fu fermato da Zeus che li pose entrambi nel cielo sotto forma di costellazioni, l'Orsa maggiore e l'Orsa Minore. Altre versioni riportano invece che Artemide uccise l'orsa con una freccia.

        Ifigenia e Artemide a Tauride:
        Artemide volle punire Agamennone per aver ucciso un cervo sacro oppure, secondo un'altra versione, per essersi vantato di essere un cacciatore migliore di lei. Quando la flotta greca si stava preparando per salpare verso Troia per portare la guerra, Artemide fece sparire il vento. L'indovino Tiresia disse ad Agamennone che l'unico modo per placare la dea era sacrificare sua figlia Ifigenia. Quando il re era sul punto di farlo, Artemide la portò via dall'altare e la sostituì con un cervo. La fanciulla fu trasportata in Crimea e nominata sacerdotessa del tempio della dea a Tauride, nel quale le venivano offerti come sacrifici umani gli stranieri. In seguito suo fratello Oreste la riportò in Grecia dove, in Laconia, istituì il culto di Artemide Tauridea. Secondo le cronache spartane il legislatore Licurgo sostituì l'usanza del sacrificio umano con la flagellazione.


        Niobe:
        Niobe, regina di Tebe e moglie di Anfione, si vantò di essere migliore di Latona perché mentre lei aveva avuto4 figli, sette maschi e sette femmine (niobidi), Latona ne aveva avuti soltanto due. Quando Artemide e Apollo vennero a saperlo si affrettarono a vendicarsi: usando delle frecce avvelenate, Apollo le uccise i figli mentre stavano facendo ginnastica, badando che soffrissero molto prima di morire, mentre Artemide colpì le figlie, che si accasciarono all'istante senza un lamento. Anfione, vedendo i suoi figli morti, decise di togliersi a sua volta la vita. Niobe, distrutta, quando iniziò a piangere fu trasformata in pietra da Artemide. Secondo alcune versioni della leggenda fu scagliata in qualche luogo sperduto del deserto egiziano. Un'altra sostiene che le sue lacrime formarono il fiume Acheloo. Dato che Zeus aveva trasformato in statue tutti gli abitanti di Tebe, nessuno seppellì i Niobidi per nove giorni, perciò furono gli dei stessi a provvedere a calarli nella tomba.

        Taigete:
        Taigete, una delle Pleiadi, era una delle compagne di caccia di Artemide. Quando si accorse che Zeus tentava con insistenza di insidiarla, la ninfa pregò Artemide di aiutarla e la dea la trasformò in una cerva. Zeus però la possedette ugualmente mentre si trovava in stato di incoscienza, e dall'unione nacque Lacedemone il mitico fondatore di Sparta.

        Oto
        ed Efialte
        Oto ed Efialte erano due fratelli giganti che un giorno decisero di assaltare il Monte Olimpo e riuscirono a rapire Ares ed a tenerlo richiuso in un grosso vaso per tredici mesi. Artemide si trasformò in un cervo e si mise a correre tra di loro: I due giganti, per non farsela sfuggire dato che erano esperti cacciatori, le lanciarono contro le loro lance, ma finirono per uccidersi l'un l'altro.

        Le Meleagridi:
        Dopo la morte di Meleagro, Artemide trasformò le sue inconsolabili sorelle, le Meleagridi in galline faraone.


        Atalanta ed Eneo:
        Artemide salvò la piccola Atalanta dalla morte per assideramento, dopo che suo padre l'aveva abbandonata, mandando da lei un'orsa che la allattò finché non venne raggiunta da alcuni cacciatori. Tra le sue avventure, Atalanta partecipò alla caccia del Cinghiale Calidonio che Artemide aveva mandato per distruggere Calidone, dato che il re Eneo si era dimenticato di lei durante i sacrifici per celebrare il raccolto.

        La guerra di Troia:
        Durante la decennale guerra, Artemide si schierò dalla parte dei troiani contro i Greci. Si azzuffò con Era quando i divini alleati delle due parti si scontrarono tra loro: Era la colpì sulle orecchie con la sua stessa faretra e le frecce caddero a terra mentre Artemide fuggì da Zeus piangendo. Pare che Artemide sia stata rappresentata come sostenitrice della causa troiana sia perché il fratello Apollo era il protettore della città, sia perché essa stessa nell'antichità era molto venerata nelle zone dell'Anatolia occidentale.

        Mitopsicologia:
        L'esegesi psicologica del mito di Artemide descrive un archetipo femminile caratterizzato da un forte spirito d'indipendenza dall'uomo e da una forte solidarietà col mondo delle altre donne.
        è un femminile caratteristico dell'età moderna, dalle letterate e artiste del primo Novecento all'esperienza femminista e oltre.

        In molte rappresentazioni pittoriche e in letteratura, Diana cacciatrice - la cui grazia femminile del corpo contrasta decisamente con l'aspetto fiero e quasi virile del viso - viene spesso raffigurata con arco e frecce. Di figura atletica e longilinea, ha i capelli raccolti dietro il capo e indossa vesti semplici quasi a sottolineare una natura dinamica se non addirittura androgina.

        Diana italica
        Diana , latina e romana, è signora delle selve, protettrice degli animali selvatici, custode delle fonti e dei torrenti, protettrice delle donne, cui assicurava parti non dolorosi, e dispensatrice della sovranità. Più tardi fu assimilata alla dea greca Artemide assumendone le stesse caratteristiche di vergine dea della caccia, irascibile quanto vendicativa, e l'accostamento alla Luna

        Il principale luogo di culto di Diana si trovava presso il piccolo lago laziale di Nemi, sui colli Albani, e il bosco che lo circondava era detto nemus aricinum per la vicinanza con la città di Ariccia. Il santuario di Ariccia potrebbe essere stato il nuovo santuario federale dei latini dopo la caduta di Alba Longa. Ciò è desumibile da quanto riportato da Catone il Censore nelle Origines, cioè che il dittatore tusculano Manio Egerio Bebio officiò una cerimonia comunitaria nel nemus aricinum insieme ai rappresentanti delle altre principali comunità latine dell'epoca (Ariccia, Lanuvio, Laurentum, Cora, Tibur, Pometia, Ardea e i Rutuli).

        In seguito Servio Tullio fonda il nuovo tempio di Diana sull'Aventino e lì sposta il centro del culto federale con il consenso dell'aristocrazia latina.

        Altri santuari erano situati nei territori del Lazio antico e della Campania: il colle di Corne, presso Tusculum, dove è chiamata con il nome latino arcaico di deva Cornisca e dove esisteva un collegio di cultori della dea come attesta un'iscrizione ritrovata presso Tuscolo e dedicata ai Mani di Giulio Severino patrono del collegio; il monte Algido, sempre presso Tuscolo; a Lanuvio, dove è festeggiata alle idi (13) di agosto dal Collegio Salutare di Diana e Antinoo; a Tivoli, dove è chiamata Diana Opifera Nemorens; un bosco sacro citato da Tito Livio ad compitum Anagninum, cioè all'incrocio fra la via Labicana e la via Latina, presso Anagni, e del quale nel settembre 2007 si è parlato del possibile ritrovamento dei suoi resti; il monte Tifata, presso Capua.

      Apollo (Febo)
        Abbandonata da Giove alla furia vendicativa di Giunone, Leto andava cercando disperatamente un luogo dove potesse dare alla luce il bambino che portava in seno, figlio di Giove. Giunone proibì alla Madre Terra di offrire ospitalità a Leto e mandò a perseguitarla un mostruoso serpente, Pitone. Da ultimo Leto mise al mondo un figlio e una figlia sulla fluttuante isola di Delo.
        Apollo venne allevato nel paese degli Iperborei e diventò un bravissimo arciere.
        Poco più che bambino si cimentò nell'impresa di uccidere il drago ctonio Pitone, reo di aver tentato di stuprare Leto mentre questa era incinta del dio, e che come ricompensa aveva ricevuto l'incarico, da Rea, di guardiano del sacro speco a Delfi. Apollo lo uccise presso la sua tana, situata nei pressi della fonte castalia nei pressi di Delfi, città dove sarebbe poi sorto l'oracolo a lui dedicato. Per commemorare l'uccisione da lui compiuta del mostro, Apollo istituì i Giochi Pitici, che culminavano in una gara di corsa da Delfi alla Tessaglia. Altro che Maratona!

        Apollo è il dio delle arti, della medicina, della musica e della profezia; in seguito fu venerato anche nella religione romana.

        Era patrono della poesia, in quanto capo delle Muse, e viene anche descritto come un provetto arciere in grado di infliggere, con la sua arma, terribili pestilenze ai popoli che lo contrariavano. In quanto protettore della città e del tempio di Delfi, Apollo era anche venerato come dio oracolare, capace di svelare, tramite la sacerdotessa chiamata Pizia o Pitonessa, il futuro agli esseri umani. Per questo, era adorato nell'antichità come uno degli dèi più importanti del Dodekatheon.
        Nella tarda antichità greca Apollo usurpò il posto di Elio, dio del Sole. Preceduto dalla sua assistente Aurora (Eos), Elio conduceva ogni giorno il cocchio solare dal suo splendido palazzo di oriente al lontano mare in occidente. Dopo aver fatto pascolare i suoi cavalli nelle Isole Fortunate, Elio ritornava alla base seguendo il fiume Oceano che circondava il mondo. A causa della somiglianza fra i loro attributi, e per la giovanile bellezza di entrambi, Elio venne identificato con Apollo, e i loro miti si fusero.
        Un simile "passaggio di consegne" avvenne anche presso i Romani, in quanto, a partire dalla tarda età Repubblicana, Apollo divenne "alter ego" del Sol Invictus, una delle più importanti divinità romane. In ogni caso, almeno presso i Greci Apollo ed Elios rimasero entità separate e distinte, almeno nei testi letterari e mitologici dell'epoca.


        Erano ben due le città che si contendevano il titolo di luoghi di culto principali del dio: Delfi, sede del già citato oracolo, e Delo. L'importanza attribuita al dio è testimoniata anche da nomi teoforici come Apollonio o Apollodoro, comuni nell'antica Grecia, e dalle molte città che portavano il nome di Apollonia. Il dio delle arti veniva inoltre adorato in numerosi siti di culto sparsi, oltre che sul territorio greco, anche nelle colonie disseminate sulle rive africane del Mediterraneo, nell'esapoli dorica in Caria, in Sicilia e in Magna Grecia.

        Suoi attributi tipici erano l'arco e la cetra. Altro suo emblema caratteristico è il tripode sacrificale, simbolo dei suoi poteri profetici. Animali sacri al dio erano i cigni (simbolo di bellezza), i lupi, le cicale (a simboleggiare la musica e il canto), e ancora falchi, corvi e serpenti, questi ultimi con riferimento ai suoi poteri oracolari. Altro simbolo di Apollo è il grifone, animale mitologico di lontana origine orientale.

        Come molti altri déi greci, Apollo possedeva numerosi epiteti, atti a riflettere i diversi ruoli, poteri e aspetti della personalità del dio stesso. Il titolo di gran lunga maggiormente attributo ad Apollo (e spesso condiviso dalla sorella Artemide) era quello di Febo, letteralmente "splendente" o "lucente", riferito sia alla sua bellezza sia al suo legame con il sole (o con la luna nel caso di Artemide). Quest'appellativo venne mutuato e utilizzato anche dai romani.



        Dafne
        figlia e sacerdotessa di Gea, la Madre Terra e del fiume Peneo (o secondo altri del fiume Lacone), era una giovane ninfa che viveva serena passando il suo tempo a deliziarsi della quiete dei boschi e del piacere della caccia la cui vita fu stravolta a causa del capriccio di due divinità: Apollo ed Eros. Racconta infatti la leggenda che un giorno Apollo, fiero di avere ucciso a colpi di freccia il gigantesco serpente Pitone alla tenera età di quattro giorni, incontra Eros che era intendo a forgiare un nuovo arco e si burlò di lui, del fatto che non avesse mai compiuto delle azioni degne di gloria.

        Il dio dell'amore, profondamente ferito dalle parole di Apollo, volò in cima al monte Parnaso e lì preparò la sua vendetta: prese due frecce, una spuntata e di piombo, destinata a respingere l'amore, che lanciò nel cuore di Dafne ed un'altra ben acuminata e dorata, destinata a far nascere la passione, che scagliò con violenza nel cuore di Apollo.

        Da quel giorno Apollo iniziò a vagare disperatamente per i boschi alla ricerca della ninfa, perchè era talmente grande la passione che ardeva nel suo cuore che ogni minuto lontano da lei era una tremenda sofferenza. Alla fine riuscì a trovarla ma Dafne appena lo vide, scappò impaurita e a nulla valsero le suppliche del dio che gridava il suo amore e le sue origini divine per cercare di impressionare la giovane fanciulla.

        Dafne, terrorizzata, scappava tra i boschi. Accortasi però che la sua corsa era vana, in quanto Apollo la incalzava sempre più da vicino, invocò la Madre Terra di aiutarla e questa, impietosita dalle richieste della figlia, inziò a rallentare la sua corsa fino a fermarla e contemporaneamente a trasformare il suo corpo: i suoi capelli si mutarono in rami ricchi di foglie; le sue braccia si sollevarono verso il cielo diventando flessibili rami; il suo corpo sinuoso si ricoprì di tenera corteccia; i suoi delicati piedi si tramutarono in robuste radici ed il suo delicato volto svaniva tra le fronde dell'albero.

        Dafne si era trasformata in un leggiadro e forte albero che prese il nome di LAURO (In greco dafnos vuol dire lauro).

        La trasformazione era avvenuta sotto gli occhi di Apollo che disperato, abbracciava il tronco nella speranza di riuscire a ritrovare la dolce Dafne.

        Scrive Ovidio nelle Metamorfosi (I, 555-559): "Apollo l'ama, e abbraccia la pianta come se fosse il corpo della ninfa; ne bacia i rami, ma l'albero sembra ribellarsi a quei baci. Allora il dio deluso così le dice:"Poichè tu non puoi essere mia sposa, sarai almeno l'albero mio: di te sempre, o lauro, saranno ornati i miei capelli, la mia cetra, la mia faretra".

        Il dio quindi proclamò a gran voce che la pianta dell'alloro sarebbe stata sacra al suo culto e segno di gloria da porsi sul capo dei vincitori.

        Così ancor oggi, in ricordo di Dafne, si è solito cingere il capo di coloro che compiono imprese memorabili, con una corona di alloro.


        Giacinto
        Esiste anche un fiore che è legato a una disavventura di Apollo egli amava un bel giovinetto di nome Giacinto, ch'era ardentemente bramato pure da Zeffiro, dio del vento occidentale. Apollo e il ragazzo stavano giocando al lancio del disco ad Amiclae, presso Sparta, allorché Zefiro soffiò così violentemente sul disco di Apollo da mandarlo a finire addosso a Giacinto, che ne rimase mortalmente ferito. Le gocce del suo sangue furono cangiate in fiori che presero il suo nome.

        Apollo e Pan
        Apollo ebbe una sfida musicale con il dio Pan, che aveva avuto l'ardire di affermare di essere più bravo del dio a suonare. Il giudice della contesa fu Tmolo, dio di una montagna omonima in Lidia; esso rimase incantato quando Pan suonò il suo strumento, incoraggiato dal sostegno del suo buon amico Mida, ma appena Apollo sfiorò le corde della sua lira, Tmolo non poté che dichiarare il dio vincitore della gara. Mida protestò vivamente per questa decisione, e arrivò a mettere in dubbio l'imparzialità dell'arbitro. Apollo, offeso, trasformò le orecchie dell'irrispettoso umano in orecchie d'asino.

        Apollo e Admeto
        Quando Zeus uccise Asclepio, figlio di Apollo, come punizione per aver osato resuscitare i morti con il suo talento medico, il dio per vendetta massacrò i ciclopi, che avevano forgiato i fulmini di Zeus. Stando alla tragedia di Euripide Alcesti, come punizione per questo suo gesto Apollo venne costretto dal padre degli déi a servire l'umano Admeto, re di Fere, per nove anni. Apollo lavorò dunque presso il re come pastore, e venne da questi trattato in modo tanto gentile che, allo scadere dei nove anni, gli concesse un dono: fece sì che le sue mucche partorissero solo figli gemelli. In seguito, il dio aiutò Admeto a ottenere la mano di Alcesti, che per volere del padre sarebbe potuta andare in sposa solo a chi fosse riuscito a mettere il giogo a due bestie feroci: Apollo gli regalò dunque un carro trainato da un leone e un cinghiale.

        Apollo ed Ermes
        Un mito degli inni omerici racconta dell'incontro tra il giovane Ermes e Apollo. Il dio dei ladri, appena nato, sfuggì infatti alla custodia della madre Maia e iniziò a vagabondare per la Tessaglia, fino a imbattersi nel gregge di Admeto, custodito da Apollo. Ermes riuscì con uno stratagemma a rubare gli animali e, dopo essersi nascosto in una grotta, usò gli intestini di alcuni di essi, tesi sul guscio vuoto di una tartaruga, per confezionarsi una lira. Quando Apollo, infuriato, riuscì a rintracciare Ermes e a pretendere, con l'appoggio di Zeus, la restituzione del bestiame, non poté fare a meno di innamorarsi dello strumento e del suo suono, e accettò infine di lasciare a Ermes il maltolto, in cambio della lira, che sarebbe diventata da allora uno dei suoi simboli.


        Orfeo
        Il Dio Apollo un giorno donò la Lira ad Orfeo e le muse gli insegnarono ad usarla e divenne talmente abile che fu il più famoso poeta e musicista che la storia abbia mai avuto. Acquistò una tale padronanza dello strumento che aggiunse anche altre due corde portando a nove il loro numero per avere una melodia più soave.

        Partecipando alla spedizione degli Argonauti, quando la nave Argo giunse in prossimità dell'isola delle Sirene, fu grazie ad Orfeo e alla sua cetra che gli argonauti riuscirono a non cedere alle insidie nascoste nel canto delle sirene.

        Ogni creature amava Orfeo ed era incantata dalla sua musica e dalla sua poesia ma Orfeo aveva occhi solo per una donna: Euridice, figlia di Nereo e di Doride che divenne sua sposa. Il destino però non aveva previsto per loro un amore duraturo infatti un giorno la bellezza di Euridice fece ardere il cuore di Aristeo che si innamorò di lei e cercò di sedurla. La fanciulla per sfuggire alle sue insistenze si mise a correre ma ebbe la sfortuna di calpestare un serpente nascosto nell'erba che la morsicò, provocandone la morte istantanea.

        Orfeo, impazzito dal dolore e non riuscendo a concepire la propria vita senza la sua sposa decise di scendere nell'Ade per cercare di strapparla dal regno dei morti. Convinse con la sua musica Caronte a traghettarlo sull'altra riva dello Stige; il cane Cerbero ed i giudici dei morti a farlo passare e nonostante fosse circondato da anime dannate che tentavano in tutti i modi di ghermirlo, riuscì a giungere alla presenza di Ade e Persefone.


        Una volta giunto al loro cospetto, Orfeo iniziò a suonare e a cantare la sua disperazione e solitudine e le sue melodie erano così piene di dolore e di disperazione che gli stessi signori degli inferi si commossero; le Erinni piansero; la ruota di Issione si fermò ed i perfidi avvoltoi che divoravano il fegato di Tizio non ebbero il coraggio di continuare nel loro macabro compito. Anche Tantalo dimenticò la sua sete e per la prima volta nell'oltretomba si conobbe la pietà come narra Ovidio nelle Metamorfosi (X, 41-63).

        Fu così che fu concesso ad Orfeo di ricondurre Euridice nel regno dei vivi a condizione che durante il viaggio verso la terra la precedesse e non si voltasse a guardarla fino a quando non fossero giunti alla luce del sole.

        Narra Ovidio nelle Metamorfosi (X, 41-63). "(...) Nè la regale sposa, nè colui che governa l'abisso opposero rifiuto all'infelice che li pregava e richiamarono Euridice. Costei che si trovava tra le ombre dei morti da poco tempo, si avanzò, camminando a passo lento per causa della ferita. Il tracio Orfeo la riebbe,a patto che non si voltasse indietro a guardarla prima di essere uscito dalla valle infernale (...)"

        Orfeo, presa così per mano la sua sposa iniziò il suo cammino verso la luce.

        Durante il viaggio, un sospetto cominciò a farsi strada nella sua mente pensando di condurre per mano un'ombra e non Euridice. Dimenticando così la promessa fatta si voltò a guardarla ma nello stesso istante in cui i suoi occhi si posarono sul suo volto Euridice svanì, ed Orfeo assistette impotente alla sua morte per la seconda volta.

        Narra Ovidio nelle Metamoforsi (X, 61-63): "Ed Ella, morendo per la seconda volta, non si lamentò; e di che cosa avrebbe infatti dovuto lagnarsi se non d'essere troppo amata? Porse al marito l'estremo addio, che Orfeo a stento riuscì ad afferrare, e ripiombò di nuovo nel luogo donde s'era mossa"

        Invano Orfeo per sette giorni cercò di convincere Caronte a condurlo nuovamente alla presenza del signore degli inferi ma questi per tutta risposta lo ricacciò alla luce della vita.

        Si rifugiò allora Orfeo sul monte Rodope, in Tracia trascorrendo il tempo in solitudine e al pensiero del tenebroso baratro dove aveva visto costretta la sua euridice. Per questo inizio ad adorare Elio (che chiamava Apollo) e non più Dioniso ed ogni mattina si svegliava all'alba per accogliere il sorgere del sole. Allora Dioniso istigò le Baccanti che decisero di ucciderlo durante un'orgia bacchica. Arrivato il momento stabilito, si scagliarono contro di lui con furia selvaggia, lo fecero a pezzi e sparsero le sue membra per la campagna gettando la testa nel fiume Ebro (ma esistono altre versioni).

        Disse Virgilio (Georgiche, IV): "... anche allora, mentre il capo di Orfeo, spiccato dal collo bianco come marmo, veniva travolto dai flutti, "Euridice!" ripeteva la voce da sola; e la sua lingua già fredda: "Ah, misera Euridice!" chiamava con la voce spirante; e lungo le sponde del fiume l'eco ripeteva "Euridice"."

        Le Muse recuperarono le membra di Orfeo e le seppellirono ai piedi del monte Olimpo ed ancor oggi, in quel luogo, il canto degli usignoli è il più soave che in qualunque parte della terra.

        Ma gli dei che tutto vedevano e giudicavano, decisero di inviare una tremenda pestilenza in tutta la Tracia per punire il delitto delle Baccanti. La popolazione allo stremo delle forze consultò l'oracolo per sapere come far cessare quella disgrazia e questi sentenziò che per porre fine a tanto dolore era necessario cercare la testa di Orfeo e rendergli gli onori funebri. Fu così che la sua testa venne ritrovata da un pescatore nei pressi della foce del fiume Melete e fu deposta nella grotta di Antissa, sacra a Dioniso. In quel luogo la testa di Orfeo iniziò a profetizzare finchè Apollo, vedendo che i suoi oracoli di Delfi, Grinio e Claro non erano più ascoltati, si recò alla grotta e gridò alla testa di Orfeo di smettere di interferire con il suo culto. Da quel giorno la testa tacque per sempre.

        Fu recuperata anche la sua lira che fu portata a Lesbo nel tempio di Apollo che però decise di porla nel cielo in modo che tutti potessero vederla a ricordo del fascino della poesia e delle melodie dello sfortunato Orfeo, alle quali anche la natura si arrendeva, creando la costellazione della Lira.


        Apollo e Oreste
        Apollo ordinò a Oreste, tramite il suo oracolo di Delfi, di uccidere sua madre Clitennestra; per questo suo crimine Oreste venne a lungo perseguitato dalle Erinni.

        Apollo durante la guerra di Troia
        L'inizio del'Iliade di Omero vede Apollo schierato a fianco dei Troiani, durante la guerra di Troia. Il dio era infatti infuriato con i greci, e in particolare con il loro capo Agamennone, per il rapimento da questi perpetrato di Criseide, giovane figlia di Crise, sacerdote di Apollo. Per vendicare l'affronto, il dio decimò le schiere achee con le sue terribili frecce, fino a che il capo dei greci non acconsentì a rilasciare la prigioniera, pretendendo in cambio Briseide, schiava di Achille. Questo fatto provocò l'ira dell'eroe mirmidone, che è uno dei temi centrali del poema.

        Apollo continuò comunque a parteggiare per i troiani durante la guerra: in un'occasione salvò la vita a Enea, ingaggiato in duello da Diomede. In seguito, aiutò Paride a uccidere Achille, guidando la freccia da questi scagliata nel tallone dell'eroe, il suo unico punto debole. Da non dimenticare infine,l'importantissimo aiuto che il dio offrì a Ettore e a Euforbo nel combattimento che li vedeva avversari del potente Patroclo, amico e maestro del valorosissimo Achille, il dio infatti, oltre ad aver stordito il giovane,confuso per il re mirmidone, vista l'armatura che indossava, lo privò di quest'ultima sciogliendola come neve al sole. Distrusse perfino la punta della lancia con cui Patroclo stava mietendo vittime tra le file troiane.

        Apollo e Cassandra
        Per sedurre Cassandra, figlia del re di Troia Priamo, Apollo le promise il dono della profezia. Tuttavia, dopo aver accettato il patto, la donna si tirò indietro, rimangiandosi la parola data. Il dio allora, sputandole sulle labbra, le diede sì il dono di vedere il futuro, ma la condannò a non venir mai creduta per le sue previsioni.


        Apollo e Marpessa
        Apollo amò anche una donna chiamata Marpessa, che era contesa fra il dio e l'umano chiamato Ida. Per dirimere la contesa tra i due, intervenne Zeus, che decise di lasciare la donna libera di decidere; questa scelse Ida, perché consapevole del fatto che Apollo, essendo immortale, si sarebbe stancato di lei quando l'avrebbe vista invecchiare.

        Asclepio
        Il più noto figlio di Apollo è Asclepio, dio della medicina presso i greci. Asclepio nacque dall'unione tra il dio e Coronide; quest'ultima però, mentre portava in grembo il bambino, si innamorò di Ischi e fuggì con lui. Quando un corvo andò a riferire l'accaduto ad Apollo, questi dapprima pensò a una menzogna, e fece diventare il corvo nero come la pece, da bianco che era. Scoperta poi la verità, il dio chiese a sua sorella Artemide di uccidere la donna. Apollo salvò comunque il bambino, e lo affidò al centauro Chirone, perché lo istruisse alle arti mediche. Come ricompensa per la sua lealtà, il corvo divenne animale sacro del dio, ed ebbe da Apollo il potere di prevedere le morti imminenti. In seguito Flegias, padre di Coronide, per vendicare la figlia diede fuoco al tempio di Apollo a Delfi, e venne per questo ucciso dal dio e scaraventato nel Tartaro.

        Nel frattempo Asclepio cresceva forte e saggio grazie agli insegnamenti di Chirone e più passava il tempo e più diventava abile e sapiente nell'uso dei medicamenti e dei ferri chirurgici tanto che decise di mettere a disposizione di tutte le persone che soffrivano per malattia, le sue conoscenze.

        Un giorno Asclepio ricevette in dono da Atena due fiale: una contenente il sangue colato dalle vene della parte sinistra del corpo della Gorgona Medusa che aveva il potere di resuscitare i morti; un'altra con il sangue che era colato dalla parte destra dello stesso corpo ma che aveva il potere di dare la morte.

        Asclepio iniziò ad usare questo sangue e furono in molti a beneficiare di questo straordinario dono: Licurgo, Capaneo, Tindareo, Glauco, Ippolito, e tanti altri che furono riportati in vita.

        Tutto procedeva per il meglio fino a che Ade, che regnava sul mondo dei defunti si recò da Zeus per chiedergli di fermare Asclepio perchè a suo giudizio stava sovvertendo l'ordine naturale delle cose e le leggi stesse della natura. Zeus, dopo averlo attentamente ascoltato, gli diede ragione e decise che l'operato di Asclepio doveva essere interrotto e così scagliò su di lui le sue folgori, uccidendolo.

        Apollo, appresa la morte del figlio e disapprovando il comportamento di Zeus, si recò presso la dimora dei Ciclopi, che avevano il compito di creare le folgori per Zeus, e li uccise tutti.

        Asclepio dopo la morte, fu premiato da Zeus che per la sua saggezza lo elevò al rango di divinità, facendogli innalzare templi e statue.

        Zeus fece di lui una costellazione, la costellazione di Ofiuco (Ophiucus) dal greco "ofiókos = colui che tiene il serpente": la si vede a partire dal mese di maggio e fino a settembre e si rappresenta come un uomo che tiene tra le mani un serpente e per questo motivo viene anche chiamata Serpentario.

        Ad Asclepio furono consacrati i serpenti. Una leggenda racconta infatti che un giorno mentre pensava su come resuscitare Glauco (figlio di Minosse e Pasifae) teneva in mano un bastone sul quale un serpente cercò di salire. Asclepio, infastidito, lo uccise a bastonate. Poco dopo arrivò un altro serpente che appoggiò sulla testa del serpente morto un'erba e questo resuscitò. Allora Asclepio prese quella stessa erba e con essa riportò alla vita Glauco. Da qui probabilmente l'associazione del serpente con Asclepio.

        Ad Asclepio fu consacrata la scienza della medicina e gli furono innalzati templi e statue e rapidamente il suo culto si diffuse ovunque nel mondo conosciuto diventando il padre della medicina.
        Per i romani il culto di Asclepio divenne il culto di Esculapio introdotto nel 293 a.C. per ordine dei Libri Sibillini per far cessare una terribile epidemia.



     

     

     



    7. Zeus / ERA
      Fu dai Romani assimilata all'italica Giunone. Di matronale bellezza, di impeccabili costumi, proteggeva la castità del matrimonio e la santità del parto.  Già in Omero si trasforma in moglie gelosa che perseguitava le amanti di Zeus. In ogni caso con il tempo Era divenne divenne il simbolo dell'amore coniugale e protettrice del focolare e del vincolo matrimoniale e tutti gli avvenimenti importanti nella vita delle donne. Divenne in pratica il simbolo di ogni virtù femminile.

      Orgogliosissima, nemica acerrima dei Troiani a causa del giudizio di Paride. Ma ancora più accanita fu contro Eracle, e proprio per il suo accanimento, quella volta che scatenò una tempesta contro l'eroe, Zeus adirato la appese nel cielo con un'incudine d'oro appesa ai piedi. Aiutò Giasone ad attraversare le Rocce Vaganti e per fare questo si fece aiutare da Teti e dalle Nereidi.

      Le erano sacri il pavone, la cornacchia e la melagrana; aveva come messaggeri Iride e le Ore.

      Ebbe culto speciale ad Argo, a Samo, nella Magna Grecia e soprattutto sul promontorio Lacinio. Le bastava agitarsi sul trono per fare tremare l'Olimpo; al suo sposo Zeus, bastava aggrottare le ciglia per avere lo stesso risultato.
      Secondo Esiodo (Teogonia v. 921 e sgg.) in ordine temporale fu la settima sposa di Zeus.

      Ebbero figli : Ares (Marte), Efesto (Vulcano), Iliza, Ebe.

      ARES
        Nella mitologia latina è identificato come Marte e fu un dio particolarmente onorato in quanto considerato il padre di Romolo e Remo.

        Era un'antica divinità guerriera degli indoeuropei, la cui figura aveva però assunto in territorio italico caratteri diversi da quello greco, essendo una divinità molto più complessa e importante dell'Ares greco. Fu anche assunta dagli Etruschi col nome di Maris. Ares aveva una quadriga trainata da quattro cavalli immortali dal respiro infuocato, legati al carro con finimenti d'oro. Tra tutti gli dei si distingueva per la sua armatura bronzea e luccicante ed in battaglia abitualmente brandiva una lancia.

        Viene molto spesso identificato come il dio della guerra in senso generale, ma si tratta di un'imprecisione: in realtà Ares personifica il furore bellico. E' il dio solo degli aspetti più selvaggi e feroci della guerra, e della lotta intesa come sete di sangue. Venne cresciuto da Enio che era una divinità che personificava tutta la crudeltà, la ferocia e la distruzione della guerra.

        Per i Greci Ares era un dio del quale diffidare sempre. Sebbene anche Atena, la sorellastra di Ares, venisse considerata come dea della guerra. Ma mentre la dea ne rappresentava gli aspetti positivi (guerra "giusta", difensiva, punitiva, condotta con intelligenza, ecc.), e il suo campo di azione era quello delle strategie di combattimento e dell'astuzia applicata alle battaglie; Ares ne rappresentava gli aspetti negativi (furore, odio, follia distruttrice, ecc.), e prediligeva gli improvvisi ed imprevedibili scoppi di furia e violenza che in guerra si manifestano.

        La contrapposizione tra le due divinità ha anche un fondamento mitico: Ares sarebbe stato procreato da Era in concorrenza e in odio alla nascita di Atena che Zeus aveva generato da solo, esprimendola dalla sua testa. La contrapposizione è viva in Omero che pone Atena dalla parte dei Greci e Ares dalla parte dei Troiani; in un'occasione i due dei si scontrano direttamente sul campo di battaglia: è quando Atena stende Ares colpendolo con una pietra. Ares è chiaramente un dio caotico che si oppone all'ordine di Zeus (come la guerra si oppone alla pace); egli è "odioso" a Zeus, come si esprime Omero, ma è amato da Afrodite, divinità anch'essa caotica in un certo senso, o comunque precosmica e agente al di fuori dell'ordine di Zeus. Non era questo un amore che il mito poteva fissare nell'ordinata forma matrimoniale: infatti Ares è l'amante e non lo sposo di Afrodite. « Ares, Ares funesto ai mortali, sanguinario, eversore di mura non potremmo lasciare i Troiani e gli Achei azzuffarsi, a chiunque offra gloria il padre Zeus? e noi due ritirarci e schivare il corruccio di Zeus? » (Atena, Iliade, Omero Libro V, 31-34)


        La parola "Ares" fino all'epoca classica fu usata anche come aggettivo, intendendosi come infuriato o bellicoso. Pur essendo protagonista nelle vicende belliche, raramente Ares risultava vincitore. Era più frequente, invece, che si ritirasse vergognosamente dalla contesa, come quando combatté a fianco di Ettore contro Diomede, o nella mischia degli Dei sotto le mura di Troia: in entrambi i casi si rifugiò sull'Olimpo perché messo in seria difficoltà - direttamente o indirettamente - da Atena. Altre volte la sua furia brutale si trovò contrapposta alla lucida astuzia e alla forza di Eracle, come nell'episodio dello scontro dell'eroe con suo figlio Cicno.



        I suoi uccelli sacri erano il barbagianni, il picchio, il gufo reale e, specialmente nel sud della Grecia, l'avvoltoio. Secondo le Argonautiche gli uccelli di Ares, muovendosi come uno stormo e lasciando cadere piume appuntite come dardi, difendevano il suo tempio costruito dalle Amazzoni su di un'isola vicina alla costa del Mar Nero. Spesso Ares viene rappresentato su pietra con il colore rosso, rosso come il sangue, simbolo degli atti feroci che si compiono in guerra. Nonostante la sua figura sia importante per poeti ed aedi, il culto di Ares non era molto diffuso nell'antica Grecia, tranne che a Sparta dove veniva invocato perché concedesse il suo favore prima delle battaglie e, nonostante sia presente nelle leggende riguardanti la fondazione di Tebe è uno degli dei sul conto del quale gli antichi miti meno si soffermano. A Sparta c'era una statua di Ares che lo ritraeva incatenato, a simboleggiare che lo spirito della guerra e della vittoria non avrebbero mai potuto lasciare la città; durante le cerimonie in suo onore venivano sacrificati cani, usanza mutuata dall'antica pratica di sacrificare cuccioli alle divinità ctonie. Il tempio di Ares, nell'agorà di Atene che il geografo Pausania ebbe modo di vedere nel II secolo, era in realtà un tempio la cui destinazione era stata cambiata all'epoca di Augusto. In effetti si trattava di un tempio romano dedicato a Marte. L' Areopago, ovvero la collina di Ares, si trova invece ad una certa distanza dall'Acropoli e nei tempi antichi vi si svolgevano i processi e la sua presunta relazione con Ares potrebbe essere solo frutto di un'errata interpretazione etimologica.


        Nonostante la sua ferocia si innamorò perdutamente di Afrodite e per volere di Zeus i due si sposarono ed ebbero cinque figli: Armonia (la concordia), Eros (l''amore), Anteros (l'amore reciproco), Deimos (lo spavento) e Fobos (il terrore). Ebbe numerose amanti mortali, ma Afrodite fu la compagna più amata. Ares era oggetto di culto solo presso i Traci, considerato un popolo guerriero e selvaggio. Aveva però diversi templi a lui dedicati a Tebe essendo il padre di Armonia il cui figlio, Cadmo era stato il fondatore della città.

        Solitamente Ares scendeva in guerra accompagnato Deimos e Fobos che personificavano gli spiriti del terrore e della paura. Sorella e degna compagna del sanguinario Ares era Enio, dea degli spargimenti di sangue, Bia, la violenza e Cratos, la forza bruta; da Kydoimos (il demone del frastuono della battaglia), dai Makhai (spiriti della battaglia), dagli Hysminai (gli spiriti dell'omicidio), da Polemos (uno spirito minore della guerra) e dalla figlia di Polemos Alala, personificazione del grido di guerra dei Greci e il cui nome Ares decise di usare come proprio grido di guerra. Suo fedele soldato fu anche Alettrione. Nella guerra di Troia parteggiò per i troiani e fu ferito da Diomede al quale Atene diresse l'asta. Racconta Omero nell'Iliade (Iliade, V) ... Mugolò il ferito nume, e ruppe in un tuon, pari di nove o dieci mila combattenti al grido quando appiccan la zuffa ...

        Uno dei miti più importanti riguardo ad Ares è quello che tratta del suo coinvolgimento nella fondazione della città di Tebe in Beozia. L'eroe Cadmo aveva ricevuto dall'Oracolo di Delfi l'ordine di seguire una vacca e fondare una città nel luogo ove si fosse fermata. L'animale si fermò presso una fonte custodita da un drago acquatico sacro ad Ares. Cadmo uccise il mostro e, su consiglio di Atena, ne seminò al suolo i denti: da questi nacquero istantaneamente dei guerrieri, gli Sparti che aiutarono Cadmo a fondare quella che sarebbe appunto diventata Tebe. Cadmo, prima di diventarne il re dovette però servire Ares per otto anni per espiare l'affronto fattogli uccidendo il drago, nonché sposare la figlia del dio e di Afrodite, Armonia per appianare la discordia tra loro sorta.
        Alcuni racconti parlano di un figlio di Ares che abitava in Macedonia, Cicno, che era così sanguinario da aver tentato di costruire un tempio dedicato al padre usando le ossa ed i teschi dei viaggiatori da lui trucidati. Questo mostro venne a sua volta ucciso da Eracle: la morte del figlio suscitò l'ira di Ares che a sua volta si scontrò con il più grande degli eroi, finendone però ferito e sconfitto.


      EFESTO (Vulcano)
        Efesto, nella mitologia greca, era la divinità del fuoco terrestre inteso in senso positivo, il fuoco come elemento di civiltà.

        Secondo la maggior parte degli studiosi era figlio di Zeus e di Era mentre per Esiodo sarebbe nato solo da Era la quale, alla vista di un figlio così brutto, vergognandosi di lui, lo scaglio giù dal cielo cadendo in mare. Le ninfe lo salvarono e lo portarono nell'isola di Lesvos. dove rimase per nove anni in una grotta curato da Teti ed è in quella grotta che si dice fece la sua prima officina di fabbro, dove creò per lei splendidi gioielli, in segno di eterna gratitudine. Efesto è il dio del fuoco, dei metalli e dell'arte di forgiarli; regna sui vulcani che sono le sue officine, dove lavora aiutato dai Ciclopi,
        e lì fabbrica armi invincibili per Achille, implorato da Teti, madre dell'eroe, che vuole assicurare il ritorno del figlio dalla guerra di Troia.

        Una volta cresciuto, Volle poi vendicarsi della madre e fabbricò allo scopo un marchingegno straordinario in un trono d'oro, che avviluppava di catene chiunque vi si sedesse, e in più il trono si metteva a galleggiare nell'aria. Lo mandò come proprio dono ad Era, che vi rimase infatti imprigionata, senza potersi liberare dai vincoli. Gli dèi non riuscendo a togliere la dea
        da quella posizione ridicola ordinarono a Efèsto che liberasse sua madre, ed egli rispose ridendo che non aveva avuto il piacere di conoscerla. Ares provò con la forza a costringere Efèsto a liberare la dea, ma fu scacciato a malo modo, allora ci provò Dioniso che andato con la sua combriccola da Efèsto lo fece ubriacare a puntino e caricatolo sul dorso di un mulo lo
        portò sull'Olimpo. Benché ubriaco il dio aveva mantenuto una certa lucidità, difatti per liberare Era, volle in cambio Afrodite per sposa. Non l'avesse mai fatto!!! La dea, sì, lo sposò, ma subito dopo lo cornificò senza pietà con quasi tutti gli dèi dell'Olimpo.
        Dopo varie vicende si affezionò tanto a sua madre da prendere sempre le sue difese, come quella volta che Efesto cercò di aiutare Era incatenata: Zeus l'aveva appesa fuori dall'Olimpo, perché aveva osato scatenare una tempesta contro Eracle, mentre navigava alla conquista di Troia. Zeus irritato perchè difendeva sempre la madre lo scagliò anche lui dall'Olimpo ed Efesto cadde nell'isola di Lemno. Fu in seguito a questa caduta che divenne zoppo.
        Sull'isola aveva particolare culto e, secondo il mito, anche una delle sue officine più importanti dove, si dice, avesse i Cabiri come dipendenti; altra officina era nell'Etna e là i suoi dipendenti erano i Ciclopi. I coloni greci che erano andati a popolare il sud dell'Italia presero ben presto venerare Efesto nella città di Adranòn collocata sull'Etna, l'odierna Adrano, e nelle Isole Lipari.

        Nonostante la sua deformità, Efesto, il più brutto degli dei, ebbe celebri amori, di cui il più noto con Afrodite, la più bella delle dee, che Zeus gli aveva destinato in moglie. Sennonché la dea divenne l'amante di Ares, ed Elio, dio del Sole che tutto vede, informò Efesto. Questi non disse nulla, ma intessé una rete invisibile attorno al letto della moglie che, non appena Ares e Afrodite si incontrarono, si chiuse immobilizzandoli ed esponendoli alla derisione dell'intero Olimpo.

        In ogni caso Efesto è ricordato come un grande fabbro: sono sue la creazione del carro del sole, i fulmini e lo scettro di Zeus, la corazza d'oro di Eracle, l'elmo di Ares, le armature di Achille e di Enea, il tridente di Poseidone. Aiutò anche a creare la prima donna Pandora, un regalo di Zeus contro Prometeo (solo per la sua stirpe) la quale riversò da
        un vaso soprannaturale tutto il male del mondo sull'umanità.


        EFESTO ( Vulcano ) è il Dio del fuoco, della tecnologia, dei fabbri, degli artigiani, degli operai, degli scultori, dei
        metalli e della metallurgia; fabbro, inventore e artefice geniale e progenitore della moderna robotica. Abilissimo artefice dei palazzi dell'Olimpo e di tanti altri oggetti e automi meravigliosi. Lui è il più gentile e sereno di tutti gli
        dei olimpici: ... opere egregie agli uomini apprese, che prima vivevano in antri, sui monti, simili a fiere... (XX Inno omerico a Efesto)

      EBE
        E' la poco conosciuta dea della giovinezza eterna e della forza vitale, secondo Omero, data in sposa a Eracle dopo che era stato assurto in cielo. Con Eracle generò Alessiare e Aniceto.

        Dai Romani fu assimilata alla loro Juventus. La sua figura appare più volte nei poemi omerici.

        Nel monte Olimpo Ebe era ancella delle divinità, a cui serviva nettare e ambrosia. Il suo successore fu il giovane principe troiano Ganimede. Nel libro V dell'Iliade è lei che immerge il fratello Ares nell'acqua, dopo la battaglia con Diomede.

        Non sono sopravvissuti miti relativi a Ebe e l'unico santuario a lei attribuito è quello di Flio.

        In Arte, è famosa una sua statua di Antonio Canova, di cui esistono quattro versioni: oltre a quella conservata a Forlì, nel Museo di San Domenico in una sala appositamente dedicata, è possibile ammirarne un superba versione in gesso alla Galleria d'Arte Moderna di Milano.

      ILIZIA
        Nonostante nessun mito la veda protagonista, è citata da numerose iscrizioni di nascite. Il suo nome appare in alcune tavolette di Cnosso, che sono state analizzate attentamente e che mostrano una continuità di culto dal neolitico all'epoca classica.

        è descritta come presente alla nascita di numerosi dei, tra i quali Eracle, Apollo e Artemide. Secondo il III Inno Omerico ad Apollo, Hera catturò Ilizia, per ostacolare le doglie di Leto per Artemide ed Apollo, essendone Zeus il padre. Le altre dee presenti a Delo per assistere alla nascita, mandarono allora Iris a prenderla. Non appena Ilizia mise piede sull'isola, iniziarono le doglie.


        Inizialmente le Ilizie (nel plurale utilizzato da Omero) erano coloro che provocavano i dolori del parto. Solo successivamente, a Creta, l'Ilizia fu venerata come dea della fertilità, prima di affermarsi a Delo. Col passare del tempo il culto si diffuse in molte città Greche, in Etruria e in Egitto, e la sua funzione diventò quella di aiutare le partorienti.


        Ad Ilizia furono consacrate delle caverne (probabilmente simboleggianti l'utero), che si ritiene fossero il suo luogo di nascita così come quello del suo culto, come menziona chiaramente l'Odissea; una delle più importanti è quella di Amnisos, il rifugio di Cnosso, dove sono state trovate stalagmiti che probabilmente la rappresentano. La caverna di Creta ha suggestive stalattiti dalla forma di una doppia dea che causa le doglie e le ritarda; inoltre sono state anche trovate delle offerte votive. Qui fu probabilmente adorata durante il periodo Minoico-Miceneo.

        Nel periodo classico, si trovano santuari di Ilizia nelle città cretesi di Lato e Eleutherna ed una grotta sacra ad Inatos.

        Pausania, nel II secolo, fece un resoconto di un tempio arcaico ad Olimpia, con una cella dedicata al serpente salvatore della città (Sisipolis) e ad Ilizia. In esso è raffigurata Ilizia come una sacerdotessa-vergine che sfama un serpente con dolci torte di orzo ed acqua. Il tempio, infatti, commemora l'apparizione improvvisa di una vecchia con un bambino fra le braccia, proprio quando gli Eli stavano per essere minacciati da Arcadia; il bimbo, posto a terra fra i contendenti, si mutò in serpente, spazzando via gli Arcadi in volo, per poi sparire dietro la collina.


        Ilizia, insieme ad Artemide e Persefone è spesso raffigurata con in mano delle torce per portare i bimbi verso la luce, fuori dall'oscurità; nella mitologia Romana infatti è rappresentata da Lucina (della luce).

     

     

     




    Le AMANTI e i FIGLI di ZEUS

     

    Zeus/ERIS (LA DISCORDIA)
      Malefica figlia della Notte e sorella di Nemesi, delle Parche e della Morte; madre della Miseria, della Fame, della Guerra, dell' Omicidio, della Contesa, e di tutto quanto c'è di cattivo. Dea della discordia, fedele ancella di Ares.

      Fu scacciata da Zeus dall'Olimpo perché causava continui litigi e conflitti fra gli dèi. Per non essere stata invitata alle nozze di Peleo e di Teti, tirò sulla tavola nuziale la funesta mela d'oro che causò il giudizio di Paride e la lunghissima guerra di Troia.

      Virgilio la descrive in compagnia di mostri all'ingresso dell'Ade, con serpenti per capelli, annodati con bende insanguinate. Altre volte è descritta come una donna con il capo alto, labbra livide e smorte, occhi biechi, malati e pieni di lacrime che solcano le pallide gote, le gambe torte, i piedi sottili, un pugnale infisso nel petto, avvolta da una tenebrosa ed oscura aura.

      Dalla sua unione con zeus nacquero: ATE e LITE.
      Ate:«rovina, inganno, dissennatezza»)
      La dea Ate nella mitologia greca era la potente dea della sventura e della vendetta, colei che toglieva la ragione dagli uomini e agli stessi dei. Era la personificazione della maledizione divina.

      Racconta Omero nell'Iliade (iliade XIX)
      "... Un Dio
      Così dispose, la funesta a tutti
      Ate, tremenda del Saturnio figlia,
      Lieve ed alta dal suolo ella sul capo
      De' mortali cammina, e lo perturba,
      e a ben altri pur nocque. Anche allo stesso
      Degli uomini e de' numi arbitro Giove
      Fu nocente costei ........
      D'alto dolor ferito infuriossi
      Giove; e tosto ai capelli Ate afferrando ,
      Per lo Stige giurò: che questa a tutti
      Furia dannosa, non avria più mai
      Riveduto l'Olimpo. E, sì, dicendo,
      La rotò colla destra, e fra' mortali
      Dagli astri la scagliò ...."

      Frequentemente induce al peccato di "hýbris", la tracotanza che nasce dalla mancanza di senso della misura.

      Ate non tocca il suolo: cammina leggera sul capo dei mortali e degli stessi dei, inducendoli in errore.
      La seguono, senza riuscire mai a raggiungerla, le Litai, le rugose Preghiere, che si prendono cura di coloro cui Ate ha nuociuto nel suo cammino. Quando qualcuno si rivela sordo alle Preghiere, queste si rivolgono al padre Zeus perché faccia perseguitare da Ate chi le ha respinte.

      A lei Agamennone attribuisce la responsabilità degli eventi che portarono alla disputa con Achille. Lo stesso Agamennone narra che Zeus, quando suo figlio Eracle stava per nascere da Alcmena, si vantò con gli dei Olimpi che il suo prossimo discendente avrebbe regnato su tutti i vicini; sollecitato da Era, il dio ne fece giuramento, non sospettando che sulla sua testa si era in quel momento posata Ate. Era fece in modo che Euristeo, figlio di Stenelo, nascesse prima di Eracle, e questi fu dunque costretto a servire per molti anni il fratellastro. Quando Zeus scoprì l'accaduto, prese Ate per le trecce e la scagliò sulla terra, giurando che non avrebbe mai più rivisto l'Olimpo.

      Stando allo Pseudo-Apollodoro, Ate atterrò su una collina in Frigia, in una località che assunse il nome della dea. Nello stesso luogo Zeus scaraventò anche il Palladio, e Ilo vi fondò Troia.

      Ate ed Eris sono talora confuse. Secondo alcuni non fu Eris, ma Ate, infuriata per non essere stata invitata alle nozze di Peleo e Teti, a lasciare scivolare durante il banchetto una mela d'oro recante la scritta "alla più bella". La mela della discordia generò una disputa fra Era, Atena e Afrodite, poi risolta in favore di quest'ultima con il giudizio di Paride, ponendo le premesse per la guerra di Troia.

      Secondo Nonno, Ate fu indotta da Era a convincere il giovane Ampelo, amato da Dioniso, a cavalcare un toro per impressionare il dio; Ampelo fu disarcionato e si ruppe il collo.

     

     

     




    Zeus/REA (Cibele)
      Rea era la figlia di Gea e Urano, sposa di Crono (Saturno) e madre di Zeus.
      Per vanificare la profezia che lo voleva spodestato dal figlio, Saturno divorava tutti i figli che la moglie gli partoriva. Alla nascita di Zeus, però, Rea si intenerì alla vista del bambino e decise di sottrarlo alla voracità del padre nascondendolo nel monte Ida, al centro dell'isola di Creta.

      Per questo motivo la dea era venerata in particolare a Creta come "mater Idaea", personificazione della natura montagnosa. Il suo culto si diffuse soprattutto nell'Anatolia, in Asia Minore, dove fu identificata con Cibele, venerata come Grande Madre, dea della natura, degli animali e dei luoghi selvatici.

      Il centro principale del suo culto era Pessinunte, nella Frigia, da cui attraverso la Lidia passò approssimativamente nel VII secolo a.C. nelle colonie greche dell'Asia Minore e successivamente nel continente.

      Cibele viene generalmente raffigurata seduta sul trono tra due leoni o leopardi, spesso con in mano un tamburello e con su il capo una corona turrita.

      Collegato con il mito e il culto di Cibele era il giovane dio Attis, a volte considerato suo figlio, che in un primo momento aveva ricambiato il suo amore, ma che in seguito si innamorò della ninfa Songaride.

      Durante il banchetto nuziale Cibele per vendetta fece impazzire il giovane che, fuggito sui monti, si uccise evirandosi o gettandosi da una rupe. La tradizione vuole che Attis sia poi resuscitato o comunque fu salvato da Cibele afferrandolo per i capelli lo trasformò in un pino non appena toccò il terreno. Le due divinità sono sovente raffigurate insieme sul carro divino trainato da leoni in un corteo trionfale.

      Nelle cerimonie funebri che si tenevano in suo onore durante l'equinozio di primavera, i sacerdoti della dea, i Coribanti, suonavano tamburi e cantavano in una sorta di estasi orgiastica.

      Il culto di Cibele, la Magna Mater dei Romani, fu introdotto a Roma il 4 aprile 204 a.C., quando la pietra nera, di forma conica, simbolo della dea, vi fu trasferita da Pessinunte e collocata in un tempio sul Palatino realizzato nel91 a.C. La struttura bruciò per ben due volte, nel11 a.C. e nel 3 d.C. e fu ricostruita per l'ultima volta da Augusto. L'edificio seguiva un orientamento ben determinato da motivi di culto, e lo stile era corinzio a pianta regolare; all'interno le pareti erano sostenute da un colonnato.

      Per celebrare tale evento, durante la Repubblica venivano organizzati dei giochi in suo onore, i Megalesia, o Ludi Megalensi. Le feste in onore di Cibele e Attis si svolgevano nel mese di marzo, dal5 al 28, nel periodo dell'equinozio di primavera, prevedevano i riti del Sanguem e l'Hilaria. Tracce di questi culti, che presero il nome di Attideia, sono presenti anche in colonie greco-romane (per esempio quella di Egnazia in Puglia). e si protrassero fino al III secolo d.C..

      In epoca imperiale, il ruolo di Attis, la cui morte e resurrezione simboleggiava il ciclo vegetativo della primavera, si accentuò gradualmente, dando al culto una connotazione misterica e soteriologica.

        Attis è il servitore eunuco che guida il carro della dea.

        Secondo la tradizione frigia, conservata in Pausania (Perieghesis, VII,7,0-12) ed in Arnobio (Adversus Nationes, V, 5-7), il demone bisessuale Agdistis sarebbe nato dallo sperma di Zeus caduto sulla pietra, mentre il dio cercava di accoppiarsi con la Grande Madre sul monte Agdos.

        Gli dei dell'Olimpo spaventati dalla forza e dalla ferocia dell'essere lo evirarono: dalle gocce del sangue fuoriuscito dalla ferita nacque un albero di mandorlo.
        La figlia del fiume Sakarya(Sangarios), Nana, colse un frutto dall'albero e rimase incinta.
        Tempo dopo nacque il figlio che venne chiamato Attis, in quanto fu allattato da una capra (in frigio attagos), dopo essere stato cacciato sulle montagne per ordine di Sakarya.

        Attis crebbe e fu mandato a Pessinunte per sposare la figlia del re. Durante la celebrazione del matrimonio, Agdistis, innamorato del giovane, fece impazzire Attis, che si recise i genitali sotto un pino. Cibele, madre degli dei, ottenne che il corpo del giovane rimanesse incorrotto.

     

     

     




    Zeus/EOS (Aurora)
      Eos o Aurora, era la Dea che dischiudeva le porte al Giorno. Dopo aver attaccato il carro di suo fratello Elio, Febo o il Sole, "colui che è destinato a diffondere la luce nell'universo" lo precedeva con il suo.
      I Greci la chiamarono Eos, che deriva da Eoo, Orientale. I Latini le attribuirono il nome di Aurora, " Quasi Aurea, colei che ha il colore dell'oro". La Dea dalle dita rosate, come è anche chiamata, per il colore rosa del cielo all'alba.
      Eos, dea dell'aurora, è figlia dei titani Iperione e Teia,
      e sorella di Elio (il Sole) e di Selene (la Luna).
      è moglie di Astreo, col quale ha generato i venti Zefiro, Borea, Noto ed Euro. Venti importanti, che bisognava conoscere per garantirsi una tranquilla e facile navigazione, Borea dal nord, Noto dal sud, Zefiro da ovest ed Euro da sud-est. Non come i venti derivati da Tifone, mostro capace con il soffio infuocato di portare scompiglio e distruzione.

      Tra i primi amanti di Eos si nomina lo stesso Zeus, da cui ebbe una figlia di nome Ersa (o Erse), la rugiada.

      Più tardi fu amata da Ares, il dio della guerra, con cui condivise più volte il suo talamo; sdegnata per il tradimento del suo amante, Afrodite punì la dea sua rivale, condannandola ad innamorarsi di continuo di comuni mortali.
      La maledizione di Afrodite ebbe il suo effetto, quando Eos intravide, durante una sua passeggiata presso la città di Troia, un fanciullo di straordinaria bellezza e di sangue reale, di nome Titone, figlio del re Laomedonte.

      Così, un giorno, la dea lo rapì e lo condusse con sé, rivolgendosi poi a Zeus per concedergli l'immortalità.
      Titone apparteneva alla stirpe di Dardano, stirpe privilegiata dal dono della bellezza,dono che condivideva con Ganimede e Anchise. Aurora se ne innamorò così perdutamente da chiedere per lui il dono dell'immortalità agli Dei, dimenticandosi però di chiedere anche il dono dell'eterna giovinezza. Così mentre Aurora era splendida più che mai, il suo amato Titone invecchiava inesorabilmente, finché del fiero principe troiano non rimase altro che un corpo devastato dagli anni e una voce stridula che si lamentava senza smettere mai all'interno del palazzo dove Aurora l'aveva fatto rinchiudere affinché nessuno potesse vederlo, quando gli anni l'avevano reso imbelle. Titone fu trasformato in una cicala dalla voce stridula.
      Dalla loro unione nacquero due figli, Emazione e Memnone, ucciso da Achille durante l'assedio di Troia. Da quel giorno la dea dell'aurora piange inconsolabilmente il proprio figlio ogni mattina, e le sue lacrime formano la rugiada.

      Un'altro amante di Eos fu Cefalo figlio di Deioneo, sposo felice di Procri. Uniti dall'amore e dalla passione per la caccia, i due giovani si erano promessi reciproca fedeltà. Recatosi a caccia di buon mattino, Cefalo fu notato da Aurora che gli propose di giacere con lei. Cefalo pur sedotto dal fascino di Aurora, rifiutò, aveva promesso alla sua Procri di esserle sempre fedele e intendeva mantenere la promessa fatta. Allora Aurora disse: non voglio che tu infranga la tua promessa se prima non l'avrà infranta lei. Detto questo lo trasformò in un giovane straniero pieno di doni da portare all'ignara Procri per tentare di sedurla. Sotto le spoglie del giovane attico Pteleone si presentò a Procri e le cinse la fronte con un ricco frontale d'oro finemente cesellato. Affascinata dal bellissimo giovane e dagli splendidi regali che costui le aveva offerto, Procri cedette alle lusinghe e si lasciò sedurre. Quando nel letto, Cefalo si lasciò riconoscere, Procri umiliata e piena di vergogna,comprese di essere stata ingannata da Aurora e allora fuggì via per recarsi a Creta dove Artemide stava cacciando. Procri si unì alle cacciatrici, ma Artemide la cacciò via perché con lei cacciavano solo le vergini. Procri affranta le raccontò dell'inganno di Aurora, allora Artemide impietosita le regalò una lancia che colpiva qualsiasi bersaglio e un cane Lailape a cui nessun animale poteva sfuggire, invitandola a sfidare Cefalo nella caccia. Per altri autori, la lancia e il cane furono un dono di Minosse miracolosamente guarito da Procri da un maleficio fattogli da sua moglie Pasifae affinché nessuna donna potesse giacere con lui; nel momento dell'amplesso, dal suo corpo scaturivano ogni sorta di animali repellenti, scorpioni, serpenti e millepiedi. Si tagliò i capelli e sotto le sembianze di un giovanetto, così come era stata consigliata da Artemide, si recò da Cefalo per sfidarlo nella caccia. Complice la lancia infallibile e il cane Lailape, il giovanetto vinse. Cefalo affascinato dalla lancia e dal cane gli chiese di scambiarli con tutte le ricchezze e metà del suo regno. Il giovane dapprima rifiutò ma poi acconsentì solo ad una condizione: avrebbe avuto la lancia e il cane solo se lui gli si fosse concesso, così come fanno i giovinetti. Cefalo fremente dal desiderio di possedere il cane e la lancia acconsentì. Solo in quel momento Procri si lasciò riconoscere e gli concesse il suo perdono. Sul fare del giorno, quando Cefalo si recò a caccia con i doni di Procri, gelosa di Aurora lei lo seguì per spiare le sue mosse. Nascosta in un cespuglio, vide Cefalo fermarsi per riposare, quando sentì un'invocazione: Aura vieni! Aura vieni! Era questo il nome del vento che Cefalo stava invocando per avere un momento di refrigerio dopo la battuta di caccia. La gelosissima Procri, credendo di udire il nome di Aurora uscì improvvisamente dal cespuglio,Cefalo scambiandola per una bestia selvatica le scagliò contro la lancia infallibile uccidendola. Cefalo sopraffatto dal dolore si uccise con la stessa lancia e insieme a Procri ascesero al Cielo dove furono trasformati nella stella che precede il mattino.

      Omero la chiama la dea dalle dita rosate per l'effetto che si vede nel cielo all'alba.

     

     

     




    Zeus/ASTERIA
      Asteria è figlia della titanide Febe e del titano Ceo. Fu la sposa del titano Perse figlio, di Crio ed Euribia, e gli diede una figlia che chiamarono Ecate.

      Per sfuggire all'amore fedifrago di Zeus, Asteria si trasformò in una quaglia, ma la fuga precipitosa la fece precipitare nel mar Egeo. Zeus ne fu addolorato e trasformò Asteria in un'isola, che si chiama anche Ortigia, nei pressi di Siracusa (Ortix in greco, Quaglia), ovvero "isola delle quaglie". Quest'isola aveva la proprietà di non essere ancorata al fondale e di nuotare quindi libera, fino al momento in cui Leto (sorella di Asteria) dette alla luce i suoi gemelli e l'isola fu fissata al fondo del mare da Zeus o da Poseidone. Per la nascita di Apollo e Diana l'isola fu tutta circonfusa da luce e da allora chiamata Delo», che in greco significa "la chiara, la luminosa", in coerente simmetria con l'altro nome, Asteria, che significa "stella".

      ECATE
        Non ci sono molte informazioni redatte su Ecate poiché non ha molta partecipazione in mitologia né ha avuto molte interazioni con altre divinità. Soltanto alcuni Dei sono documentati bene in letteratura ed Ecate è una dei molti che sono in gran parte assenti, particolarmente prima del IV secolo. Si spiega questa poca documentazione in relazione al fatto che Ecate ha natali davvero antichi, pre-olimpici e quindi precedenti alle numerose storie narrate intorno agli dei abitanti il famoso monte Olimpo: Ecate ha sempre voluto tenersi in disparte da quel gruppo che riconosceva come poco familiare ed appare in mitologia rare volte, come nell'episodio del rapimento di Persefone in cui racconta l'accaduto alla madre della fanciulla, Demetra, e le intima di rimanere calma e pensare bene sul da farsi.

        Le origini di Ecate sono antichissime. Alcuni studiosi affermano che ella non era originariamente greca, poiché il suo culto aveva viaggiato verso sud (dov'era adorata come Iside già 5000 anni fa) e la maggioranza degli studiosi è concorde nell'affermare che questa figura nasce nell'Asia Minore occidentale (la regione della Caria o della Tracia).

        Il nome di Ecate deriva dalla dea-levatrice egizia Heqit, Heket o Hekat. L'anziana era la matriarca tribale dell'Egitto pre-dinastico ed era nota come una donna saggia. Heket era una dea dalla testa di rana che era connessa con lo stato embrionale quando il seme muore, si decompone e inizia a germinare. Ella era inoltre una delle levatrici che assistono ogni giorno alla nascita del Sole. Tutte queste analogie con Ecate, al di là del nome, farebbero pensare ad un archetipo comune.

        In pochi, inoltre, conoscono Heka:

        "Ra donò all'umanità Heka come un'arma per respingere l'effetto degli eventi pericolosi."

        Heka era visto come la manifestazione dell'energia divina di Ra donata agli uomini per creare parole e azioni, in modo da eguagliare la forza creatrice del sole.
        E' anche l'energia magica insita negli esseri viventi, nei simboli del potere.
        Uno dei titoli del dio Heka era "Colui che consacra le immagini", riferendosi all'abilità del dio di dare poteri ai pensieri creativi, alle azioni e tradurli nei loro quivalenti fisici nel modo fisico. Cosi Heka era anche percepito come la forza animata che si manifesta in ogni atto rituale.

        Ecate è, come sappiamo, strettamente collegata agli incantesimi, alla magia. L'assonanza con nome e la natura di queste due divinità ne autorizzano il riconoscimento della medesima etimologia.

        Il nome Ecate, tuttavia, avrebbe anche altre interpretazioni: ekaton (cento), ekati (a proprio piacimento) oppure ekatos (saettatore, che colpisce da lontano).

        La prima è moderna e piuttosto superficiale, derivante dal fatto che le anime dei defunti che non avevano ricevuto una degna sepoltura avrebbero dovuto vagare per cento anni sulle rive dell'Acheronte senza trovare pace; in questo caso viene sottolineata in Ecate la sua custodia delle zone di confine. Legare Ecate all'avverbio "a proprio piacimento" delinea in maniera maggiore la fisionomia di questa divinità tenendo conto dell'opera di Esiodo Teogonia, il testo più antico ritrovato in cui si parla di Ecate. Ekatos è oggi l'ipotesi più accreditata anche perché intorno agli anni ' 60 P. Chantraine nel suo Dictionnaire étymologique de la langue grecque ha canonizzato questa idea e da allora non si è più tornati molto sull'argomento. Ecate "saettatrice" è in diretta associazione con Artemide, sua cugina sia di natali che celeste, un'associazione che nasce nel VII sec. a.C. ma che si consolida solo due secoli dopo.

        In ogni caso, l'antichità di Ecate, e quindi la sua importanza, fu riconosciuta da quelle divinità pre-olimpiche che Zeus e la sua corte hanno spodestato. Infatti, sebbene non fosse considerata parte della compagnia olimpica, ella mantenne il dominio su cielo, terra e mondo sotterraneo facendone la custode della ricchezza e delle benedizioni della vita. Zeus stesso onorò Ecate così tanto che le concesse sempre l'antico potere di donare o negare ai mortali i loro desideri. Non osò quindi destituirla, nonostante il potere di Ecate rimaneva grande quanto se non più del suo.

        Ecate è esperta nelle arti della divinazione. Ella dona agli umani i sogni e visioni che, se interpretati saggiamente, portano a grande chiarezza. Inoltre, conseguentemente alla sua associazione con Persefone, ella è connessa con la morte e la rigenerazione. La sua presenza è permesso, nella terra dell'aldilà, di speranza pre-ellenica di rinascita e trasformazione in opposizione ad Ade, che rappresenta l'inevitabilità della morte.

        Perse era associato alla distruzione, sia in agricoltura che in guerra. Alcune fonti suggeriscono che egli era a volte dipinto in spoglie canine, in modo simile ad Anubi, dio egiziano dalla testa di sciacallo associato all'aldilà. Questo è interessante se pensiamo al fatto che Ecate è regolarmente associata con i cani e con il mondo dei morti. Asteria, invece, è la dea titana che governa visioni, oracoli, sogni, profezie e necromanzia. Era anche associata a meteoriti, comete e astrologia. Di nuovo un chiaro collegamento ad Ecate, dea della magia, dei prodigi e del cielo notturno. Ricordiamo che Asteria ospitò la sorella Leto sotto forma di isola quando quest'ultima era perseguitata da Pitone agli ordini della gelosa Hera, che aveva ordinato a tutta la terra di non dare rifugio alla titana.

        Ecate era considerata una grande dea portatrice di benefici e benedizioni sicuramente fino al V sec. a.C., e sebbene da questo momento il suo lato più oscuro inizia a prendere piede, ancora sotto Silla (I sec. a.C.) ella era una dea romana delle feste pubbliche, quindi associata all'abbondanza, alla letizia e ai benefici.

        Durante il Medioevo, come abbiamo visto, Ecate divenne nota come Regina delle Streghe. Sebbene vada da sé che la dea incarnò per le donne che venivano chiamate "streghe" la loro protettrice, per la saggezza, l'illuminazione e gli insegnamenti che ella portava loro, in realtà questo nome venne affibbiato ad Ecate dalle autorità cattoliche. Queste affermavano che le persone più pericolose per la fede erano coloro che erano protette da Ecate, come levatrici, guaritori, saggi, erboristi, ecc. Per non parlare dei pagani, ovvero gli abitanti dei villaggi (pagus) dove l'insegnamento cattolico stentava ad arrivare o a insediarsi: i contadini, così attaccati ai rituali ed alle divinità della terra, vennero tacciati di adorazione del diavolo. Fu proprio in questo periodo che la potenza di Ecate fu offuscata dalle dicerie e dalle menzogne cattoliche che iniziarono a ritrarla come una vecchia brutta, bitorzoluta, cattiva e che lanciava maledizioni mentre portava a spasso il suo gregge di streghe.


        nel XVI sec. Ecate addirittura è sinonimo nell'immaginario collettivo del Male,la divinità è ritratta col suo folle seguito che rapisce bimbi e giovinetti. Questo corteo non rispondeva a quello di Ecate nella tradizione greco-romana, sebbene le figure demoniche che popolavano il folklore greco e che potevano costituire il corteggio di Ecate (Lamia, Empusa, Mormò, Gorgò e simili), così come i demoni mesopotamici (Lamashtu, Lilu, Ardat-Lili e simili) avevano queste caratteristiche.

        Accade invece nel Rinascimento che questi personaggi minori vengono dimenticati oppure più semplicemente associati e fusi insieme nel personaggio di Ecate (come già succedeva in alcuni casi anche in età greca). In questo periodo, artisti come Shakespeare menzionano Ecate nelle loro opere, ma è una dea ormai troppo associata alla stregoneria e al mondo degli spettri. Sicuramente gli studiosi come anche gli artisti conoscevano bene le origini di Ecate, ma il tentativo di aver mordente tra la massa li costringeva ad adottare le stesse immagini familiari a chi non aveva accesso agli studi.

        "Nel XIX sec. Ecate divenne (con l'eccezione della sopravvivenza del suo culto in Italia presso il lago Averno e altri posti in Grecia) una figura oscura conosciuta quasi esclusivamente fra gli studiosi. Poiché poco materiale scritto riguardo Ecate è sopravvissuto (e per altre ragioni) questi stessi studiosi la classificarono come una divinità minore e poco importante, e molti di loro di conseguenza tesero a ignorare il suo ruolo nel mito classico e nella cultura europea, minimizzarlo o semplicemente demonizzarla. Nonostante questa stereotipizzazione clamorosa, nel XX sec. Ecate, come parte di una riesaminazione globale del ruolo della Dea Oscura nel credo pagano, ritornò ad una posizione di preminenza. Ella trovò rispetto in una larga area di vari prospettive e culti e come un archetipo del lato oscuro della natura femminile, fu inclusa da molte streghe femministe nel loro pantheon della Grande Dea Madre. Fu addirittura abbracciata da molti pagani come loro esclusiva divinità.

        Allo stesso tempo, i suoi tributi ctonici la portarono ad essere adottata da un numero di gruppi non tradizionali considerati parte del movimento satanico. Fu anche la sua associazione con il sangue, la vita dopo la morte e la rinascita che fu motivo di connessione con i gruppi odierni di vampiri; ciò anche a causa del ritenuto corteo formato da creature vampirische quali Lamia ed Empusa.

        Comunque, riemergendo dall'oscurità nel dialogo sociale del XXI sec., Ecate non è ancora totalmente accettata e benvoluta. Ci sono ancora studiosi che, contro ogni evidenza del contrario, continuano a seguire le vecchie credenze e ad accantonarla come una spaventosa dea della notte, senza esaminare ulteriormente la sua figura. Inoltre, sebbene molti pagani la includono nei loro sistemi di credenze e culto, ce ne sono ancora molti che insistono al meglio nel vedere Ecate come l'aspetto pericoloso della Madre Oscura e, al peggio, nel rifiutarla completamente in nome del "politically correct". Questo rifiuto è dovuto non solo all'eccessivo sottolineare il suo aspetto ctonio ma anche a casa della sua forte associazione con l'uso della magia, che alcuni pagani tendono a vedere come una pratica coercitiva e crea, a volte, degli scismi. Comunque andranno le cose intorno al paganesimo come religione, Ecate rimarrà ancora per molto una figura controversa."

     

     

     




    Zeus/SELENE
      Nella mitologia greca Selene (in greco Σελήνη, "luna"; etimo: "la risplendente") è la dea della luna, figlia di Iperione e Teia, sorella di Elio (il sole) ed Eos (l'aurora).

      Selene è la personificazione della luna piena, insieme ad Artemide (la luna crescente), alla quale è a volte assimilata, ed a Ecate (la luna nuova). La dea viene generalmente descritta come una bella donna con il viso pallido, che indossa lunghe vesti fluide bianche od argentate e che reca sulla testa una luna crescente ed in mano una torcia. Molte rappresentazioni la raffigurano su un carro trainato da buoi o su una biga tirata da cavalli, che insegue quella solare.

      Fu amante di Zeus, dal quale ebbe Pandia ed Erse (la rugiada). Ebbe una relazione con Pan, che per sedurla si travestì con un vello di pecora bianca e Selene vi salì sopra.


      Pandia è una figura della mitologia greca. Figlia di Zeus e di Selene, era la personificazione del plenilunio e quindi dea della luna piena. Viene ricordata tra gli altri dei immortali, dai quali si distingue soprattutto per la sua avvenenza.

      Veniva celebrata con il padre Zeus in una festa ateniese nel mese di Elafebolione. feste che si celebravano ad Atene al termine delle Dionisie urbane in onore di Pandia, figlia di Selene e Zeus, In origine erano le feste più importanti d'Atene, ma con l'affermarsi delle Panatenee si ridussero ad appendice delle Dionisie.

      Un altro mito che la riguarda è quello dell'amore per Endimione, re dell'Elide. Una storia romanticissima e un po' triste: un giorno vide in una grotta un bellissimo giovane addormentato, Endimione; se ne innamorò perdutamente e lo baciò sugli occhi; ne nacque un grande amore, che diede la luce a ben cinquanta figlie; ma Selene non sopportava l'idea che un giorno il suo amante potesse morire, e lo fece sprofondare in un sonno eterno per poi andare a trovarlo ogni notte. Endimione dormiva con gli occhi aperti, per poter vedere l'apparizione della sua donna. Altre versioni meno romantiche della storia sostengono che Endimione avesse chiesto a Zeus di dormire per non perdere la sua giovanile bellezza, o addirittura per evitare che Selene rischiasse un'ulteriore gravidanza! Selene comunque non perde il suo fascino di personificazione della luna, che regala un po' di luce alla notte e un po' di sogno alla realtà.

      Amche nella mitologia romana fu associata alla Luna; il tempio della Luna si trovava a Roma sull'Aventino.

     

     

     




    Zeus/CALLIOPE
      Il nome significa "dalla bella voce". Fu la Musa ispiratrice a Omero dell'Iliade e dell'Odissea. La Maggiore fra le Muse, e la più saggia e sicura di se, fu giudice nella disputa fra Afrodite e Persefone su chi di loro dovesse frequentare Adone, decidendo che ciascuna di loro avrebbe trascorso lo stesso periodo di tempo con l'amato. E' conosciuta con una stilo con cui srive su tavolette di cera, o con un rotolo, o con un libro, e in capo porta una corona d'oro. Da Apollo ebbe i due figli Orfeo e Lino. Da Zeus suo padre, ebbe figli i coribanti che erano i sacerdoti di Cibele (Rea) (divinità nata dall'unione tra Gea e Urano). Onoravano la loro dea con danze sfrenate e orgiastiche, durante queste rumorosissime feste spesso si infliggevano volontariamente delle ferite. Inventori del tamburo a cornice, creavano musica basata sul ritmo ossessivo per curare l'epilessia e per sconfiggere la malinconia di Zeus. Inoltre onoravano il pino in onore di Attis (figlio della dea).

     

     

     




    Zeus/MAIA
      Ninfa del monte Cillene in Arcadia, figlia di Atlante e Plione. E' una delle sette figlie di Atlas.
      Il nome deriva da una radice ma- : si tratta di un nome di carattere familiare, significa "piccola madre".Con Zeus ebbe figlio Ermes o Mercurio.


      Mercurio (Ermes)
        Mercurio è il più intelligente di tutti gli dei olimpici ed è messaggero degli dei; per questo porta dei sandali dorati e alati, un cappello alato ed un'asta magica.

        E' il dio del commercio e dei ladri, la guida alle anime dei morti verso il mondo sotterraneo ed è quello che porta sogni ai mortali. Ha inventato la lira, la scala musicale, l'astronomia, i pesi e le misure.

        Come molti dei, Mercurio ha anche relazioni amorose con dee, ninfe e mortali. Pan, mezzo uomo e mezzo caprone, nacque dalla sua unione con Driope (la figlia del re Driops). Anche Abderus era suo figlio; era il compagno dell'eroe Ercole.

        Ermafrodite era nato dall'unione di Mercurio e di Afrodite ed era una divinità androgena. Mercurio era adorato in tutta la Grecia, specialmente in Arcadia; i festival in suo onore erano chiamati Ermea.


          Il mito del vello d'oro

          Eolo — non il Dio e padre dei venti, ma il progenitore della gente eolica, una delle grandi stirpi degli Elleni — aveva avuto dodici figli. Uno di questi Atamante, re dei Minii nella Beozia, aveva sposato Nefele, la dea della nube, dalla quale gli erano nati un figlio e una figlia: Frisso ed Elle; poi, ripudiata Nefele, era passato a seconde nozze con una donna mortale, Ino, figlia di Cadmo, fondatore di Tebe.


          La matrigna non amava i figliastri e cercò di perderli. Indusse le donne del paese a seminare chicchi di grano tostato, dai quali, naturalmente, non germogliarono messi. Una grave carestia scoppiò e il re mandò uomini a interrogare l'oracolo di Delo. Ino corruppe i messaggeri e questi, ritornando da Delo, riferirono non il responso dell'oracolo, ma le parole imposte dalla regina: — La carestia cesserà soltanto se Frisso sarà sacrificato a Giove (Zeus).
          «Cominciamo con Frisso — si era detta la matrigna — dopo penseremo a Elle». Atamante amava i suoi figli e di sacrificare Frisso non voleva affatto saperne; ma i sudditi insorsero ed egli dovette piegare il capo. Furono fatti i preparativi per il sacrificio e il giovinetto era vicino all'altare, quando Nefele, la madre divina, chiese aiuto a Mercurio (Ermes) il quale le mandò un ariete dal vello d'oro,  che poteva correre liberamente così sulla terra come attraverso il cielo; Frisso ed Elle montarono sulla groppa dell'ariete e l'ariete, levatosi in volo, in pochi istanti sparì all'orizzonte.
          — Non guardare in giù, sorellina, non guardare in giù — aveva subito raccomandato Frisso.
          Malauguratamente a un certo punto del viaggio Elle abbassò gli occhi, fu colta da vertigini, cadde e annegò in quel tratto di mare che da lei prese il nome di Ellesponto.

           Frisso invece arrivò a destinazione, nella Colchide, dove venne ospitato da Eete.

          Frisso dunque sacrificò l'animale agli dei, donando il vello ad Eete, che lo nascose in un bosco, ponendovi un drago di guardia.

          Il vello venne successivamente rubato da Giasone e dai suoi compagni, gli Argonauti, con l'aiuto di Medea, figlia di Eete.


          Giasone e gli argonauti


          Il mito sembrerebbe rifarsi ai primi viaggi dei mercanti-marinai proto-greci alla ricerca di oro, di cui la penisola greca è assai scarsa. Da notare che tuttora nelle zone montuose della Colchide e delle zone limitrofe, vivono pastori-cercatori d'oro seminomadi che utilizzano un setaccio ricavato principalmente dal vello di ariete, tra le cui fibre si incastrano le pagliuzze di oro.

          Il capo e organizzatore della spedizione, Giasone, era figlio di Esone, ed era discendente del dio Eolo. L'eroe viveva a Iolco, dove suo zio Pelia aveva usurpato il regno di Esone.
          Il giovane Giasone venne affidato, per crescere bene, alle cure del Centauro Chirone, che gli insegnò oltre a l'arte della guerra anche la medicina.

          L'avventura per la conquista del Vello iniziò quando Giasone, divenuto adulto, tornò al suo paese per pretendere il trono usurpato, vestito in modo bizzarro: indossava una pelle di pantera, ed aveva un piede scalzo, perché aveva perduto un sandalo nel guado del fiume Anauro. Il giovane arrivò nella piazza di Iolco mentre Pelia stava eseguendo dei sacrifici per gli dei.



          Si presentò al re e gli dichiarò chi egli era e che cosa pretendeva di ottenere. Pelia allibì. Peggio ancora; lo sguardo essendogli caduto sui piedi del nipote, gli tornò a mente la vecchia predizione di un oracolo ai principi del suo regno: «Guardati dall'uomo che calza un sandalo solo». Allora egli non aveva capito; ora capì e pensò tosto come disfarsi del pericoloso nipote.
          — Sta bene — gli disse cortesemente. — Io non mi rifiuto di riconoscere i diritti che tu accampi, sebbene tuo padre a suo tempo abbia rinunciato al trono. Ma, prima, ascoltami. Se tu fossi re e temessi che un suddito minacciasse la tua vita, quale provvedimento prenderesti?
          Giasone immaginò che il re gli rivolgesse quella domanda solo per saggiare l'accortezza della sua mente e rispose pronto:
          — Manderei quell'uomo alla conquista del Vello d'oro dell'ariete che ha trasportato in salvo Frisso.
          — Ebbene, va, e portami il Vello d'oro — disse il re cambiando tono d'un tratto e parlando imperioso. — Soltanto allora accederò alle tue richieste.

          Giasone aveva venti anni, era pieno di pensieri di gloria, aveva forte il braccio e ardito il cuore. Nonostante la pericolosità dell'impresa,  accettò. Dovendo sottrarre il vello d'oro che Eete, re della Colchide, aveva nascosto nel tempio di Marte, convocò i generali più forti della grecia e costruì una nave.
          La mitica nave che portò Giasone e gli Argonauti alla conquista del vello d'oro, si chiamava Argo.
          Diverse leggende parlano di questa nave:
          - La nave Argo venne progettata e costruita grazie al contributo della dea Atena, ella aveva personalmente preparato la prua della nave con una quercia sacra, proveniente dalla foresta di Dodona, donando alla prua il dono della parola oltre alla capacità di profetizzare.
          - Dopo il riuscito viaggio, Argo venne consacrata a Poseidone nell'istmo di Corinto. Venne quindi trasportata in cielo e trasformanta nella costellazione Argo Navis.
          - Diversi autori dell'antichità (Apollonio, Rodio, Plinio, Filostefano) discussero della figura ipotetica della nave. Veniva in genere immaginata come una nave da guerra greca, una galera, e gli autori ipotizzarono che fosse anche la prima nave di questo tipo che avesse intrapreso un viaggio in alto mare, e il suo equipaggio era protetto dalla dea Era
          - Anche il nome dato alla nave fece discutere. Alcuni lo descrissero come il nome del suo costruttore, il carpentiere Argo, figlio di Phrixus; altri come la parola greca αργός, "rapida", essendo una nave leggera; altri alla città di Argos, dove si suppone che venne costruita; altri ancora alle Argive, che vi salirono a bordo, secondo il distico citato dallo statista dell'antica Roma Cicerone nel suo primo Tuscolano.


          LIBRO PRIMO

          Con lui salpavano:

          Orfeo, il mitico cantore figlio della musa Calliope e del dio fluviale Eagro. Si narrava che il suo canto avesse poteri taumaturgici, tali da costringere le querce di un bosco a seguirlo ed allinearsi lungo le coste.
          Dopo Orfeo, che è posto così in rilievo, inizia il catalogo vero e proprio dei partecipanti che vengono presentati nell'atto di raggiungere la spiaggia per unirsi a Giasone: Asterione, Polifemo, Ificlo (zio di Giasone), Admeto di Fere, Erito ed Echione (figli di Hermes e di Antianira), Etalide (figlio di Hermes ed Eupolemea), Corono (figlio di Ceneo). L'indovino Mopso, Euridamante, Menezio (figlio di Attore e padre di Patroclo).
          Eurizione, Eribote, Oileo, Canto (figlio di Caneto d'Eubea).
          Clizio e Ifito, figli di Eurito.
          Telamone e Peleo, figli di Eaco.
          Bute e Falero, dalla Cecropia.
          Tifi, figlio di Agnia, pilota della nave.
          Fliante, della città di Aretira (Peloponneso).
          Taleo e Areo (figli di Biante), con Leodoco, da Argo.

          Al centro del catalogo compare, in posizione di particolare rilievo, la figura di Eracle. Apollonio lo presenta appena tornato dalla cattura del cinghiale del monte Erimanto che subito, contro il volere di Euristeo, si incammina per unirsi alla spedizione degli Argonauti.
          E' con lui il giovane scudiero Ila, figlio di Teodamante, re della Misia. Nauplio, discendente di Danao e padre di Palemede. Idmone, altro indovino della missione, che decise di partire pur prevedendo la propria morte.
          I Dioscuri Castore e Polluce, figli di Leda e di Zeus (in altre versioni solo Castore è figlio del dio).
          Ida e Linceo, figli di Afareo.
          Periclimeno, figlio di Neleo.
          Anfidamante e Cefeo, figli di Aleo; Anceo, figlio di Licurgo.
          Augia, figlio del Sole, noto per la fatica di Eracle nelle sue stalle.
          Asterio e Anfione, figli di Iperasio, dall'Acaia.
          Eufemo, figlio di Posidone e di Europa, così veloce da poter correre sull'acqua.
          Ergino di Mileto e Anceo, figlio di Posidone, dell'Asia Minore.
          Meleagro, figlio di Eneo, giovanissimo, accompagnato dal precettore Laocoonte.
          Ificlo, zio di Meleagro, da non confondere con l'omonimo zio di Giasone.
          Palemonio, figlio di Efesto.
          Ifito della Focide, da non confondere con l'omonimo fratello di Clizio.
          Zete e Calais, figli di Borea, dotati di ali.
          Completano il catalogo Acasto, figlio di Pelia ed Argo, che sotto la guida di Atena aveva costruito la nave.

          Con grande effetto scenico Apollonio rende l'atmosfera della partenza degli eroi tramite le parole di due gruppi di astanti, in funzione di semicori teatrali, l'uno maschile e l'altro femminile: mentre il primo elogia l'aspetto eroico degli Argonauti, il secondo descrive il dolore e la desolazione di Esone ed Alcimede, genitori di Giasone.
          Segue il lamento di Alcimede per la partenza del figlio, lamento consolato da Giasone. Tema del colloquio è, accanto alla disperazione della madre, la controllata rappresentazione antieroica che Apollonio fornisce di Giasone.
          Infine Giasone si incammina verso la nave, fra l'emozione della folla.
          Qui si tratteggia l'episodio della vecchia Ifiade, sacerdotessa di Artemide, che bacia la destra di Giasone ma non riesce a parlare, vinta dall'emozione, e rimane indietro, superata dalla folla di giovani.
          Prima di salpare Giasone raduna gli uomini e propone la libera elezione di un comandante, tutti guardano ad Eracle, ma questi rifiuta ed propone, con un breve discorso, che il capo sia Giasone. Giasone accetta lietamente ed ordina che prima di partire si costruisca un altare in onore di Apollo e si celebri un banchetto rituale con sacrifici al dio.
          Infine si procede al varo della nave, operazione che viene descritta nei particolari con linguaggio sapientemente vivace, si sorteggiano i posti dei rematori e si affida a Tifi il compito di pilotare Argo. Idmone pronuncia un vaticinio, guardando il sangue dei sacrifici, è una prima risposta alle preghiere rivolte da Giasone ad Apollo: il fato prescrive l'esito positivo della missione. Quanto a se stesso, Idmone conferma che non potrà tornare in Grecia, ma accetta la morte per la gloria della sua famiglia.

          Al tramonto gli eroi banchettano sulla spiaggia allegramente, con grande abbondanza di vino e di cibo, Eracle ed Anceo hanno infatti abbattuto due buoi offerti da Giasone per i sacrifici. Solo Giasone appare triste e pensieroso, lo nota Ida che, con atteggiamento tracotante, lo esorta a non aver paura. A Ida risponde con durezza Idmone deprecandone la superbia, la lite che segue è placata da Orfeo che inizia a cantare di argomenti mitici catturando l'attenzione di tutti.
          Nel canto di Orfeo Apollonio riprende tradizioni rare ed erudite che vedono Ofione e Eurinome come predecessori di Crono e Rea, mentre nella mitologia più diffusa Crono succedeva direttamente a Urano dopo averlo evirato.
          Si parla anche di Zeus, cresciuto nell'isola di Creta, al riparo dalla minaccia paterna, al quale i Ciclopi avevano fornito il trono e la folgore.

          All'alba Tifi risveglia i compagni e finalmente ci si dispone alla partenza. Apollonio descrive solennemente la nave sospinta dai remi che si stacca dalla riva e prende il largo, osservata dagli dei. Il centauro Chirone con il piccolo Achille raggiunge la spiaggia per salutare Peleo e i suoi compagni.
          Usciti dal porto a forza di remi, gli Argonauti issano la vela mentre Orfeo intona un canto in onore di Artemide protrettrice delle navi e di Iolco.
          Dopo un giorno di navigazione nell'Egeo, la nave Argo approda sulle coste di Magnesia, presso la tomba dell'eroe arcaico Dolope. Dopo tre giorni di sosta forzata dai venti contrari la nave riprende il mare.
          Apollonio continua la descrizione sintetica dell'itinerario, un'elencazione catalogica dei luoghi. Il secondo giorno, dopo aver superato il monte Athos, Argo raggiunge l'isola di Lemno.
          Qui l'anno precedente si era consumata una grande tragedia; gli uomini avevano a lungo trascurato le mogli per amare delle schiave trace giunte sull'isola. Accecate dalla gelosia, provocate anche dall'ira di Afrodite che era stata a lungo privata degli amori dovutile, le donne avevano ucciso tutti gli uomini e le loro amanti. Nell'eccidio non erano morti soltanto i mariti infedeli ma tutti gli individui di sesso maschile dell'isola. In questo modo - avevano pensato le omicide - nessuno avrebbe potuto in futuro punirle. Si salvò solo il vecchio Toante al quale la figlia Ipsipile offrì una possibilità di scampo abbandonandolo in mare in una cassa.
          Da allora le donne di Lemno avevano svolto i lavori maschili, sempre temendo che dal mare arrivassero i nemici Traci. Per questo timore le donne di Lemno accolgono con ostilità gli Argonauti (che scambiano per Traci) ma Etalide - inviato come araldo alla regina Ipsipile - la convince a lasciarli pernottare sull'isola.
          Ipsipile convoca in adunanza le concittadine e propone che si offrano doni agli Argonauti portandoli sulla spiaggia per evitare che questi, entrando in città, scoprano i loro misfatti. Ma la vecchia Polisso è di diversa opinione: prevedendo un'orrenda vecchiaia per tutte loro che senza figli e senza sposi, resteranno indifese a morire sull'isola, propone che si trattengano i nuovi venuti, si affidi loro il governo dell'isola ed il futuro della sua popolazione.
          Così decide l'assemblea ed Ipsipile invia Ifinoe alla nave perché inviti gli Argonauti ad entrare in città. Accogliendo l'invito Giasone veste il suo mantello, donatogli da Atena, e qui inizia una lunga digressione nella quale Apollonio descrive gli episodi mitici ricamati nei riquadri del mantello, con evidente riferimento al modello omerico della descrizione dello scudo di Achille.
          I riquadri del mantello riproducono:
          - i Ciclopi intenti a fabbricare la folgore di Zeus;
          - la fondazione di Tebe ad opera di Anfione e Zeto;
          - Afrodite che si specchia nello scudo del suo amante Ares;
          - i pirati Teleboi che fanno strage dei figli di Elettrione;
          - la gara tra Enomao e Pelope per la mano di Ippodamia;
          - Apollo che uccide Tizio;
          - Frisso che dialoga con il magico montone

          Continua la descrizione della vestizione di Giasone con la lancia a questi donata da Atalanta. La vergine guerriera aveva chiesto di partecipare all'impresa, ma Giasone non l'aveva accettata temendo che la sua presenza femminile creasse difficoltà e gelosie.
          Giasone si reca alla reggia di Ipsipile attraversando la città fra gli sguardi affascinati delle donne. La regina gli fornisce una versione parzialmente falsata degli eventi: sconvolti dalla passione per le schiave trace gli uomini di Lemno avevano abbandonato e trascurato le loro donne finchè queste, indignate, non si erano accordate per chiuderli tutti fuori della città. Gli uomini si erano tutti trasferiti in Tracia portando con loro i figli maschi ed ora Lemno era popolata di sole donne. Per questi motivi esse pregavano gli stranieri di rimanere sull'isola, in particolare Ipsipile offriva a Giasone la sua casa, il suo letto ed il trono paterno.
          Giasone torna alla nave per riferire la proposta ai compagni dopo aver avvisato Ipsipile che in nessun caso essi potranno rimanere per sempre in quanto hanno una missione da compiere. Lo seguono le donne recando doni ai marinai. Gli Argonauti si trattengono a lungo sull'isola finchè Eracle, che con pochi compagni ha rifiutato di lasciare la nave, non li riunisce per rimproverarli. Con il suo discorso Eracle riprende di fatto il comando della missione ed ordina ai compagni di rimettersi in mare, Giasone resti pure, se vuole, nel letto di Ipsipile per ripopolare l'isola di Lemno.
          Le donne di Lemno prendono commiato con dolce tristezza degli Argonanti. Anche Ipsipile saluta Giasone e gli promette di conservagli il trono se un giorno vorrà tornare da lei. Giasone le chiede, se avrà un suo figlio maschio, di mandarlo a Iolco, una volta cresciuto a conoscere i nonni paterni.
          Gli Argonauti ripartono e, verso sera, raggiungono l'isola di Samotracia, dove - su consiglio di Orfeo - partecipano a riti misterici che l'autore dice di non poter descrivere in ossequio al segreto religioso.
          Proseguendo il viaggio Argo raggiunge l'Ellesponto "fremente di vortici", giunge infine ad una penisola della Propontide, nel Mar Nero, detta "Monte degli Orsi", abitata da mostri a sei braccia. Loro vicini sono i Dolioni, sui quali regna Cizico, figlio di Eneo. Cizico, che era stato avvertito da un oracolo, accoglie gli Argonauti ed offre loro la sua ospitalità. Il re, giovanissimo, aveva da poco sposato Clite, figlia di Merope, e non aveva ancora avuto figli. Dopo il banchetto offerto da Cizico, Dolioni e Argonauti sono attaccati dagli orrendi vicini, i "Figli della terra", giganti con sei braccia. Li combatte Eracle, subito imitato dagli altri compagni ed infine i mostri vengono sterminati. Dopo la battaglia gli Argonauti riprendono il mare, ma durante la notte il vento contrario li riporta sulla costa dei Dolioni. Nelle tenebre gli Argonauti non si rendono conto di essere tornati indietro ed anche i Dolioni non li riconoscono e credono si tratti sbarco nemico. L'equivoco provoca una battaglia nella quale Cizico cade ucciso da Giasone. La luce dell'alba svela l'accaduto e Argonauti e Dolioni si uniscono nella comune disperazione. Grandi onori funebri vengono tributati a Cizico, mentre la sua sposa Clite si toglie la vita.
          Per dodici giorni e dodici notti la condizione del mare impedisce agli Argonauti di ripartire, una notte l'indovino Mopso interpreta la voce di un alcione che sorvola il capo di Giasone addormentato: Giasone dovrà placare la collera di Cibele per ottenere il vento propizio.
          Subito Giasone ed i compagni costruiscono un altare per Cibele e svolgono riti pregando la dea di far cessare la tempesta. La danza rituale degli Argonauti, che con il clangore delle armi disperdono i lamenti dei Dolioni, serve ad Apollonio per giustificare l'origine di comportamenti cultuali ancora ai suoi tempi in essere in quelle regioni.
          Accogliendo la supplica, la dea si manifesta con vari prodigi: subitanea fioritura dei campi, belve mansuete e l'improvviso sgorgare di una fonte che sarà poi detta "fonte di Giasone".
          Il mattino seguente Argo riprese il mare e, nella bonaccia, i marinai improvvisarono una gara di resistenza. A sera, tuttavia, il mare si ingrossò e mentre tutti, sfiniti, abbandonavano il remo, solo Eracle continuò a vogare. Erano già in vista delle coste della Misia quando il remo di Eracle si ruppe. Apollonio descrive ironicamente il fortissimo eroe che cade in terra per il contraccolpo e rimane stupito ed imbarazzato a guardarsi le mani.
          I Misi accolgono gli Argonauti con amicizia ed offrono loro un abbondante banchetto.
          Solo Eracle diserta il banchetto per cercare nel bosco un tronco con il quale costruire un nuovo remo. Trovato un albero di suo gradimento non esita a svellerlo dal terreno a forza di braccia. Intanto Ila si era allontanato dai compagni in cerca di una fonte.
          Breve disgressione sulla storia di Ila: Eracle lo aveva preso con se ancora fanciullo dopo aver ucciso il padre Teodamante, re dei Driopi in una guerra da lui stesso provocata per punire l'ingiustizia di quel popolo.
          Giunto ad una fonte Ila incontra un gruppo di ninfe intente a danzare in onore di Artemide. Una ninfa, colpita dalla bellezza del giovane, lo abbraccia trascinandolo nel vortice della fonte. Solo Polifemo sente il grido di Ila e si da inutilmente a cercarlo nei pascoli.
          Polifemo incontra Eracle e lo avverte della sparizione di Ila e del grido che ha udito. Anche Eracle, sconvolto, comincia a vagare per la vegetazione cercando e chiamando il giovane scomparso.
          All'alba gli Argonauti riprendono il mare e solo dopo qualche tempo si accorgono della mancanza di alcuni compagni.
          Nasce una lite per quanti vogliono tornare a cercare Eracle e quanti vogliono proseguire, Giasone è incapace di prendere una decisione e Telamone lo accusa di gradire la scomparsa di Eracle, che avrebbe potuto offuscare la sua gloria. A Telamone si oppongono Zete e Calais che, anticipa Apollonio, saranno per questo uccisi da Eracle molto tempo più tardi.
          A dirimere la contesa appare dal mare Glauco, eroe divinizzato, che spiega gli eventi agli Argonauti: Eracle deve tornare ad Argo per volere di Zeus ed ivi completare le sue fatiche prima di essere ammesso all'Olimpo, Polifemo è destinato a rimanere nella Misia per fondare una gloriosa città, quanto a Ila è stato rapito da una ninfa che ne ha fatto il suo sposo.
          Tranquillizzati gli Argonauti riprendono il viaggio mentre Telamone chiede ed ottiene il perdono di Giasone.
          Eracle, rimasto in Misia, minaccia di distruggere il paese e gli vengono consegnati alcuni giovani in ostaggio per rassicurarlo sulla continuità degli sforzi per rintracciare Ila.
          Il libro si chiude con gli Argonauti che, dopo aver navigato per tutto il giorno e la notte successiva sospinti da un vento impetuoso giungono all'alba in vista di una nuova terra.



          LIBRO SECONDO


          Erano giunti nel paese dei Bebrici, governati da Amico, figlio di Posidone e della ninfa Melia. Amico, estremamente arrogante, aveva stabilito una legge nei confronti degli ospiti: nessuno poteva andar via senza essersi battuto con lui nel pugilato, in questo modo aveva ucciso molti ospiti. Amico sfida subito gli Argonauti, ignorando le più semplici regole dell'ospitalità. Alla sua sfida risponde con indignazione Polluce.
          I preparativi del combattimento sono descritti con effetti di grande efficacia: Amico è rosso, selvaggio, viene paragonato con il mostruoso Tifeo. Per contro Polluce appare giovane e radioso, paragonabile ad una divinità solare. Il contrasto dell'aspetto fisico dei contendenti è ripetuto e accentuato nei loro atteggiamenti. Con parole arroganti e minacciose Amico ordina a Polluce di scegliere i cesti (i guantoni) con i quali combattere. Polluce ribatte solo con un sorriso alle provocazioni dell'altro.
          Anche durante lo scontro Apollonio confronta la forza bruta di Amico con l'intelligenza di Polluce: mentre il primo attacca senza sosta con l'irruenza "del flutto che si solleva violento contro una rapida nave" il secondo evita agilmente i colpi più duri e studia la tattica e le debolezze del nemico. Dopo un lungo combattimento Polluce schiva un colpo micidiale e colpisce Amico alla testa fratturandogli il cranio. Mentre Amico esala l'ultimo respiro i Bebrici si scagliano su Polluce che viene subito protetto da alcuni compagni. Ne segue un combattimento descritto in stile omerico, almeno nelle linee generali anche se i singoli episodi sono riportati in estrema sintesi. I Bebrici vengono presto sopraffatti, è in particolare Anceo che giù in precedenza ha presentato caratteri molto simili a quelli di Eracle, a scatenarsi fra i nemici mettendoli in fuga. Nel frattempo, avverte Apollonio, i Mariandini, nemici dei Bebrici, approfittando dell'assenza di Amico, avevano saccheggiato capi e villaggi.
          Durante la notte gli Argonauti banchettano sulle rive e festeggiano la vittoria di Polluce. Al mattino Argo riprende il mare e si dirige verso il Bosforo. Qui un'onda gigantesca minaccia la nave che viene tratta in salvo dall'abilità del timoniere Tifi. Il giorno seguente la nave approda alla terra di Fineo.
          Fineo, indovino ed ex re dei Traci, era stato punito da Zeus per aver abusato delle sue arti profetiche e condannato ad un interminabile vecchiaia tormentata dalle cecità e dalle Arpie che rubavano sempre il suo cibo lasciandogliene solo pochi resti immondamente contaminati. Fineo riconosce gli Argonauti grazie alla chiaroveggenza e li prega di liberarlo dalle Arpie, giura che l'aiuto a lui dato non provocherà l'ira degli dei.
          Viene preparato del cibo per Fineo ma l'intervento fulmineo delle Arpie gli impedisce come sempre di servirsene. Zete e Calais si lanciano all'inseguimento dei mostri volanti. Gli alati figli di Borea raggiungono i mostri e stanno per ucciderli quando interviene Iride, messaggera di Zeus: non è a loro concesso uccidere le Arpie, ma Iride giura sullo Stige che esse non torneranno più a tormentare Fineo.
          Credendo al giuramento i Boreadi tornano indietro. Intanto gli Argonauti avevano lavato il vecchio ed approntato un banchetto al quale Fineo partecipa assaporando il cibo con un piacere quasi onirico.
          Finalmente sazio il vecchio indovino pronuncia una profezia sull'esito della missione di Argo. Inizia precisando che l'oracolo sarà incompleto come vuole Zeus e che non ripeterà l'errore che gli è già costato tanta sofferenza. Fineo avverte gli Argonauti che dovranno superare le Simplegadi, rupi mobili che seguono il passaggio fra il Bosforo ed il Mar Nero: prescrive di mandare avanti una colomba, se questa non supererà le rupi dovranno senz'altro abbandonare l'impresa, pena l'essere schiacciati dalle rupi. Se supereranno le Simplegadi - e la profezia è pronunciata in modo da non fornire garanzie in merito - gli Argonauti entreranno nel Ponto. Vengono elencate rapidamente le tappe successive (l'isola di Tinia, la terra dei Mariandini, la scogliera Acherusia, la terra dei Paflagoni, ecc.) in una elencazione di stile catalogico. La profezia giunge fino alla Colchide, con la descrizione del Vello appeso ad una quercia nel bosco sacro ad Ares evitando tuttavia di soffermarsi sugli aspetti chiave del viaggio e di dare indicazioni ulteriori di comportamento, secondo il desiderio del voto non ripetere i suoi errori passati. Giasone, angosciato, chiede esplicitamente se dopo l'impresa riusciranno a tornare in Grecia e come potranno, inesperti di navigazione come sono, affrontare un viaggio tanto lungo e pericoloso. Fineo risponde in modo oscuro che un dio li assisterà e che dovranno "cercare l'inganno di Cipride, alludendo all'aiuto di Medea".
          Tornano Zete e Calais e riferiscono dell'inseguimento, dell'intervento di Iride e del suo giuramento con grande letizia di tutti ed in particolare di Fineo.
          Sorge l'aurora ed i vicini di Fineo giungono come di consueto a portare aiuto al vecchio ed a chiedere consigli alla sua chiaroveggenza, tutti si rallegrarono apprendendo all'arrivo degli Argonauti e della cacciata delle Arpie, eventi che il vecchio aveva da tempo predetto. Fra loro è Parebio, un pastore che aveva a lungo scontato con una vita di difficoltà e privazioni la colpa del padre che aveva abbattuto un albero sacro, ignorando le preghiere di una ninfa che vi abitava. Parebio, su consiglio di Fineo, aveva ottenuto il perdono innalzando un altare e dedicando sacrifici alla ninfa. Il pastore era stato sempre riconoscente all'indovino e lo aveva aiutato con ogni suo mezzo. Ora Fineo gli chiede un montone da offrire agli eroi e subito Parebio gliene porta due, gli animali vengono sacrificati e gli eroi trascorrono in un lungo banchetto un altro giorno di riposo.
          Apollonio inserisce qui una digressione sul mito di Aristeo che aveva risolto una terribile siccità implorando Zeus ed ottenendo i benefici venti etesi. La digressione serve appunto ad introdurre l'alzarsi di tali venti che, spirando in senso contrario, costringono gli Argonauti ad una lunga ed imprevista sosta presso Fineo.
          Infine, dopo aver costruito un altare agli dei, gli Argonauti si rimettono in viaggio, pronti ad affrontare il passaggio delle Simplegadi. Dall'Olimpo la dea Atena si porta sul luogo per prestare il suo soccorso. Come prescritto da Fineo gli Argonauti liberano una colomba e vistala attraversare illesa il terribile passaggio, si mettono ai remi con grande vigore per superare le Simplegadi. L'episodio è reso con grande tensione drammatica: l'abilità del timoniere, lo sforzo supremo dei rematori, le grida di Eufemo che incita i compagni a remare più forte; il riflusso della corrente finisce comunque per immobilizzare la nave nella minacciosissima gola e solo una spinta poderosa della mano invisibile di Atena fa uscire Argo dal passaggio prima che le rupi si richiudano saldandosi definitivamente fra loro.
          La tensione dell'episodio si risolve in una scena dialogata: Tifi, pur non consapevole dell'intervento di Atena, attribuisce alla dea il merito del successo riferendosi alla solidità strutturale di Argo della quale Atena è la principale artefice. Ora che le Simplegladi sono alle loro spalle l'esito dell'impresa è assicurato, conclude Tifi ottimisticamente. Giasone tuttavia risponde con un discorso in negativo, si dichiara pentito di essere partito e tormentato dal timore di esporre continuamente i suoi compagni a pericoli mortali. I commenti dei compagni - non riferiti dall'autore - servono però a confortare Giasone che finisce per condividere l'ottimismo di Tifi e tutti tornano, rinfrancati a remare.

          Dopo un altro tratto di faticosa navigazione, nella prima luce del giorno, Argo raggiunge l'isola Tinia. Qui agli Argonauti stremati dalla fatica appare il dio Apollo. Il dio cammina verso la terra degli Iperborei, recando con se l'arco e la faretra. Non si rivolge agli Argonauti, anzi li ignora e quelli rimangono muti a contemplare in religioso stupore le divine fattezze del Nume. Solo dopo che Apollo è svanito in lontananza, camminando nell'aria sopra il mare, Orfeo si riscuote ed invita i compagni ad onorare Apollo.
          Subito si innalza un altare e, con la caccia, si procurano vittime per i sacrifici. Orfeo canta le gesta di Apollo, l'uccisione del serpente Pitone, e tutti si giurano amicizia e reciproco aiuto, in nome della Concordia.
          All'alba del terzo giorno Argo lascia l'isola per raggiungere, il mattino successivo, il porto di Capo Acherusio, nella terra dei Mariandini. Nei pressi si trova uno degli ingressi dell'Ade, dove il fiume Acheronte si getta in un orrido immenso.
          Gli Argonauti, preceduti dalla loro fama, vengono accolti dai Mariandini con grande amicizia. Questi infatti sono al corrente dell'uccisione di Amico, re dei Bebrici, loro tradizionali nemici.
          Il re Lico offre loro un lauto banchetto e Giasone gli racconta tutti gli eventi del viaggio. Lico si duole con gli Argonauti per la perdita del famoso Eracle. Apollonio utilizza lo spunto per narrare per bocca di Lico le precedenti imprese di Eracle. Eracle era stato in quei luoghi in passato ed aveva aiutato i Mariandini contro vari nemici. Partito Eracle i Bebrici di Amico avevano tolto a Lico molte delle sue terre, ma ora Polluce li aveva vendicati.
          In segno di riconoscenza Lico dispone che suo figlio Dascilo si unisca alla spedizione procurando agli Argonauti benevoli accoglienze fra i popoli amici. Inoltre Lico decide di costruire un tempio in onore dei Dioscuri sulla vetta del promontorio Acherusio.
          Poco prima della partenza si verifica un triste evento: Idmone viene aggredito da un feroce cinghiale, Peleo ed Ida abbattono la bestia ma Idmone spira fra le loro braccia mentre viene condotto alla nave. Gli Argonauti rimandano la partenza per rendere le dovute onoranze funebri ad Idmone, ma durante le esequia muore anche Tifi, ucciso da un morbo improvviso.
          La perdita del pilota e dell'indovino getta gli Argonauti in uno stato di impotente desolazione finché Anceo, ispirato da Era, non si offre di sostituire Tifi alla guida di Argo. La proposta di Anceo, caldeggiata da Peleo serve a scuotere gran parte degli uomini e, nonostante il pessimismo di Giasone, si decide di riprendere il viaggio.

          Navigando vedono la foce del fiume Callicoro, dove Dioniso aveva istituito danze a lui sacre, ed il sepolcro di Stenelo, caduto combattendo le Amazzoni al fianco di Eracle. L'ombra dell'eroe appare rapidamente sulla tomba, inducendo gli Argonauti a fermarsi per rendergli onore.
          La tappa successiva è nella terra d'Assiria, dove nel mito aveva dimora la vergine Sinope, negatasi a tre divinità. Qui gli Argonauti incontrano tre ex compagni di Eracle: Deileonte, Autolico e Flogio i quali si uniscono alla spedizione.
          Proseguendo gli Argonauti raggiungono e superano la terra delle Amazzoni, senza avere occasione di incontrarle, occasione che avrebbe certamente provocato uno scontro data l'indocile natura delle figlie di Ares.
          Subito dopo oltrepassano il paese dei Calibi, popolazione che ricavava il proprio sostentamento dalla produzione del ferro.
          Seguono i Tibareni, noti per l'usanza degli uomini di mimare le doglie del parto delle loro mogli.
          Proseguendo l'elenco di particolari curiosi e sorprendenti che caratterizza questa parte del viaggio, Apollonio parla del popolo dei Mossineci, dalle singolari usanze: fanno l'amore in pubblico e condannano il re, quando sbaglia un giudizio, ad un giorno di digiuno e reclusione.

          Giunti in vista dell'isola di Ares, gli Argonauti vengono aggrediti da terribili uccelli che li feriscono lasciando cadere le loro penne taglienti.
          Anfidamante escogita un espediente per superare l'ostacolo: gli Argonauti indossano gli elmi, ostentano lance e scudi, levano grida fortissime, il tutto per produrre un effetto tale da spaventare gli uccelli. L'espediente ha successo e gli Argonauti, protetti dalla tettoia formata dagli scudi, raggiungono l'isola, mentre gli uccelli fuggono spaventati. La tappa sull'isola di Ares è stata consigliata da Fineo ed Apollonio passa ora a spiegarne le ragioni.
          I figli di Frisso, poco prima, avevano intrapreso un viaggio contemporaneo ed in direzione opposta a quella di Argo, erano partiti dalla Colchide per raggiungere Orcomeno e recuperare le ricchezze del padre, come questi aveva ordinato loro morendo. Avevano però fatto naufragio sull'isola di Ares e qui incontrano gli Argonauti ai quali si affrettano a chiedere aiuto. Interrogati da Giasone i naufraghi sintetizzano la storia di Frisso che aveva raggiunto la Colchide cavalcando un montone volante poi mutato in oro da Hermes. Frisso aveva sposato Calciope, figlia di Eeta e dalla loro unione erano nati i quattro naufraghi: Citissoro (Cilindro), Frontis, Melas, Argo.
          Giasone rivela loro di essere nipote di Creteo, fratello di Atamante, padre di Frisso, sono dunque parenti, offre loro quindi indumenti con i quali coprirsi ed insieme offrono sacrifici ad Ares.
          Giasone chiede ai figli di Frisso di seguirlo ed aiutarlo, con la loro esperienza dei luoghi, nella conquista del vello d'oro. Quelli inorridiscono e descrivono la crudeltà di Eeta e la ferocia del serpente immortale, nato dal sangue di Tifone che custodisce il vello. Interviene Peleo ed interrompe il discorso che minaccia di terrorizzare gli Argonauti.
          L'indomani Argo lascia l'isola di Ares e costeggia l'isola di Filira, qui si era svolto l'adulterio di Crono con l'oceanina Filira, da cui era nato il centauro Chirone.
          Giunti in vista del Caucaso gli Argonauti avvistano la grande aquila che si nutriva del fegato di Prometeo, ivi incatenato, quindi odono il lamento del Titano.
          Quella notte, guidati dai figli di Frisso, giungono alla foce del fiume Fasi, estremo confine del Ponto. Risalendo il fiume raggiungono il bosco sacro ad Ares dove il mostruoso serpente custodisce il vello d'oro.



          LIBRO TERZO


          Dall'Olimpo Era ed Atena osservano gli eroi finalmente giunti in Colchide e discuteno su come aiutarli, Era propone di coinvolgere Afrodite perché faccia innamorare Medea di Giasone ed Atena, ignara dei giochi e delle pene d'amore, acconsente.
          Nella casa di Efesto, Afrodite accoglie con sorpresa la visita di Era ed Atena. Le parla Era spiegando le ragioni del suo affanno per Giasone: ella lo stima per un atto di pietà compiuto nei suoi confronti mentre si fingeva una debole vecchia, inoltre ha in odio Pelia che l'aveva una volta trascurata nei suoi sacrifici. Dunque Era chiede ad Afrodite di mandare suo figlio Eros da Medea perché si innamori di Giasone, Afrodite è perplessa, spiega che suo figlio le reca ben poco rispetto e nessuna obbedienza, tuttavia tenterà, per compiacere le dee.
          Afrodite va in cerca di Eros e lo trova nelle valli di Olimpo intento a giocare a dadi con Ganimede. Ganimede, sconfitto, si allontana con disappunto, senza notare l'arrivo della dea.
          Afrodite incarica Eros di colpire con le sue magiche frecce il cuore di Medea e gli promette in cambio un giocattolo favoloso, già di Zeus quando era bambino, una palla luminescente dai mille riflessi che lanciata lascia nell'aria un alone di luce. Come un bambino capriccioso Eros insiste per ottenere subito il regalo me Afrodite promette che glielo darà solo a missione compiuta.
          Mentre Eros vola verso Colclide gli Argonauti si riuniscono in assemblea.
          Giasone propone di compiere un tentativo diplomatico per ottenere il Vello d'Oro senza far uso della forza. Ottenuto il consenso dei compagni prende con se i quattro figli di Frisso, Telamone ed Augia e si reca alla reggia di Eeta.
          Il cammino di Giasone e dei suoi compagni attraversa una scena macabra: non era infatti uso dei Colchi cremare o seppellire i morti, ma li appendevano agli alberi, fuori città, avvolti in pelli di bue non conciate.
          Viene descritta la splendida reggia di Eeta, adornata da molte opere fra cui i tori di bronzo forgiati da Efesto. Nella stanza più grande abitava Eeta, con la sua sposa Idea, figlia di Oceano e di Teti. In un'altra abitava Assirto da questi concepito con la ninfa caucasica Asterodea, prima del matrimonio.
          Nella reggia vivevano anche le due figlie di Eeta, Calciope e Medea, sacerdotesse di Ecate. Scorgendo improvvisamente i visitatori Medea lancia un grido, richiamando la sorella e le ancelle.
          Calciope, accorsa, riconosce i propri figli che abbraccia con gioia. Accorrono anche Eeta e Idea, si riunisce gran folla ed i servi si affrettano ad imbandire il consueto banchetto. Nel frattempo giunge, invisibile, Eros ed in un istante compie la sua missione lasciando Medea sconvolta ed innamorata.
          Durante il banchetto Eeta interroga I nipoti sulle ragioni del ritorno e sull'identità dei loro accompagnatori. Risponde Argo, il maggiore dei figli di Frisso, ricordando la tempesta ed il naufragio, nonché l'aiuto ricevuto dagli Argonauti sull'isola di Ares.
          Infine Argo spiega la ragione del viaggio di Giasone. Argo dichiara che le intenzioni di Giasone sono pacifiche e che in cambio del Vello egli intende aiutare Eeta a combattere i Sauromati, nemici dei Colchi. Passa quindi ad esporre le origini dei suoi amici, Giasone discende, come Frisso, da Eolo; Augia - come Eeta - è figlio del Sole e Telamone è figlio di Eaco, nato da Zeus.

          La reazione di Eeta è terribile, egli sospetta che gli Argonauti tramino per privarlo del regno e che i figli di Frisso siano d'accordo con loro. Li caccia tutti e rimpiange che l'averli accolti alla sua mensa gli impedisca ora di punirli severamente.
          Con un breve discorso adulatorio Giasone riesce a calmarlo, ma Eeta gli propone una terribile prova: egli dovrà arare un campo usando i buoi di bronzo creati da Efesto, seminarlo con denti di drago e vincere i terribili guerrieri che, al tramonto, nasceranno dalla semina. Solo quando avrà superato questa prova - alla quale Eeta dichiara di essersi più volte sottoposto - Giasone otterrà il Vello d'Oro. Giasone, dopo un'angosciata esitazione, accetta la prova pur disperando di riuscire a superarla. Spavaldamente Eeta lo congeda perché vada a riferire l'accaduto ai suoi compagni.
          Mentre Giasone ed i suoi lasciano la reggia Medea si tormenta per il nuovo amore e prega Ecate per la salvezza dell'eroe.
          Quando Giasone spiega ai compagni la terribile prova che dovrà affrontare molti di loro si offrono di sostituirlo ma Argo - lo ha già proposto strada facendo a Giasone - insiste perché si chieda l'aiuto di Medea.
          In quel momento gli dei danno un segno (una colomba sfugge ad uno sparviero e si posa sulle gambe di Giasone) e Mopso lo interpreta come un'esortazione a ricorrere a Medea, ricordando l'allusione di Fineo e gli inganni di Afrodite. Medea può aiutare Giasone - ha spiegato Argo - perché la dea Ecate di cui è sacerdotessa l'ha resa edotta di misteriosi sortilegi.
          Solo Ida, come sempre arrogante e rozzo, si oppone alla decisione e propone di ricorrere alla forza, ma la decisione è ormai presa ed Argo viene incaricato di tornare alla reggia e parlare con sua madre Calciope.
          Eeta con un lungo discorso - che Apollonio riferisce in forma indiretta - prepara la rovina degli Argonauti, quando Giasone sarà perito nella prova, la nave Argo sarà incendiata e "i pirati" verranno puniti. Altrettanto dura sarebbe stata la punizione dei figli di Frisso e Calciope che Eeta considerava ormai alla stregua di traditori.
          Il ritmo della narrazione si fa sempre più intenso: Argo si sforza di convincere Calciope a procurare l'aiuto di Medea, Medea intanto sogna di combattere e vincere i tori, sogna che il Vello d'oro sia soltanto un pretesto di Giasone che, in realtà, vuole conquistarla come sposa e sogna di scegliere di seguirlo, abbandonando la casa paterna.
          Magistrale la descrizione dell'angoscia che assale Medea al suo risveglio: ella spera che Calciope chieda il suo aiuto per i suoi figli ma, combattuta fra desiderio e vergogna, esita a lungo sulla porta della sua stanza. Una richiesta d'aiuto da parte di Calciope le fornirebbe una sorta di alibi per salvare Giasone senza svelare la sua passione, ma nel sollecitare una tale richiesta, dovrebbe svelare i propri sentimenti alla sorella ed in questo la trattiene il pudore. Mediatrice un'ancella che ha scorto il pianto di Medea, è Calciope a raggiungere la sorella e nel trovarla stravolta teme un presagio funesto. Medea esita ancora ed infine risolve con l'inganno, spiegando di aver sognato terribili mali induce Calciope a chiedere il suo aiuto. Alle suppliche di Calciope Medea risponde promettendo che aiuterà lo straniero con i suoi filtri. Cela una gioia invereconda quando Calciope le dice che Giasone, tramite Argo, ha richiesto il suo aiuto.

          Scende la notte, portatrice di quiete e di riposo e nel profondo silenzio Medea medita sulla sua decisione. E' un brano di alta letteratura nel quale Apollonio indaga le passioni dell'animo della sua protagonista con sorprendente lucidità. Medea è combattuta fra le sue passioni e tutto il retaggio della sua educazione: la trattengono, dall'aiutare Giasone, più che il timore della punizione paterna, il senso dell'implicito tradimento e la vergogna per l'onore perduto. Potrebbe morire, si dice, dopo aver salvato Giasone, ma anche in questo caso sarebbe disonorata e la sua memoria rinnegata dai conterranei. Meglio dunque morire quella notte stessa, abbandonando Giasone al proprio destino e liberandosi del tormento della passione prima di aver compiuto qualsiasi azione disonorevole. Medea pone mano al cofanetto contenente il veleno, ma proprio quando sta per darsi la morte la salva un subitaneo attaccamento alla vita, rivede i momenti felici della sua infanzia, ripensa alla dolcezza della luce del sole e questo sano desiderio di vivere aiuta la sua ragione e riprende il controllo, Medea ha infine deciso: depone il cofanetto ed attende impazientemente l'aurora per poter preparare il filtro che salverà Giasone.

          All'alba i preparativi di Medea, il suo vestirsi ed abbellirsi per l'incontro imminente con Giasone, sono descritti sapientemente e fanno pensare alla vestizione di una sposa.
          Mentre le ancelle preparano il carro che la porterà al tempio Medea estrae dal cofanetto un filtro - detto filtro di Prometeo - che rende invulnerabile chi ne cosparga le membra. L'unguento era ricavato da un fiore nato dal sangue di Prometeo sparso dall'aquila tormentatrice.
          Giunta al tempio Medea cerca la complicità delle ancelle, anche questa volta con l'inganno. Confida loro che Argo e Calciope le hanno promesso del danaro per aiutare Giasone e che lei intende fingere di farlo con un finto filtro per ottenere il compenso che spartirà con le sue ancelle se queste sapranno mantenere il segreto e se si fermeranno in disparte per lasciarla incontrare Giasone da sola.
          Intanto Giasone - che Era ha reso per l'occasione irresistibilmente bello - accompagnato da Mopso, si avvicina al tempio dove - come Argo lo ha avvertito - dovrà incontrare Medea. Mopso - che ha ormai chiari i risvolti erotici della situazione riceve, in forma grottesca, un avvertimento divino. Una cornacchia lo schernisce da un albero facendogli notare quanto inopportuna sarà la sua presenza all'incontro galante. Sorridendo Mopso si ferma ed invita Giasone a proseguire da solo verso il tempio.
          L'incontro di Giasone e Medea: il primo a parlare è Giasone che invita delicatamente Medea a non temerlo e a non eccedere nel pudore, quindi pronuncia una supplica, con la consueta invocazione a Zeus protettore degli ospiti per ottenere il magico aiuto di lei. Senza parlare Medea gli porge l'unguento: Apollonio rende l'emozione di Medea in un crescendo, dell'esitazione iniziale, alle istruzioni sull'uso del filtro pronunciate con voce rotta; dalla tensione fino al definitivo cedere del pudore e all'appassionata dichiarazione di Medea che vorrebbe trovarsi improvvisamente nella casa di Giasone ed in sua compagnia. Molto più misurato il comportamento di Giasone che pure si mostra sensibile al fascino della donna: le dice che potrà seguirlo in Grecia, se vorrà, e diventare sua sposa, ma le sue parole sembrano più dettate dalla gratitudine che dall'amore. Al termine del colloquio, mentre Medea esita stordita dalle emozioni, è Giasone a riportarla alla realtà e a prendere dolcemente commiato da lei.
          Tornato alla nave ed informati i compagni, Giasone segue scrupolosamente le istruzioni di Medea celebrando i riti ed i sacrifici in onore di Ecate necessari per attivare l'unguento.
          Giunto il giorno della prova Giasone cosparge il proprio corpo e le armi con l'unguento e subito si sente invadere da una forza sovrumana. Davanti a Colchi esterefatti costringe i buoi ad accettare il giogo, insensibile alle fiamme che quelli gli alitano contro, e trascorre la giornata arando il campo e seminando i denti del drago. A sera i giganti guerrieri escono prodigiosamente dai solchi. Come gli aveva suggerito Medea, Giasone scaglia una grande pietra fra i giganti e quelli, con brutale stupidità si gettano sulla pietra stessa contendendosela ed uccidendosi fra loro mentre Giasone con la spada abbatte i superstiti.
          Alla fine della prova Eeta torna in città furibondo, meditando sul modo di colpire Giasone e gli Argonauti.



          LIBRO QUARTO


          Apollonio si rivolge alla Musa, egli non saprebbe dire se sulla decisione di Medea di seguire Giasone pesò più l'amore della maga per l'eroe o la paura della vendetta di Eeta. Oltre a queste due cause umane l'autore ne sottintende una terza: Era vuole che Medea parta perché prevede che una volta giunta Iolco, sarà causa della rovina di Pelia che si ricorderà, aveva offeso la dea trascurandone il culto.
          Infatti Era infonde nel cuore di Medea un folle terrore e la maga fugge nella notte, protetta dal buio, dopo un muto addio alla casa della sua giovinezza. La vede la Luna che prevedendo il futuro, pronuncia un breve monologo sugli "infiniti dolori" che attendono Medea.
          Medea raggiunge la riva e chiama a gran voce i figli di Frisso. La odono dalla nave e subito Giasone scende a terra ad accoglierla. Medea grida che si deve fuggire, che Eeta ha intuito l'inganno: aiuterà lei Giasone a prendere il Vello, ma vuole un giuramento. Giasone giura solennemente che la porterà in Grecia come sua legittima sposa.
          Senza altre esitazioni si recano subito al bosco sacro a prendere il Vello ma li sente avvicinarsi il mostruoso dragone che subito blocca la strada. Le strida del dragone svegliano tutti i Colchi e vengono udite anche a grande distanza, ma Medea invocando Ecate ed il dio Sonno e ricorrendo ad un altro suo filtro, riesce a far addormentare la belva. Preso il Vello Giasone e Medea tornano rapidamente alla nave dove tutti vorrebbero guardare e toccare la reliquia, ma non c'è tempo - dice Giasone - Eeta sta sicuramente organizzando la loro cattura.
          Infatti Eeta, ormai chiaro il tradimento di Medea, sta organizzando una grande flotta per inseguire gli Argonauti.
          In tre giorni, grazie al vento propizio mandato da Era, Argo raggiunge la Paflagonia dove approda per consentire a Medea di celebrare misteriosi riti di ringraziamento ad Ecate che ha favorito la conquista del Vello d'Oro.
          Qui gli Argonauti discutono sulla via del ritorno, Fineo ha infatti profetizzato che non potranno tornare per la stessa rotta di andata. Argo, il figlio di Frisso, indica come rotta possibile il risalire l'Istro (il Danubio) finchè questo non si biforca a seguire poi l'altro ramo che raggiunge l'Adriatico. E' un passo complesso e non si capisce da dove Argo tragga le sue indicazioni, comunque "la dea mandò loro un messaggio propizio" e tutti decisero di seguire la strada indicata, facendo subito rotta verso la foce dell'Istro.
          Fra le isole al delta del fiume gli inseguitori Colchi raggiungono e circondano Argo. Dalla nave si pensa di patteggiare, consegnare Medea e tenere il Vello, ma Medea se ne avvede parla a Giasone in modo molto minaccioso. La flotta dei Colchi è guidata da Assirto, figlio di Eeta e Giasone pensa di catturarlo ma Medea è molto più risoluta, sarà lei a trarre in inganno il fratello, ad attirarlo chiedendogli un colloquio privato perché Giasone possa ucciderlo.
          Così si procede, Giasone invia doni e messaggeri ad Assirto e si organizza un incontro fra i due fratelli nel tempio di Artemide che sorgeva su una delle isole. Durante il colloquio Giasone, che era rimasto in agguato, aggredisce Assirto e lo uccide. Subito dopo gli Argonauti assaltano una delle navi dei Colchi e ne uccidono tutti gli occupanti, aprendo un varco nell'accerchiamento.
          Quando al mattino, il grosso dei Colchi scopre l'accaduto la mancanza di un capo impedisce di organizzare l'inseguimento, Era dal canto suo li terrorizza con i fulmini e molti dei Colchi, spaventati all'idea della punizione di Eeta per il fallimento, rinunciano a tornare in patria e prendono terra, in seguito fonderanno varie colonie.
          Qui Apollonio anticipa che il viaggio di ritorno degli Argonauti sarà molto più lungo del previsto e ne spiega la ragione: Zeus, sdegnato per l'assassinio di Assirto aveva decretato che gli Argonauti non tornassero in patria senza essere stati purificati dalla mano di Circe. Dopo aver raggiunto l'Adriatico navigando sull'Istro, ed aver fatto sosta nella terra degli Illei (presso la penisola di Zara), gli Argonauti raggiungono Corcira (Adriatico Meridionale) che prendeva nome dall ninfa Corcira amata da Posidone e madre di Feace. Quando Argo è ormai in vista dei Monti Cerauni una tempesta la respinge a Nord mentre una voce prodigiosa che fuoriesce dalla nave stessa avverte gli Argonauti dell'ira di Zeus e della necessaria purificazione presso Circe.
          Spinta dalle onde la nave entra nella foce dell'Eridano. Non è chiaro qui se con questo nome Apollonio intenda indicare il Po o il Rodano, comunque in questo libro si ipotizza l'esistenza, a Nord delle Alpi, di un sistema fluviale tale da permettere agli Argonauti di attraversare un lungo tratto dell'Europa per raggiungere il Tirreno. E' questa parte del viaggio caratterizzata dalla passività degli Argonauti che più che navigare sembrano lasciarsi trasportare dalle correnti nell'intricata rete fluviale. Storditi dai miasmi dell'Eridano, che la leggenda attribuiva al corpo semicombusto di Fetonte ivi precipitato, avvolti da una fitta nebbia voluta da Era per nasconderli alla vista delle selvagge popolazioni locali, essi procedono fra terre misteriose. In un punto rischiano di finire nell'Oceano, dove si sarebbero definitivamente perduti e li salva un tremendo grido ammonitore di Era. Infine raggiungono il Tirreno e, sbarcati alle isole Stecadi, rendono grazie agli dei.
          La tappa successiva è all'isola Etalia (Elba) quindi, proseguono verso sud raggiungono il porto di Eea, sede di Circe.
          Trovano la maga intenta a purificarsi con l'acqua marina, ancora sconvolta da un incubo notturno che le ha mostrato la propria casa grondante di sangue, funesto presagio dell'uccisione di Assirto. La circonda uno stuolo di mostri le cui membra sono in parte umane ed in parte bestiali.
          L'incontro fra Giasone e Circe è descritto senza alcun dialogo: gli Argonauti la riconoscono subito per la sua somiglianza con il fratello Eeta, Circe li riconosce grazie ai suoi poteri di maga e veggente.
          Giasone e Medea vengono accolti nella casa di Circe ove ha luogo il rito di purificazione. Anche quando Circe interroga Medea e Medea risponde il dialogo viene riportato in forma indiretta.
          Nel suo breve resoconto Medea giustifica le proprie azioni con l'ansia per la sorella ed i nipoti e non fa parola dell'uccisione di Assirto, nota a Circe a causa dei suoi sogni. Circe risponde che disapprova le azioni di Medea, non le farà del male in quanto supplice e parente ma la caccia dalla sua casa.
          Giasone prende per mano Medea, affranta dalle parole della zia, ed insieme tornano alla nave.
          Ora che la purificazione è avvenuta Era vuole affrettare il ritorno degli Argonauti ed incarica Iride di parlare con varie divinità (Teti, Efesto, Eolo) perché facilitino il viaggio.
          A Teti, Era si rivolge personalmente convocandola sull'Olimpo perché protegga la nave dai marosi e la tenga lontano da Scilla e Cariddi. Il discorso di Era e Teti costituisce una digressione in cui viene riepilogato il mito di Teti (la resistenza a Zeus, le nozze con Peleo, la nascita di Achille) e fa riferimento ad una versione in cui Medea finiva per sposare Achille. Dopo aver avvertito tutte le sue sorelle del volere di Era, Teti raggiunge gli Argonauti sulla spiaggia di Eea e, manifestandosi al solo Peleo, li sollecita a riprendere il mare. Con grande delicatezza Apollonio descrive l'emozione e il rimpianto di Peleo, sposo abbandonato di Teti, nel rivedere dopo anni la sua sposa divina.
          Il mattino seguente Argo giunge in vista di Antemoessa, l'isola delle Sirene. A salvare gli Argonauti dalle seduzioni del canto delle Sirene è Orfeo che con il suono della cetra riesce a coprire le voci delle mitiche creature. Solo uno degli eroi,
          Bute, affascinato dal canto si getta in mare ma viene salvato da Afrodite, che impietosita, lo porta a terra assegnandogli per dimora il Capo Lilibeo in Sicilia.
          Ad attraversare lo stretto di Scilla e Cariddi e superare le Plancte, orribili scogliere infuocate dall'officina di Efesto, aiutano Argo tutte le Nereidi che muovendosi nel mare come delfini intorno alla nave la guidano e sospingono oltre i pericoli. Costeggiando la Sicilia gli Argonauti vedono le bianche mandrie del Sole condotte al pascolo da Faetusa e Lampezie, giovani figlie del dio. Finalmente Argo raggiunge l'isola dei Feaci dove, si diceva, era interrata la falce con cui Crono evirò Urano.
          La grande gioia con cui gli Argonauti sono accolti dai Feaci è turbata dall'arrivo dei Colchi che attraverso il Ponto, sono venuti a riprendere Medea.
          Si fa mediatore Alcinoo, re dei Feaci: intanto Medea, sconvolta dal terrore del padre, si affida alla protezione della regina Arete, moglie di Alcinoo, e prega disperatamente ciascuno degli Argonauti perché tengano fede al loro impegno di proteggerla.
          Durante la notte Arete supplica Alcinoo in favore di Medea ed Alcinoo decide che se Medea è ancora vergine la renderà ad Eeta ma se divide il letto con Giasone non vorrà spezzare un unione legittima. Poiché Medea nel supplicare Arete le ha confidato di essere ancora vergine la regina si affretta ad avvertire Giasone della decisione presa da Alcinoo.
          Gli Argonauti, aiutati da ninfe inviate da Era preparano subito il talamo nunziale e durante la notte Giasone e Medea celebrano il loro matrimonio che avrebbero voluto rimandare all'arrivo a Iolco.
          Al mattino Alcinoo comunica solennemente la propria decisione ai Colchi, mentre si diffonde la notizia delle nozze e tutti recano doni agli sposi. Davanti all'inflessibile decisione di Alcinoo i Colchi rinunciano ad insistere, ma temendo l'ira di Eeta al loro ritorno, chiedono ed ottengono di potersi stabilire nella terra dei Feaci.
          Dopo sette giorni, con molti doni ospitali da parte di Alcinoo, gli Argonauti ripartono.
          Quando sono ormai in vista delle coste greche una terribile tempesta li respinge e li trasporta verso la Libia dove Argo finisce con l'insabbiarsi nel Golfo della Sirte.
          Alla vista delle terre desertiche e dell'ampia distesa di fango che li circonda gli Argonauti sono vinti dalla disperazione.
          Al calar della sera gli eroi si dispongono sparsi sulla riva, velandosi il corpo, decisi ad aspettare la morte.
          Hanno pietà di loro le "Eroine della Libia", divinità locali del deserto che, apparendo a Giasone, gli indicano sotto forma di enigma, una via di salvezza: gli eroi dovranno "pagare il debito verso la madre per le pene sofferte portandovi tanto tempo nel ventre, quando Anfitrite scioglierà il rapido carro di Posidone".
          Giasone riunisce subito i compagni e racconta loro della prodigiosa apparizione, appena ha finito di parlare un gigantesco cavallo esce dal mare e si slancia in corsa nell'entroterra.
          E' Peleo a sciogliere l'enigma: l'apparizione del cavallo indica che  Anfitrite ha sciolto il carro di Posidone, nonché la direzione da prendere. Quanto alla "madre" da ricompensare si tratta della nave che per tanto tempo li ha trasportati nel suo ventre. Dovranno quindi proseguire per un tratto via terra trascinando la nave.
          Così avviene e gli eroi con grandissima fatica trasportano per dodici giorni la nave lungo le dune del deserto seguendo le orme del cavallo. Arrivano alle acque del lago Tritonide dove possono riposare depositando Argo. Nei pressi del lago giaceva inerte il drago Ladone, custode delle mele d'oro delle Esperidi. Intorno al drago, che era stato abbattuto da Eracle, le Esperidi levano un lamento funebre. Alla vista degli Argonauti che vagando in cerca di una fonte si avvicinavano, le ninfe si tramutano in polvere. Orfeo indirizza loro una preghiera chiedendo l'indicazione di una fonte e le Esperidi si commuovono: immediatamente il suolo si copre di erba e di virgulti fioriti, le ninfe di tramutano in alberi prima di riprendere il loro aspetto originale.
          Una di loro, Egle, racconta del passaggio in quei luoghi di Eracle, che aveva ucciso il drago e rubato le mele. Forse ispirato da un dio Eracle aveva colpito una roccia facendo sgorgare una fonte che la ninfa indica agli Argonauti.
          Dopo essersi dissetati cinque Argonauti esplorano la zona nella speranza di rintracciare Eracle: Zete, Calais, Linceo, Eufemo e Canto. La ricerca è vana ma Canto, nel tentativo di rubare delle pecore per sfamare se stesso e i compagni, viene ucciso dal pastore Cafauro, discendente di Apollo.
          Anche Mopso muore nel deserto per il morso di un velenosissimo serpente. Dopo averlo sepolto e onorato gli Argonauti riprendono posto sulla nave ma dopo una lunga perlustrazione non riescono a trovare una via d'uscita dal lago Tritonide. Giasone decide di offrire alle divinità locali un tripode avuto in dono da Apollo, sperando di ottenere un aiuto. Li soccorre il dio marino Tritone che compare loro con aspetto umano ed indica chiaramente il passaggio fra il lago ed il mare aperto. Mentre la nave si allontana Tritone si immerge nel lago ma poiché Giasone gli offre un sacrificio dal ponte della nave il dio riappare con il suo vero aspetto e porge un ulteriore aiuto spingendo vigorosamente Argo che procedeva lentamente a forza di remi.
          Dopo una navigazione tranquilla Argo si avvicina a Creta ma qui il gigante di bronzo Talos, scagliando pietre, impedisce l'approdo. Gli Argonauti hanno grande necessità di approdare per rifornirsi di acqua e di cibo, quindi Medea, ricorre alle sue arti magiche contro il gigante. Dopo aver evocato le demoniache Chere, Medea concentra la propria volontà sul gigante, questi colpito dalla malia di Medea urta contro una roccia l'unico punto vulnerabile del suo corpo, una vena sotto la caviglia, e muore dissanguato.
          Dopo una sosta a Creta, gli Argonauti riprendono il mare me una notte senza stelle e senza luna si perdono nelle tenebre.
          Disperato Giasone invoca Apollo che lo ascolta e sceso dal cielo rischiara la notte con i bagliori del suo arco dorato. Grazie a questo aiuto gli Argonauti raggiungono una delle Sporadi che chiameranno Anafe (luogo dell'apparizione).
          Sull'isola si svolgono dei modesti sacrifici, data la scarsa disponibilità di cibo e di vino, la situazione suscita l'ilarità di tutti (l'episodio costituisce l'Aition di un rituale in vigore nell'isola ai tempi di Apollonio).
          Ripartiti, Eufemo ricorda un sogno della notte precedente: gli era sembrato di unirsi ad una giovane nata dalla piccola zolla di terra che Tritone aveva donato loro in precedenza e che questa gli dicesse di essere figlia di Tritone e di Libia e gli chiedesse di lasciarla nel mare di Anafe. Più tardi lo avrebbe raggiunto per essere la nutrice dei suoi figli.
          Su consiglio d Giasone, che interpreta il sogno, Eufemo getta la zolla in mare e ne nasce l'isola di Callista, ove ebbero dimora i figli di Eufemo, dopo aver vissuto in Lemno ed a Sparta.
          Facendo sosta ad Egina gli Argonauti gareggiano a portare l'acqua alla nave (Aition di una competizione che si svolgeva ad Egina detta Idroforie).
          E' il commiato di Apollonio: dopo Egina, egli induce senza ulteriori difficoltà gli Argonauti a proseguire nell'Egeo fino a sbarcare lietamente a Iolco il porto di Pegase.

          In citta Giasone trova il padre condannato a morte e Medea trova il modo di liberarsi di Pelia che rifiuta di cedere il trono a Giasone dopo che gli ha consegnato il vello d'oro: Fa vedere alle due figlie di Pelia un caprone decrepito. lo squarta a pezzi e lo bolle in un pentolone. Aggiunge delle erbe magiche e pronunciando delle frasi propiziatorie fa vedere alle donne il caprone ritornare in vita come un robusto agnello. "Vostro padre è anziano", dice loro,"se gli volete bene fate che ritorni vigoroso come questo agnello e possa regnare a lungo". Le figlie abboccano. Tagliano a pezzi il padre dentro il pentolone, e ora aspettano da Medea le erbe magiche e le parole propiziatorie per far tornare in vita il padre ringiovanito. Ma Medea è sparita, e le erbe non ci sono. Il padre resta morto in pentola.
          Acasto figlio di Pelia Capisce il raggiro e insegue a morte Giasone e Medea che si danno alla fuga da Iolco sulla nave Argo e si diressero presso Efira nei pressi di Corinto. Giasone fece incagliare la nave nell'istmo di Corinto come offerta a Poseidone.

          Giasone e Medea vissero dieci anni felici a Corinto. dove ebbero due figli, ma Medea rimase sconvolta quando seppe che Giasone, non potendo più sopportare di essere considerato un proscritto, aveva deciso di sposare la figlia del re di Corinto. Il Re Creonte fece grandi onori al capo degli eroici Argonauti e gli offrì la figlia Glauce (o Creusa) in isposa.
          Fosse l'avidità di salire al trono di Corinto o l'ingratitudine del suo cuore, Giasone ripudiò la fedele Medea che tanto lo aveva aiutato in ogni impresa e che per lui aveva fatto sacrifici inauditi e aveva abbandonato la patria, e sposò la giovane figlia del Re di Corinto.
          Vedendosi respinta senza pietà, Medea che essendo straniere non godeva di nessun diritto nell'Ellade, gli rinfacciò la sua ingratitudine, Giasone replicò che non era lei che egli doveva ringraziare bensì Afrodite che l'aveva fatta innamorare di lui. Inferocita con Giasone per essere venuto meno alla promessa di amore eterno, Medea si vendica, regalando alla nuova sposa, come dono di nozze, una veste nuziale che le diffonde nelle vene un fuoco magico e violento che si propaga per tutto il palazzo, facendola morire insieme al padre accorsa in suo aiuto. Mentre Medea uccideva, Mermero e Fere, i due figli che aveva avuto da Giasone. Quando quest'ultimo venne a saperlo, Medea era già andata via, in volo su un carro mandatole dal nonno, il dio del sole, Elios, verso Atene dal re Egeo, che le aveva promesso asilo.

          Il soggiorno ad Atene fu caratterizzato da un periodo di calma e di pace fino all'arrivo di Teseo, venuto a farsi riconoscere dal padre Egeo e ad assicurare i propri diritti alla successione.
          Medea, temendo di perdere il proprio ascendente su Egeo, persuase il re che Teseo non era che un avventuriero.
          Egeo lasciò che Medea preparasse per Teseo una coppa di vino avvelenato, ma poi riconobbe il figlio dalla spada che questi portava e strappò in tempo la coppa dalle mani della maga. Medea fu costretta a fuggire anche da Atene.

          In seguito, Giasone con l'aiuto di Peleo, padre di Achille,e dei Dioscuri, attaccò e sconfisse Acasto, riconquistando il trono di Iolco. Ma avendo disatteso la promessa di fedeltà fatta a Medea, Giasone perse i favori della dea Era e morì solo e infelice. Mentre dormiva a poppa della ormai fatiscente Argo, rimase ucciso all'istante da un suo cedimento: fu questa la maledizione degli dei per essere venuto meno alla parola data.



        Ermes e Driope generarono Pan.
        Il dio Pan era, per le religioni elleniche, una divinità non olimpica, mezzo uomo e mezzo caprone. Solitamente riconosciuto come figlio del dio Ermes e della ninfa Driope, ninfa della Quercia.

        La leggenda vuole che la ninfa Driope sia fuggita terrorizzata dall'aspetto deforme del figlio, mentre il dio Ermes (Mercurio) lo raccolse e, avvoltolo amorevolmente in una pelle di lepre, lo portò sull'Olimpo per far divertire gli dei, causando così l'ilarità di Dioniso.

        [Secondo altre fonti era figlio di un amorazzo tra Zeus e la ninfa Callisto dal quale vennero alla luce Pan ed Arcade. Un'altra versione, sostenuta da Igino, afferma che Zeus, dopo essersi unito ad una capra di nome Beroe, le diede un figlio, il dio Egipan, ovvero la forma caprina di Pan].


        Dal suo nome deriva il termine panico, infatti il dio si adirava con chi lo disturbava, ed emetteva urla terrificanti provocando nel disturbatore la paura.
        Alcuni racconti ci dicono che lo stesso Pan venne visto fuggire per la paura da lui stesso provocata.


        è un dio potente e selvaggio, esteriormente è raffigurato con gambe e corna caprine, con zampe irsute e zoccoli, mentre il busto è umano, il volto barbuto e dall'espressione terribile. Vaga per i boschi,spesso per inseguire le ninfe, mentre suona e danza. è molto agile, rapido nella corsa ed imbattibile nel salto.
        è principalmente indicato come dio Signore dei campi e delle selve nell'ora meridiana, protegge le greggi e gli armenti, gli sono sacre le cime dei monti.

        Secondo il mito descritto da Plutarco fu il suo grido di terrore ad annunciare, ai marinai egei, il declino degli dei antichi, annunciando la fine dell'Olimpo attraverso l'annuncio:
        « il grande Pan è morto. »

        Il mito

        Pan non viveva sull'Olimpo: era un dio terrestre amante delle selve, dei prati e delle montagne. Preferiva vagare per i monti d'Arcadia, dove pascolava le greggi e allevava le api.
        Pan era un dio perennemente allegro, venerato ma anche temuto. Dal suo nome deriva il termine panico. Legato in modo viscerale alla natura ed ai piaceri della carne, Pan è l'unico dio con un mito sulla sua morte. La notizia fu diffusa da Tamo, un navigatore, e portò angoscia e disperazione nel mondo.
        I Romani lo identificarono con il loro dio Fauno.

        Pan e il Capricorno

        Pan partecipò alla Titanomachia, avendo un ruolo fondamentale nella vittoria di Zeus su Tifone.
        Tifone era un mostro che era nato da Gea e Tartaro, che volle vendicarsi della morte dei figli, i Giganti.
        Quando tentò di conquistare il monte l'Olimpo, gli Dei fuggirono terrorizzati da questo mostro. Si recarono in Egitto, dove assunsero forme di animali per nascondersi meglio:

        * Zeus si fece ariete,
        * Afrodite pesce,
        * Apollo corvo,
        * Dioniso capra,
        * Era una vacca bianca,
        * Artemide un gatto,
        * Ares un cinghiale,
        * Ermes un ibis,
        * Pan trasformò solo la sua parte inferiore in un pesce e si nascose in un fiume.

        Solo Atena non si nascose, e denigrando gli altri dei convinse il padre Zeus a scendere in battaglia contro il mostro. Nonostante il dio fosse armato, il mostro riuscì ad avere la meglio su di lui, e lo rinchiuse nella grotta dove Gea lo aveva generato. Con le sue Spire Tifone gli aveva reciso i tendini di mani e piedi, che aveva poi affidato a sua sorella Delfine, il cui corpo terminava con la coda di un serpente.
        Il dio Pan spaventò questa creatura con un tremendo urlo, ed Ermes le sottrasse i tendini di Zeus.
        Zeus recuperate le forze, ed i tendini, si lanciò su un carro trainato da cavalli alati contro Tifone, bersagliandolo di fulmini.
        Zeus riuscì ad uccidere il mostro, e lo seppellì sotto il monte Etna, che da allora emette il fuoco causato da tutti i fulmini usati in battaglia, così come racconta lo Pseudo-Apollodoro.
        Per ringraziare Pan, Zeus fece in modo che l'aspetto da lui acquisito in Egitto fosse visibile in cielo. Così creò il Capricorno.

        Caratteristiche

        Dio dalle forti connotazioni sessuali - anche Pan infatti come Dionisio e Priapo era generalmente rappresentato con un grande fallo - recentemente Pan è stato indicato come il dio della masturbazione,
        infatti Pan, trovando difficoltà di accoppiamento a causa del suo aspetto, era solito esaurire la sua forza generatrice mediante la masturbazione.

        Come dio legato alla terra ed alla fertilità dei campi è legato alla Luna, ed alle forze della grande Madre.


        Pan è un dio generoso e bonario, sempre pronto ad aiutare quanti chiedono il suo aiuto.

        Narra una leggenda che nell'età dell'Oro Pan giunse nel Lazio, dove venne ospitato dal dio Saturno.
        In Grecia la presenza del dio viene collocata in Arcadia.

        In Italia esiste una divinità che ha molte similitudini con la raffigurazione di Pan, è il dio Silvano.


        Pan e le Ninfe


        Pan è un dio con una forte connotazione sessuale, amava sia donne che uomini, e se non riusciva a possedere l'oggetto della sua passione si abbandonava a pratiche oscene e onanistiche.
        Moltissimi racconti mitologici ci parlano di questo dio e del suo rapporto con le Ninfe che cercava di possedere. Tanto che queste si salvavano solo trasformandosi, anche se spesso non disdegnavano le attenzioni del dio.

        Il mito ci riporta il nome di alcune di queste Ninfe:

        Eco generò con lui Iunge e Iambe, per poi innamorarsi di Narciso e struggersi per lui fino a diventare solo una voce.

        Eufeme, nutrice delle muse, ebbe Croto, inventore degli applausi, trasformato nella costellazione del Sagittario da Zeus

        Un suo mito narra del suo amore per la ninfa Eco dal quale nacquero due figlie, Iambe e Iunce.

        Uno lo vede seduttore di Selene, cui si è presentato nascondendo il pelo caprino sotto un vello bianco. La Dea non lo riconobbe e acconsentì all'unione.

        La più importante resta forse Siringa.


        Pan e la Ninfa Siringa

        Uno dei miti più famosi di Pan riguarda le origini del suo caratteristico strumento musicale. Siringa era una bellissima ninfa dell'acqua di Arcadia, figlia del dio dei fiumi Ladone. Un giorno, di ritorno dalla caccia, incontrò Pan. Per sfuggire alle sue molestie, la ninfa scappò senza ascoltare i complimenti del dio. Egli la inseguì dal monte Liceo fino a quando ella non raggiunse le sue sorelle, che la trasformarono immediatamente in una canna. Quando il vento soffiò attraverso le canne, si udì una melodia lamentosa. Il dio, ancora infatuato, non riuscendo a identificare in quale canna si era trasformata Siringa, ne prese alcune e ne tagliò sette pezzi di lunghezza decrescente (alcune versioni sostengono nove) e li unì uno di fianco all'altro. Creò così lo strumento musicale che portò il nome della sua amata Siringa. Da allora Pan fu visto raramente senza di esso.




     

     

     




    Zeus\ALCMENA
      Alcmena, sposa di Amfitrione, è l'ultima donna mortale con cui Zeus giacque. Quando Eracle, frutto di questa unione, stava per nascere, Zeus dichiarò fra gli dei che il discendente di Perseo che avrebbe visto allora la luce avrebbe dovuto regnare su Micene. Ma Era, gelosa per il tradimento del marito, persuase la dea di parto Ilithia a ritardare il parto di Alcmena, cosicché avrebbe potuto nascere di sette mesi Euristeo, che era un altro discendente di Perseo. La proclamazione di Zeus indicò quindi, contro il desiderio dello stesso dio, Euristeo e non Eracle come nuovo re di Micene e l'eroe divenne suo servitore. Alcmena ottenne solo col tempo un castigo per Euristeo per tutte le vessazioni subite dal figlio.

      Gli antenati
      Alcmena e Amfitrione hanno un illustre antenato in Perseo, l'uomo che volò in cielo, decapitò Medusa e salvò la bella principessa etiopica Andromeda che poi sposò, e fondò anche la città di Micene che fu dominata più tardi da Agamennone, il re più potente al tempo della Guerra di Troia. Agamennone, però, non era un discendente di Perseo, ma di Pelope che, venuto dall'Asia con una ricchezza enorme, dotato di coraggio e slealtà, riuscì ad acquisire un tale enorme potere che l'intero Peloponneso fu chiamato così dopo lui.

      Nel corso di una generazione o due, i Pelopidi con accorti matrimoni finalmente sostituirono la dinastia dei Perseidi sul trono di Micene. La rivalità tra le due case reali persistette durante molti anni e causò molti conflitti. Ma è solamente dopo la Guerra di Troia che i Perseidi, cambiato il nome in ERACLIDI, ritornarono al Peloponneso e distrussero molti dei regni che erano stati dominati dai Pelopidi o dai loro vassalli.

      Quando Perseo morì, salì al trono suo figlio Elettrione e sposò la nipote Anaxo o, come altri dicono, una figlia di Pelope, Lisidice o Euridice. Secondo alcuni Elettrione aveva dieci figli e una figlia Alcmena. Si racconta che questa ragazza superò di molto le altre in bellezza e altezza, grazie agli occhi scuri e al suo volto affascinante.

      L'antefatto

      Ora, quando Elettrione era ancora re di Micene, giunsero a Micene i figli di Pterelao che chiesero restituzione del regno del loro antenato Mestore, fratello di Elettrione. Nella guerra che sorse per il potere, Pterelao perse tutti i figli tranne Everes in battaglia, e stessa sorte toccò anche ad Elettrione a cui restò solo Licimnio. Dopo questa battaglia il re di Tafo, comprendendo che non potevano rimanere nel territorio dei Micenei, veleggiarono verso casa dopo avere portato via il bestiame che Elettrione aveva rubato a sua volta a Polisseno, re di Elide.

      Elettrione decise poi di rifarsi della guerra contro Tafo e, poiché aveva perso tutti suoi figli meno uno, affidò ad Anfitrione il suo regno e sua figlia Alcmena, facendogli richiesta di mantenerla vergine fino al suo ritorno dalla guerra. Comunque, Elettrione non tornò mai, perché fu ucciso accidentalmente, come alcuni dicono, da Anfitrione. La leggenda racconta che mentre Elettrione stava ricevendo indietro il bestiame rubatogli, Anfitrione, che lo aveva appena raggiunto in Elide, gettò contro una vacca disubbidiente un bastone che, rimbalzando, colpì Elettrione in testa e lo uccise sul colpo. Ma altri dicono che Anfitrione e Elettrione litigarono per il bestiame e che il primo uccise il secondo per l'ira. Questo è espresso in un frase che Eracle pronunzia in Eurip. Eracle,260: "Sono il figlio di un uomo che incorse nella colpa di sangue, prima che lui sposò mia madre Alcmena, uccidendole padre anziano".

      A causa dell'uccisione di Elettrone, suo genero e nipote (Anfitrione, infatti, era figlio di Alcaeus, figlio di Perseo) perse l'autorità, e il trono di Micene e Tirinto fu conquistato dal fratello di Elettrione, Stenelo, che bandì Anfitrione dal territorio per la morte di suo fratello.
      Alcmena seguì il suo fidanzato in esilio e, in compagnia di Licimnio, vennero a Tebe, dove Anfitrione fu purificato da Creonte, l'uomo che regnò su Tebe per molto tempo. Più tardi in tempi storici secondo Pausania (9.11.1) la casa di Alcmena e Anfitrione ancora si poteva ammirare in città con la seguente iscrizione: "Quando Anfitrione portò qui la sua sposa Alcmena, scelse questa come casa per lui. Trofonio e Agamede la fecero". Trofonioe Agamede, figli di Ergino, erano i costruttori del quarto tempio di Apollo a Delfi.

      Quando la coppia giunse a Tebe, Alcmena rifiutò di sposare Anfitrione finché lui non vendicasse i suoi fratelli che erano periti nella battaglia contro i figli di Re Pterelao di Tafo. Così Anfitrione, desiderando sposare Alcmena, chiesto a Creonte e ai Tebani un aiuto militare, dopo avere adempiuto certe condizioni che Creonte richiese, formò una coalizione, sostenuto da Cefalo di Atene, da Eleo di Argo figlio di Perseo, e da Creonte stesso. Con tutte queste forze Anfitrione attaccò tutte le isole dei vicini che erano dominate da Tafo; ma dal momento che Re Pterelao era immortale grazie dei suoi capelli d'oro e perciò Tafo non poteva essere presa, Anfitrione ricorse all'aiuto di Cometo, figlia di Pterelao, che si era innamorato di lui: ella infatti tagliò i capelli d'oro di suo padre, causandone la morte e lasciando che Anfitrione soggiogasse l'isola.

      Il sospirato matrimonio, l'inganno di Zeus, la nascita di un eroe

      Così Anfitrione, per accontentare Alcmena, vendicò i figli di Elettrione. Ma mentre lui era sulla strada del ritorno, a Tebe Zeus, facendosi simile ad Anfitrione, giacque con Alcmena fingendo di essere tornato dalla guerra e raccontandole l'accaduto. Quando anche Anfitrione ritornò, giacque con sua moglie nella stessa notte dopo che Zeus andò via: Alcmena non sembrò accoglierlo cordialmente poichè pensò di essere già stata con suo marito.
      Alcuni raccontano che, dopo avuto dormito con Alcmena, Zeus dichiarò fra gli dei che il discendente di Perseus che avrebbe visto la luce del sole per primo sarebbe stato re di Micene. La moglie Era , meditando vendetta per il tradimento con Alcmena persuase la dea di parto Ilithyia a ritardare il parto della ragazza, cosicché potesse nascere prima Euristeo, sebbene fosse un bambino di sette mesi. E dal momento che anche Euristeo era un discendente di Perseus, la proclamazione di Zeus indicò contro il desiderio del dio Euristeo e non Eracle come re di Micene.
      Ilithyia, dea di parto e di madri spaventate in travaglio, venne a Thebes quando Alcmena era pronto per partorire. Ma invece di aiutarla, la dea, seguendo le istruzioni di Era, le ritardo il parto, cosicchè fu in travaglio per sette notti e sette giorni, sopportando una tale sofferenza che si supponeva già che Zeus era il padre del bambino non ancora nato.
      Quando finalmente riuscì a partorire, Alcmena generò due figli: Heracles, figlio di Zeus e Ificle, figlio di Anfitrione. Chi fosse il padre fu scoperto presto: solamente il figlio di Zeus poté, ancora bambino, strangolare i due serpenti che vennero al suo letto spedito da Era.
      Zeus giacque con Alcmena secondo alcuni perché intendeva generare uno che difendesse dei e uomini, contro i mali e la distruzione. Per quanto riguarda gli dei, infatti, quando più tardi i Giganti attaccarono cielo, vi fu bisogno di un mortale per lottare contro loro, e Eracle fu chiamato ad intervenire. Riguardo agli uomini Eracle fu benefattore dell'umanità grazie alle tante imprese compiute contro mostri che seminavano il terrore sulla terra..
      Quell'unione di Zeus e Alcmena era destinata a generare un essere straordinario dal momento che Zeus aumentò la lunghezza della notte quando lui giacque con Alcmena tre volte. Zeus non effettuò la sua unione con Alcmena per desiderio di amore, ma solamente nell'interesse di procreare un figlio semidivino, quindi il dio non le recò violenza, né tentò di persuaderla a tradire la sua castità, ma l'ingannò prendendo la forma di suo marito e dando così legalità ai suoi abbracci.
      Alla nascita prematura di Euristeo, però, Zeus non poteva tradire la sua promessa, ma desiderando di prendersi cura di suo figlio lui persuase Era che, mentre Euristeo dovesse essere re, ad Eracle sarebbe stato permesso di servirlo e compiere dodici Fatiche, prescritte da Euristeo stesso. Ma dopo aver compiuto queste fatiche, Heracles avrebbe avuto l'immortalità
      Naturalmente Alcmena non seppe nulla di questi accordi; ma, sebbene i mortali qualche volta immaginino di sapere molto circa le intenzioni di cielo, loro normalmente li ignorano. Ciononostante Alcmena, temendo la gelosia di Era, portò il bambino in un luogo detto "Campo di Eracle", e là l'espose a morire. Ora, è detto che quando Alcmena espose suo figlio, Era e Atena si avvicinarono a quel luogo e la seconda, stupita dalla forza del bambino, persuase la prima ad offrirle la mammella. Era fece questo ma Eracle, strinse la mammella della dea con tale violenza che lei, in pena lo allontanò a stento. Avendo assistito a questa scena straordinaria Atena rese indietro il bambino a sua madre, riaffidandoglielo.
      Alcmena assistette alla vita di suo figlio che si rivelò piena di eventi fenomenali e addirittura sopravvisse a suo figlio. Ma suo marito Anfitrione, invece, assistè a poco: secondo alcune fonti, infatti, all'inizio della "carriera eroica" di Eracle, ci fu la guerra tra Tebani e Minii per una questione di tributi. Eracle condusse i Tebani alla vittoria, ma Anfitrione cadde morto sul campo di battaglia. Secondo altre tradizioni, vediamo comunque Anfitrione presente in eventi tardi della vita dell'eroe, come, ad esempio nell'Eracle di Euripide.

      Le dodici fatiche (in greco dodekathlos) di Eracle, poi Ercole nella mitologia romana, sono una serie di episodi della mitologia greca, riuniti a posteriori in un unico racconto, che riguardano le imprese compiute dall'eroe Eracle per espiare il fatto di essersi reso colpevole della morte della sua famiglia. Si ritiene che il ciclo delle dodici fatiche sia stato per la prima volta fissato in un poema andato perduto, l'Eracleia, scritto attorno al 600 a.C. da Pisandro di Rodi. Attualmente le fatiche di Eracle non sono presenti tutte insieme in un singolo testo, ma si deve raccoglierle da fonti diverse.

      Nelle metope del Tempio di Zeus ad Olimpia, che risalgono al 450 a.C. circa, si trova una famosa rappresentazione scultorea delle Fatiche: potrebbe essere stato proprio il numero di queste metope,2 appunto, ad aver fin dai tempi antichi indotto a fissare a questa cifra il tradizionale numero delle imprese.

      Premessa

      Zeus e Teseo, dopo aver reso Alcmena incinta di Eracle, proclamano che il primo bambino da allora in poi nato dalla stirpe di Perseo, sarebbe diventato re. Sua moglie Era però, sentito questo, fece in modo di anticipare di due mesi la nascita di Euristeo, appartenente appunto alla stirpe di Perseo, mentre quella di Eracle fu ritardata di tre. Venuto a sapere quanto era successo, Zeus andò su tutte le furie, tuttavia il suo avventato proclama rimase valido.

      Anni dopo, mentre si trova in preda ad un attacco di follia provocatogli da Era, Eracle uccide sua moglie e i suoi figli. Ritornato padrone di sé e resosi conto di ciò che aveva fatto, decide di ritirarsi a vivere in solitudine in un territorio disabitato. Rintracciato dal cugino Teseo, si convince a recarsi dall'Oracolo di Delfi; lì la Pizia gli dice che per espiare la sua colpa deve recarsi a Tirinto per servire Euristeo per dodici anni e di compiere una serie di imprese che saranno stabilite proprio dal re Euristeo, l'uomo che gli ha rubato i diritti di nascita e che di conseguenza Eracle odia più di ogni altro. Come compenso gli sarebbe stata poi concessa l'immortalità.


      Le fatiche

      Durante le sue fatiche, Eracle viene spesso accompagnato da un giovane compagno (un Eromenos) che secondo alcuni si chiama Licinio, secondo altri invece è il nipote Iolao. Sebbene dovesse originariamente compiere soltanto dieci imprese, è costretto a causa di questo compagno a cimentarsi anche in altre due, infatti Euristeo non giudica valida l'uccisione dell'Idra perché il compagno l'ha aiutato, né l'episodio delle stalle di Augia perché questi ha percepito un compenso.

      L'ordine tradizionale delle fatiche è riportato dallo Pseudo-Apollodoro (2.5.1-2.5.12):

      1. Uccidere l'invulnerabile Leone di Nemea e portare la sua pelle come trofeo.

          La prima impresa di Eracle fu liberare la piana di Nemea della bestia selvatica, enorme e estremamente feroce nota come il Leone di Nemea. Questa creatura enorme era figlio dei mostri Typhon (chi aveva 100 teste) e Echidna (mezzo la fanciulla - mezzo serpente), e fratello della Sfinge di Tebe. In alcune leggende è detto che il leone di Nemea fu allattato da Selene la dea della luna, le altre versioni dicono che fu allattato dalla dea Era.
          Eracle si lanciò all'inseguimento del mostro che errava per la terra dell'Argolide, armato col suo arco e le frecce, (in delle versioni di solito il periodo Classico lui aveva anche una spada del bronzo) e la sua clava (fatto da un albero olivastro che aveva sradicato con la sua forza). Mentre cacciava attraverso la foresta nemea e tentava di trovare la tana del leone, si fermò improvvisamente al sentire un ruggito terribile. Eracle si girò e vide un leone enorme che si avventava verso di lui. Rapidamente tese il suo arco e scocco una freccia, ma non riuscì a ferire il leone.
          Non appena il mostro si avventò su di lui, scoccò rapidamente un'altra freccia, e di nuovo non gli recò danno: il bronzo si piegò curvando come se stesse colpendo una pietra. La pelle di questa creatura non poteva essere penetrata dalla più acuta delle punte. Il leone gli balzò addosso, ma Eracle fracassò il suo bastone pesante sul mostro, stordendolo.
          Non comprendendo quale arma potesse uccidere questo mostro si liberò di tutte, e lottò il mostro con le mani nude: con forza incredibile avvolse le sue braccia grandi intorno al leone, gli tirò il collo e lo strangolò a morte. Morto il mostro enorme, Eracle tentò di scuoiare la bestia, ma la pelle era così dura che non poté né lacerarla né tagliarla. Allora provò ad adoperare gli stessi enormi artigli del leone: questi furono efficaci ed Eracle ottenne il suo trofeo. Ammirando quella impenetrabilità e resistenza della pelle del leone, se la gettò addosso come un mantello e la tirò fin sopra la testa come un elmo. Da questo momento Eracle indossò sempre la pelle di leone come protezione in battaglia.


      2. uccidere l'immortale Idra di Lerna

          La seconda impresa di Eracle fu l'uccisione dell'idra, un mostro dalle tante teste (di cui una immortale) che viveva nella palude di Lerna e atterriva i villaggi vicini divorando uomini e bestie, quando si svegliava dal suo sonno. In questa impresa Eracle fu affiancato dal nipote ed auriga Iolao. Giunto nella palude di Lerna e stanato il mostro dal suo nascondiglio con l'ausilio di frecce infuocate, cercò di ucciderlo recidendogli le teste, ma ad ogni taglio in luogo della testa mozzata ne ricresceva una nuova.
          Non potendo vincere da solo, l'eroe invocò l'aiuto di Iolao: gli chiese di portare delle torce infuocate e gli ordino di bruciare i colli dell'Idra ogni qual volta egli ne tagliava le teste. Soffocò quella immortale schiacciandola con un sasso. A questa maniera riuscì a uccidere la bestia e a liberare Lerna da quel flagello. Intinse poi nel sangue dell'Idra le sue frecce che in tal modo procuravano ferite inguaribili e mortali.


      3. Catturare il cinghiale di Erimanto.

          Il cinghiale di Erimanto devastava l'Arcadia. Euristeo gli ordinò di debellare il mostro, ma per rendergli l'impresa più ardua, gli impose di catturare il cinghiale vivo. Durante il viaggio verso l'Erimanto, Eracle volle far visita al suo amico, il centauro Folo, che diversamente dai suoi compagni era una persona gentile ed ospitale. Accolse Eracle nella sua dimora e lo rifocillò con carne cotta, nonostante i Centauri la mangiassero rigorosamente cruda. I problemi sorsero quando Eracle chiese di poter avere del vino. in tutto il villaggio c'era un unico otre di vino, dono di Dioniso, e proprietà di tutti i Centauri. Controvoglia, tuttavia, Folo aprì quell'otre: il profumo del vino, però, si diffuse per tutta la foresta e gli altri Centauri furono richiamati al villaggio. Quando si accorsero che Eracle stava bevendo il loro prezioso dono, gli si gettarono contro armati. La lotta prese grosse dimensioni e si arrivò fino alla caverna del Centauro Chirone, il vecchio maestro di Eracle. Costui rimase colpito da una freccia e morì. stessa sorte toccò anche all'amico Folo. Dopo aver pianto gli amici scomparsi, Eracle perlustrò ogni radura dell'Erimanto, finché stanò il cinghiale e lo catturò, legandolo per i piedi. lo condusse ad Euristeo, ma quest'ultimo ne rimase talmente spaventato da nascondersi in un pithos e ordinò ad Eracle di riportare indietro l'animale.


      4. Catturare la Cerva di Cerinea.

          La quarta fatica fu la cattura dela Cerva di Cerynaea, nota come Cerynitis. Euristeo diede questo compito ad Eracle sapendo che la l'animale era proprietà sacra di Artemis: catturarla avrebbe voluto dire per lui commettere una empietà contro la dea.
          La cerva era molto rapida e per questo Eracle impiegò un anno intero per avvicinare la creatura. Seguì le tracce della cerva attraverso la Grecia e in Tracia, (si dice in alcune versioni che la caccia lo portò lontano in luoghi come l'Istria e le terre settentrionali). Mai l'eroe fu abbattuto dalla lunga caccia, ma cercava di stancare la cerva ma quella sembrò avere molta resistenza e agilità.
          Eracle riuscì a catturare la creatura quando per caso si fermò a bere presso un fiume. Prendendo una freccia e rimuovendo il sangue del Idra dalla punta, la colpì alla zampa, azzoppandola. L'eroe le curò la ferita e poi si incamminò verso casa. Sulla strada verso il palazzo di Euristeo, gli venne incontro la dea Artemide e il fratello Apollo. Al vedere la Cerva, la cacciatrice accusò l'eroe di sacrilegio. Eracle spiegò loro che doveva riportare la cerva sacra alla corte di re Euristeo, perché era legato da servitù impostagli a quel re. Artemide concesse il perdono ad Eracle e gli fece portare la cerva viva al palazzo.


      5. Disperdere gli uccelli del lago Stinfalo.

          Per la quinta fatica, Euristeo spedì Eracle a liberare le paludi circostanti al Lago Stinfalo in Arcadia da uno stormo enorme di uccelli. Le loro penne erano metalliche e quindi emettevano un rumore molto acuto; chiunque entrava in contatto con loro veniva trafitto a morte. Gli uccelli stavano distruggendo anche i raccolti e alberi da frutta, terrorizzando gli abitanti del luogo.
          L'eroe si mise in viaggio pensando che questo doveva essere un compito facile da portare a termine, ma quando arrivò al Lago Stinfalo Eracle comprese che non era così. La foresta nella quale gli uccelli si appollaiavano era molto densa, e così al buio era difficile vedere qualsiasi cosa. Tentando di pensare a un modo col quale scacciare gli uccelli dal loro nascondiglio, fu avvicinato da Atena, sua protettrice. Con l'aiuto di Efesto, il dio fabbro concepì un modo per cacciare gli uccelli dalla foresta.
          Seguendo i consigli di Atena, Efesto, infatti, foggiò un paio enorme di lastre di bronzo che, facendo rumore, spaventavano gli uccelli in volo. Eracle con la sua grande forza batteva insieme le lastre che spinsero gli uccelli a uscire fuori dalla foresta, e quando gli uccelli furono visibili gli scagliò contro con le sue frecce mortali.


      6. Ripulire in un giorno le Stalle di Augia.

          Augia, figlio del Sole, era re dell'Elide nel Peloponneso, che non assoggettandosi a spargere il concime delle stalle sui campi, li destinava alla sterilità. Eracle pulì le stalle in un giorno solo, deviando un fiume che fece passare per le stalle. Anche Augia come altri personaggi incontrati da Eracle sulla sua strada, non mantenne una promessa: dargli in dono la decima parte dei suoi armenti. Eracle quindi, adirato per la mancata ricompensa, devastò il territorio di Augia e uccise i suoi figli. Dopo di ciò istituì i Giochi Olimpici.


      7. Catturare il Toro di Creta.

          Quando Eracle arrivò all'isola di Creta, il re, Minosse diede la piena approvazione per catturare e portar via il toro minaccioso per Euristeo, poiché aveva causato devastazioni errando liberamente in tutto il suo regno. Per catturare il toro l'eroe intrecciò un laccio, e poi inseguì la bestia finché la indebolì, gettandole il laccio intorno al collo. Una volta domato il toro, l'eroe gli salì in groppa e lo cavalcò attraverso il mare fino al palazzo di Euristeo. Qui presentò il toro al re che, al vedere una bestia tanto bella, volle sacrificarlo a Era. La dea che provava antipatia per Eracle, rifiutò l'offerta, dicendo che essa avrebbe gettato gloria sugli atti dell'eroe, così il toro fu lasciato correre selvatico in Grecia. Più tardi arrivò alla piana di Maratona, dove fu catturato da Teseo.


      8. Rubare le cavalle di Diomede.

          Per l'ottava fatica Eracle fu spedito da Euristeo a catturare le cavalle di Diomede Tracio (secondo delle fonti lui era il figlio di Ares e Cyrene). Viveva in una regione selvatica e accidentata sulle spiagge del Mare Nero. Aveva quattro cavalle selvagge, che alimentava con carne di stranieri. Si dice che fosse selvaggio come le sue cavalle; loro erano totalmente incontrollabili e furono legate da catene a una mangiatoia di bronzo.
          Quando Eracle arrivò al palazzo, l'eroe prese prigioniero il re. Poi, conoscendo la brutalità e le sofferenze che Diomede aveva causato, lo afferrò e lo gettò nella mangiatoia di bronzo in pasto alle cavalle. Questo calmò le cavalle ed Eracle poté condurle ad Euristeo. Giunto a palazzo, il re le consacrò ad Era e le lasciò andare liberamente per le piane di Argo.


      9. Impossessarsi della cintura di Ippolita, regina delle Amazzoni.

          La nona fatica imposta ad Eracle da Euristeo fu la conquista della cintura preziosa di Ippolita, regina dei Amazzoni. Admete, la figlia di Euristeo implorò suo padre per il possesso di questa cintura. Ippolita era la figlia di Otrera e Ares. Le Amazzoni erano un popolo esclusivamente femminile e si crede che vissero nelle terre misteriose nel nord. La loro capitale Temiscyra era posta sul pendio del Caucaso.
          Per eseguire questa spedizione Eracle organizzò un gruppo di volontari: Telamone e Teseo erano fra loro. Armarono una nave, aspettandosi che le Amazzoni fossero ostili, poi veleggiarono verso il loro paese.
          Ma quando loro arrivarono a Temiscyra sulla bocca del fiume Termodonte, furono accolti cordialmente dalle Amazzoni, specialmente da Ippolita. Eracle spiegò alla regina la ragione della loro spedizione ed ella rispose di prendere la cintura come un dono. Era, al sentire questo prese la forma di un Amazzone, sparse una diceria che Eracle era venuto a rapire la loro regina, e a portarla con sé in Grecia. Le donne, per proteggere la loro regina cominciarono lottare e nella battaglia fiera che conseguì, Ippolita fu uccisa dalle mani di Eracle, convinto di essere stato tradito.
          Dopo che la battaglia era stata vinta, Eracle prese la cintura e tutti fecero ritorno a casa. Durante il viaggio di ritorno Eracle salvò la vita di Esione, figlia di Laomedonte, re di Troia. Ad Eracle fu promesso come compenso per la liberazione una mandria di cavalli, ma dopo la liberazione della ragazza, il re rifiutò il pagamento. Eracle diede Esione a Telamone, il suo compagno che la sposò.
          Eracle come vendetta uccise Laomedonte e i suoi figli, ma risparmiò, alla richiesta di Esione, Podarce il figlio più giovane che più tardi divenne noto come Priamo che vuole dire "comprato riscattato" perché Eracle lo scambiò per un bel velo che Esione aveva ricamato in oro.


      10. Rubare i buoi di Gerione.

          Figlio di Crisaore e di Calliroe, re dell'isola Eritea, Gerione era un gigante con tre teste, sei braccia e sei gambe, cioè con tre corpi uniti su un unico ventre. Possedeva immensi armenti di buoi rossi custoditi dal mostruoso cane Orto, figlio di Echidna. Eracle raggiunse l'isola di Eritia, dove pose i confini del mondo conosciuto (le Colonne d'Ercole), uccise Gerione ed Orto e portò gli armenti ad Argo.
          Durante il ritorno da questa impresa avvenne la maggior parte delle gesta di Eracle nell'Occidente mediterraneo. Già nel viaggio di andata aveva innalzato le colonne d'Ercole ai due lati dello stretto di Gibilterra in ricordo del suo passaggio. Al ritorno fu attaccato da un gran numero di briganti che cercarono di sottrargli la mandria, e per ognuno di questi assalti falliti veniva costruito un santuario eracleo. Tra questi briganti va ricordato Caco, che nel Lazio gli rubò le sue bestie e che egli uccise dopo una violenta lotta, poi Anteo, anch'esso ucciso dall'eroe.


      11. Rubare i pomi d'oro del giardino delle Esperidi.

          I Pomi d'oro delle Esperidi erano il dono di nozze fatto da Gea a Era, e che il drago Ladone custodiva in un giardino nell'estremo Occidente. Il viaggio verso questo giardino fu punteggiato di incontri e di difficoltà da superare. Finalmente giunse al Caucaso, dove liberò Prometeo che in cambio gli rivelò che doveva inviare Atlante a cogliere i famosi pomi. Si recò allora da Atlante e si offrì di sorreggere sulle spalle il peso del Cielo durante il tempo che occorreva a compiere l'impresa. Quando Atlante ritornò non voleva riprendersi il Cielo sulle spalle, ed Eracle finse di volerlo aiutare purché gli desse il tempo di mettersi un cuscino sulle spalle. Appena fu libero, però, scappò via con i Pomi.


      12. Portare vivo a Micene Cerbero, il cane a tre teste guardiano degli Inferi.

          L'ultima fatica è la cattura del cane Cerbero, con l'aiuto di Ermes e di Atena. Si fece dapprima iniziare ai misteri eleusini, che introducevano al mondo dell'oltretomba, poi prese la via del Tenaro e scese negli Inferi dove i morti fuggirono dinanzi a lui, tranne la Gorgone, Medusa e Meleagro, a cui promise di sposare Deianira. Poi incontrò Piritoo e Teseo, venuti a liberare Persefone e incatenati da Ade. Eracle liberò Teseo ed uccise alcuni animali presi dagli armenti di Ade, per dare un po' di sangue ai morti, e dovette combattere col pastore Menete. Infine chiese ad Ade di prelevare Cerbero, e Ade acconsentì, purché combattesse rivestito solo della corazza e della pelle di Leone. Eracle riuscì a portare Cerbero a Euristeo che però ne ebbe una tale paura che lo lasciò andare, e quindi ritornò nell'Ade.


      Il significato delle fatiche

      Alle sovrumane imprese di Eracle, spesso compiute con un atteggiamento di sfida alla morte, si può attribuire anche un significato filosofico, morale e allegorico che supera quello immediato di semplice narrazione di gesta eroiche: la figura di Eracle rappresenta una tradizione di mistica interiore e le Fatiche possono essere tranquillamente interpretate come una sorta di cammino spirituale. Le ultime tre Fatiche di Eracle sono generalmente interpretate come una metafora della morte. Eracle è l'unico eroe greco al quale non sia stato attribuito un luogo di sepoltura, e i sacrifici e le libagioni ctonie in suo onore venivano celebrati contemporaneamente in tutte le località. Alcuni studiosi di recente hanno sostenuto l'ipotesi per cui le dodici fatiche di Ercole (Eracle) siano state assimilate ai dodici segni dello zodiaco, anche se in alcuni casi è difficile vederne una analogia.


      La geografia delle fatiche

      La ricerca di una possibile localizzazione geografica dei luoghi in cui le Fatiche vengono portate a termine, porta a concludere che la maggior parte di esse si svolga nel territorio dell'Arcadia o, comunque, siano in relazione con esso.

      * La cittadina di Nemea a nord-ovest di Argo
      * Il lago Lerna (ora scomparso) a sud della stessa città
      * Il monte Erimanto, attualmente chiamato Olonos
      * La cittadina di Cerinea, a nord-ovest del Peloponneso
      * Il lago Stinfalo, immediatamente a ovest di Cerinea. Anticamente era una palude
      * Il fiume Alfeo, che scende dai monti ad occidente
      * La città di Sparta, dove si colloca l'entrata al mondo dei morti
      * L'isola di Creta, abitata da abili navigatori e commercianti
      * la nazione della Tracia, descritta come nemica di Argo durante la Guerra di Troia, e qui collegata al mito di Diomede.


      Eracle fu anche uno degli argonauti che insieme a Giasone partirono alla ricerca del vello d'oro. Quando il centauro Nesso assalì Deianira, Ercole lo ferì con una freccia avvelenata con il sangue dell'Idra. Il centauro morente consigliò Deianira di raccogliere un po' del proprio sangue, convincendola che fosse un potente filtro d'amore; si trattava in realtà di un veleno. Credendo che Eracle si fosse innamorato della principessa Iole, Deianira gli mandò una tunica immersa in quel sangue. Quando la indossò, il dolore causato dal veleno fu tale che Eracle si uccise su una pira funeraria. Dopo la morte, venne condotto dagli dei nell'Olimpo e sposò Ebe, dea della giovinezza. Eracle veniva solitamente rappresentato come un uomo forte e muscoloso con indosso una pelle di leone ed in mano una clava. Egli fu venerato dai greci sia come dio sia come eroe mortale.



      Acheloo

      Presso la casa di Eneo, re di Calidone e di sua moglie Altea, sorella di Meleagro e Tideo, si erano riuniti numerosi pretendenti alla mano della loro figlia Deianira. Tra di essi era presente anche Acheloo figlio di Oceano e Teti , divinità fluviale dell'Etolia che aveva la facoltà di assumere qualunque aspetto.

      Mentre tutti i pretendenti erano riuniti in una grande sala, all'improvviso fece il suo ingresso Eracle ornato con la pelle del leone che aveva ucciso nella pianura di Nemea. Alla sua presenza tutti i pretendenti di Deianira, nonostante fossero uomini abili e valorosi nell'arte della guerra, si ritirarono tranne Acheloo che rimase a contendere con Eracle la mano della fanciulla.

      Eracle, per convincere Deianira ad accettarlo come sposo iniziò a declamare nel sue origini divine dicendo che sarebbe diventato nuora di Zeus. Per contro Acheloo ribatteva che era il dio di un grande fiume e che non era odiato da nessuno al contrario di Eracle che era perseguitato da Era, la sposa di Zeus. A quel punto Eracle disse che meglio delle parole, contavano i fatti per cui sfidò Acheloo a duello.
      I due rivali si disposero nell'arena ed iniziarono a scrutarsi. Il primo a muoversi fu Eracle che presa una manciata di sabbia da terra la gettò sul viso di Acheloo. Questi per poco non rimase accecato ma subito si riprese e si scagliò contro Eracle. A lungo i due contendenti combattevano avvinghiati l'uno all'altro e senza esclusione di colpi. Alla fine però Eracle riuscì a svincolarsi e a montare sulle spalle di Acheloo immobilizzandolo. Acheloo era sul punto di soccombere quando si trasformò in un gigantesco serpente.

      La vista del serpente avrebbe fatto inorridire chiunque ma non Eracle che invece si mise a ridere mentre ricordava ad Acheloo che ancora in fasce aveva ucciso i due serpenti che Era gli aveva inviato per ucciderlo. A quel punto Ercole stringe forte con una sola mano la testa del serpente e stava per soffocare Acheloo che prontamente si trasformò in un enorme toro.



      Eracle, per nulla intimorito a quella vista, lo afferrò per le corna e lo scaraventò a terra con talmente tanta forza che si spezzò una delle due corna ed in questo modo Acheloo fu mutilato per sempre.

      A quel punto per sfuggire ad Eracle, Acheloo si gettò nel fiume Toante che da allora prese il suo nome (in greco moderno è Aspropòtamo, il secondo fiume per lunghezza della Grecia) e da quell'episodio Acheloo venne rappresentato con il corpo di un toro e la testa di un uomo barbuto o con il corpo umano e la testa di un toro ma sempre con un solo corno.

      Una delle interpretazioni che si danno a questo episodio è che Acheloo non era altro che un fiume dell'Etolia che ricordava un serpente per via del suo percorso sinuoso, che frequentemente straripava in maniera prorompente come la carica di un toro. Quando arrivò Eracle questi arginò il suo corso costringendolo a scorrere in un solo letto (l'allegoria con il corno strappato) portando in questo modo prosperità alle regioni che attraversava.

      Scrive Tazio (Tebaide, IV,53-156 - Trad. C. Bentivoglio):

      " (...) e l'Acheloo scornato, e che non osa
      erger la fronte offesa, e mesto giace
      ne l'umide caverne, e le sue sponde
      restano asciutte e squallide d'arena."

      Le ninfe, raccolto il corno di Acheloo lo riempirono di fiori e di frutti consacrandolo alla dea dell'Abbondanza e da qui nacque la leggenda della Cornucopia.

      Acheloo fu così vinto ed Ercole sposò Deianira, la più dolce tra le fanciulle mortali.



     

     

     



    Zeus/DANAE
      Si racconta che nella lontana città di Argo, regnasse il re Acriso, figlio di Abante e di Ocalea, assieme alla sua sposa Euridice (o Aganippe secondo altri) e alla loro figlia Danae.

      La tragica storia di re Acriso ebbe inizio quando si recò a Delfi per consultare l'oracolo perchè, non riuscendo ad avere figli maschi, era preoccupato per la sorte del suo regno non sapendo a chi dover lasciare i suoi possedimenti. Il responso dell'oracolo fu travolgente in quanto gli predisse che non solo non avrebbe avuto figli maschi ma che un giorno sarebbe morto per mano di suo nipote, il futuro figlio di sua figlia Danae.


      Il re, terrorizzato dalla profezia, fece rinchiudere la figlia in una torre dalle porte di bronzo sperando in questo modo che non fosse avvicinata da nessun uomo.

      Ma Zeus che dall'alto dell'Olimpo seguiva le vicende dei mortali, impietosito dalla sorte toccata alla giovane fanciulla ed invaghitosi di lei, entrò nella sua cella sotto forma di pioggia di gocce d'oro e concepì con lei quello che un giorno sarebbe diventato uno dei più grandi uomini dell'antichità: Perseo .

      Re Acriso, scoperta la gravidanza della figlia che fu costretta a confessare le origini divine del figlio, nonostante la paura e la grande rabbia, non ebbe il coraggio di ucciderla ma aspettò che il bambino nascesse, per rinchiudere entrambi in una cassa che abbandonò alla deriva in mezzo al mare. La loro sorte sarebbe stata sicuramente segnata se Zeus non avesse sospinto la cassa verso le rive dell'isola di Serifo, nelle Cicladi, dove il pescatore Ditti la trovò e una volta aperta, si accorse che la donna ed il bambino erano ancora vivi. Immediatamente li portò dal re Polidette, suo fratello, che li accolse nella sua reggia.

      Perseo
        Passarono gli anni e Perseo, circondato dall'amore della madre, cresceva forte e valoroso. Danae, che la maturità aveva reso ancora più bella, era diventata oggetto dei desideri del re Polidette che cercava in tutti i modi di convincerla a sposarlo ma Danae, il cui unico pensiero era il figlio, non ricambiava il suo amore. Polidette allora cercò di averla con l'inganno: finse di voler sposare Ippodamia, figlia di Pelope e chiese ai suoi amici di fargli come dono nuziale un cavallo a testa. Perseo, che non possedeva e non poteva comprare un cavallo per donarlo al re, si scusò e disse imprudentemente che gli avrebbe procurato qualunque altro dono.

          La Medusa

          A quel punto Polidette, gli chiese di portargli la testa della Gorgona Medusa questo nella speranza che morisse nell'impresa in quanto mai nessun mortale era riuscito in una simile avventura ed in questo modo la madre, priva dell'unico conforto della sua vita, avrebbe ceduto e l'avrebbe sposato.

          Narra la leggenda che Medusa una delle tre Gorgoni (Medusa, Euriale, Steno), l'unica alla quale il fato non avesse concesso l'immortalità, era un tempo tra le donne più belle. Invaghitasi di Poseidone, aveva fatto con lui l'amore nel tempio d'Atena. Quest'ultima profondamente irritata dall'affronto subito, aveva trasformato la fanciulla in un orribile mostro: le mani le aveva trasformate in pezzi di bronzo; aveva fatto comparire delle ali d'oro e ricoperto il corpo di scaglie; i denti erano diventati simili alle zanne di un cinghiale; i capelli erano stati trasformati in serpenti ed al suo sguardo aveva dato la capacità di trasformare in pietra chiunque la guardasse negli occhi.



          Narra Ovidio nelle Metamorfosi (IV, 799-801): "La figlia di Giove si voltò e si coprì con l'egida il casto volto, ma, perchè quell'oltraggio non restasse impunito, mutò in luride serpi i capelli della gorgone".

          Mentre di lei scrisse Dante Alighieri nel IX canto dell'inferno (51-57): "Volgiti indietro, e tien lo viso chiuso: che se il Gorgon si mostra, e tu il vedessi, nulla sarebbe del tornar mai suso".

          L'impresa che stava per affrontare non era facile e sicuramente non sarebbe riuscito a superarla se Atena ed Ermes non fossero accorsi in suo aiuto. La prima gli donò uno scudo lucente e ben levigato, attraverso il quale guardare riflessa la Gorgona ed evitare così di essere pietrificato dallo sguardo; il secondo una spada con cui decapitarla in quanto le sue squame erano più dure del ferro.

          Tali armi non erano però ancora sufficienti per riuscire nell'impresa, così i due dei gli suggerirono di farsi donare dalle Ninfe i calzari alati per volare veloce nel regno di Medusa, l'elmo di Ade che rendeva invisibile chi lo portasse ed una sacca magica nella quale riporre la testa di Medusa, una volta tagliata in quanto i suoi poteri non sarebbero venuti meno con la morte ed i suoi occhi sarebbero stati ancora in grado di pietrificare.

          Riuscire a trovare la dimora delle Ninfe non era semplice in quanto nè Ermes nè Atena ne erano a conoscenza e pertanto suggerirono a Perseo di recarsi presso le tre Graie per estorcergli con una stratagemma la preziosa informazione.

          Erano queste sorelle delle Gorgoni e non avevano mai conosciuto la giovinezza in quanto nate vecchie. Avevano il corpo di cigno e possedevano insieme un solo dente ed un unico occhio che si scambiavano vicendevolmente per mangiare e vedere. Perseo, arrivato nella loro dimora, si nascose e attese che una di loro si togliesse l'occhio dalla fronte per passarlo ad una sorella e glielo rubò, rifiutandosi di restituirlo se prima non gli avessero indicato la via per arrivare al regno delle Ninfe. All'intimazione le tre sorelle, terrorizzate dall'idea di restare cieche obbedirono, e così Perseo poté raggiungere le Ninfe che gli donarono la bisaccia, i calzari alati e l'elmo di Ade.

          Così equipaggiato volò nell'isola dove dimoravano le tre Gorgoni (Steno, Euriale e Medusa) che trovò addormentate. Forte dei consigli di Ermes e d'Atena si avvicinò a Medusa, nel paesaggio desolato di uomini e animali che il suo sguardo aveva pietrificato, camminando all'indietro e guardandola riflessa nello scudo lucente. Non appena le fu vicino vibrò il colpo mortale che tagliò di netto la testa mentre i serpenti tentavano in tutti i modi di avvolgerlo nelle loro spire.



          Presa la testa la ripose immediatamente nella bisaccia mentre dal sangue che sgorgava copioso nacque Pegaso il magico cavallo alato che divenne il suo fedele compagno.

          Le sorelle della vittima cercarono in tutti i modi di inseguirlo ma grazie all'elmo di Ade che lo rendeva invisibile e al magico Pegaso, riuscì a sfuggire, volando via veloce come il pensiero da quell'isola tetra e nefasta.

          Disse Ovidio di Pegaso: "Fu terra il ciel e furono piedi le ali".


          Approdò per riposare nella regione dell'Esperia, dove regnava il titano Atlante. Era questo molto sospettoso e diffidente nei confronti degli estranei in conseguenza di una profezia secondo la quale il suo regno sarebbe stato distrutto da uno dei figli di Zeus. Inavvertitamente Perseo (che non sapeva della profezia) gli rivelò la sua origine divina e all'apprenderla, Atlante cercò di ucciderlo. Il giovane, sorpreso dalla sua reazione fu costretto a difendersi in una lotta impari contro il Titano fino a che, aperta la bisaccia dove teneva la testa di Medusa, pose fine al combattimento in quanto Atlante iniziò a pietrificarsi trasformandosi in un'alta montagna.

          Racconta Ovidio nelle Metamorfosi (IV 650-662): "Gli mostrò l'orribile testa della Gorgone. Altlante si mutò quasi all'istante in un'alta montagna: boschi diventarono la sua barba e le sue chiome, cime le spalle e le braccia; quello che prima era la testa, divenne la vetta del monte; rocce divennero le ossa; cresciuto in tutte le sue parti, si ingigantì in una immensa mole …."

          Narra pertanto la leggenda che da Atlante prese origine il sistema montuoso omonimo e poiché era molto alto, si affermò che Atlante reggesse sulle sue spalle la volta celeste.

          Perseo, ancora sorpreso da quanto era accaduto riprese il suo volo verso casa, percorrendo una terra arida e desolata, senza accorgersi che alcune gocce di sangue fuoriuscivano dalla bisaccia che conteneva la testa di Medusa che cadendo nel terreno davano origine a tanti serpenti velenosi i quali in seguito avrebbero popolato per sempre il deserto.

          Volava ora Perseo sopra le terre degli Etiopi quando intravide una bellissima giovane fanciulla nuda incatenata ad uno scoglio. La fanciulla era Andromeda figlia del re d'Etiopia Cefeo e della sua sposa Cassiopea. La giovane donna scontava una colpa commessa dalla madre che stimolata dalla vanità si era dichiarata più bella delle Nereidi (ninfe del mare). Quest'ultime, capricciose e maligne, offese da tanta presunzione, avevano chiesto vendetta al loro protettore Poseidone che aveva inviato in quelle terre, dalle oscure profondità marine, un mostro che devastava tutto ciò in cui si imbatteva. Consultato l'oracolo di Ammone per sapere che cosa si potesse fare per placare l'ira delle dee, il responso fu che Cassiopea offrisse sua figlia Andromeda all'orribile creatura marina. Perseo, sdegnato da una simile sorte, si offrì di mutare il destino della fanciulla, combattendo il mostro e mettendo quindi fine alla maledizione in cambio della mano d'Andromeda. Il re Cefeo, accettò l'offerta e così Perseo, salito in groppa a Pegaso, si portò alle spalle del mostro calando dal cielo come un'ombra per tentare di trafiggerlo. Più volte era sul punto di essere sopraffatto fino a quando, aperta la sacca, prese la testa di Medusa che rivolta verso il mostro lo pietrificò all'istante.

          Finita la lotta, mentre Perseo liberava Andromeda, delle Ninfe del mare incuriosite, rubarono un po' del sangue che fuoriusciva dalla testa di Medusa che a contatto dell'acqua marina si trasformava in coralli. Da quel momento i fondali marini furono deliziati dalla presenza di questi straordinari echinodermi.

          Perseo, prima di lasciare il luogo della lotta innalzò tre altari uno ad Ermes, uno ad Atena ed uno a Zeus e dopo aver fatto ciò con Andromeda, il re Cefeo, Cassiopea e tutto il popolo che aveva assistito alla lotta, si incamminò verso la reggia dove si diede subito inizio al banchetto nuziale tra Perseo e Andromeda, in un clima di grande allegria. Ma le disavventure non erano ancora finite. Infatti, fece ingresso nella sala del banchetto Fineo, fratello del re Cefeo, promesso sposo d'Andromeda. Questi, reclamava Andromeda pur avendone perso il diritto nel momento in cui aveva lasciato che la stessa andasse in sacrificio al mostro. Nella sala nuziale si scatenò una cruenta lotta. Fineo, con l'aiuto di molti alleati iniziò a combattere contro Perseo che stava per essere sopraffatto dalla moltitudine dei nemici quando, aperta la sacca magica, mostrò la testa di Medusa che ancora una volta portò la morte ai suoi nemici, pietrificandoli uno dopo l'altro.

          Stanco e sconfortato da tanti lutti che aveva arrecato, Perseo e Andromeda decisero di lasciare la terra degli Etiopi per ritornare a Serifo, dalla madre Danae dove arrivarono appena in tempo per salvarla dalla morte alla quale il re Polidette l'aveva condannata perché continuava a non ricambiare il suo amore. Il re, messo di fronte alla testa di Medusa, fu pietrificato all'istante.

          Ora che Polidette era morto, madre e figlio potevano finalmente fare ritorno alla loro terra natale, Argo, per riconciliarsi con re Acriso, verso il quale gli anni avevano oramai cancellato il risentimento. Perseo, messo a capo della città di Serifo Ditti, riconsegnati i calzari e l'elmo alle Ninfe e la spada ad Ermes e dopo aver donato la testa di Medusa ad Atena che la poneva come trofeo in mezzo al suo petto, con la madre e Andromeda salpava alla volta di Argo mentre il magico Pegaso volava via verso l'Olimpo.

          Re Acriso, padre di Danae, saputo dell'arrivo del nipote e di sua figlia, per paura dell'antica profezia fuggì via dal suo regno e riparò a Larissa in Tessaglia.


          Sembrava che finalmente il triste destino di Perseo di portare morte e distruzione fosse finito ma così non era.

          Oramai famoso in tutte le terre conosciute, fu invitato a partecipare in Tessaglia a Larissa a delle gare sportive e mentre lanciava il disco, la potenza impressa allo stesso fece si che questo andasse oltre gli spalti, per colpire uno sfortunato spettatore che altri non era che re Acriso che si era mischiato tra la folla. Scoperta la triste fine toccata al nonno al quale Perseo, nonostante tutto voleva bene, triste e sfiduciato fece rientro ad Argo ma non accettò di diventare re anche se gli spettava di diritto ma cambiò il suo trono con quello di Tirinto che apparteneva al cugino Megapente che fu lieto dello scambio in quanto molto più vantaggioso per lui.

          Negli anni che seguirono Perseo regnò in pace e con saggezza fino alla fine dei suoi giorni, fondando tra l'altro il regno di Micene così chiamato perchè un giorno potè dissetarsi presso un ruscello che era sgorgato miracolosamente da un fungo (mycos = fungo).

          Perseo ed Andromeda ebbero molti figli tra cui i più famosi furono Alceo che ebbe come figlio Anfitrione la cui moglie Alcmena ebbe da Zeus, il mitico Eracle; Elettrione, Stenelo e Gorgofone.
          Alla morte di Perseo, la dea Atena, per onorare la sua gloria, lo trasformò in una costellazione cui pose affianco la sua amata Andromeda e la madre Cassiopea la cui vanità aveva fatto si che i due giovani si incontrassero. Ancor oggi, alzando lo sguardo verso il cielo, possiamo ammirare le tre costellazioni a ricordo della loro vita e soprattutto del grande amore dei due giovani.



     

     

     




    Zeus/CIRCE
      Circe ("falco"): figlia di Elios e di Perse l'oceanide; sorella di Eeta, il feroce re della Colchide. Maga con molti e straordinari poteri viveva sull'isola di Eea, più tardi identificata con capo Circeo. Trasformava i nemici e chi la offendeva in animali. Pico, che aveva respinto le sue offerte fu trasformato in un picchio; quando il dio del mare Glauco le chiese una pozione per far innamorare di sé Scilla, Circe si innamorò di lui e trasformò Scilla in un mostro che insieme a Cariddi infestava lo stretto di Messina. Quando Giasone e Medea, fuggendo da Eeta, giunsero per ordine di Zeus a Eea per essere purificati per l'assassinio di Aspirto, fratello di Medea, Circe li scacciò inorridita.
      Circe ,signora del monte Circeo, è la maga più nota dell'antichità mediterranea ; il più famoso episodio del suo mito è certamente l'incontro con Odisseo, cantato da Omero nel X canto dell'Odissea.
      Il poeta racconta che , nel loro viaggio verso casa, Odisseo e suoi compagni approdarono sull'isola di Eea, dove sarebbero stati tutti trasformati in animali se Odisseo con l'aiuto di Hermes non avesse sconfitto le arti magiche della maga. Dopo il ritorno alla normalità, i greci rimangono per un anno ospiti del palazzo di Circe e la dea darà dei figli ad Ulisse, le fonti infatti ci tramandano i nomi di Telegono, Agrio, Rhomos, Antias, Ardeas.
      Anche da queste poche notizie il mito e il culto di Circe appare molto antico. Il suo regno , immaginato come un'isola coperta da folte ed impervie foreste , abitate da animali selvatici di ogni tipo, ricca di erbe e piante dai poteri misteriosi, era collocato sia ad oriente nella Colchide, regione posta sul mar Nero, sia in occidente sul promontorio laziale del Circeo, dove le era tributato un culto ancora in età storica.
      Ma perché questa opposta localizzazione geografica?
      L'origine della maga Circe affonda le radici nei tempi più antichi, quando il paesaggio era concepito dall'uomo permeato di sacralità. In esso erano immanenti forze soprannaturali considerate signore e abitatrici del luogo a loro consacrato. Questo archetipo diede vita all'idea della Grande Madre, complessa divinità generatrice dalle molteplici prerogative: era signora delle erbe e dei fiori, delle belve e degli armenti degli agricoltori e dei marinai , delle fanciulle e delle spose, poteva agire per la vita e per la morte. Per questo la Grande Madre ha avuto nel Mediterraneo e nel tempo innumerevoli volti: fu Astarte per i Fenici, Iside per gli Egizi, Demetra per i Greci, Cibele per i Frigi. Come signora della natura possedeva la conoscenza delle proprietà curative o letali delle piante, proprietà legate alla magia.
      Dagli elementi che troviamo nel mito di Circe ( la parentela con il Sole, corrispettivo maschile della Grande Madre, la sua conoscenza del potere delle piante da cui ricavava farmaci per sostenere la sua magia, il suo potere sugli animali) ci fanno capire che nella Colchide era una personificazione della Grande Madre, e il suo culto doveva essere importante e profondo . In seguito il suo culto è decaduto rispetto alle religioni classiche e la sua figura di maga è rimasta cristallizzata nel mito.
      Il culto si deve essere trasferito da oriente ad Occidente attraverso il Mediterraneo al seguito di navigatori pre – greci che nelle loro migrazioni ebbero contatti con le comunità italiche sin dal periodo miceneo. Ciò è testimoniato dalle tracce rimaste del suo culto a Creta ( la leggenda dice che fosse sorella di Pasifae regina di Creta), a Corinto e poi più ad ovest.
      In Italia giunse nel Lazio in un'età in cui dovette molto facilmente imporsi alle popolazioni indigene: la parte del mito che la dice moglie di Pico, antenato di Latino, sembra ricordare questa fase. Il Lazio a quei tempi aveva un paesaggio primitivo di tipo silvo – palustre, ricco di boschi ( i nemora), di paludi inospitali e di acque. Questa immagine del territorio era radicata profondamente nell'opinione degli antichi e il Circeo con i suoi boschi , i suoi fianchi scoscesi, le sue paludi era la perfetta immagine occidentale della selvaggia Colchide.
      Ma perché questo luogo, che non fu l'unico in Occidente ove risiedette la dea, è rimasto nel tempo la sua principale dimora? La ragione di questa imperitura fama è da ricercare nella poesia immortale di Omero.


      Fauno
        Il Fauno, figlio di Giove e della maga Circe, è una delle più antiche divinità italiche, una divinità della natura, in particolare della campagna e dei boschi. Il suo aspetto è dalle forme umane, ma con i piedi di capra e con le corna sulla fronte. Più tardi fu fatto corrispondere al Satiro della mitologia greca, benché quest'ultimo fosse legato al culto del dio Dioniso.

         In versioni tarde fu associato al dio greco Pan, oltre che al Satiro. Secondo dei miti romani, ripresi poi nell'Eneide da Virglio, Fauno era lo sposo di Marica, divinità delle acque, dalle quale ebbe Latino.

        Nelle comunità rurali, la sua festa (Faunàlia), ricorreva il 5 dicembre tra danze e processioni.

        L'unico tempio a lui dedicato in Roma, il Tempio di Fauno, si trovava sull'Isola Tiberina. Nei pressi di un bosco situato nelle vicinanze della fontana Albunea, esisteva un celebre oracolo, dedicato al dio Fauno.

        Nei primi secoli dell'era cristiana, molte divinità pagane vennero demonizzate e i Fauni furono associati ai Satiri e ai Silvani. La figura del Fauno diverrà in seguito quella del diavolo-tipo. Nello stesso periodo, però, i Fauni vennero anche convertiti in esseri non malvagi, simili ai folletti.

     

     

     




    Zeus/EUROPA
      Europa era figlia di Agenore (re di Tzur una antica città sarda, Tharros per i fenici in area mediterraneo-occidentale) . Zeus se ne innamorò, vedendola insieme ad altre coetanee raccogliere dei fiori nei pressi della spiaggia. Zeus allora inventò uno dei suoi molteplici travestimenti: ordinò a Ermes di guidare i buoi del padre di Europa verso quella spiaggia. Zeus quindi prese le sembianze di un candido toro bianco, le si avvicinò e si stese ai suoi piedi. Europa salì sul dorso del toro, e questi la portò attraverso il mare fino all'isola di Creta.
      Zeus rivelò quindi la sua vera identità e tentò di usarle violenza ma, Europa resistette. Zeus si trasformò quindi in aquila e riuscì a sopraffare Europa in un boschetto di salici o, secondo altri, sotto un platano sempre verde.

      E' così, che i Greci narrano che Europa, nell'innocenza del suo gioco con Zeus, subì la sua violenza. Questo mito testimonia le radici culturali dei popoli europei, poichè essi impararono dai Greci il gusto del bello,l'ideale dello sport,il principio della democrazia.

      Agenore mandò i suoi figli in cerca della sorella. Il fratello Fenice, dopo varie peregrinazioni, divenne il capostipite dei fenici. Un altro fratello, Cilice, si instaurò in un'area sulla costa sudorientale dell'Asia Minore a nord di Cipro e divenne il capostipite dei cilici. Cadmo, il fratello più famoso, arrivò fino in Grecia dove fondò la città di Tebe.

      Europa divenne la prima regina di Creta. Ebbe da Zeus tre figli: Minosse, Radamanto, e Sarpedonte, che vennero in seguito adottati da suo marito Asterione re di Creta.

      Zeus donò a Europa tre regali: Talo, l'uomo di bronzo che sorvegliava le coste cretesi, Laelaps, un cane molto addestrato, e un giavellotto che non sbagliava mai il bersaglio. Il padre degli dei successivamente ricreò la forma del toro bianco nelle stelle che compongono la Costellazione del Toro.

      Dopo la morte di Asterione, Minosse diventa re di Creta. In onore di Minosse e di sua madre, i Greci diedero il nome "Europa" al continente che si trova a nord di Creta.

      Minosse
        Minosse fu re giusto e saggio di Creta. Per questo motivo, dopo la sua morte, divenne uno dei giudici degli inferi, insieme a Eaco e Radamanto.

        Si racconta che, in seguito alla morte del re Asterione, padre adottivo di Minosse, egli costruì un altare a Poseidone in riva al mare, per dimostrare il suo diritto alla successione al trono. Minosse pregò Poseidone di inviargli un toro per il sacrificio ed il dio lo esaudì. Ma Minosse non sacrificò l'animale, poiché era molto bello. Poseidone, adirato, fece innamorare del toro Pasifae, la moglie di Minosse. Da questa unione nacque il minotauro, mezzo uomo e mezzo toro. Minosse incaricò dunque Dedalo di costruire un labirinto in cui nascondere il mostro.

        Minosse ebbe 8 figli da Pasifae: Catreo, Deucalione, Glauco, Androgeo, Acalla, Senodice, Arianna, Fedra. Ebbe inoltre Eussantio da Dessitea, mentre dalla ninfa Paria ebbe Filolao, Crise, Eurimedonte e Nefalione.

        Il regno di Minosse fu caratterizzato da ampi scontri con i popoli vicini, che egli riuscì ad assoggettare.
        Minosse fu il più antico di quanti conosciamo per tradizione ad avere una flotta e dominare per la maggior estensione il mare ora greco, a signoreggiare sulle isole Cicladi e colonizzarne le terre dopo aver scacciato da esse i Cari ed avervi stabilito i suoi figli come signori. Eliminò per quanto poté la pirateria del mare, perché meglio gli giungessero i tributi.
        I Pirati erano soprattutto Cari e Fenici, ma al crearsi della flotta di Minosse, la navigazione tra un popolo e l'altro si sviluppò ei pirati furono  scacciati dalle isole, tutte le volte che le colonizzava.

        Combatté anche contro Niso, re di Megara, che aveva un capello d'oro a cui era legata la sorte della sua vita e della sua potenza. La figlia di Niso, Scilla, si innamorò al primo istante di Minosse e non indugiò ad introdursi nottetempo nella camera del padre per tagliargli il capello d'oro. Andò in seguito da Minosse offrendogli le chiavi di Megara e chiedendogli di sposarla. Minosse conquistò Megara ma rifiutò di portare con sé a Creta la parricida che, presa dallo sconforto, si gettò in mare ed annegò.

        Minosse attaccò anche Atene, in seguito all'assassinio del figlio Androgeo causato dal re Egeo. Sconfitti gli ateniesi, Minosse chiese ad essi in tributo la consegna annua di sette fanciulli e sette fanciulle, che venivano date in pasto al Minotauro. Tale sacrificio cessò solo in seguito all'intervento di Teseo, che aiutato da Arianna, riuscì ad uccidere il minotauro.

        Secondo il mito Minosse fu ucciso in una vasca da bagno in Sicilia mentre era ospite nella rocca del re sicano Cocalo. Il racconto è stato ripreso da Diodoro Siculo nella Biblioteca storica che narra come la sua leggendaria tomba si trovasse al di sotto di un tempio di Afrodite e come Terone di Akragas avesse occupato quest'area sacra con il proposito ufficiale di vendicare l'uccisione del re cretese.


        Il Minotauro

        il Minotauro era un mostro possente, mezzo uomo e mezzo toro che si cibava di carne umana. Minosse chiamò un abile architetto, Dedalo, e gli ordinò di costruire un palazzo sotterraneo: doveva essere un inestricabile susseguirsi di camere, corridoi, sale, finti ingressi e finte porte, un luogo dove perdersi e da cui fosse impossibile uscire.

        Lì il re avrebbe rinchiuso il Minotauro, suo figlio. Per nutrire il mostro che si cibava di carne umana, Minosse si faceva inviare ogni anno dalla città di Atene, come tributo di sottomissione per aver perso la guerra, 7 fanciulli e 7 fanciulle.


        Teseo

        Il re di Atene, Egeo, era preoccupato, perché non aveva nessun eroe: aveva un figlio che si chiamava Teseo, però non lo aveva mai visto. Tanti anni prima, poiché desiderava avere un figlio, andò a chiedere la soluzione ad un oracolo di Delfi a quel sapientone del re di Trezene, Pitteo, che ne approfittò, e lo sposò , la notte stessa, alla figlia Etra, ormai zitella.
        La mattina seguente Egeo se ne andò dicendo alla moglie: "Se nascerà un figlio, mandamelo solo quando avrà la forza di spostare il sasso, sotto cui ho messo la mia spada e i miei sandali."
        Teseo nacque e venne educato dal nonno: quando diventò grande e robusto, riuscì a spostare il masso e partì subito per Atene.
        Quando arrivò ad Atene tutti lo trattavano bene, perché avevano saputo che aveva ucciso molti mostri lungo la strada e il padre lo mandò a Creta a uccidere Minotauro.
        Se l'impresa fosse riuscita, al ritorno la nave su cui viaggiava avrebbe innalzato le vele bianche, altrimenti sarebbero state lasciate le vele nere issate alla partenza, in segno di lutto per le giovani vittime sacrificate.
        Giunto a Creta con le4 vittime sacrificali, Teseo ottenne l'aiuto della bella Arianna , figlia di Minosse, che si era innamorata dell'eroe ateniese. Arianna introdusse Teseo nel labirinto e per ritrovare la strada da percorrere, legò il capo di un gomitolo di lana all'ingresso del palazzo, svolgendolo poi via via lungo il cammino. Guidato da Arianna, Teseo riuscì a raggiungere il Minotauro, a schivare un attacco, staccargli una delle corna e conficcarla nella fronte come un giavellotto.

        Questo infatti, come rivelato da Dedalo ad Arianna, era il solo modo per uccidere il mostro. I due riuscirono a ritrovare la via d'uscita e tornarono insieme ad Atene.
        Ma sulla via del ritorno dimenticarono di sostituire le vele nere così Egeo, che attendeva il ritorno del figlio dall'alto delle mura, scorgendo quel segno di sventura, disperato, si uccise gettandosi in quel mare che da lui prese il nome.

        Minosse incise notevolmente sulla cultura cretese che si chiamò minoica e popolò diverse zone del Mediterraneo. Tra queste ricordiamo Eraclea Minoa in Sicilia ove si dice che ebbe sepoltura il re, recatosi in quel luogo per catturare Dedalo.


        Dedalo e Icaro

        Arianna sapeva che Teseo era cugino di Dedalo e riuscì non senza fatica a farsi rivelare da quest'ultimo come affrontare il Minotauro ed uscire poi dal labirinto. Così il giorno stabilito per il sacrificio Arianna andò con i giovani all'ingresso del labirinto con un gomitolo di filo di seta che consegnò a Teseo legandone un capo all'architrave della porta.

        Minosse infuriato, intuendo che solo Dedalo poteva aver favorito questa impresa, lo fece rinchiudere nel labirinto con il figlio Icaro. Dedalo, da uomo d'ingegno qual'era, uccise un'aquila usando un arco rudimentale e con penne e cera si costruì delle ali con cui lui ed il figlio lasciarono il palazzo alle prime luci dell'alba. "Non avvicinarti troppo al sole" aveva detto Dedalo al figlio, ma dopo qualche ora questi, rapito dall'ebbrezza del volo e attirato dalla luce dorata salì alto come un'aquila. Il calore del sole fece sciogliere la cera delle ali e Icaro precipitò in mare. Dedalo proseguì tristemente il suo volo e raggiunta Napoli dedicò le sue ali ad Apollo per recarsi poi in Sicilia dove si guadagnò nuova fama erigendo bellissimi templi.



     

     

     




    Zeus/LEDA
      Nella mitologia greca Leda era figlia di Testio e moglie di Tindaro, re di Sparta.

      La leggenda narra che Zeus, innamoratosi di lei, desideroso e impaziente di prenderla, maestro nei travestimenti, si mutò in uno splendido cigno, ma neppure così riuscì ad avvicinarsi a quella selvaggia (nonché prudentissima) creatura dei boschi. Allora fece apparire un'aquila così enorme nel cielo, finse di essere inseguito, di essere in pericolo e volò tutto tremante ai piedi dell'amata. Solo a quel punto, mossa a compassione per lo splendido animale che credeva in pericolo, Leda aprì le gambe per nascondere il cigno fra le sue ginocchia, e lì lo tenne tutta la notte.L'aquila nel cielo inanellò cerchi concentrici fino alle prime luci dell'alba, quando la luce la fece scomparire. Ed anche Zeus scomparve insieme a lei. Leda depose un uovo bianco e rotondo che, schiudendosi, diede alla luce ed alla vita la creatura più bella e perfetta che si potesse immaginare. Elena, colei che tanti lutti portò ai troiani ed agli achei.
      Da un uovo sarebbero usciti i Dioscuri, Castore e Polluce, mentre dall'altro Elena e Clitennestra.

      La tradizione mitica è discordante riguardo a quale fosse la progenie divina; secondo alcune versioni i figli immortali di Zeus sarebbero stati Polluce ed Elena, mentre gli altri due sarebbero figli di Tindaro.

      Castore e Polluce, conosciuti come Diòscuri, ossia "figli di Zeus", furono due degli Argonauti, gli eroi che parteciparono alla ricerca del Vello d'oro: Polluce - già celebrato come grande pugile - sconfisse in un gara di questa disciplina il re dei Bebrici, Amico.

      Inoltre presero parte alla lotta contro Teseo, che aveva rapito la loro sorella Elena nascondendola ad Afidne; dopo quest'ultimo combattimento Zeus concesse loro l'immortalità.

      Si narra inoltre che abbiano preso parte alla Battaglia della Sagra tra le file dei locresi (Locri Epizephiri) in battaglia contro i crotonesi (Crotone).

      Il fratello di re Tindaro, Afareo, era a sua volta padre di due gemelli: Ida e Linceo. Castore e Polluce rapirono le promesse spose dei cugini e nell'imboscata che ne seguì, Castore fu ferito a morte. Polluce, volendo seguire il destino del fratello, ottenne di vivere come Castore un giorno sull'Olimpo e uno nell'Ade. Un altro mito, riportato da Euripide nella sua opera Elena , ricorda invece che Zeus concesse - visto il loro profondo legame - di vivere per sempre nel cielo, sotto forma di costellazione.

      Il loro culto, nato a Sparta (erano infatti figli del re eponimo di questa città), si diffuse rapidamente in tutta la Magna Grecia, soprattutto in considerazione del fatto che venivano creduti protettori dei naviganti: il mito infatti racconta che Poseidone affidò loro il potere di dominare il vento insieme al mare.

      A Roma i Diòscuri (con il nome di Càstori) venivano ricordati nel loro tempio collocato all'interno del Foro Romano, nelle vicinanze del Tempio di Vesta, costruito per un voto offerto dal dittatore Aulo Postumio durante la battaglia del Lago Regillo. Il risultato della battaglia, inizialmente sfavorevole ai guerrieri dell'Urbe, si dice sia stato deciso dall'apparizione dei mitologici Dioscuri Castore e Polluce.

      Il5 luglio era tradizione che gli equites svolgessero una processione fastosa a cavallo verso il tempio, dato che ne venivano considerati i propri protettori.

      ELENA
        Figlia di Zeus e di Leda, sposa di Menelao re di Sparta e poi di Paride figlio di Priamo, re di Troia. Il nome non è greco e forse in origine fu quello di una dea, associata agli uccelli e agli alberi.

        Nei poemi omerici viene descritta come una donna mortale dotata di una bellezza straordinaria e di un grande fascino donatole da Afrodite perché avesse il potere di sedurre qualsiasi uomo.

        All'età di dodici anni venne rapita da Teseo che la portò a Efidne in Attica da sua madre Etra, mentre aiutava l'amico Piritoo a cercarsi un'altra figlia di Zeus. Sfortunatamente Piritoo scelse Persefone e quando scese nel Tartaro per rapirla vennero imprigionanti da Ade sulle sedie del Oblio. Nel frattempo Elena era stata liberata dai Dioscuri e riportata a Sparta insieme alla madre di Teseo.

        Quando Elena raggiunse l'età da marito, si presentarono tutti i più nobili principi della Grecia ad affollare la corte di Tindareo, il quale cominciava a temere che qualunque scelta avesse fatto, ne sarebbero seguiti dei disordini tra i pretendenti. Odisseo, presente tra i pretendenti, gli consigliò di farli giurare solennemente che avrebbero protetto la vita e i diritti di chiunque fosse diventato lo sposo di Elena. I nobili principi greci acconsentirono e giurarono solennemente davanti a un cavallo sacrificale. Elena scelse Menelao, forse a causa dei ricchi doni che aveva portato, mentre la sorella di Elena, Clitemnestra , era già andata in sposa a suo fratello, Agamennone, re di Micene.

        Elena diede alla luce Ermione, figlia di Menelao, e forse anche Nicostrato, se Menelao non giacque con una schiava. Stesicoro sostiene che Elena diede alla luce anche Ifigenia e la affidò alla sorella Clitemnestra perché la allevasse. Ma la maggior parte degli autori ritiene che Clitemnestra fosse la legittima madre di Ifigenia.


        Il giudizio di Paride è un episodio della mitologia greca, ritenuto uno delle cause della guerra di Troia e, nella più tarda versione della storia, della fondazione di Roma.

        Si racconta che Zeus allestì un banchetto per la celebrazione del matrimonio di Peleo e Teti, genitori di Achille. In ogni modo, Eris, la dea della discordia, non venne invitata. Irritata per questo oltraggio, Eris arrivò presso il banchetto, dove gettò una mela d'oro, con sopra l'iscrizione "alla più bella".

        Le tre dee che la pretesero, scatenando litigi furibondi, furono Era, Atena e Afrodite. Esse parlarono con Zeus per convincerlo a scegliere la più bella tra loro, ma il padre degli dèi, forse consapevole di dover essere in qualche modo imparziale, non sapendo a chi consegnarla, stabilì che a decidere chi fosse la più bella non potesse essere che l'uomo più bello e cioè Paride, mortale frigio, principe di Troia.

        Ermes fu incaricato di portare le tre dee dal giovane troiano, occupato quel giorno di portare al pascolo le pecore, ed ognuna di loro gli promise una ricompensa in cambio della mela: Atena, grazie al dono della sapienza, lo avrebbe reso capace di modificare eventi e materia a suo piacimento, finanche a superare le leggi della natura; Era lo avrebbe reso così ricco che i suoi forzieri non sarebbero bastati a contenere le sue gemme e il suo oro, così potente che a un suo gesto interi popoli si sarebbero sottomessi e così glorioso che il suo nome avrebbe riecheggiato fino alle stelle; Afrodite avrebbe appagato i suoi desideri amorosi concedendogli in sposa la donna più bella del mondo , Elena. Paride favorì di gran lunga quest'ultima scatenando l'ira delle altre due. La dea dell'amore aiutò Paride a rapire Elena, moglie di Menelao, re di Sparta. Questo fatto portò successivamente alla guerra di Troia ragione per cui il pomo d'oro fu chiamato anche pomo della discordia.

        Elena richiama il tipo della nymphe, della giovane che ha appena compiuto il percorso formativo coronandolo con giuste nozze. I Dioscuri svolgono, sul versante maschile, il ruolo che su quello femminile era proprio di Elena. Infatti anche in questo culto si richiama la scena del matrimonio spartano: Elena rappresenta la vergine rapita, mentre i Dioscuri, che nella mitologia greca compiono il ratto delle Leucippidi, impersonano lo sposo.

        La bellezza di Elena ha naturalmente un ruolo importante nella storia:

        1. Nell'Iliade:
        2. L'abbandono di Elena è, in questo poema, descritto come volontario. Ma in alcuni punti sembra "affiorare di tanto in tanto una seconda versione, mai riferita chiaramente, che presenta la fuga da Sparta come un ratto violento". Nestore infatti "descrive la condizione di Elena a Troia come quella di una prigioniera". La versione di Nestore, la stessa di Menelao e di molti altri Achei, viene però attribuita dal poeta a personaggi che sono interessati a offrire una propria versione degli eventi, quindi è molto probabile che la verità risieda nell'abbandono volontario, piuttosto che nel ratto. Comunque siano andate le cose, la responsabilità della guerra non viene addossata ad Elena, anzi "il primo colpevole è Paride, lo straniero accolto come ospite nella casa di Menelao e che ha tradito la sua fiducia seducendone la sposa". L'azione di Paride infatti era considerata in Grecia a dir poco vergognosa, innanzi tutto perché si veniva a tradire il legame di amicizia reciproca (philotes) e poi perché "Paride non offendeva Menelao soltanto sul piano personale; ne offuscava anche l'onore". In poche parole Elena non ha quasi nessuna colpa della guerra perché "il contrasto che è alle origini della guerra di Troia pone quindi uno di fronte all'altro chi ha subito e chi ha recato l'offesa. In questo ambito Elena non rappresenta una parte in causa, ma piuttosto l'oggetto del contendere". Oltretutto Paride, in quanto seduttore di Elena rivela un animo ingannevole ed è spesso apostrofato come "occhieggiatore di donne" piuttosto che come abile guerriero. I personaggi di Elena e Paride sembrano tuttavia destinati ad incontrarsi perché entrambi governati da Afrodite e quindi "sono mossi da una forza incontrollabile che dispone anche della loro volontà". Abbiamo appena detto che Elena non era vista nell'Iliade come causa primaria della guerra, ma "per il solo fatto di trovarsi a Troia e di essere contesa fra le due parti Elena costituisce una sciagura per Priamo e per i Troiani. Essa rappresenta emblematicamente, al di là della sua volontà, la causa della guerra.  Nel poema Elena si autodefinisce odiosa, tessitrice di mali e agghiacciante, ed è consapevole di evocare fra i Troiani, per il solo fatto di trovarsi fra di loro, l'immagine della morte. Il personaggio di Elena appare quindi nell'Iliade bloccato nel ruolo che le circostanze le impongono. Il suo destino è interamente legato alla guerra: tra questa e il personaggio si stabilisce un rapporto diretto, per cui la guerra si combatte per Elena e questa a sua volta evoca la guerra in tutte le manifestazioni più odiose.


        3. Nell'Odissea:
        4. La guerra è finita, Elena si trova a Sparta a fianco del marito e la incontriamo quando Telemaco va in cerca di notizie del padre proprio alla reggia del sovrano lacedemone. Entrambi i consorti decidono di narrare a Telemaco un episodio della guerra di Troia. Elena sceglie quindi di narrare a Telemaco un episodio nel quale emergevano anche le sue qualità di sposa che solidarizza con Menelao ancor prima della presa di Troia. Menelao invece narra un episodio diverso, volto a mettere in luce un personaggio ben diverso: Elena è delineata mentre chiama ad uno ad uno i guerrieri dentro il cavallo, cercando di imitare la voce delle loro mogli e quindi di trarli ad un passo falso, smascherando l'inganno di Odisseo. Tratto interessante di questo passo è che "i guerrieri achei sperimentano in questa occasione la forza seduttiva di un personaggio che non si esauriva nell'aspetto esteriore. L'episodio più vicino a quello narrato da Menelao andrà individuato in quello delle Sirene".


        5. Elena nel ciclo epico:
        6. E' interessante l'incontro di Menelao ed Elena nella notte della distruzione di Troia. Il fatto ci viene narrato nella Piccola Iliade di Lesche: Menelao avanzava verso la sposa determinato a ucciderla, ma di fronte al seno scoperto della donna lasciava cadere la spada e si riconciliava a lei.
          Un altro argomento è l'anaideia di Elena. L'aidos è in primo luogo di tipo emozionale, si richiama in primo luogo alle inclinazioni naturali della persona, prima che alla sfera razionale. La donna appare infatti naturalmente incline all'anaideia, all'adozione cioè di comportamenti contrari alle norme sociali condivise, soprattutto per quanto riguarda la posizione nella casa e i rapporti con lo sposo. Elena quindi, lasciata sola dal marito, non seppe resistere alla bellezza, alle parole e ai doni di Paride e si lascia quindi guidare dal desiderio, peccando di anaideia.


        7. L'adultera:

        8. Nel V secolo a.C., quando la riflessione tendeva a concentrarsi sulle responsabilità personali di Elena, la colpa maggiore che le era addebitata, l'adulterio, era esaminata in tutte le sue implicazioni, a prescindere dal ruolo svolto dalle divinità e dagli altri personaggi:
          • In Saffo e Alceo, la colpa dell'eroina non è più attenuata dall'influenza divina, anche se essa rimane, ma si cambia il punto di vista che diventa la passione amorosa. L'intervento esterno non toglie nulla alla forza e all'autenticità con la quale è evocata la nascita della passione. Ma è con la tragedia che si arriva ad un radicale ripensamento di tutti gli avvenimenti della guerra di Troia e del personaggio di Elena.
          • Elena nella tragedia di Sofocle "La richiesta di Elena" (frammenti), i Greci decidevano di mandare un'ambasceria alla città con il fine di ottenere pacificamente la restituzione della donna. L'ambasceria era formata da Menelao ed Odisseo, sembra che Elena avesse l'occasione di incontrare Menelao, si mostrasse già pentita della decisione di aver seguito Paride e forse, dopo la mancata restituzione, giungesse a minacciare il suicidio.
          • Gli eventi di Elena, nella tragedia Agamennone di Eschilo, sono anche sottoposti ad una critica severa nel tentativo di trovare una spiegazione soddisfacente all'intervento divino e quindi alle esigenze di giustizia che, secondo un orientamento proprio della tragedia eschilea, devono trovare rispondenze nel mondo umano. Come già accadeva in Omero, Paride è il primo responsabile della guerra; tuttavia Elena non rappresenta più solo l'oggetto del contendere, avendo deciso liberamente di abbandonare la casa di Menelao, essa è pienamente coinvolta nelle responsabilità della guerra. è interessante notare come in Eschilo il nome di Elena (Helene) sia sottoposto ad un gioco etimologico con le parole "distruttrice di navi" (Helenaus) "distruttrice di uomini" (Helandros) e "distruttrice di città" (Heleptolis). Eschilo fa sì che essa acquisti dei tratti quasi demoniaci, che la avvicinano alla sorella Clitemnestra. Da amata sposa si trasforma in rovinosa compagna, che si abbatte sulla casa di Priamo come uno spirito vendicatore inviato da Zeus; assume allora il volto delle Erinni. Seguendo l'etica eschilea la figura di Elena viene quindi a rappresentare un piano delle divinità superiori dell'Olimpo, una sorta di punizione per la casa di Priamo e per Paride, conservando però tutti i tratti di bellezza e attrazione propri del personaggio.

          • Elena in Euripide acquista tutta la sua umanità, giudicata unicamente in rapporto alle sue responsabilità personali. Nelle Troiane, dove tutte le donne sono prigioniere nel campo acheo e attendono di conoscere la loro sorte, si assiste ad un confronto serrato tra Elena ed Ecuba. La prima a prendere la parola è la nostra eroina, che cerca di discolparsi dalle accuse di aver provocato la guerra e di adultera: "Innanzi tutto – osserva Elena - è cosa nota che, per il solo fatto di aver generato Paride, sia Ecuba ad aver dato origine ai mali attuali. Quanto all'accusa maggiore che le veniva mossa – quella di aver abbandonato Menelao – osserva che Paride giunse a Sparta <<portando con sé una non piccola divinità>> e ciò proprio nel momento in cui Menelao decideva di lasciarla sola con lo straniero per recarsi a Creta". Elena cerca quindi di discolparsi perché le sue azioni sono dovute ad interventi divini, e non completamente alla sua volontà. Da notare come nel discorso, Euripide metta in bocca alla donna la versione omerica del mito. La risposta di Ecuba riprende le argomentazioni maggiori del discorso precedente rivelandone l'infondatezza. Esso è tutto orientato a vanificare il ruolo attribuito alle circostanze esterne e a far emergere in tutta la loro gravità le responsabilità personali di Elena. Secondo Ecuba, Elena seguì Paride non perché indotta da una forza divina, ma perché non seppe resistere alla bellezza del giovane. è da notare la riduzione della divinità a semplice rappresentazione delle inclinazioni naturali della persona. La divinità non può essere addotta a giustificare un comportamento che ha le cause reali nella mente del soggetto. Le parole di Ecuba riflettono il pensiero di Euripide, in opposizione a quello omerico addotto da Elena. Nel proseguimento della tragedia, scopriamo un personaggio totalmente nuovo rispetto a quelli precedenti: l'Elena delle Troiane non è il personaggio che soggiace alle proprie passioni; preannuncia piuttosto il tipo della donna abile a mettere a frutto, con intenzione e impunemente, il fascino esercitato dalla propria persona. Pur assecondando le proprie inclinazioni, con intenzione è accorta nello schierarsi ogni volta dalla parte di chi può offrirle quanto desidera.
            Nella tragedia "Oreste", l'altra in cui Euripide inserisce il personaggio di Elena, la parte più importante per la caratterizzazione del personaggio è il dialogo con Elettra alla fine del prologo. A questo punto del dramma Elena vorrebbe recarsi sulla tomba della sorella appena uccisa, ma ha paura di incontrare la vendette dei parenti dei caduti a Troia. Affida quindi una ciocca di capelli ad una schiava; Elettra, che è presente alla scena, nota con quanta cura la donna abbia reciso la chioma, limitandosi a tagliarne solo le estremità per non deturpare la bellezza del viso. All'opportunismo manifestato nelle Troiane si accompagna qui un naturale disinteresse per i gravi eventi che coinvolgono gli altri membri della famiglia. Nel proseguimento del dramma Oreste ed Elettra decidono di uccidere Elena, ma proprio quando il figlio di Agamennone sta per compiere l'omicidio interviene Apollo a salvare l'eroina. L'inserimento di questo finale da parte di Euripide è tuttavia un ossequio puramente formale: l'intervento della divinità appare incongruo rispetto alla modalità che governa l'azione nel resto del dramma. Se vi è un autore in cui vi è una scelta pienamente umana dei personaggi in campo amoroso, questo è proprio Euripide, dove gli umani, nei loro piani, si affidano unicamente alle loro forze. Date queste premesse Elena non poteva certo costituire un modello positivo.

          • Ne L'Encomio di Elena, Gorgia cerca di discolpare totalmente l'eroina dall'accusa di aver provocato la guerra. Dopo aver esaminato ogni possibilità, il sofista giunge alla conclusione che il personaggio è totalmente innocente. Isocrate, pur ammirando il maestro, lo contraddice in un punto: egli infatti non ha scritto un encomio, ma bensì una difesa; egli si proporrà quindi di scrivere una vera e propria lode: Elena doveva essere lodata innanzitutto per la sua bellezza. La bellezza rappresenta qui un bene obiettivo. Il suo possesso rappresentava un bene prezioso, sia per i Greci che per i Troiani e meritava i lutti di una lunga e sanguinosa guerra.

          • Nell'Eneide virgiliana, Elena assume tratti demoniaci: il primo durante la distruzione di Troia, il secondo durante la discesa nell'aldilà da parte di Enea. Il personaggio di Elena è introdotto in un momento di grande drammaticità. Troia è ormai caduta, Enea si trova sul tetto della propria casa. Scorge quasi casualmente la figura di Elena, seduta presso l'altare all'interno del tempio di Vesta. A dominare l'episodio non è però la figura dell'eroina, ma bensì quella dell'eroe troiano, che rivolge il proprio risentimento personale a quella che sembra essere l'unica causa della morte di parenti e amici e della caduta della città natale. Notevole è la rappresentazione di Elena come Erinni, che già abbiamo incontrato nella tragedia di Eschilo e di Euripide. Gli aspetti demoniaci del personaggio sono ben riconoscibili nell'episodio virgiliano. Elena tuttavia non è qui strumento della giustizia divina, manca di quella sinistra grandezza che la distingueva nel dramma più antico; in Virgilio è solo manifestazione di una forza malefica, portatrice di distruzione e di morte. Il secondo episodio che vede protagonista la nostra eroina è narrato nel sesto canto, quando Enea incontra Deifobo, il quale gli racconta la propria fine. Elena, già d'accordo con gli Achei, disarma il guerriero troiano e lo lascia al suo triste destino. L'infedeltà della donna non si limita all'abbandono del letto coniugale, giunge fino al tradimento e all'assassinio. Consegnando lo sposo indifeso nelle mani dei nemici Elena si comporta come una nuova Clitemnestra.

          • Elena in Seneca: Nella tragedia le "Troiane", Seneca mette a confronto Elena con altri personaggi del campo troiano, quali Ecuba, Andromaca e Polissena. Quest'ultima è stata scelta dai Greci per essere sacrificata, Elena ha il compito di farle credere di andare in sposa a Pirro e di agghindarla con abiti greci per prepararla all'imminente matrimonio. Affidando ad Elena il compito di persuadere Polissena, egli raggiungeva un secondo risultato: quello di offrire un'ulteriore versione della duplicità del personaggio, portatore di disgrazie e di morte anche quando si presenta come promotore di nozze. L'eroina però, pur portando a termine il proprio compito, usa dei doppi sensi per mettere in guardia Polissena, che tuttavia verrà comunque sacrificata.



     

     

     



    Zeus/SEMELE
      Semele era figlia di Cadmo e di Armonia ed amante di Zeus. Era, gelosa della relazione del suo sposo divino con Semele, si trasformò in Beroe, nutrice della giovane, e la convinse a chiedere a Zeus di apparirle come dio e non come mortale.

      Zeus, conscio del pericolo che Semele correva, tentò di dissuaderla, ma Semele insistette per vederlo in tutto il suo splendore. Così il dio, che le aveva promesso di accontentare ogni sua richiesta, si trasformò e Semele morì folgorata dal fulmine.

      Zeus riuscì a salvare il bambino che Semele aveva in grembo e nascose il piccolo Dioniso nella sua coscia. Diventato immortale grazie al fuoco divino, Dioniso discese negli Inferi e portò la madre sull'Olimpo, dove fu resa immortale con il nome di Tione.

      Il nome di Semele appartiene a una lingua non greca e si riferisce a una dea-terra madre di un figlio divino. Anche in epoca tarda Dioniso sarà spesso designato con l'appellativo di concepito nel fuoco o di nato nel fuoco, con riferimento alla folgore di Zeus.

      Il carattere eccezionale della filiazione sembra rispondere alla preoccupazione di elevare il nuovo dio nella discendenza da Zeus, preoccupazione forse dovuta all'antagonismo tra culti di giovani dei alla ricerca di una legittimazione. Il racconto è inoltre da riferirsi al periodo dell'introduzione di una concezione patriarcale nel mondo greco per cui gli dei nati da dee-madri di stampo asiatico vengono elevati sull'Olimpo in nome di una parentela più o meno diretta con il grande dio degli Elleni.

      La nascita di Dioniso da una donna mortale rende certamente più suggestiva la sua figura in quanto lo presenta come un immortale che pur restando tale partecipa dell'umanità. Egli frequenta continuamente i mortali ai quali infonde il sentimento della sua presenza reale e non si abbassa sino a loro, ma piuttosto li innalza sino a sé; tutto il racconto costituisce inoltre un motivo atto a suscitare emozioni nelle donne che vedevano il figlio di una come loro elevato al grado di divinità.


      Bacco
        Più popolare è il nome di Bacco (un epiteto di Dionisio). L'appellativo è comune al dio e ai suoi fedeli, i baccanti. il termine bacchos è inscindibile dal verbo baccheuein che designa un comportamento particolare, una sorta di trance religiosa, anche in riferimento a culti estranei al dionisismo.

        Divenuto adulto, Dioniso percorre il mondo insegnando agli uomini la viticultura e istituendo ovunque il suo culto, che viene spesso avversato con l'accusa di seminare disordine e immoralità. Nella stessa Tebe, sua patria, Dioniso è perseguitato dal re Penteo, che ne vieta il culto, praticato soprattutto in orge notturne nelle quali i seguaci e soprattutto le donne, dette Menadi (cioè "folli"), svolgono cerimonie sui monti, agitando fiaccole e tirsi in preda a una eccitazione collettiva nel corso della quale cercano la comunione con il dio a contatto con la natura e divorando carni crude di cerbiatti dilaniati. Ma la forza del dio è irresistibile e il suo avversario Penteo viene ucciso dalla madre stessa.

        Dioniso non è una divinità indoeuropea: le vicende della nascita e le forme del culto lo presentano come un dio mediterraneo della natura e della vegetazione, dio della vita e della morte, che impone il suo culto con una potenza terribile, nella quale trovano sublimazione gli impulsi segreti della psiche umana, che chiedono una forma periodica di liberazione perché l'uomo possa attingere la felicità nella comunione mistica con il dio della natura.

     

     

     



    Zeus/OLIMPIADE
      Olimpiade fu una principessa epirota, moglie di Filippo II di Macedonia e madre di Alessandro Magno. Secondo diverse leggende, Olimpiade non avrebbe generato Alessandro con Filippo, che aveva paura di lei e della sua abitudine di dormire in compagnia di serpenti, ma lo generò con Zeus. Lo stesso Alessandro era orgoglioso di queste leggende e preferiva Zeus come padre anziché Filippo.

      Secondo la tradizione, Olimpiade da parte di padre discende da Eracle, la madre con lo stesso nome, era figlia di Neottolemo e di Andromaca, nipote quindi di Achille. Ciò formò la base della pretesa di Alessandro di essere considerato il nuovo Achille.

      Olimpiade nacque nel 375 a.C. e sposò nel 359 a.C. a 16 anni, Filippo II, partorendo nel 356 Alessandro III, il famoso re macedone. Fu molto legata affettivamente al figlio e questi andò a vivere con lei, dopo che il padre Filippo nel 338 a.C. l'aveva ripudiata per prendere come sposa una nobildonna macedone.

      Nel 336 a.C. re Filippo viene assassinato da un ufficiale della sua guardia durante le nozze della figlia Cleopatra con il re Alessandro I d'Epiro. Secondo il racconto tradizionale di Plutarco pare che sia Olimpiade che il figlio Alessandro fossero a conoscenza della congiura.
      Dopo la morte del padre Alessandro viene acclamato re dall'esercito. All'età di 20 anni si impegna da subito per consolidare il suo potere. Olimpiade collaborò con il figlio all'eliminazione dei possibili rivali al trono: furono uccisi circa5 presunti rivali e Olimpiade costrinse al suicidio la nuova moglie del marito, Euridice.
      Quando le città greche si ribellarono, Olimpiade ebbe contrasti con il figlio per ragioni non chiare; comunque dopo che nel 335 a.C. aiutò a reprimere la ribellione, Alessandro allontanò dal potere la madre.

      All'epoca della nascita di Alessandro, sia la Macedonia che l'Epiro sono ritenuti stati semibarbari, alla periferia settentrionale del mondo greco. Filippo vuole dare al figlio un'educazione greca e, dopo Leonida e Lisimaco di Acarnania, sceglie come suo maestro il filosofo greco Aristotele (nel 343 a.C.), che lo educa insegnandogli la scienza e l'arte, gli prepara appositamente un'edizione annotata dell'Iliade. Aristotele resterà legato a re Alessandro per tutta la vita, sia come amico che come confidente.

      Tra i numerosi aneddoti che riguardano il mito di Alessandro Magno vi è quello in cui si narra che da giovane - all'età di dodici o tredici anni riesce a domare da solo il cavallo Bucefalo, regalatogli dal padre: il modo in cui doma il cavallo si basa sull'arguzia di avere colto la paura dell'animale per la propria ombra; Alessandro lo mette così con il muso rivolto verso il sole prima di salire sulla sua schiena.

      C'è anche un'altra particolare unicità fisica che è passata alla storia: Alessandro aveva un occhio di colore azzurro e uno di colore nero.

      Nel 340 a.C., a soli sedici anni, durante una spedizione del padre contro Bisanzio gli viene affidata la reggenza in Macedonia. Due anni più tardi Alessandro guida la cavalleria macedone nella battaglia di Cheronea.

      Grazie alle sue imprese passerà alla storia come Alessandro il Grande (o Magno) e verrà considerato come uno dei più celebri conquistatori e strateghi della storia. In soli dodici anni di regno onquista l'Impero Persiano, l'Egitto ed altri territori, spingendosi fino ai territori oggi occupati da Pakistan, Afghanistan e India settentrionale.
      Le sue vittorie sui campo di battaglia accompagnano la diffusione universale della cultura greca, non come imposizione bensì come integrazione con gli elementi culturali dei popoli conquistati. Storicamente si identifica questo periodo come l'avvio al periodo ellenistico della storia greca.

      Muore nella città di Babilonia il giorno0 giugno (o forse l'11) dell'anno 323 a.C., forse avvelenato, oppure per una recidiva della malaria che aveva contratto in precedenza.

      Dopo la morte, l'impero viene suddiviso tra i generali che lo avevano accompagnato nelle sue conquiste, costituendo di fatto i regni ellenistici, tra cui quello tolemaico in Egitto, quello degli Antigonidi in Macedonia e quello dei Seleucidi in Siria, Asia Minore, e negli altri territori orientali.

      Dopo la morte di Alessandro fu fatto re Filippo Arrideo (352 a.C. - 317 a.C.), figlio illegittimo di Filippo II. Si usurparono così i diritti del figlio postumo di Alessandro Magno, Alessandro IV (323 a.C. - 309 a.C.). Olimpiade si alleò con Poliperconte e nel 317 a.C. organizzò una congiura contro Filippo Arrideo; la congiura riuscì ma Olimpiade fu perseguitata per regicidio e nel 316 a.C. vista l'impossibilità di salvezza, si suicidò. Aveva 59 anni.

      Lo straordinario successo di Alessandro il Conquistatore, sia in vita ma ancor più dopo la sua morte, ispira una tradizione letteraria in cui appare come un eroe mitologico, assimilabile alla figura dell'Achille omerico.


     

     

     



    Zeus/LAMIA

      Lamia era figlia di Belo, il re di Libia, ed ebbe la disgrazia di essere amata da Zeus al quale generò numerosi figli. Era, gelosa del marito, fece sì che i figli di Lamia morissero strangolati. Solo Scilla, il mostro situato sullo stretto di Messina, riuscì a scampare alla furia di Era. Lamia si nascose in una caverna e diventò un mostro orribile, geloso delle madri più felici di lei delle quali spiava i figli per poi rapirli. Alcune testimonianze aggiungono che Era avesse privato Lamia del sonno, ma Zeus le concesse il privilegio di potersi togliere gli occhi ed appoggiarli dentro un vaso per poter riposare: quando Lamia era priva degli occhi non era pericolosa. In Libia era chiamata Neith, dea dell'amore e della battaglia, e anche Anatha e Atena; il suo culto fu soppresso dagli achei ed essa finì per diventare uno spauracchio per i bambini. Il suo nome, Lamia, pare apparentato con Lamyros (ingordo) da laimos (gola), cioè, per una donna, lasciva, e il suo orribile volto è la maschera profilattica della gorgone, usata dalle sacerdotesse durante la celebrazione dei misteri di cui l'infanticidio era parte integrante. La leggenda degli occhi di lamia fu probabilmente tratta da una raffigurazione della dea nell'atto di conferire a un eroe capacità divinatorie offrendogli un occhio.

      Aristofane conferisce a Lamia caratteri ermafroditi attribuendole un pene e l'attrezzatura sottostante:
      E primo fra tutti io ho combattuto proprio col cinghiale zannuto, cui dagli occhi fungevano terribili sguardi di Cinna, mentre intorno cento adulatori scellerati gli leccavano in giro la testa, e aveva la voce di un torrente che porta devastazione e fetore di foca e coglioni di Lamia mai lavati… (Aristofane, La Pace).
      Lamia poteva anche trasformarsi in animale e donna bellissima, inoltre poteva presentarsi in numero maggiore di uno (solitamente tre).
      Le lamie si univano alle Empuse quando esse apparivano nei trivi e insieme cercavano i giovani per berne il sangue dopo averli sfiniti con i rapporti sessuali.
      Un'antica tradizione dei dintorni del Parnaso comprende una "Lamia del mare", un demone che catturava i giovani che suonavano il flauto sulla spiaggia a mezzanotte e a mezzogiorno. Se questi rifiutavano di unirsi in matrimonio con lei, erano brutalmente uccisi. Probabilmente questa creatura è erede delle sirene, che seducevano i marinai col loro canto per privarli d'ogni bene, anch'esse erano donne alate, ma avevano il volto e il tronco di donne umane.
      Una scultura ellenica, che attualmente si trova al British Museum, raffigura le Lamie che corrono con un bambino stretto fra le braccia, del quale probabilmente poi berranno il sangue; hanno un paio d'ali spiegate e i lunghi capelli fermati con un monile a forma di teschio.
      Lamia rimase, con le medesime connotazioni di divinità malevola, anche nella cultura romana. Fu presto associata alla figura della strega, dalla quale rimase inscindibile anche nel Medioevo e nel Rinascimento: le cause sono da ricercarsi nel fatto che i delitti erano compiuti prevalentemente nottetempo e le vittime preferite erano i bambini (dei quali le streghe cercavano soprattutto il grasso, per preparare unguenti, e il sangue, che per la sua purezza poteva far da tramite col demonio). Un'altra caratteristica che accomuna queste creature sia alle streghe che ai vampiri è la capacità di trasformarsi in uccello notturno, per non essere riconosciute quando entravano nelle case a cercare le loro vittime.
      Sia il popolo greco che quello romano manifestavano atteggiamenti contradditori nei confronti delle donne, una sorta d'ammirazione/timore: accanto alle capacità seduttive convivevano enormi potenzialità distruttive.
      In Luciano leggiamo: (La Lamia) Non esita a uccidere se ha bisogno di sangue caldo che fuoriesca a fiotti da una gola recisa, e se le funebri mense richiedono visceri palpitanti; così con uno squarcio nel ventre, estrae i feti da porre sulle are ardenti e non per la via che la natura richiede (M. Centini, Il Vampirismo, Xenia, 2000, p. 37).
      La simbologia del sangue, presente nell'antica Roma, non era molto dissimile da quella della Grecia classica. Pochi erano quelli che conoscevano i segreti per estrarre il sangue, conservarlo e usarlo nel modo migliore per ottenerne benefizi: le custodi di quest'arte erano principalmente donne, capaci di portare alla vita le creature, ma altrettanto abili a porvi fine. L'Asino d'Oro o le Metamorfosi di Apuleio reca il resoconto di un certo Aristomene di una vicenda accaduta al suo amico Socrate:

      E, spinta di fianco la testa di Socrate, gli immerge traverso la clavicola sinistra la spada fino all'elsa, poi accosta un piccolo otre e raccoglie diligente il sangue che spicciava senza versarne in terra neppure una goccia. Son cose queste che ho visto coi miei occhi. Inoltre la buona Meroe, per portar io credo, alcuna innovazione nei riti che regolano i sacrifici, introdusse la destra traverso la ferita e, dopo molto frugare, ne trasse il cuore del mio povero compagno, mentre dalla sua gola, squarciata pel violento colpo di spada, più che voce usciva un incerto gorgoglio, e il fiato sfuggiva sotto forma di bolle.

      Ne L'Arte Poetica di Orazio le Lamie sono descritte come esseri mostruosi, in grado di ingoiare i bambini e di restituirli ancora intatti se si squarcia loro il ventre (l'integrità dei corpi è, però, solo apparente, infatti all'interno sono svuotati d'ogni umore).

        Vampiri al femminile

        La letteratura latina annovera anche altri "protovampiri", ma difficilmente li fa uscire dall'ambito femminile; Ovidio nei Fasti parla di Striges:

        Vi sono ingordi uccelli, non quelli che rubavano il cibo
        dalla bocca di Fineo, ma da essi deriva la loro razza:
        grossa testa, occhi sbarrati, rostri adatti alla rapina,
        penne grigiastre, unghie munite d'uncino;
        volano di notte e cercano infanti che non hanno accanto la nutrice,
        li rapiscono dalle loro culle e ne straziano i corpi;
        si dice che coi rostri strappino le viscere dei lattanti,
        e bevano il loro sangue sino a riempirsi il gozzo.
        Hanno il nome di Strigi: origine di questo appellativo
        è il fatto che di notte sogliono stridere orrendamente.
        Sia che nascano dunque uccelli, sia che lo diventino per incantesimo,
        e null'altro che siano vecchie tramutate in volatili da una nenia della Marsica,
        vennero al letto di Proca: Proca nato da cinque giorni,
        sarebbe stato una tenera preda per questi uccelli;
        con avide lingue succhiano il petto dell'infante,
        ma il povero bambino vagisce e chiede aiuto.

        (Ovidio, I Fasti, BUR, p. 449).

        La letteratura Latina è piena d'esempi di donne, dai costumi non proprio integerrimi, dedite alla magia e al vampirismo. Orazio, nel quinto dei suoi Epodi (Il Profumo della Strega), descrive Canidia, Sagana, Veia e Folia nell'atto di sacrificare un fanciullo, alla luce della Luna, con lo scopo di preparare un beveraggio con i suoi umori; e Properzio, nelle Elegie, quando parla delle maghe tessale non usa certo toni rassicuranti.
        Queste Streghe Latine, probabilmente, derivano dalle furie greche: Aletto, Tisifone e Megera, nate dal sangue sgorgato dall'evirazione d'Urano, avevano il compito di punire gli spergiuri irrispettosi della dea-madre terra, che venivano meno al decoro richiesto nei costumi familiari. Sono vecchie orribili con la testa di cane e il corpo di colore nero, e recano sul dorso grandi ali di pipistrello. Era costume non nominarle mai, oppure erano chiamate Eumenidi.
        Anche le Baccanti o Menadi, nella tragedia di Euripide, scatenano indomite la loro forza per uccidere Penteo, che aveva vietato la celebrazione del culto di Bacco:

        Noi ci demmo alla fuga ed evitammo di essere dilaniati dalle Mènadi; ma quelle a mano armata si avventarono sopra i vitelli al pascolo sull'erba. Ne potevi vedere una tenere le braccia aperte, una giovenca florida; mugghiante; e le altre, intanto, dilaniavano vitelline. Vedevi fianchi e zoccoli biforcuti scagliati in alto, in basso, penduli dagli abeti e insozzati di sangue che gocciolava. (…) Poi, librandosi come uccelli, vanno di corsa nelle vaste piane (…). Come nemici piombano su Isia ed Eritra, al di qua del Cicerone, mettendo tutto a sacco; dalle case rapivano i bambini, e tutto quello che si mettevano in spalla aderiva senza legacci e non cadeva al suolo nero. (…) I villici rapinati da loro s'infuriavano, prendevano le armi: lo spettacolo fu allora impressionante, sire. Il ferro di quelle lance non s'imporporava; loro invece, scagliando dalle mani i tirsi, li ferivano, volgendoli in fuga, loro, donne, quelli ch'erano uomini (…) (Euripide, Le Baccanti, in Tutte le Tragedie, Newton & Compton,991, p. 308).
        Nei giorni dedicati a Bacco, chi beveva vino assumeva il sangue del Dio. Anche se il culto era stato vietato, le baccanti ebbero comunque modo di ottenere sangue.



        Con la caduta dell'Impero Romano, le invasioni barbariche e il forte potere della religione cattolica, non si fece quasi più menzione di queste creature nella letteratura. La ricomparsa di questi vampiri al femminile, nelle opere letterarie, si ebbe nell'età romantica, come conseguenza del recupero delle tradizioni classiche e del gusto delle testimonianze lasciate dalle antiche civiltà (a loro volta conseguenti all'opera di razionalizzazione dello scibile attuata dall'Illuminismo).
        Empusa rimane la donna morta che ritorna per essere amata, mentre Lamia conserva le sue caratteristiche di divinità nefasta, ma ciò che consente la loro ricomparsa è un mutamento del senso estetico degli scrittori che sono attratti da un tipo di bellezza mortifera, sepolcrale, e l'amore s'appropriò della componente dolorosa come indispensabile per il raggiungimento dell'estasi.

        In Italia sono gli Scapigliati, poeti melanconici, tristi e destinati ad una morte prematura, a subire il fascino delle donne vampiro; Emilio Praga (a sua volta influenzato dai decadenti francesi), con le sue tre versioni della Dama Elegante, si fa interprete della visione della donna dalla bellezza ipnotica e demoniaca, il cui bacio differisce ben poco da un morso letale.
        In America, invece, la vittima delle Empuse è Edgar Allan Poe, irrimediabilmente attratto da donne pallide ad un passo dalla tomba; è il caso di Ligeia, che non si rassegna a "riposare in pace", ma perseguita fino a far morire la seconda moglie del protagonista del racconto.
        La donna Vampiro appartiene all'ambito del perturbante in maniera più palese del suo corrispettivo maschile, incontrarla rappresenta una pericolosa ed irresistibile agnizione con quanto è rimosso dal punto di vista sessuale, e l'apice narrativo lo troviamo con Carmilla di Le Fanu, Clarimonde di Gautier e Aurelia di Hoffman.
        Lo storico rumeno Mircea Eliade, col suo Signorina Cristina realizza uno splendido connubio tra folclore vampirico e romanzo; è la storia d'amore di una giovane donna morta da oltre vent'anni e divenuta vampiro:

        Egor tremava, ma non era più uno spasimo di terrore, bensì l'impazienza di tutto il suo corpo, il suo struggersi delirante nell'attesa del piacere supremo. La sua carne si disfaceva impazzita, perché la voluttà lo soffocava, lo umiliava. La bocca di Christina aveva il sapore dei frutti di sogno, il gusto di ogni ebbrezza proibita, maledetta. Neppure nelle più diaboliche immaginazioni d'amore stillava tanto veleno, tanta rugiada. Tra le braccia di Christina Egor sentiva le gioie più empie, unite ad una celeste dissipazione, una fusione completa e totale. Incesto, crimine, follia. Amante, sorella, angelo… Tutto si raccoglieva e si mescolava vicino a quella carne infuocata e tuttavia senza vita… (Mircea Eliade, Signorina Christina, Jaka Book,984, p.75).

        Anche il cinema ha "dato alla luce" numerose vampire, di cui la più famosa è Theda Bara: con lei è nato l'appellativo Vamp, come sinonimo di Donna Fatale.


      Scilla e Cariddi

        Scilla, la bellissima ninfa figlia di Lamia, fatta dono dalla natura, di una incredibile grazia, era solita recarsi presso gli scogli di Zancle, per passeggiare a piedi nudi sulla spiaggia e fare il bagno nelle acque limpide del mar Tirreno. Una sera, mentre era sdraiata sulla sabbia, sentì un rumore provenire dal mare e notò un'onda dirigersi verso di lei. Impietrita dalla paura, vide apparire dai flutti un essere metà uomo e metà pesce dal corpo azzurro con il volto incorniciato da una folta barba verde ed i capelli, lunghi sino alle spalle, pieni di frammenti di alghe. Era un dio marino che un tempo era stato un pescatore di nome Glauco che un prodigio aveva trasformato in un essere di natura divina.

        Scilla, terrorizzata alla sua vista perché non capiva di che tipo di creatura si trattasse, si rifugiò sulla vetta di un monte che sorgeva nelle vicinanze. Il dio marino, vista la reazione della ninfa, iniziò ad urlarle il suo amore e a raccontarle la sua drammatica storia. Era infatti un tempo Glauco un pescatore della Beozia e precisamente di Antedone, un uomo come tutti gli altri, che trascorreva le sue lunghe giornate a pescare. Un giorno, dopo una pesca più fortunata del solito, aveva disteso le reti ad asciugare su un prato adiacente alla spiaggia, ed aveva allineato i pesci sull'erba per contarli quando, appena furono a contatto con l'erba, iniziarono a muoversi,

        presero vigore, si allinearono in branco come fossero in acqua e saltellando, fecero ritorno al mare. Glauco, esterrefatto da tale prodigio, non sapeva se pensare ad un miracolo o ad uno strano capriccio di un dio. Scartando però l'ipotesi che un dio potesse perdere tempo con un umile pescatore come lui, pensò che il fenomeno dipendesse dall'erba e provò ad ingoiarne qualche filo. Come l'ebbe mangiata, sentì un nuovo essere nascere dentro di lui che combatteva la sua natura umana fino trasformarlo in un essere attratto irresistibilmente dall'acqua.

        Gli dei del mare lo accolsero benevolmente tanto che pregarono Oceano e Teti di liberarlo dalle ultime sembianze di natura umana e terrena e di renderlo un essere divino. Accolta la loro preghiera, Glauco fu trasformato in un dio e dalla vita in giù fu mutato in un pesce.

        Scilla, dopo aver ascoltato il racconto di Glauco, noncurante del suo dolore, andò via lasciandolo solo e disperato. Allora Glauco pensò di recarsi all'isola di Eea dove sorgeva il palazzo della maga Circe sperando che potesse fare un sortilegio per far innamorare Scilla di lui. Circe, dopo che Glauco ebbe raccontato il suo amore lo ammonì duramente, ricordandogli che era un dio e pertanto non aveva bisogno di implorare una donna mortale per farsi amare e per dimostrargli quanto lui si sbagliasse a considerarsi sfortunato, gli propose di unirsi a lei. Ma Glauco si rifiutò di tradire il suo amore per Scilla e lo fece in modo così appassionato che Circe, furiosa per essere stata rifiutata a causa di una mortale, decise di vendicarsi.

        Non appena Glauco se ne fu andato, preparò un filtro e si recò presso la spiaggia di Zancle, dove Scilla era solita recarsi. Versò il filtro nel mare e ritornò quindi alla sua dimora. Quando Scilla arrivò, accaldata dalla grande afa della giornata, decise di immergersi nelle acque limpide. Ma, dopo essersi bagnata, vide intorno a se mostruose teste di cane, rabbiose e ringhianti. Spaventata cercò di scacciarle ma, una volta fuori dall'acqua, si accorse che quei musi erano attaccati alle sue gambe tramite un lungo collo serpentino. Si rese allora conto che sino alle anche era ancora una ninfa ma dalle anche in giù spuntavano sei teste feroci di cane, ognuna con tre file di denti aguzzi.

        Fu tale l'orrore che Scilla ebbe di se stessa che si gettò in mare e prese dimora nella cavità di uno scoglio vicino alla grotta dove abitava Cariddi


          Cariddi, in principio, era una donna, figlia di Poseidone e Gea, dedita alle rapine e famosa per la sua voracità. Un giorno rubò ad Eracle i buoi di Gerione e ne mangiò alcuni. Allora Zeus la fulminò facendola cadere in mare, dove la mutò in un mostro simile ad una lampreda, che formava un vortice marino con la sua immensa bocca, capace di inghiottire le navi di passaggio.


        Pianse Glauco la sorte toccata a Scilla e per sempre rimase innamorato dell'immagine di grazia e dolcezza che la ninfa un tempo rappresentava.

        Scilla e Cariddi, entrambe spaventosi mostri marini, erano quindi l'una vicino all'altra a formare quello che le genti moderne chiamano "Lo Stretto di Messina" e mentre Cariddi ingoia e rigetta tre volte al giorno l'acqua del mare creando dei giganteschi vortici, Scilla attenta alla vita dei naviganti con le sue sei teste cercando di ghermire altrettanti marinai.



     

     

     




    Zeus/Io

      Un giorno Io, sacerdotessa di Era, figlia di Inaco re di Argo e della ninfa Melia, mentre rientrava alla casa paterna, fu fermata da Zeus che le dichiarò il suo amore e le propose di vivere in una casa nel bosco dove nessuno l'avrebbe molestata dal momento che sarebbe stata sotto la sua protezione e dove lui sarebbe potuto andare a trovarla ogni qual volta lo desiderasse. Io, spaventata da quelle parole, iniziò a fuggire ma Zeus, non volendo rinunciare a lei, la inseguì sotto forma di nube.

      Per sfortuna di Io in quel momento Era, moglie di Zeus, accortasi dall'Olimpo della strana nube che correva veloce e conoscendo il suo sposo, dopo averlo cercato invano nell'Olimpo, capì subito che il prodigio della nube altro non era che Zeus ed immediatamente intuì il tradimento.

      Zeus, avendo avvertito la presenza di Era e sapendo che nulla di buono sarebbe accaduto se l'avesse trovato in quella situazione, trasformò la dolce Io in una candida giovenca. Il sotterfugio però non ingannò Era che una volta giunta al cospetto del suo sposo, gli chiese di donargli l'animale. Zeus era combattuto: negarle il dono significava ammettere il suo tradimento ma concedergliela significava condannare Io ad un triste destino. Alla fine Zeus preferì evitare l'ira della sua sposa e le consegnò la giovenca.

      Non ancora tranquilla Era preferì affidare la custodia della giovenca ad Argo, gigante dai cento occhi. Da quel momento iniziò per Io una vita terribile: sotto forma di giovenca e in ogni momento controllata da Argo, sia di giorno che di notte, in quanto i suoi cento occhi che non erano posti tutti sul capo ma in ogni parte del suo corpo, si riposavano a turno: mentre cinquanta erano chiusi, gli altri cinquanta vegliavano.

      Il tempo scorreva triste per la povera Io, costretta di giorno a pascolare e ad abbeverarsi presso fiumi fangosi e di notte ad essere legata con un collare per non scappare via.

      Intanto Zeus che si sentiva colpevole per aver condannato Io ad un così crudele destino, chiamò Ermes, incaricandolo di liberare la fanciulla dalla schiavitù a cui Era l'aveva condannata.

      Il giovane dio, presa la bacchetta d'oro che gli antichi chiamavano caduceo ed il suo leggendario copricapo, dall'Olimpo volò sulla terra e si presentò ad Argo sotto le sembianze di un giovane pastore di capre. Ermes iniziò a suonare uno strumento formato con le canne e la melodia era tanto armoniosa che lo stesso Argo pregò il pastore di pascolare le sue capre presso di lui dicendogli che quello era il miglior pascolo che si potesse trovare in quelle zone. Ermes, a quel punto si sedette al suo fianco ed iniziò a suonare delle dolci melodie che inducevano al sonno chiunque le ascoltasse.

      Ma Argo, che riposava con metà dei suoi occhi, non si addormentava; anzi, chiese ad Ermes come e da chi fosse stato inventato un tale strumento che procurava suoni così soavi ed Ermes, iniziò così a raccontare .....

        Viveva un tempo sui monti dell'Arcadia, una ninfa di nome Siringa, seguace del culto di Artemide che viveva nei boschi cacciando. Tanta era la sua leggiadria che molti dei cercavano di possederla e tra questi anche il dio Pan, che iniziò ad inseguirla. Siringa mentre tentava la fuga per sfuggire al dio, pregò suo padre, il dio fluviale Ladone, di sottrarla a quella caccia. Fu così che fu trasformata in una canna tra un canneto, sotto gli occhi di Pan. Al dio altro non rimase che prendere alcune canne, tagliarle e legarle assieme con un legaccio ricavando in questo modo uno strumento che emetteva una melodia dolcissima e che da quel momento prese il nome di Siringa.

      Terminato il racconto Ermes si accorse che finalmente tutti i cento occhi di Argo si erano chiusi, addormentati. A quel punto lesto lo uccise gettandolo da una rupe e liberando così la giovane Io.

      Ma le peripezie di Io non erano ancora finite, infatti Era, non potendo sopportare che la sua rivale fosse libera, decise di mandarle un tafano a tormentarla con le sue punture al punto da indurla a gettarsi in mare per riuscire a sfuggirgli. Io dopo aver attraversato a nuoto il mare che da lei si chiamò Ionio, vagò per lunghissimo tratto, in Europa ed in Asia ed alla fine approdò in Egitto.

      Si narra che in Egitto Io, riprese le sembianze umane e generà Epafo, figlio di Zeus. Era tentò ancora di rovinarle la vita facendole rapire il figlio dai demoni Cureti, ma dopo molte peripezie, Io riuscì a ritrovarlo e a vivere serena il resto dei suoi giorni in Egitto, accanto a suo figlio.

      Epafo successivamente divenne re d'Egitto e sposò Menfi una ninfa del Nilo, in onore della quale fondò l'omonima città e dalla quale ebbe una figlia, Libia, dalla quale prese il nome la regione omonima dell'Africa settentrionale.




     

     


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    25.12.2016