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DINASTIA MITOLOGICA GRECA
COSMOGONIA
La contemplazione dei cieli è stata e rimane una delle
più lunghe e affascinanti avventure della mente umana.
La suggestione, il fascino e lo sgomento che tali osservazioni
hanno provocato, in passato fecero sì che astronomia
e cosmologia permeassero ogni attività umana. L'uomo
"primitivo" viveva immerso nell'Universo circostante
con una compartecipazione ben più totalizzante, anche
se ovviamente meno consapevole, dell'uomo "moderno".
Chi possedeva le chiavi per leggere e interpretare il
cosmo suscitava rispetto e timore nelle proprie genti.
Le inevitabili lacune della conoscenza umana si prestarono
spesso ad essere riempite da credenze irrazionali (così
almeno è come oggi ci appaiono) che portarono a miti
e a dogmi religiosi.
Anche la cosmologia, complesso di dottrine scientifiche
o filosofiche che studiano l'ordine, i fenomeni e le
leggi dell'universo, e la cosmogonia, cioè quella unione
di miti e di teorie che ogni popolo ha elaborato per
rendersi ragione dell'origine dell'Universo, sono state
campo di battaglia di un conflitto che ancora oggi si
combatte su diversi fronti: quello tra comprensione
e ignoranza.
Le cosmologie più antiche potranno apparirci ingenue:
le nostre attuali conoscenze sono in grado di confutare
pienamente l'asserzione che, per esempio, sia una lucertola
a circondare e così facendo, tenere unito il nostro
mondo.
Esemplifichiamo la questione con una analogia: nel passaggio
da due a tre dimensioni, quello che sembrava un piano
su cui giacciono due circonferenze completamente separate,
ci appare come un anello tagliato orizzontalmente dal
piano su cui ci sembrava giacessero le circonferenze.
La nostra conoscenza attuale ha, per così dire, aggiunto
una dimensione in più al nostro punto di vista scientifico,
rendendolo più completo e in grado di smascherare alcuni
miti e dogmi [immagine]. Questo "gap" ci rende, in molti
casi, indubbiamente più tranquilli e fiduciosi nelle
nostre capacità di comprensione rispetto a quelle dei
nostri predecessori.
Ma "per apprendere in quale direzione si sviluppi la
fisica, c'è solo un mezzo: confrontare il suo stato
attuale con quello di un'epoca anteriore" (M. Planck,
La conoscenza del mondo fisico).
Studiando il passato si diventa più consapevoli del
cammino dell'uomo in quella che si può definire "protoscienza"
e quindi delle basi su cui poggiano le nostre attuali
conoscenze scientifiche.
Non si può inoltre negare la bellezza e il fascino ancestrale
racchiuse nelle "storie del mondo"; gli uomini che ci
hanno preceduto le hanno raccontate nel tentativo di
rispondere alle stesse domande che ancora oggi sono
la spinta di ogni ricerca umana, sia interiore che scientifica.
Le domande, comuni agli uomini di ogni cultura e civiltà,
trovano quindi una prima risposta nelle cosmologie "primitive",
se con questo termine intendiamo i sistemi non scientifici
nel senso moderno del termine sviluppatisi prima delle
teorie greche a tutti note o parallelamente ad esse,
ma senza subirne le influenze.
La lettura delle cosmogonie antiche porta a un'ulteriore
riflessione: basterà molto meno di qualche migliaio
di anni a trasformare la nostra scienza in "protoscienza".
Oggi con il termine "energia oscura" si intende quel
fluido cosmico dalle proprietà peculiari (come una pressione
negativa, capace di produrre una forma di repulsione
gravitazionale ) che è stato ipotizzato per l'autoconsistenza
dello schema attuale dell'universo: esso appare infatti
piatto, ma manca la materia, anche oscura, che potrebbe
renderlo tale; per di più appare in espansione accelerata.
Se qualcuno sostenesse che un tale fluido (curioso e
inquietante il nome che è stato scelto per descriverlo:
quintessenza), non è altro che il nutrimento di quella
enorme lucertola che racchiude l'universo, espandendosi
con esso, nessuno scienziato attuale potrebbe dimostrare
il contrario.
CAOS
"Lo Spazio che non è contenuto, ma
che contiene tutto, è la personificazione primaria della
semplice Unità... l'estensione illimitata". "Ma l'estensione
illimitata di che cosa?" "L'Ignoto Contenitore di Tutto,
la Causa Prima Sconosciuta". Questa è una definizione
ed una risposta molto esatta.
Lo Spazio è il Contenitore ed il Corpo dell'Universo.
è un corpo di un'estensione illimitata, i cui princìpi
manifestano nel nostro mondo fenomenico soltanto la
parte più grossolana.
" Nessuno ha mai veduto gli Elementi nella loro pienezza".
Noi dobbiamo attingere il nostro sapere dalle espressioni
originali e dai sinonimi dei popoli primitivi.
Il Chaos era chiamato dagli antichi privo di senno perché
— il Chaos e lo Spazio essendo sinonimi — esso rappresentava
e conteneva in sé tutti gli Elementi nel loro stato
rudimentale e indifferenziato. Gli antichi facevano
dell'Æther il quinto Elemento, la sintesi degli altri
quattro; poiché l'Æther dei filosofi greci non era il
suo residuo, per quanto in realtà essi avessero molte
più cognizioni della scienza attuale su questo residuo
(Etere), il quale si considera giustamente quale agente
operatore di molte Forze che si manifestano sulla terra.
Poiché l'Essenza dell'Aether, o lo Spazio Invisibile,
era considerata divina in quanto si supponeva che fosse
il Velo della Divinità, così essa veniva pure considerata
quale intermediaria fra questa vita e quella successiva.
Gli antichi ritenevano che quando le Intelligenze attive
dirigenti — gli Dèi — si ritiravano da una porzione
qualsiasi dell'Æther nel nostro Spazio, o dei quattro
regni che essi governavano, allora quella particolare
regione cadeva sotto il dominio del male, così chiamato
a causa dell'assenza del bene.
L'esistenza dello Spirito, l'Etere, è negata dal Materialismo,
mentre la Teologia ne fa un Dio personale. II cabalista
ritiene che ambedue siano in errore, e dice che nell'Etere
gli elementi rappresentano soltanto la Materia, le Forze
Cosmiche cieche della Natura, mentre lo Spirito rappresenta
l'Intelligenza che le dirige. Le dottrine cosmogoniche
Ariane, Ermetiche, Orfiche e Pitagoriche, sono tutte
basate su una formula incontestabile, cioè che l'Æther
e il Chaos, o, nel linguaggio platonico, la Mente e
la Materia, erano i due princìpi primordiali ed eterni
dell'Universo, del tutto indipendenti da qualsiasi altra
cosa. Il primo di essi era il princìpio intellettuale
che tutto vivifica, mentre il Chaos era un princìpio
liquido "senza forma né intelletto"; dalla loro unione
nacque l'Universo, o piuttosto il Mondo Universale,
la prima Divinità androgina — divenendo la Materia Caotica
il suo Corpo e l'Etere la sua Anima. Secondo la fraseologia
di un frammento di Hermeias: "Il Chaos, ottenendo l'intelletto
da questa unione con lo Spirito, risplendette di piacere
e così fu generato il Protogono, la Luce (Primogenita)".
Questa è la Trinità Universale, basata sulle concezioni
metafisiche degli antichi, i quali, ragionando per analogia,
fecero dell'uomo, che è un composto di Intelletto e
di Materia, il Microcosmo del Macrocosmo, o Grande Universo.
"La Natura aborre il Vuoto", dicevano i Peripatetici,
i quali, benché materialisti alla loro maniera, comprendevano
forse perché Democrito ed il suo maestro Leucippo insegnassero
che i primi princìpi di tutte le cose contenute nell'Universo
erano gli Atomi ed il Vuoto. Quest'ultimo significa
semplicemente la Forza latente o la Divinità, la quale,
precedentemente alla sua prima manifestazione — quando
divenne la Volontà che dette il primo impulso a questi
Atomi — era il grande Nulla, o Nessuna-Cosa; e di conseguenza,
in ogni senso, un Vuoto o Chaos.
COSMO
Nelle antiche filosofie, Chaos, Theos, Kosmos, e Spazio,
sono identificati per tutta l'eternità come lo Spazio
Unico Ignoto, di cui l'ultima parola non sarà forse
mai conosciuta. Inoltre, la parola stessa "Dio", al
singolare, che include tutti gli Dèi o Theoi, pervenne
alle nazioni civili "superiori" da una strana sorgente,
da una sorgente interamente e
preminentemente fallica quale è quella del Lingham indiano
nella sua nuda franchezza.
Alle razze latine esso pervenne dall'ariano Dyaus (il
Giorno); agli slavi dal Bacco greco (Bagh-bog); ed alle
razze sassoni direttamente dall'ebraico Yod o Jod. Quest'ultimo
è maschio e femmina, e Yod è il fallico gancio. Di qui
deriva il sassone Godh, il germanico Gott e l'inglese
God. Si può dire che questa parola simbolica rappresenti
il Creatore dell'Umanità Fisica, sul piano terrestre;
ma certamente non aveva niente a che fare con la Formazione
o "Creazione" sia dello Spirito che degli Dèi o del
Cosmo.
Chaos-Theos-Kosmos, la Triplice Divinità, è tutto in
tutto. Di conseguenza, si dice che essa è maschio e
femmina, bene e male, positivo e negativo, l'intera
serie delle qualità contrarie. Quando è latente non
è conoscibile e diviene la Divinità Inconoscibile. Essa
può essere conosciuta soltanto nelle sue funzioni attive,
e quindi quale Forza-Materia e Spirito vivente, le correlazioni
e la risultante, o l'espressione sul piano visibile,
dell'Unità ultima e per sempre sconosciuta. A sua volta
questa Triplice Unità produce i Quattro Elementi Primari,
conosciuti nella nostra Natura terrestre visibile, ciascuno
divisibile in sottoelementi, dei quali circa una settantina
sono conosciuti dalla Chimica. Ogni Elemento Cosmico
come il Fuoco, l'Aria, l'Acqua e la Terra, partecipando
delle qualità e dei difetti dei loro Primari, è, nella
sua natura, Bene e Male, Forza o Spirito, e Materia,
ecc.; e ciascuno, quindi, è in pari tempo Vita e Morte,
Salute e Malattia, Azione e Reazione. Essi formano costantemente
la Materia sotto l'impulso incessante dell'Elemento
Unico, l'inconoscibile, rappresentato nel mondo dei
fenomeni dall'Aether. Essi sono "gli Dèi immortali che
danno nascita e vita a tutto".
Empedocle.
Empedocle (ca. 450 a.C.), chiamava questi elementi "rizòmata"
("radici", plurale di "rizoma" ) di tutte le cose, immutabili
ed eterne. L'unione di tali radici determina la nascita
delle cose, e la loro separazione, la morte. Si tratta
perciò di apparenti nascite e apparenti morti, dal momento
che l'Essere (le radici) non si crea e non si distrugge,
ma è soltanto in continua trasformazione.
L'aggregazione e la disgregazione delle radici sono
determinate dalle due forze cosmiche e divine Amore
(Eros) e Discordia (Eris, o Odio), secondo
un processo ciclico eterno. In una prima fase, tutti
gli elementi e le due forze cosmiche sono riunite in
un Tutto omogeneo, nel Cosmo, il regno dove predomina
Eros. Ad un certo punto, sotto l'azione di Eris, inizia
una progressiva separazione delle radici. L'azione della
Discordia, non è ancora distruttiva, dal momento che
le si oppone la forza dell'Amore, in un equilibrio variabile
che determina la nascita e la morte delle cose, e con
esse quindi il nostro mondo. Quando poi Eris prende
il sopravvento su Eros, e ne annulla l'influenza, si
giunge al Caos, dove regna la Discordia e dove è la
dissoluzione di tutta la materia. A tal punto il ciclo
continua grazie ad un nuovo intervento dell'Amore che
riporta il mondo alla condizione intermedia in cui le
due forze cosmiche si trovano in nuovo equilibrio che
dà nuovamente vita al mondo. Infine, quando Eros si
impone ancora totalmente su Eris si ritorna alla condizione
iniziale del Cosmo. Da qui il ciclo ricomincia.
Il processo che porta alla formazione del mondo è quindi
una progressiva aggregazione delle radici. Tale unione,
non ha carattere finalistico, è assolutamente casuale.
E tale casualità si evidenzia a proposito degli esseri
viventi. All'inizio infatti le radici si uniscono a
formare arti e membra separati, che solo in seguito
si uniranno, sempre casualmente tra di loro. Nascono
così mostri di ogni specie (come ad esempio il Minotauro),
che, dice Empedocle quasi anticipando Charles Darwin,
sono scomparsi solo perché una selezione naturale favorisce
alcune forme di vita rispetto ad altre, meglio organizzate
e perciò più adatte alla sopravvivenza.
Per Empedocle le quattro radici sono anche alla base
della conoscenza. Egli infatti sostenne che i processi
della percezione sensibile (degli oggetti esterni) e
della conoscenza razionale fossero possibili solo in
quanto esisteva una identità di struttura fisica e metafisica
tra il soggetto conoscente, ossia l'uomo, e l'oggetto
conosciuto, ossia gli enti della natura. Sia l'uomo
che gli enti erano formati da analoghe mescolanze quantitative
delle quattro radici ed erano mossi dalle medesime forze
attrattive e repulsive. Questa omogeneità rendeva possibile
il processo della conoscenza umana, che si basava dunque
sul criterio del simile. Infatti così affermò Empedocle:
«noi conosciamo la terra con la terra, l'acqua con l'acqua,
il fuoco con il fuoco, l'amore con l'amore e l'odio
con l'odio».
La Tetraktys pitagorica
Per i pitagorici, la "Tetraktys" rappresentava la successione
aritmetica dei primi quattro numeri naturali (o più
precisamente numeri interi positivi), un «quartetto»
che geometricamente «si poteva disporre nella forma
di un triangolo equilatero di lato quattro», ossia in
modo da formare una piramide che sintetizza il rapporto
fondamentale fra le prime quattro cifre e la decade:
1+2+3+4=10. «A dimostrazione dell'importanza che il
simbolo aveva per Pitagora [c. 575 a.C. - c. 495 a.C.],
la scuola portava questo nome e i suoi discepoli prestavano
giuramento sulla tetraktys.»
Il significato simbolico.
A ogni livello della tetraktys corrisponde uno dei quattro
elementi:
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1° livello. Il punto superiore: l'Unità
fondamentale, la compiutezza, la totalità,
il Fuoco
2° livello. I due punti: la dualità, gli
opposti complementari, il femminile e il
maschile, l'Aria
3° livello. I tre punti: la misura dello
spazio e del tempo, la dinamica della vita,
la creazione, l'Acqua
4° livello. I quattro punti: la materialità,
gli elementi strutturali, la Terra.
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A sua volta il dieci rimanda all'Unità
poiché 10=1+0=1. Inoltre «nella decade "sono contenuti
egualmente il pari (quattro pari: 2, 4, 6, 8) e il dispari
(quattro dispari: 3, 5, 7, 9), senza che predomini una
parte". Inoltre risultano uguali i numeri primi e non
composti (2, 3, 5, 7) e i numeri (4, 6, 8, 9) secondi
e composti. Ancora essa "possiede uguali i multipli
e sottomultipli: infatti ha tre sottomultipli fino al
cinque (2, 3, 5) e tre multipli di questi, da sei a
dieci (6, 8, 9)". Infine, "nel dieci ci sono tutti i
rapporti numerici, quello dell'uguale, del meno-più
e di tutti i tipi di numero, i numeri lineari, i quadrati,
i cubi. Infatti l'uno equivale al punto, il due alla
linea, il tre al triangolo, il quattro alla piramide"».
Forse «è nata così la teorizzazione del "sistema decimale"
(si pensi alla tavola pitagorica)», tuttavia solo per
quanto riguarda la Grecia e non per l'intera storia
della civiltà e della matematica, che attesta la preesistenza
di tale intuizione rispetto ai Pitagorici.
Aristotele
A questi quattro elementi Aristotele ne aggiungerà un
quinto che egli chiamerà Etere e che costituisce
la materia delle sfere celesti.
L'etere (confluito in latino come Æther), sinonimo di
quintessenza (dal latino medievale quinta essentia),
era un elemento che secondo Aristotele si andava a sommare
agli altri quattro già noti: il fuoco, l'acqua, la terra,
l'aria.
Aristotele credeva che l'etere fosse eterno, immutabile,
senza peso e trasparente. Proprio per l'eternità e l'immutabilità
dell'etere, il cosmo era un luogo immutabile, in contrapposizione
alla Terra, luogo di cambiamento.
Secondo gli alchimisti medievali, l'etere sarebbe il
composto principale della pietra filosofale. Essi indicarono
con l'etere o quintessenza la forza vitale dei corpi,
una sorta di elisir di lunga vita: Quella cosa che muta
i metalli in oro possiede altre virtù straordinarie:
come, ad esempio, conservare la salute umana integra
sino alla morte e di non lasciar passare la morte (se
non dopo due o trecento anni). Anzi, chi la sapesse
usare potrebbe rendersi immortale. Questo lapis non
è certamente nient'altro che seme di vita, gheriglio
e quintessenza dell'intero universo, da cui gli animali,
le piante, i metalli e gli stessi elementi traggono
sostanza.
L'intera allegoria è altamente filosofica, e in realtà
la troviamo ripetuta in tutti gli antichi sistemi di
filosofia. Così la ritroviamo in Platone, il quale,
avendo pienamente abbracciate le idee che Pitagora aveva
portate dall'India, le rielaborò e le pubblicò in una
forma più intelligibile di quella del misterioso sistema
numerico originale del Saggio di Samo. Così, in Platone,
il Kosmos è il "Figlio", che ha per Padre e Madre il
Pensiero Divino e la Materia.
La scienza moderna considera con disprezzo la Cosmolatria
come una superstizione. Però, prima di deriderla, la
scienza stessa dovrebbe, come consigliava uno scienziato
francese, "riformare completamente il proprio sistema
di educazione cosmopneumatologica.
I moderni Caos - Energia - Vuoto
Il "vuoto" appare come "nulla" ed in termini matematici
lo si definisce come "zero" , perché esso è lo stato
di "vuoto" o di "energia zero" = energia potenziale
del "vuoto", che però di fatto non è un vuoto assoluto
ma e' un pieno totale; infatti gli scienziati hanno
scoperto recentemente che il "vuoto" non è vuoto, ma
alla temperatura dello zero assoluto vi è una energia
fondamentale E, che chiamano "Energia duale" E = E+
ed E- (energia duale ed indissolubile).
Definizione di E
E+, e' formata dai famosi "Puncta" di Ruggero Boscovich,
scienziato del700, che per primo formulò una teoria
unificata fra micro cosmo e macrocosmo, teoria simile
ad alcune moderne.
Questa Energia E, si manifesta per contrapposti (E+
ed E-), ciò significa che il "Puncta", che ha la caratteristica
di sembrare una "particella" in realta' e' un buco puntiforme
virtuale CentroMosso = un vortice, questo "buco" è eternamente
instabile e quindi in moto eternamente potenziale, e
quando incontra - interagisce - un altro puncta (dello
stesso tipo di energia a potenziale diverso E- ), forma
una coppia, vi si avviluppa e forma di conseguenza,
per il suo intrinseco movimento centro mosso, un vortice
di energia/moto (Energia Cosmica) che li "lega assieme",
li coniuga, li sposa, formando l'insieme denominato:
"particella" multiforme ("parte" di un insieme di "celle"
)= curvatura dello spazio-tempo e dell'ETERe fluttuante,
ma eternamente stabile in loco ed in eterno movimento
sussultorio, come le onde nella massa dell'oceano .
L'Energia null'altro e' che la "variazione pulsante
dell'Etere.
Definizione di Vuoto e di campo
La teoria quantistica dei Campi della fisica moderna
ci costringe ad abbandonare la classica distinzione
fra particelle materiali e vuoto. La teoria del campo
gravitazionale di Einstein e la teoria dei campi mostrano
entrambe che le particelle non possono essere separate
dallo spazio che le circonda. Da una parte, esse determinano
la struttura di questo spazio, mentre dall'altra non
possono venire considerate come entità isolate, ma devono
essere viste come condensazioni di un campo continuo
che è presente in tutto lo spazio.
Nella teoria dei campi, il campo è visto come la base
di tutte le particelle e delle loro interazioni reciproche.
"II campo esiste sempre e dappertutto (e' il nome moderno
dell'Etere degli antichi), non può mai essere eliminato.
Esso è il veicolo di tutti i fenomeni materiali. è il
"vuoto" dal quale il protone crea i mesoni n. L'esistere
e il dissolversi delle particelle sono semplicemente
forme di moto del campo".
Infine, la distinzione tra materia e spazio vuoto dovette
essere abbandonata quando divenne evidente che le particelle
virtuali possono generarsi spontaneamente dal vuoto,
e svanire nuovamente in esso, senza che sia presente
alcun nucleone o altra particella a interazione forte.
Qui un "diagramma vuoto-vuoto" per un processo di questo
tipo: tre particelle - un protone (p), un antiprotone
(f), e un pione (n) - emergono dal nulla e scompaiono
nuovamente nel vuoto.
Secondo la teoria dei campi, eventi di questo tipo avvengono
di continuo. Il vuoto è ben lungi dall'essere vuoto.
Al contrario, esso contiene un numero illimitato di
particelle che vengono generate e scompaiono in un processo
senza fine.
In questo aspetto della fisica moderna c'è dunque la
più stretta corrispondenza con il Vuoto del misticismo
orientale. Il "vuoto fisico" — come è chiamato nella
teoria dei campi — non è uno stato di semplice non-essere,
ma contiene la potenzialità di tutte le forme del mondo
delle particelle. Queste forme, a loro volta, non sono
entità fisiche indipendenti, ma soltanto manifestazioni
transitorie del Vuoto soggiacente ad esse. Come dice
il sùtra, "la forma è vuoto, e il vuoto in realtà è
forma".
La relazione tra le particelle virtuali e il vuoto è
una relazione essenzialmente dinamica; il vuoto è certamente
un "Vuoto vivente, cioe' intelligente" = Vuoto QuantoMeccanico
-, pulsante in ritmi senza fine di "creazione e distruzione",
che si puo' definire un eterno "amplesso".
La scoperta della qualità dinamica del vuoto è considerata
da molti fisici uno dei risultati più importanti della
fisica moderna. Dall'avere una funzione di vuoto contenitore
dei fenomeni fisici, il "nuovo" vuoto è passato ad essere
una qualita' e quantità dinamica della massima importanza.
I risultati della fisica moderna sembrano quindi confermare
le parole del saggio cinese Chang Tsai: "Quando si conosce
che il Grande Vuoto è pieno di Ki, si comprende che
non esistono cose quali il non-essere".
DIVINITA'
La Cosmogonia, oltre agli elementi (Fuoco, Aria, Acqua,
Terra), considera anche le divinità. Queste divinità
esistono come essenze vitali oscure e capricciose finché
Eros non le induce ad armonizzare ed acquisire delle
personalità più clementi come la Concordia. E allora
Caos, miscuglio indescrivibile ed inestricabile, incomincia
a delinearsi come Cosmo e quindi ordine.
Le divinità derivano o direttamente dal Caos, oppure
dalla interazione fra le entità divine stesse (Erebo
e la Notte "Nyx" generano i loro opposti Etere e il
Giorno):
- Erebo: una specie di abisso senza fondo
fatto di tenebre.
- Tartaro: il luogo sotterraneo in cui
i malvagi subivano i dovuti tormenti.
- Nyx: la notte buia e misteriosa che dava
però riposo e portava buoni consigli;
- Emera: Il giorno.
- Destino ( o Fato): una divinità
ora benigna e ora ostile, in ogni modo divinità
potentissima ed inesorabile dai voleri imperscrutabili,
alla quale tutti gli altri dèi dovevano sottomettersi
e ubbidire.
Niente e nessuno poteva cambiare ciò che egli aveva
stabilito.
- Ubris: Tracotanza, insolenza compiuta
verso gli dei. Il sentimento dell'uomo di volersi
fare pari agli dei, puntualmente punito severamente.
- Dione l'istinto sessuale
E altre divinità:
il Biasimo, la Pena, il Sonno, i Sogni, l'Inganno, la
Brama, la Rissa, il Travaglio, l'Oblio, la Fame, la
Vecchiaia, la Morte, ...
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TEOGONIA
GEA
(Gaia o la Tellus romana) non nasce dal Caos, ma sorge
o si desta quando Eros inizia a interagire con Eris
per ripristinare il Cosmo. E' la prima Dea, madre di
tutti gli Dei e degli uomini.
Come vedremo negli eventi divini, gli dei per procreare
si uniscono fra di loro, ma si possono unire pure alle
divinità derivate dal Caos, e pure con gli uomini. Gea
invece creò i primi suoi figli da se stessa:
- URANO ( il cielo stellato).
- PONTO (il mare profondo)
PONTO e Gea procrearono:
- Nereo: il mare in bonaccia, fu il padre delle
Nereidi
- Taumante: Il maestoso mare. Padre delle Arpie
e di Iride.
- Euribia: la violenza del mare tempestoso,
sposò il Titano Crio
- Forco e Ceto: Fratello e sorella,
i pericoli del mare in tempesta.
E dalla loro unione nacquero le Fòrcidi, ossia le Graie
e le Gorgoni, ed un serpente dal terribile aspetto.
Quest'ultimo era il custode nelle caverne dei pomi aurei.
le Graie (Enio, Perfredo e Dino) erano tre vecchie
dai capelli grigi ed un solo occhio che facevano da
sentinelle alle Gorgoni (Steno, Eurialo
e Medusa). Di queste, le prime due erano immortali e
non potevano invecchiare, la terza invece era mortale.
Esse abitavano "sull'altra riva dell'inclito Oceano,
all' estremità del mondo presso il soggiorno della Notte,
dove si trovano le Esperidi dalla voce sonora".
Medusa, il cui nome in greco significa "colei
che domina", inizialmente era stata una donna bellissima
con capelli meravigliosi. Poseidone si innamorò di lei,
si trasformò in uccello e la rapì. La sedusse nel tempio
di Atena, e Medusa nascose il volto dietro l'egida della
dea. Atena, offesa sia per averli scoperti nel suo tempio,
sia perchè la Gorgone aveva osato vantare i suoi capelli
come più belli di quelli della dea, la punì trasformandola
in mostro con gli occhi di fuoco, la lingua penzolante,
con zanne enormi e serpi al posto dei capelli. Inoltre,
pietrificava chiunque la guardasse.
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Gea come sposo scelse Urano e assieme governarono
il creato dando inizio a...
Il REGNO DI URANO Gea (la Dea Madre) e Urano (il
cielo stellato) generarono:
tre Ecatonchiri (o Centimani): Briareo (o Egemone),
Gie (o Gige) e Cotto.
Gea li generò fecondata dalla pioggia che Urano fece
cadere dal cielo sulla Terra.
Ognuno di loro aveva cento braccia e cinquanta teste
che sputavano fuoco, il resto del corpo (quindi dal
busto in giù) era di aspetto umano.
Non erano giganti, ma uomini. Sono i primi mostri ad
apparire nella "cronologia mitologica" greca; sono perciò
appartenenti a quella schiera di mostri che è stata
definita come "Prima Generazione Cosmica". Una progenie
rinnegata degli dei, che le stesse divinità hanno paura
di affrontare.
tre Ciclopi: Bronte (tuono), Sterope (fulmine)
ed Arge (lampo).
In epoca arcaica gli antichi mitografi distinguevano
tre stirpi di ciclopi:
- I figli di Urano e Gea appartengono alla prima generazione
divina di Ciclopi. "Costruttori", che avrebbero costruito
tutti i monumenti preistorici che si vedevano in Grecia,
in Sicilia e altrove, costituiti da blocchi enormi il
cui peso e dimensione sembrano sfidare le forze umane
(le "mura ciclopiche");
- Poi c'erano gli alti conoscitori dell'arte della
lavorazione del ferro: Ciclopi aiutanti di Efesto (Vulcano).
Ciclope (significa 'occhio rotondo'). Caratterizzati
dalla presenza di un solo occhio.
- Nell'Odissea di Omero (libro IX), Ulisse incontra
in Sicilia i loro figli: i barbari Ciclopi, che, ormai
scordata l'arte degli avi che lavoravano come fabbri,
vivevano dediti alla pastorizia e isolati l'uno dall'altro
in caverne.
« Questi si affidano
ai numi immortali: non piantano alberi,
non arano campi; ma tutto dal suolo
per loro vien su inseminato e inarato,
orzo e frumento e viti che portano vino
nei grappoli grossi, che a loro matura
la pioggia celeste di Zeus »
(Odissea, IX,07-111)
Omero dà il nome di uno solo di loro, Polifemo, che
fece prigioniero Ulisse e i suoi compagni.
Una qualche verità storica riguardo all'esistenza di
una popolazione o tribù che rispondesse al nome di "Ciclopi"
ci viene data da Tucidide nel libro VI delle sue Storie
allorquando si accinge a parlare delle popolazioni barbare
esistenti in Sicilia prima della colonizzazione greca.
Così scrive:
« Si dice che i più antichi ad abitare una parte del paese fossero
i Lestrigoni e i Ciclopi, dei quali io non saprei dire
né la stirpe né donde vennero né dove si ritirarono:
basti quello che è stato detto dai poeti e quello che
ciascuno in un modo o nell'altro conosce al riguardo.
»
L'ipotesi più attendibile rimane oggi quella secondo cui i Ciclopi,
antichi fabbri, fossero in realtà degli artigiani emigrati
da oriente fino alle isole Eolie dove si sono trovate
tracce della lavorazione dei metalli.
I riscontri archeologici potrebbero così confermare il mito che li
voleva residenti proprio su tali Isole. La presenza
di un occhio solo potrebbe essere una tradizione legata
all'usanza di coprire con una benda l'occhio sinistro
per proteggerlo dalle scintille ovvero da un ipotetico
tatuaggio sulla fronte rappresentante il Sole, essere
cui questi antichi artigiani poterono probabilmente
essere devoti.
12 Titani:
Sei maschi
Oceano
Ceo
Crio
Iperione
Giapeto
Crono
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Sei femmine (Titanidi)
Tea
Rea
Temi
Teti
Febe
Mnemosine
|
Vivevano su una montagna della Tessaglia. Erano talmente forti
che ancora oggi si usa dire uno sforzo o una forza titanica
per indicare una forza veramente grande.
Urano, disgustato dall'aspetto mostruoso dei suoi figli, i Ciclopi
e gli Ecatonchiri e ossessionato dall'idea che
potessero privarlo un giorno del dominio dell'universo,
li fece sprofondare tutti al centro della terra.
IL SANGUE DI URANO
Gea, triste e irata per la sorte che Urano il suo sposo
aveva destinato ai figli decise di reagire. Costruì
all'insaputa di Urano un falcetto con del ferro estratto
dalle sue viscere e radunati i suoi figli Titani, tentò
di convincerli a muovere guerra contro il padre. Ma
uno solo, il più giovane osò seguire il consiglio della
madre, il titano Crono, che armato dalla madre, si nascose
nella Terra ed attese l'arrivo del padre. Era infatti
abitudine di Urano, discendere la notte dal cielo per
abbracciare la sua sposa nell'oscurità. Non appena Urano
si presentò, Crono saltò fuori e con una mano immobilizzò
il padre, mentre con l'altra lo evirava con il falcetto.
I genitali di Urano caddero a fecondare la schiuma del
mare, e da una conchiglia nacque . . .
Afrodite la dea dell'amore.
Nata dalla spuma fecondata del mare, dentro una conchiglia,
fu spinta da Zefiro sulla spiaggia dell'isola di Cipro.
Afrodite venne subito accolta a Cipro dalle Ore che
erano le figlie di Temi (dea dell'ordine dei sessi,
insito nella natura);esse la rivestirono perché era
emersa dalla conchiglia nuda. Soltanto dopo essere stata
vestita, adornata e incoronata, Afrodite con solenne
pompa, fu introdotta all'Olimpo, dove tutti gli dei
furono conquistati dal suo fascino; un po' meno le dee,
gelose di vedere offuscato il loro prestigio femminile,
e sopra tutte, Giunone e Minerva. La conchiglia fu da
allora considerata un animale marino sacro alla grande
dea dell'amore.
La Venere dei Romani, dea della bellezza e dell'amore
sensuale; era rappresentata, il corpo cinto di rose
e di mirto, velato il fiore della sua femminilità da
una misteriosa cintura, tirato il carro da passeri,
colombi e cigni, col giocondo corteggio del riso, dei
giochi, dello zefiro, delle grazie e degli amorini.
Nonostante l'aspra gelosia di Giunone (ERA) non impedì
però a questa, di implorare in prestito dalla rivale
il prezioso cinto, quando tentò di riaccendere l'amoroso
fuoco, ormai assopito, nel marito Giove, l'eterno infedele:
e, in quella congiuntura, Ermete (Mercurio) trovò modo
di trafugare, sagace maestro di frodi, dalle stesse
mani di Giunone l'afrodisiaco Cinto che Afrodite stentò
poi a recuperare.
Dea dell'amore e della bellezza, rappresenta l'attrazione
tra le parti dell'universo. Simboleggia anche l'istinto
naturale di fecondazione e di generazione con cui gli
esseri si riproducono con i quattro elementi in eterno.
Amata dagli dèi e dai mortali, Afrodite aveva una sfera
di potenza vastissima; era venerata con vari epiteti
alludenti alla sua qualità di suscitatrice della vegetazione
e protettrice della navigazione o dei combattenti (in
tal caso era venerata accanto ad Ares).Gli epiteti di
"celeste" e di "tutto il popolo" sono riferiti ad Afrodite
quale dea dell'amore spirituale e sensuale. Il suo culto
era originario di Cipro ma la più antica sede era l'isola
di Citera. In Occidente ebbe il maggior centro in Sicilia.
Le Moire assegnarono ad Afrodite un solo compito divino,
quello di fare l'amore; ma un giorno Atena la sorprese
mentre segretamente tesseva un telaio, e si lagnò che
tentasse di usurpare le sue prerogative; Afrodite le
fece le scuse e da quel giorno non alzò più nemmeno
un dito per lavorare.
Diede figli ad Ares, Efesto, Dioniso, Ermes; ebbe Enea,
dall'eroe Anchise, ma il suo grande amore fu àdone.
All'antichissima, e certo più diffusa, tradizione di
Afrodite terrestre e sensuale, fu col tempo contrapposta,
sull'autorevole testimonianza del poeta Esiodo, l'altra
celeste e spirituale, simbolo della forza animatrice
della natura, e rappresentata con in mano lo scettro
ed in fronte una stella.
Ares e Afrodite
Ben di rado Afrodite cedeva in prestito alle altre dee
il magico cinto che faceva innamorare chiunque lo portasse,
poiché era molto gelosa dei suoi privilegi. Zeus l'aveva
data in sposa a Efesto, il dio fabbro zoppo. Ma il vero
padre dei tre figli che diede alla luce, Fobo, Deimo
e Armonia, era Ares, l'impetuoso, litigioso e ubriacone
dio della guerra. Efesto non si accorse di essere ingannato
finché gli amanti non indugiarono a letto troppo a lungo
nel palazzo di Ares in Tracia, ed Elio, sorgendo nel
cielo, lì scoprì intenti ai loro piaceri, e andò a raccontare
tutto a Efesto.
Efesto, furibondo, si ritirò nella sua fucina e forgiò
una rete di bronzo, sottile come un velo ma solidissima,
e la assicurò segretamente ai lati del suo talamo. Quando
Afrodite ritornò dalla Tracia, tutta sorrisi e con la
scusa pronta (assicurò infatti che si era recata a Corinto
per sbrigare certe faccende), Efesto le disse: "Perdonami,
cara consorte, ma debbo recarmi per una breve vacanza
a Lemno, la mia isola favorita". Afrodite non si offrì
di accompagnarlo, anzi, non appena Efesto fu partito,
mandò a chiamare Ares, che si precipitò al palazzo.
Ambedue si coricarono senza perder tempo nel talamo
di Efesto, ma all'alba si trovarono prigionieri della
reteº, completamente nudi e senza possibilità di scampo.
Efesto, ritornato dal suo viaggio, li colse sul fatto
e invitò tutti gli dei a far da testimoni al suo disonore.
Annunciò poi che non avrebbe liberato la moglie finché
non gli fosse stata restituita la preziosa dote che
aveva dovuto pagare a Zeus, padre adottivo della sposa.
Gli dei accorsero subito per vedere Afrodite nell'imbarazzo,
ma le dee, per un delicato senso di pudore, rimasero
a casa. Apollo, canzonando Ermes, gli disse: "Scommetto
che non ti spiacerebbe trovarti al posto di Ares, con
la rete e il resto." Ermes giurò sulla sua testa che
non gli sarebbe dispiaciuto affatto, anche se le reti
fossero state tre anzichè una, e, mentre le dee scuotevano
la testa in segno di disapprovazione, Ermes e Apollo
scoppiarono in una gran risata.
Zeus era così disgustato che rifiutò di restituire la
dote o di intromettersi in un litigio tanto volgare
tra moglie e marito, dichiarando che Efesto era stato
uno sciocco a mettere in piazza gli affari suoi. Poseidone
che, al vedere il nudo corpo di Afrodite, si era subito
innamorato di lei e a fatica celava la sua gelosia per
Ares, finse di prendere le parti di Efesto. "Poiché
Zeus rifiuta di venirti in aiuto", gli disse, "propongo
che Ares, per riavere la libertà, ti paghi il valore
equivalente alla dote di cui si discuteva poc'anzi."
"Benissimo", disse Efesto di cattivo umore, "ma se Ares
non mantiene la promessa dovrai prendere il suo posto
sotto la rete." "In compagnia di Afrodite?", chiese
Apollo ridendo. "Non posso nemmeno immaginare che Ares
non mantenga la promessa", disse Poseidone, "ma se non
la mantenesse, sono disposto a pagare il debito in vece
sua e a sposare Afrodite." Così Ares fu rimesso in libertà
e ritornò in Tracia, mentre Afrodite andò a Pafo, dove
recuperò la propria verginità bagnandosi nel mare.
Afrodite ringraziò a modo suo anche Poseidone per essere
intervenuto in suo favore, e gli generò due figli, Rodo
ed Erofilo. Inutile dire che Ares non mantenne la sua
promessa, sostenendo che, se Zeus si era rifiutato di
pagare, egli poteva fare altrettanto. Alla fine Efesto
rinunciò al risarcimento, perché era pazzamente innamorato
di Afrodite e non aveva intenzione di divorziare da
lei.
Anchise ed Enea
Benché Zeus, contrariamente a quanto taluni sostengono,
non giacesse mai con Afrodite, sua figlia adottiva,
la magica cintura agiva anche su di lui sottoponendolo
a una tentazione continua, ed egli infine decise di
umiliare la dea facendola innamorare disperatamente
di un mortale. Costui fu il bell'Anchise, re dei Dardiani,
nipote di Ilo: una notte, mentre egli dormiva nella
sua capanna di mandriano sul monte Ida, presso Troia,
Afrodite si recò da lui travestita da principessa frigia,
il corpo avvolto in un manto di un bel rosso sgargiante,
e si giacque con Anchise su un letto di pelli d'orso
e di leone, mentre le api gli ronzavano intorno. Quando
all'alba si separarono, Afrodite rivelò al giovane la
sua identità e gli fece promettere di non dire ad alcuno
che era andato a letto con lei. Anchise, atterrito all'idea
di aver svelato la nudità di una dea, la supplicò di
risparmiargli la vita. Afrodite lo rassicurò dicendo
che non aveva nulla da temere e che il loro figliolo
sarebbe diventato famoso. Alcuni giorni dopo, mentre
Anchise stava bevendo in compagnia di certi amici, uno
di essi gli chiese: "Non pensi sia più piacevole andare
a letto con le figlia del Tal dei Tali anziché con Afrodite?"
"No", rispose sbadatamente Anchise, "perché sono andato
a letto con tutti e due e il paragone mi sembra assurdo".
Zeus udì questa vanteria e scagliò contro Anchise una
folgore che l'avrebbe ucciso senz'altro, se Afrodite
non l'avesse salvato all'ultimo momento proteggendolo
con la magica cintura. La folgore scoppiò ai piedi di
Anchise senza ferirlo, ma lo spavento fu tale che il
giovane da quel giorno non riuscì più a raddrizzare
la schiena e Afrodite, dopo avergli generato il figlio
Enea, perse ogni interesse per lui.
Dioniso e Priapo
Afrodite cedette poi alle lusinghe di Dioniso e gli
generò Priapo, un orrendo fanciullo dagli enormi genitali:
fu Era che gli diede quell'osceno aspetto, in segno
di disapprovazione per la promiscuità di Afrodite. Priapo
è giardiniere e porta sempre con sé un coltello da potatura.
Nato deforme con pancia enorme, lingua lunga e membro
mostruosamente smisurato.
Nascendo così brutto Afrodite lo rinnegò e lo abbandonò
ad Abarnis (campo dei mentitori) regione intorno a Lampsaco
nella Misia. Lo allevarono dei pastori che dalla sua
mostruosità fallica ne avevano tratto dei buoni auspici
per la fertilità dei campi e delle greggi.
Il culto di Priapo risale ai tempi di Alessandro Magno
e fu largamente ripreso anche dai Romani, soprattutto
collegato ai riti dionisiaci e alle orge dionisiache.
Così Priapo divenne il dio dell'istinto sessuale e della
forza generativa maschile e della fertilità delle campagne:
proteggeva gli orti e le vigne dai ladri e dai golosi
uccelli. Spesso, cippi di forma fallica venivano usati
a delimitare gli agri di terra coltivabile. Questa tradizione
è continuata nel corso dei secoli, infatti ancora oggi,
possiamo trovare diversi esempi di cippi fallici in
Italia, nelle campagne di Sardegna, Puglia (soprattutto
nella provincia di Lecce) e Basilicata o nelle zone
interne di Spagna, Grecia e Macedonia.
Nell'arte romana, veniva spesso raffigurato in affreschi
e mosaici, generalmente posti anche all'ingresso di
ville ed abitazioni patrizie. Il suo enorme membro era
infatti considerato un amuleto contro invidia e malocchio.
Inoltre, il culto del membro virile eretto, nella Roma
antica era molto diffuso tra le matrone di estrazione
patrizia a propiziare la loro fecondità e capacità di
generare la continuità della gens. Per questo, il fallo
veniva usato anche come monile da portare al collo o
al braccio. Sempre a Roma, le vergini patrizie, prima
di contrarre matrimonio, facevano una particolare preghiera
a Priapo, affinché rendesse piacevole la loro prima
notte di nozze.
Dopo un banchetto Priapo, ubriaco, tentò di fare violenza
A Estia, ma un asino col suo raglio svegliò la dea che
dormiva e gli altri dèi, che lo costrinsero a darsi
alla fuga. L'episodio ha un carattere di avvertimento
aneddotico per chi pensi di abusare delle donne accolte
in casa come ospiti, sotto la protezione del focolare
domestico: anche l'asino simbolo della lussuria condanna
la follia criminale di Priapo.
Ogni anno a Priapo veniva sacrificato un asino, questo
rito venne istituito dallo stesso Priapo. Ad espiazione
dell'accaduto il dio pretese un sacrificio annuale di
un asino. Anche a causa dell'importanza che esso aveva
nella vita contadina, sia per una sorta di analogia
fra i membri virili di Priapo e dell'asino.
Era figurato come vecchio barbuto seminudo munito di
falce e con un enorme membro eretto.
Ispirò la poesia Priapea dai versi e dai contenuti alquanto
sconci. Ci sono giunti all'incirca 80 carmi priapei.
Plutone ed Erice
"Dalla vita sciolse la cintura, ricamata e variopinta,
dov'erano racchiusi tutti gli incanti; vi erano amore,
desiderio,
dolci parole e la seduzione che rapisce la mente...".
Omero (Iliade - canto XIV)
Così Omero dice di Venere e della sua cintura che potrebbe
benissimo essere caduta sulla Terra a stringere la vetta
del monte Erice, e qui, aver seminato tutti i suoi incantamenti.
Qui, "Venere, dall'alto della sua vetta, vide Plutone(
il dio degli Inferi) che ancora vagava, e stretto a
sé il suo alato figliolo disse: Armi e mani mie, figlio,
strumento della mia potenza, prendi le frecce con cui
vinci tutti, o Cupido, e scagliane una veloce nel petto
del dio a cui è toccato in sorte l'ultimo dei tre regni
…" (Ovidio, Metamorfosi, libro V - 360- 368), decretando
in un momento la sorte del dio delle tenebre, di Proserpina,
della madre Cerere, colei che fece dono del grano agli
abitanti dell'isola Trinacria, e di un'altra città,
anch'essa a giocar con le nuvole nel cuore più alto
dell'isola.
Qui, su questo monte che porta il nome del re , nacque
Erice per volere di Afrodite e di Plutone, tutto si
riconcilia e trova fondamento: la bellezza e l'immensità
convivono stretti in un unico sguardo, infinito e sublime
oggi come nel giorno in cui Venere allevava quì il suo
piccolo Cupido.
Erice era dunque eroe e re degli Elimi, ed è il nome
che diede alla montagna sulla cui cima venne edificato
il tempio di Afrodite Ericina, sua madre. La nascita
della città è però anche egata alla figura di Enea che
condivide con il re Elimo la madre. Nella narrazione
virgiliana, Enea approda sulla costa ai piedi del monte
e celebra il rito funebre per il padre Anchise. L'incidente
di alcune navi lo costringe poi a lasciare qui alcuni
suoi compagni che fondano, appunto, la città.
Essendo Ercole giunto dunque nel territorio di Segesta,
Erice , che era un gran lottatore (come sappiamo anche
dall'episodio di Entello che sfida il campione troiano,
nel V libro dell'Eneide) lo invitò ad un duello: se
avesse perduto, gli avrebbe ceduto il suo territorio,
se invece avesse vinto, Ercole gli avrebbe dovuto cedere
i buoi: « Quando Ercole si avvicinò alle località della
zona di Erice, lo invitò alla lotta Erice, il figlio
di Afrodite e di Bute, che allora era re di quei luoghi.
Alla contesa era aggiunta un'ammenda: Erice avrebbe
consegnato la regione, Ercole i buoi. Ma la prima condizione
irritò Erice perché, messa la regione a confronto con
essi, i buoi erano di valore di gran lunga inferiore.
Quando però, replicandogli, Ercole dichiarò che se li
avesse persi sarebbe stato privato dell'immortalità,
Erice approvò il patto e combattè».
La lotta si concluse con l'uccisione di Erice: Ercole
vincitore continuò il suo viaggio, ma lasciò il regno
del suo avversario agli abitanti della regione, concedendo
loro di goderne i frutti finché « non fosse comparso
e non li avesse chiesti uno dei suoi discendenti » (Diodoro,
ivi). Così con questo mito veniva a costituirsi come
un'ipoteca politico-culturale su Erice e sul suo territorio"
(V. Adragna, Erice, Trapani).
Più tardi due Eraclidi, Dorieo e Pirro, facendosi forti
di questo mito (la cui elaborazione letteraria risale,
con ogni probabilità, alla perduta Gerioneide del poeta
Stesicoro), rivendicarono per sé il territorio lasciato
loro, per così dire, in eredità dal mitico antenato.
Prima di Dorieo e di Pirro un altro discendente di Ercole,
Pentatlo di Cnido, venne nella Sicilia occidentale,
ma Diodoro (V, 9) non specifica se questi fosse giunto
nell'isola a rivendicare i possedimenti lasciati da
Ercole.
Ermes ed Ermafrodito
Lusingata dall'aperta dichiarazione di Ermes, Afrodite
passò una notte con lui, e il frutto di quella breve
avventura fu Ermafrodito, creatura dal doppio sesso.
Ermafrodito era un giovinetto con seno femminile e lunghi
capelli. Come l'androgino, o donna barbuta, l'ermafrodito
ebbe una certa notorietà per le sue anormalità fisiche,
ma da un punto di vista religioso ambedue simboleggiano
il periodo di transizione tra il matriarcato e il patriarcato.
Ermafrodito è il divino paredro che si sostituisce alla
regina e porta un seno finto. Androgine è la figura
della madre di un clan pre-ellenico che ha rifiutato
l'ordine patriarcale e allo scopo di mantenere le sue
prerogative e legittimare i figli nati da lei e da un
padre schiavo, si mette una falsa barba, come accadeva
in Argo. Dee barbute come Afrodite cipria e dei effeminati
come Dioniso corrispondono a questi stati sociali di
transizione.
Afrodite fu per antonomasia la dea della bellezza quando
vinse la gara suscitata dalla dea della Discordia tra
lei, Era e Atena, promettendo al giudice, che era il
figlio di Priamo, Paride Alessandro, il possesso della
donna più bella del mondo, cioè Elena, moglie di Menelao,
re di Sparta; e creando così i prodromi della guerra
di Troia.
Durante tutta la guerra ella accordò la sua protezione
ai Troiani e a Paride in particolare, e anche ad Enea,
che aveva generato con Anchise. Ma la protezione di
Afrodite non potè impedire la caduta di Troia e la morte
di Paride. Tuttavia riuscì a conservare la stirpe troiana
e grazie a lei Enea, col padre Anchise e il figlio Iulo
(o Ascanio), riuscì a fuggire dalla città in fiamme
e a cercarsi una terra dove darsi una nuova patria.
In tal modo Roma aveva come particolare protettrice
Afrodite-Venere: ella passava per essere l'antenata
degli Iulii, i discendenti di Iulo, a loro volta discendenti
d'Enea, e perciò della dea. Per questo Cesare le edificò
un tempio, sotto la protezione di Venere Madre, la Venus
Genitrix.
La bellezza di questa divinità è stata celebrata
da poeti e scrittori antichi e moderni che ne
hanno messo in risalto attributi particolari
della personalità e si sono comunque sentiti
affascinati da lei. Amore sacro dunque, e amore
profano, forza primigenia della natura, dea
protettrice di tutte le forma di vita e presso
molti popoli.
Il pomo che la Paolina Borghese (1805-1808)
di Antonio Canova tiene nella mano sinistra
richiama la "Venere Vincitrice" del giudizio
di Paride che avrebbe potuto scegliere tra Giunone
(il Potere), Minerva (la Scienza) e Venere.
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Anche l'arte figurativa si ispirò particolarmente alla
dea che rappresentò l'essenza stessa della bellezza
e l'espressione più appassionata della gioia di vivere.
Le famose Veneri della scultura greca, quali quelle
di Prassitele, di Fidia, di Scopas, o la Venere imperiale
del Canova, così come le rappresentazioni pittoriche,
dagli affreschi pompeiani ai dipinti di soggetto mitologico
susseguitisi nel corso dei secoli, ci forniscono sempre,
nella rappresentazione delle belle forme, la possibilità
di avvicinarci all'idea della bellezza assoluta come
espressione del dono che gli dei fecero agli uomini
per rallegrarli, per vivificarli o per consolarli.
* * *
Il sangue che sgorgava copioso dalla ferita di Urano, si
sparse sulla terra da cui furono generati:
Le Erinni, divinità infernali;
Culto:
Le Erinni sono divinità antiche. La parola sta a significare
uno spirito dell'ira e della vendetta. Le Erinni perseguitavano
in particolare chi si macchiava di delitti di sangue
nell'ambito familiare, rendendo folle il colpevole o
adoprandosi in modo tale che altri mortali si vendicassero
su di lui. Si accanivano anche contro gli spergiuri,
contro chi disobbediva a genitori e anziani; punivano
– non solo sulla terra ma anche nell'aldilà – la mancanza
di rispetto verso i deboli, la violazione delle leggi
dell'ospitalità, il comportamento impietoso verso i
supplici e in generale chiunque non rispettasse, spinto
da tracotanza, le norme etiche. Le Erinni avevano un
santuario a Colòno (sobborgo di Atene) ed erano venerate
ad Argo e a Sicione. Nei sacrifici venivano loro offerti
soprattutto agnelli neri e una bevanda costituita da
miele e acqua.
Secondo Esiodo esse furono generate dal sangue sgorgato
dall'evirazione di Urano che cadde sulla Madre Terra
a fecondarla (ci sono altre versioni riguardo alla loro
nascita). Sono sorelle del Terrore, della Destrezza,
della Collera, della Lite, del Giuramento, della Vendetta,
dell'Intemperanza, dell'Alterco, del Trattato, dell'Oblio,
della Paura, del Valore, della Battaglia; ma sono anche
sorelle di Afrodite, anche lei nata dall'evirazione
di Urano ed esattamente dalla spuma dei suoi genitali
che caddero in mare.
Descrizione delle Erinni.
Le Erinni sono esseri vegliardi, serpenti per capelli,
teste di cane, corpi neri come il carbone, ali di pipistrello
e occhi iniettati di sangue. Stringono nelle mani pungoli
dalle punte di bronzo, fiaccole e fruste che constavano
di cinghie guarnite di ferro: le loro vittime muoiono
in preda ai tormenti.
Non sempre le Erinni erano alate. Il loro alito e la
loro traspirazione erano insopportabili. Dai loro occhi
colava una bava velenosa. La loro voce somigliava talvolta
al muggito dei buoi. Per lo più esse si avvicinavano
però abbaiando, perché non meno di Ecate anch'esse erano
cagne. Non si conosce il numero esatto delle Erinni
ma si fa spesso riferimento a tre di loro: Aletto (
l'incessante), Tisifone (la rappresaglia) e Megera (l'ira
invidiosa). Ma può succedere, che venga invocata una
sola per tutte, un'unica Erinni. Meglio conosciute come
le Furie ( o anche Manie), esse possiedono molteplici
nomi che le identificano. Non conviene citare il loro
nome nel corso di una conversazione, ecco perchè di
solito le si chiama "Eumenidi", cioè "le Gentili". Le
Erinni vivono nell'Erebo, sono le compagne di Ecate
e il loro compito è quello di punire i crimini di parricidio
e di spergiuro: ascoltano le lagnanze mosse dai mortali
contro l'insolenza dei giovani nei riguardi dei vecchi,
dei figli nei riguardi dei genitori, degli ospitanti
nei riguardi dell'ospite e delle assemblee cittadine
nei riguardi del supplice e puniscono tali crimini inseguendo
senza posa i colpevoli, di città in città, di regione
in regione.Le Erinni sono la personificazione dei rimorsi
di coscienza, capaci di uccidere un uomo che per trascuratezza
o sbadataggine abbia infranto un tabù. Costui impazzirà,
si getterà giù da una palma di cocco o si avvolgerà
il capo in un mantello (come Oreste) e rifiuterà di
mangiare o di bere finché morrà di inedia, anche se
nessuno, all'infuori di lui, conosce la sua colpa. Il
metodo comunemente usato in Grecia per purificare chi
si era macchiato di omicidio era di sacrificare un maiale
e mentre l'ombra della vittima ne beveva avidamente
il sangue, lavarsi in acqua corrente, radersi il capo
per cambiare aspetto e partire per l'esilio per un anno
intero, in modo da far perdere le tracce all'ombra assetata
di vendetta. Se il sangue versato però era quello di
una madre, la maledizione che ricadeva sul capo dell'omicida
era così potente che gli abituali mezzi di purificazione
non bastavano, e per non ricorrere al suicidio bisognava
amputarsi un dito con un morso. La Nemesi è la personificazione
della vendetta Divina (inizialmente era considerata
la "debita esecuzione" dell'annuale dramma di morte).
Le Erinni, ovvero i rimorsi di coscienza, sono quindi
sorelle della Nemesi, la Vendetta Divina.
Il quinto giorno di ogni mese lasciavano le loro dimore
per recarsi sulla terra e punire i colpevoli accompagnate
dal Terrore, dalla Rabbia e dal Pallore e una volta
raggiunti i colpevoli gli rodevano il cuore. Secondo
alcuni autori avevano anche il compito di ottenebrare
la mente degli uomini e di condurli quindi al delitto
ed alla sventura.
Aletto, Tisifone e Megera.
Aletto entrò nel Panteon degli dei romani col nome di
Furina ed al suo culto fu preposto un flamen minor.
Tra le sue apparizioni letterarie, si ricordano quelle
nell'Eneide di Virgilio (libro VII), nella Divina Commedia
di Dante (Inferno, canto IX) e nell'Enrico VI di Shakespeare
(Parte II, 5.5.39). Nella mitologia greca il nome Megera
significa "l'invidiosa". Megera era preposta all'invidia
ed alla gelosia e induceva a commettere delitti, come
l'infedeltà matrimoniale. Tisifone era incaricata di
castigare i delitti di assassinio: patricidio, fratricidio,
matricidio, omicidio. Un mito racconta che si innamorò
di Citerone, che uccise col morso di uno dei serpenti
presenti sul suo capo.
Il mito di Oreste.
Figlio di Agamennone e Clitemnestra, era fratello di
Elettra e di Ifigenìa. Dopo l'assassinio del padre a
opera di Clitemnestra e del suo amante Egisto, viene
messo in salvo dalla sorella Elettra presso Stròfio
re della Fòcide, marito della sorella di Agamennone.
Qui Oreste è allevato insieme a Pìlade, figlio di Strofio,
e tra i due nasce una amicizia così profonda, che quando
Oreste, divenuto adulto, decide di tornare ad Argo per
vendicare l'uccisione del padre, Pilade lo accompagnerà.
Perseguitato dalle Erinni, dopo il matricidio, egli
vaga in preda alla follia da un luogo all'altro finché
non giunge, su consiglio di Atena, ad Atene e si sottopone
al giudizio del tribunale della città, l'Areòpago, da
cui è assolto. Le Erinni vengono placate con l'istituzione
del culto delle Eumenidi: così termina il racconto nell'Orestea
di Eschilo, rappresentata nel 458 a.C.
L'Orestea di Eschilo (459-458 a.C.).
Prima che Oreste si potesse vendicare su Clitemnestra
ed Egisto, rispettivamente sua madre e l'amante, uccisori
del padre Agamennone, l'oracolo di Delfi lo avvisò che
le Erinni non avrebbero facilmente perdonato un matricidio
e gli donò, in nome di Apollo, un arco di corno col
quale respingere i loro attacchi, se fossero divenuti
insopportabili. Oreste, con l'aiuto della sorella Elettra,
riuscì a far credere a Clitemnestra di portare le ceneri
del suo defunto figlio, ed ella per la gioia della scampata
vendetta chiamò Egisto. Oreste trafisse Egisto con una
spada e decapitò, secondo alcune versioni, la madre,
che cadde accanto al cadavere dell'amante. Altri autori
negano che Oreste abbia ucciso Clitemnestra con le proprie
mani e affermarono che la consegnò ai giudici i quali
la condannarono a morte e sua unica colpa, seppur si
può chiamare colpa, fu di non aver interceduto in favore
della madre. E' improbabile che le Erinni siano state
introdotte a caso nel mito che pare contenga un ammonimento
morale contro la minima disobbedienza o il minimo insulto
di un figlio nei confronti della madre. Anche il rifiutarsi
di difendere la causa della propria madre, per quanto
malvagia essa fosse, era una colpa sufficiente, secondo
l'antica legge, per scatenare la persecuzione delle
Erinni. Egisto e Clitemnestra vennero sepolti fuori
dalle mura di Micene e durante la guardia di notte alle
tombe, le Erinni apparvero ad Oreste e agitarono i loro
flagelli. Esasperato da quei feroci attacchi, l'arco
di corno donatogli da Apollo non gli fu d'aiuto. Oreste
si abbandonò su un giaciglio dove giacque per 6 giorni,
il capo avvolto in un mantello, rifiutando sia di cibarsi
sia di lavarsi. Giunse da Sparta il vecchio Tindareo
che accusò Oreste di matricidio e ingiunse ai capi micenei
di giudicarlo. Tindareo sosteneva che Oreste doveva
limitarsi a permettere ai suoi concittadini di esiliare
la madre. E se avessero chiesto la sua morte, avrebbe
dovuto intercedere in suo favore. I giudici commutarono
la sentenza di morte in sentenza di suicidio. Oreste,
Pilade ed Elettra decidono di punire Menelao per essersi
schierato a sfavore loro uccidendo Elena, sua moglie,
responsabile della guerra di Troia, ma intercede Apollo
che prende Elena e la porta con sé nell'Olimpo e colà
ella divenne immortale e Oreste ricevette la protezione
di Apollo. Oreste si mise in cammino per Delfi, sempre
inseguito dalle Erinni. Apollo promise che avrebbe interceduto
per lui, ma intanto Oreste doveva partire in esilio
per un anno e, solo una volta finito l'esilio, recarsi
ad Atene e abbracciare l'antica statua di Atena annullando
la maledizione. Mentre le Erinni ancora dormivano Oreste
fuggì, ma l'ombra della defunta Clitemnestra entrò nel
sacro recinto e incitò le Erinni ad eseguire il loro
compito, ricordando che esse avevano spesso ricevuto
dalle sue mani libagioni di vino e crudeli banchetti
di mezzanotte. Le Erinni allora partirono di nuovo all'inseguimento,
sprezzanti delle minacce di Apollo ed erano instancabili,
nonostante Oreste si purificasse spesso con sangue di
maiale e acqua corrente. Tali riti tuttavia bastavano
appena a placare le sue tormentatrici per un'ora o due
e ben presto egli perse il senno. Di fronte all'isola
di Cranae si trova una pietra grezza chiamata Pietra
di Zeus Guaritore, sulla quale Oreste sedette e fu temporaneamente
guarito dalla follia. Lungo la strada che conduce da
Megalopoli a Messene sorge il santuario delle Dee Folli
(appellativo delle Erinni di Clitemnestra che colpirono
Oreste con una crisi di follia). Vi è anche un piccolo
tumulo con sopra un dito di pietra e chiamato La Tomba
del Dito e indica il luogo dove Oreste, in preda alla
disperazione, si amputò un dito per placare le Nere
Dee, e alcune di loro divennero Bianche e Oreste recuperò
il senno. Egli poi si rasò il capo e fece un'offerta
espiatoria alle Dee Nere e un'offerta di ringraziamento
alle Bianche. Libagioni di vino, anziché di sangue,
e offerte di ciocche di capelli, anziché dell'intera
chioma, sono varianti di questo rito propiziatorio,
dal significato ormai scordato, così come lo è l'attuale
consuetudine di vestirsi di nero che non è più messa
coscientemente in rapporto con l'antica usanza di ingannare
le ombre dei morti alterando il proprio aspetto. Dopo
un anno di esilio Oreste si recò ad Atene, entrò nel
tempio di Atena, sedette e abbracciò il simulacro. Arrivarono
le Nere Erinni, ansimanti per la corsa ed iniziarono
ad accusarlo presso gli ateniesi. Atena, udite le suppliche
di Oreste, ordinò all'Areopago di giudicare quello che
allora era soltanto il secondo caso di omicidio che
ad esso si presentava. Apollo apparve nel processo in
veste di difensore e la più vecchia delle Erinni come
pubblica accusatrice. Apollo sostenne che oramai la
società era divenuta patriarcale e che dunque l'uccisione
della madre non era poi così grave come lo si riteneva
una volta (sovvertimento della società matriarcale).
La votazione si chiuse alla pari e Atena diede il suo
voto decisivo in favore di Oreste. Le Erinni minacciarono
che se la sentenza non fosse stata mutata esse avrebbero
versato nell'Attica una goccia del sangue del loro cuore
che avrebbe isterilito il suolo, distrutte le messi
e ucciso tutti i fanciulli di Atene. Pare che in realtà
fosse un eufemismo per indicare una goccia di sangue
di mestruo, anziché di cuore. Un antichissimo sortilegio
praticato dalle streghe che volevano maledire una casa
o un campo consisteva nel corrervi attorno nude nella
direzione opposta a quella del sole per nove volte mentre
erano mestruate. Atena per placare le Erinni fece loro
un'offerta irrinunciabile di un santuario e di vari
culti che avrebbero avuto ad Atene (libagioni, riti
propiziatori). Alcune accettarono l'offerta e si chiamarono
da quel momento in poi Venerande. Le altre, che non
accettarono la trasformazione della società da matriarcale
a patriarcale, continuarono a perseguitare Oreste. Oreste
le chiamò Eumenidi.
L' Oreste di Euripide (408 a.C.).
Nell'Oreste di Euripide la vicenda si svolge ad Argo,
dove Oreste incalzato dalle Erinni e in preda a un delirio
che non gli dà tregua (simbolo evidente dei rimorsi
e del turbamento interiore per il matricidio) attende
di essere giudicato dal tribunale argivo. L'arrivo di
Elena e Menelao con la figlia Ermione fa nascere in
Oreste la speranza di trovare in Menelao una difesa
e un sostegno. Invano, poiché egli spaventato anzi dall'ira
del vecchio Tìndaro, che frattanto era sopraggiunto,
e dalla collera dei cittadini, non si schiera dalla
parte di Oreste e mantiene un atteggiamento molto cauto.
Elettra e Oreste sono condannati a morte: viene loro
concesso di potersi uccidere anziché morire lapidati.
Oreste, Elettra e Pilade tramano allora di uccidere
Elena, per punire il vile comportamento di Menelao,
e di prendere in ostaggio Ermione barattando con lei
la salvezza. Elena però, colpita da Oreste, si sottrae
alla morte con una misteriosa sparizione. Sopraggiunge
allora Menelao, che vuole riprendersi la figlia e vendicarsi
per quanto accaduto alla moglie, ma Oreste e Pilade
minacciano di uccidere Ermione. Solo l'intervento di
Apollo come deus ex machina risolverà la vicenda: il
dio rivela infatti di aver posto in salvo Elena per
ordine di Zeus e predice a Oreste che dovrà recarsi
ad Atene e sottostare a un processo di cui saranno arbitri
gli dèi; sposerà inoltre Ermione, mentre a Pilade toccherà
Elettra.
Secondo un'altra versione ancora del mito – seguita
da Euripide nell'Ifigenia in Tauride – Apollo avrebbe
predetto a Oreste che sarebbe guarito dal suo delirio
entrando in possesso del simulacro di Artemide - che
si trovava nel Chersonèso taurico - e portandolo in
Attica. Arrivati in Tauride, Oreste e Pilade sono però
fatti prigionieri dagli indigeni che intendono sacrificarli
alla dea, in quanto stranieri, secondo un barbaro rituale.
Sacerdotessa di Artemide era però Ifigenìa, sorella
di Oreste; i due fratelli si riconoscono, e dopo aver
rubato la statua fuggono insieme a Pilade.
Riflessioni: La colpa da espiare.
(Di Adalberto Bonecchi)
Noi oggi possiamo sorridere per i tratti caratteriali
degli dei che popolavano il loro Olimpo, ma essi hanno
avuto il coraggio di non fantasticare la promessa di
una paciosa vita ultraterrena come base dell'agire umano.
Nelle Eumenidi di Eschilo si scontrano due giustizie:
l'antica delle Erinni e la nuova di Apollo, che avvertiamo
più consona con il nostro sentire odierno. La nuova
coscienza dei Greci ha potuto recepire questo senso
della giustizia solo come proveniente da un dio, secondo
le modalità del pensiero di allora. E' questo il presupposto
per la trasformazione delle terrificanti Erinni in Eumenidi,
le "benevole", in un'assimilazione del Terrore Divino
nel tribunale umano. Apollo è il giovane dio che le
vecchie dee calpesta, per proteggere il suo supplice.
Apollo le scaccia: non accetta la scusa che Clitemnestra
ha si ucciso, ma senza versare sangue di consanguinei.
Apollo, rappresentante di una nuova organizzazione sociale
non più basata solo su vincoli di sangue, ricorda che
così dicendo esse vilipendono Afrodite, la dea dell'amore
che sostiene che il talamo nuziale è vincolo assai più
grave del giuramento e la giustizia lo protegge. Il
momento è drammatico e lo scontro fortissimo tra la
vecchia concezione basata appunto su vincoli di sangue
diretti e la nuova, in cui Afrodite è simbolo di unioni
non più consanguinee. Il verdetto dell'Aeropago sancirà
il compromesso tra queste due visioni. Il protettore
di questi nuovi legami è Apollo, addirittura in modo
provocatorio istigando il matricidio e proteggendo chi
l'ha compiuto. Ma ai Greci questa visione doveva sembrare
eccessiva, se Eschilo non ha lasciato l'ultima parola
al dio, ma invia Oreste ad Atena e a un tribunale che
dovrà mediare tra visioni del mondo e dei rapporti umani
tanto differenti. La costituzione dell'Aeropago è un
momento di grande civiltà, nonostante la truculenza
dei delitti: il "colpevole", infatti, non è semplice
preda dei propri deliri interiori materializzati nelle
Erinni, ma può passare attraverso un momento di giudizio
collettivo, in cui il suo gesto acquista nuovo significato.
Quale che sia il responso del tribunale, esso giungerà
finalmente dall'esterno e non sarà il semplice effetto
di una dialettica interiore senza speranza. Le Erinni
infatti sono il senso di colpa, il ricordo, il rimpianto.
All'inizio del secondo stasimo, il coro delle Erinni
è ancora una volta turbato, al pensiero delle rovine
a cui porteranno le nuove leggi, se la causa di Oreste,
il matricida, dovesse prevalere: a quel punto ognuno
si sentirà autorizzato a compiere qualsiasi misfatto,
in particolare nell'ambito della propria famiglia di
origine. Le Erinni innalzano dunque un canto al terrore,
come fondamento della convivenza e saggezza: una sorta
di posto di guardia nel cuore degli uomini. La sentenza
dell'Aeropago rigetta la vecchia giustizia familiare,
non scaccia le Erinni, ma anzi le Innalza a difesa della
città nella forma mitigata delle Eumenidi. La tragedia
segna il passaggio adolescenziale dalla legge familiare
alla legge di gruppo, ma, come nell'Atene del V secolo,
questo passaggio non elimina le Erinni, bensì le eregge
a protettrici della dimensione collettiva. La paura
e un'angoscia di fondo sempre pronta a emergere restano
così il marchio del rapporto con l'Altro, con cui non
è possibile una relazione paritaria, ma solo una sottomissione
basata sulla paura. Nell'Aeropago si combatte una battaglia
tra legge materna familiare e legge paterna sociale.
Lo sostiene chiaramente Apollo quando, difendendo Oreste,
afferma che la morte di Clitemnestra non può essere
considerata alla stessa stregua di quella di Agamennone,
nobile eroe onorato da Zeus dello scettro regale. E'
dunque superiore Agamennone a Clitemnestra, perché la
sua condizione è regale, cioè riconosciuta dalla comunità:
per giunta egli è stato ucciso per mano di una donna
e non in guerra. E quando le Erinni si appellano al
principio della consanguineità, ricordando che Oreste
uccidendo la madre ha versato sangue delle proprie vene,
Apollo svilisce la funzione della madre nella procreazione,
affermando che generatore è colui che getta il seme,
mentre la madre è semplice contenitore del feto. Vi
è qui nel suo estremismo, certamente oggi non condivisibile,
un'idea meno arcaica della procreazione. Atena vota
in favore di Oreste, anche perché ella è stata generata
dal padre, senza l'aiuto del grembo materno. La sentenza
è nota: i voti pro e contro Oreste sono pari, ma siccome
in caso di parità sarà il giudizio di Atena a fare la
differenza, il matricida è salvo. Questa sentenza, che
fonda l'ordine giuridico, è dunque contraddittoria:
i nuovi dei e la nuova giustizia non hanno sconfitto
le vecchie tradizioni e l'ambiguità tragica, irrisolvibile,
permane. Le Erinni minacciarono, se la sentenza non
fosse stata mutata, di lasciar cadere sull'Attica una
goccia di sangue del loro cuore, che avrebbe isterilito
il suolo, distrutte le messi e ucciso tutti i fanciulli
di Atene. Il sangue di cui si parla in realtà è il sangue
versato fra i consanguinei, che rompe la successione
delle generazioni; è il sangue di mestruo e degli aborti
delle donne, segno mortifero della mancata fecondazione.
Ma Atena traduce la minaccia di Erinni anche in un senso
strettamente politico: il Male che può minare la forza
della città sono anche, soprattutto, gli odi intestini
che pure Erinni ha il potere di aizzare. Per far desistere
Erinni dai propositi di maleficio, Atena offre loro
una serie di vantaggi (omaggi e onori). (Peithò = la
Persuasione). Perché la parola persuasiva non è sufficiente
a regolamentare i rapporti tra gli esseri umani? Perché
la necessità del rispetto e del timore? Ma oltre che
sul piano sociale, anche su quello più strettamente
individuale non possiamo non chiederci perché siano
così rari gli esseri umani che sanno vivere decentemente
senza bisogno di essere terrorizzati dall'idea del carcere,
degli inferni o, quanto meno, da implacabili Erinni
interiori.
Le ninfe Melie (ninfe dei Frassini) protettrici
delle greggi;
Le ninfe erano delle divinità inferiori che personificavano
i diversi aspetti della natura.
Si diceva che le ninfe abitassero nei fiumi, nelle fonti,
nei torrenti, nei mari, ecc. e facevano sovente parte
della corte di divinità maggiori.
Le ninfe assumevano nomi diversi a seconda dei luoghi
che abitavano: le Nereidi del mare, le Oceanine dell'Oceano,
le Agrostine dei campi, le Naiadi delle acque dolci,
le Avernali del mondo dei morti, le Oreadi dei monti,
le Napee dei boschi, le Auloniadi delle valli e dei
burroni, le Driadi e le Amadriadi delle piante, le Alseidi
dei boschi, le Meliadi dei frassini.
Le ninfe non era immortali ma avevano una vita lunghissima
e rimanevano giovani per sempre. Erano rappresentate
come delle fanciulle giovani e bellissime, nude e con
lunghissimi capelli.
I Giganti.
Creature gigantesche dalla forza
spaventosa, simbolo della forza bruta e della violenza
sconvolgitrice della natura quali i terremoti e gli
uragani:
Alcioneo, Encelado, Efialte, Pallante, Ippolito, Porfirione,
Mimante, Grazione, Polibote, Olto, Clizio, Agrio, Toante,
Eurito
- I NEFILIM
La teoria prevalente per stabilire un legame tra la
scienza e i Giganti (Nephelim) è quella che sostiene
che i Nephilim fossero neandertaliani sopravvissuti
(oppure i loro resti ossei), o forse un ibrido tra Homo
sapiens e uomo di Neanderthal. Questa teoria assomiglia
a quella che associa la leggenda dei draghi alle ossa
di dinosauro.
Molti studiosi pensano che l'uomo moderno abbia condiviso
gli stessi territori dei neandertaliani per molti millenni,
e che la regione del Vicino Oriente sia stata l'ultimo
habitat per uno sparuto numero di tribù superstiti di
Homo sapiens neandertalensis o di H. neandertalensis.
Dunque, è concepibile che sia rimasta una memoria popolare
di queste tozze e forti creature, tramutata in leggenda
che evolse successivamente in popolari racconti mitologici,
più o meno adattati al loro gusto dalle varie civiltà.
Ad esempio, in Sardegna, creature ancestrali, tozze
e pelose sono raffigurate dalle maschere dei "Mamuthones".
- TAVOLETTE SUMERE
Secondo Zecharia Sitchin, 450.000 anni fa un popolo
proveniente dallo spazio e da un pianeta chiamato Nibiru
atterrò sul nostro pianeta e attraverso un esperimento
genetico creò l'uomo. Sembra che Sumeri Assiri e Babilonesi
abbiano identificato questo pianeta nel Dio Marduk,
il re degli Dèi. Così Nippur si popolò di Dèi. Venivano
dal pianeta Nibiru che ogni 3600 anni appare nel nostro
sistema solare. Giunsero 450.000 anni fa e appartenevano
tutti al popolo dei Nefilim, il popolo dei razzi, gli
Dèi...
- LA TEORIA DEGLI ANTICHI ASTRONAUTI - GENESI
UMANO-RETTILE -
Zecharia Sitchin ed Erich Von Daniken hanno scritto
libri sostenendo che i Nephilim siano i nostri antenati
e che noi siamo stati creati (con l'ingegneria genetica)
da una razza aliena.
Nei voluminosi libri di Sitchin si impiega l'etimologia
della lingua semitica e traduzione delle tavolette in
scritta cuneiforme dei Sumeri per identificare gli antichi
dei mesopotamici con gli angeli caduti (i "figli di
Elohim" della Genesi). Osservando che tutti gli angeli
vennero creati prima della Terra, lui constata che non
possono essere della Terra... e dunque, potrebbero tutti
essere considerati semanticamente come dei puri "extraterrestri".
Nei suoi libri David Icke presenta una teoria simile,
nella quale esseri interdimensionali rettiliani danno
luogo ad una progenie servendosi dell' ingegneria genetica,
con tratti fisici di alta statura, pelle chiara, e suscettibilità
a qualsiasi forma di suggestione ipnotica (che a suo
parere, avviene quando i "demoni" posseggono la loro
progenie e pretendono fedeltà), ed afferma che questa
linea di sangue rimane in controllo del mondo sin dai
giorni dei Sumeri fino ad oggi .
Va detto, per completezza, che le teorie di David Icke
sono considerate da alcune comunità di ufologi come
vero e proprio Debunking.
- ANUNNAKI
Nella mitologia sumera il termine Anunnaki, ossia "figli
di An", indica l'insieme degli dèi sumeri.
Essi erano costituiti in un'assemblea, presieduta da
An, dio del cielo. Tale assemblea si componeva dei sette
supremi, di cui facevano parte i quattro principali
dei creatori (An, Enlil, Enki, Ninhursag), con l'aggiunta
di Inanna, Utu e Sin e di 50 dei minori, detti anche
Igigi.
Vi è un'interpretazione non ortodossa di un traduttore
dal sumerico (Zecharia Sitchin) che indicherebbe negli
Annunaki degli alieni provenienti da Nibiru, un pianeta
del nostro sistema solare.
Nel Vecchio Testamento biblico, nel Libro della Genesi,
vengono citati i Nephilim; è ormai dato quasi certo
che i Nephilim (o nefilim) null'altro sarebbero che
gli Anunnaki stessi.
- INTERPRETAZIONE DI ZECHARIA SITCHIN
Il nome accadico Anunnaki vuol dire "Coloro che dal
Cielo sono venuti sulla Terra". Secondo Zecharia Sitchin
il "cielo" degli Anunnaki cui si riferiscono i testi
sumerici, detto Ni.bi.ru, era il "pianeta del transito",
il "centro del cielo", cioè un pianeta del nostro Sistema
Solare.
Sitchin è uno studioso ben noto a chi segue la cosiddetta
archeologia spaziale: è nato in Russia ma è cresciuto
in Palestina, e qui ha acquisito una completa padronanza
della lingua ebraica antica e moderna, studiando in
modo approfondito le lingue semitiche ed europee, l'Antico
Testamento, la storia e l'archeologia del Medio Oriente.
In particolare, ha compiuto ricerche sul mito di Gilgamesh
e sui racconti biblici. Gilgamesh è un re semileggendario
di Uruk (quinto re della I dinastia, forse realmente
esistito attorno al 2600 a.C.), la sua leggenda ha dato
luogo a una serie di poemi; nel corso del II millennio
a.c., gli scribi accadici ne hanno fatto un'epopea in
dodici canti, il cui soggetto è la ricerca illusoria
dell'immortalità. Uno degli episodi, quello concernente
il Diluvio con il personaggio di Utnapishtim, presenta
notevoli analogie col racconto del Diluvio biblico.
Nei testi sumerici scritti in grafia cuneiforme si trovano
altre cronache affini ai racconti biblici come, ad esempio,
la creazione dell'uomo. La prima colonia di Sumer fu
la città E.ri.du, nome che significa letteralmente "Casa
costruita lontano", essa sorgeva su una collina eretta
artificialmente alla foce dell'Eufrate, in mezzo alla
edinu, che significa "pianura", o anche E.din, "Patria
dei Giusti", da cui deriva "Eden", biblico nome del
giardino paradisiaco, prima dimora terrestre dell'uomo.
Le teorie di Sitchin sono esposte in una serie di libri
facenti parte di un vasto progetto editoriale, iniziato
nel976 e denominato The Earth Chronicles (Cronache della
Terra). Come molti sostenitori della paleoastronautica,
Sitchin è convinto che opere come La Bibbia, L'epopea
di Gilgamesh, le iscrizioni reali degli Accadi e dei
Sumeri, debbano essere considerate come vere e proprie
documentazioni storico-scientifiche; e da questi testi
ne ricava che la nascita e lo sviluppo della vita sulla
Terra sarebbe stata guidata da esseri extraterrestri.
Nella Bibbia questi esseri vengono chiamati col nome
di Nephilim (o Nefilim, dalla parola ebraica Nafal,
"caduti") che significa "coloro che sono scesi (o caduti)
sulla Terra dal Cielo", mentre nella lingua degli Accadi
questi esseri diventano gli Anunnaki, che letteralmente
significa "coloro che sono venuti sulla Terra".
Gli Anunnaki avrebbero avuto un ruolo importante nella
veloce evoluzione della civiltà umana e in particolare
di quella sumerica. I signori di Nibiru, sin dall'antichità,
sarebbero scesi sulla Terra per sfruttare le risorse
minerarie del nostro pianeta. All'inizio furono inviate
delle sonde automatiche per verificare l'abitabilità
del nostro mondo. Quando il pianeta Nibiru giunse nel
punto della sua orbita più vicino alla Terra fu inviata
una prima spedizione umana capeggiata da Enlil, un nome
che ricorre spesso nella mitologia dei Sumeri. I luoghi
scelti furono la Valle del Nilo, la Valle dell'Indo
e la Mesopotamia.
- RITROVAMENTO REPERTI ARCHEOLOGICI
18/09/2007 Rinvenuti scheletri umani giganti nel "The
Empty Quarter" (Il Settore Vuoto), nel Nord dell'India.
E se fossere uomini vissuti hai tempi dei dinosauri
?
Tutto ha avuto inizio da una normale attività esplorativa
nel deserto Indiano, in un luogo chiamato "The Empty
Quarter" (Il Settore Vuoto), nel Nord dell'India. In
questa regione sono venuti alla luce i resti di uno
scheletro umano di taglia eccezionale (vedere comparazione
nell'immagine).
La scoperta è stata fatta nel 2004 dal Team National
Geographic (Divisione Indiana), con l'appoggio dell'Esercito
Indiano, poiché l'area è sotto la giurisdizione dell'Esercito.
Sembra che siano state trovate anche delle tavolette
con iscrizioni che affermavano che gli dei Indiani,
come il mitologico "Brahma", avessero generato persone
di taglia eccezionale: molto alti, grandi, e assai potenti,
in grado di poter abbracciare un grosso tronco di albero
e sradicarlo.
La Mitologia Greca ricca di leggende tramandate sui
giganti, ne ha fatto gli dei che stiamo trattando in
questo compendio mitologico.
Urano, riuscì però a scappare lontano e da allora mai
più si avvicinò alla Madre Terra, sua sposa.
Il governo della terra, sarebbe toccato a Oceano, il
più anziano fratello, ma Crono, con l'inganno, riuscì
a impossessarsi del trono e a regnare sul creato.
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Il REGNO DI CRONO
La prima cosa che fece Crono fu quella
di liberare i suoi fratelli dalla prigionia alla quale
il padre li aveva relegati ad eccezione dei Ciclopi
e degli Ecatonchiri nei confronti dei quali nutriva
seri dubbi sulla loro lealtà nei suoi confronti. Questo,
da parte sua, fu un errore che negli anni a venire gli
sarebbe costato molto caro. Ma i Titani proclamarono
Crono signore dell'universo.
Nella tradizione orfica, Crono è il primo Dio che ha
regnato sul cielo e sulla terra, ha portato alle leggende
dell'età dell'oro. Si raccontava in Grecia che, in quei
tempi lontanissimi, egli regnasse ad Olimpia. In Italia,
in cui Crono è stato identificato con Saturno, si poneva
il suo trono sul campidoglio. Gli si attribuiva il regno
dell'Africa, della Sicilia e, in genere, di tutto l'occidente
mediterraneo. Più tardi, quando gli uomini erano diventati
malvagi, con la generazione del bronzo e soprattutto
del ferro, Crono era risalito al cielo.
Esiodo raccontava un mito relativo alle differenti razze
che si sono succedute dall'origine dell'umanità: oro,
argento, bronzo e ferro, per esprimere il progressivo
svilimento della razza umana. A queste quattro ne aggiunse
una quinta, quella della stirpe divina degli uomini-Eroi
che precede l'ultima età, quella del ferro, come estremo
tentativo di recupero prima dell'inevitabile caduta
finale. All'inizio, quindi, c'era una razza d'oro. Si
era nel periodo in cui Crono regnava ancora in Cielo.
Gli uomini vivevano allora come gli dei, liberi d'affanni,
al riparo dalle fatiche e dalla miseria, non conoscevano
la vecchiaia ma trascorrevano i giorni sempre giovani
tra i banchetti e le feste; giunto il tempo di morire,
si addormentavano dolcemente; non erano sottomessi alla
legge del lavoro, tutti i beni appartenevano a loro
spontaneamente, la terra produceva naturalmente abbondante
raccolto ed essi, in mezzo ai campi, vivevano in pace.
Crono scelse Rea, sua sorella, come sposa e insieme
governarono sugli dei e sugli uomini. Ma la sua tranquillità
fu minata da un triste vaticinio. Poichè Urano e Gaia,
depositari della saggezza e della conoscenza dell'avvenire,
gli avevano predetto che sarebbe stato detronizzato
da uno dei suoi figli. Terrorizzato, per tentare di
ingannare il destino, iniziò a divorare i suoi figli
non appena nascevano, tenendoli così prigionieri nelle
sue viscere. Così generò e successivamente divorò Estia,
Demetra, Era, Ade e Poseidone. Adirata per vedersi privata
in tal modo di tutti i suoi figli, Rea, incinta di Zeus,
fuggì a Creta e qui partorì segretamente. Poi, avvolgendo
un masso con panni, lo diede a Crono perchè lo divorasse.
Egli lo inghiottì senza accorgersi dell'inganno.
Nel frattempo il piccolo Zeus era stato portato in una
caverna del monte Ida nell'isola di Creta e affidato
alle cure della ninfa Amaltea che possedeva una capra
che aveva due capretti la quale costituiva l'orgoglio
del suo popolo per le superbe corna ricurve all'indietro
e per le mammelle ricche di latte, degne di allattare
il grande Zeus.
Un giorno la capra si spezzò un corno urtando contro
un albero perdendo metà della sua bellezza. Il corno
fu raccolto da Amaltea che lo ricolmò di frutta ed erbe
e lo donò a Zeus. Zeus una volta diventato il re degli
dei, pose Amaltea fra le costellazioni e rese fecondo
il corno che ancor oggi porta il suo nome, cornucopia
(dal latino "cornu=corno" e "copia = abbondanza").
Anche l'ape Panacride nutriva Zeus dandogli il miele
ed un'aquila gli portava ogni giorno il nettare dell'immortalità.
I suoi pianti erano coperti dai Cureti che battevano
il ferro per impedire ad alcuno di sentire i suoi vagiti.
Quando fu adulto, Zeus, aiutato da Meti, una delle figlie
di Oceano, fece assorbire a Crono una droga che lo costrinse
a vomitare tutti i figli divorati. Questi, guidati dal
loro giovane fratello Zeus, dichiararono guerra a Crono,
che aveva come alleati i suoi fratelli Titani. La guerra
durò dieci anni, e un'oracolo della terra promise infine
la vittoria a Zeus se avesse preso come alleati gli
esseri fatti un tempo precipitare da Crono nel Tartaro.
Zeus li liberò e riportò la vittoria. Allora Crono e
i Titani furono incatenati al posto degli Ecatonchiri,
che divennero i loro guardiani.
Oceano
Oceano è il potente flusso primordiale
dell'acqua che gira attorno alla terra.
E' rappresentato come un fiume che scorre attorno
al disco piatto che è la Terra, delimitandone le
frontiere più lontane, sia a est che a ovest. Man
mano che la conoscenza della Terra si faceva più
precisa, il nome d'Oceano fu riservato all'Oceano
Atlantico, il limite occidentale del mondo antico.
Nell'antichità si credeva che le stelle e il sole
sorgevano e tramontavano nelle sue acque.
Teti sua moglie è una corrente d'acqua, come un
grande fiume che vi si muove dentro, e con Oceano
da vita a tutte le le sorgenti, i fiumi e il mare.
I figli di Oceano, i fiumi, sono migliaia (Acheloo,
Alfeo, Ladone, Eridano, Meandro, Simoenta, Strimone,
Eveno, Scamandro, Nilo). Altrettante le figlie,
le Oceanine.le quali si unirono a un gran numero
di dei e mortali per generare molti figli: Stige
(la maggiore), Elettra, Doride (moglie di Nereo),
Asia, Calliroe, Climene (moglie di Giapeto), Eurinome
(antica regnante dell'Olimpo scacciata in seguito
da Crono e Rea), Europa, Meti (la prima moglie di
Zeus), Clizia, Dione, Criseide, Calipso, Pleione
(madre delle Pleiadi e delle Iadi), Anfitrite (moglie
di Poseidone), ninfe, antiche divinita' protettrici
dei pozzi, delle sorgenti e dei ruscelli.
L'acqua è il principio di tutte le cose. Essa e'
il simbolo della vita e della fecondità. Numerosi
sono i miti relativi a sorgenti e fontane dell'eterna
giovinezza e della vita, e numerose le credenze
sulle acque miracolose che guariscono da tutte le
malattie dell'anima e del corpo.
L'acqua e' elemento che provoca la pioggia benefica
e la rinascita delle sorgenti, della vegetazione
e dell'agricoltura per la vita degli animali e degli
uomini, il riscatto dei terreni dalla desertificazione
o la forza eversiva quando e' rotto il suo equilibrio
nel territorio.
Oceano, nelle cui acque si bagnavano le fanciulle
greche prima delle nozze, aveva un'inesauribile
potenza generatrice e perciò era considerato come
il capostipite di antiche famiglie.
Oceano non è mai stato in buoni rapporti con Crono,
in quanto sarebbe dovuto spettare a lui il dominio
sul mondo dopo Urano, dato che lui era il più anziano.
Infatti, nella Titanomachia, Oceano non appoggiò
il fratello e rimase neutrale.
Ceo
Fra i Titani rappresentava l'intelligenza.
Sposò sposò sua sorella, la "brillante" Febe, con
la quale generò Leto (Latona) e Asteria.
Ceo era il portavoce della saggezza di suo padre
Urano, e di sua madre Gea. In questo senso le sue
due figlie erano i due rami di chiaroveggenza: Leto
e suo figlio Apollo presiedevano la potenza della
luce e del cielo. La figlia Asteria fu la sposa
del titano Perse, che gli diede una figlia che chiamarono
Ecate: ammantata dal denso alone di mistero, insidioso
e terrifico, che conferiscono la notte, le tenebre
e gli spiriti dei morti.
Crio
Dio della forza, rappresenta
l'ideale della forza e della potenza fisica. E'
l'Ariete del cielo.
Crio è il meno famoso. E' uno dei pochi che non
si è sposato con una sua sorella Titanide; infatti,
sua moglie è Euribia, figlia di Gaia e Ponto, ed
ebbero Astreo, Pallante (figlia di cui sarà Nike,
la Vittoria), Perse.
Unendosi con Eos figlia di Iperione, ha generato
i Venti (Zefiro, Borea, Noto, Eosforo).
Iperione
Dio del sole, della vigilanza
e dell'osservanza, Si unì in matrimonio a sua sorella
Teia, dal quale ebbe tre figli: Elio (il Sole),
Eos (l'Aurora) e Selene (la Luna).
Elios sorge ogni mattina dall'Oceano per condurre
il carro del sole e data la capacità del sole di
penetrare dappertutto, è invocato come testimone
nei giuramenti.
Eos, Dea dell'aurora, è destinata ad alzarsi presto
per agevolare il lavoro del fratello Elios.
Selene, Dea della luna, percorre il cielo sopra
un carro trainato da quattro buoi bianchi.
Giapeto
Sposò Climene, una delle figlie
di Oceano e Teti, dalla quale ebbe quattro figli:
Atlante, Menezio, Prometeo ed Epimeteo. Dunqueè
il progenitore degli uomini.,perché attraverso Prometeo,
si ricollega Deucalione, il padre della stirpe umana,
dopo il diluvio universale. Mentre Pirra, moglie
di Deucalione, sarebbe figlia di Epimeteo e Pandora.
Atlante possedeva il giardino delle Esperidi, dove
maturavano i famosi pomi d'oro. Ebbe una numerosa
discendenza. figlie sue furono le Pleiadi avute
da Pleione, da Etna ebbe le Iadi, da Esperide le
Esperidi.
Fu pietrificato da Perseo con la testa della Medusa,
venne identificato con le montagne che portano il
suo nome.
Tea
Titanide, sorella e sposa di
Iperione con cui generò Elios, Selene ed Eos (Il
sole, la luna e l'aurora). "E Teia ad Elios grande
die' vita, e a Selene lucente, ed all'Aurora, che
brilla per quelli che stan su la terra, e pei Beati,
ch'àn vita perenne, signori del cielo, poscia che
ad Iperïóne, domata in amore soggiacque" (Esiodo,
Teogonia).
Rea
Personificazione delle forze
della natura, dea della terra e degli animali, veniva
rappresentata accompagnata da sacerdoti (coribanti),
da leoni e da altri animali selvaggi
Rea sposò suo fratello Crono che, per evitare di
perdere il potere così come era capitato a suo padre
Urano (spodestato da Crono stesso), prese a divorare
i figli via via che Rea li partoriva. Per prima
divorò Estia quindi Demetra, Era, Ade e Poseidone.
Rea era furiosa. Mise al mondo Zeus, il suo terzo
figlio maschio, sul Monte Liceo, in Arcadia (o secondo
altre versioni a Creta, dove era fuggita precedentemente)
e dopo aver tuffato Zeus nel fiume Neda lo affidò
alla madre Terra. A Crono invece era stata recapitata
una pietra avvolta in fasce al posto di suo figlio
Zeus. Così il Titano ingoiò la pietra mentre Zeus
fu nascosto in una grotta a Creta dove visse sino
al momento in cui costringerà il padre con un potente
veleno a rigettare i fratelli.
Rea (o Cibele) Aveva il compito di proteggere la
fertilità, la natura, il grano mietuto e posto nei
granai. Venerata come madre degli dei, tutelava
le montagne e le fortezze. Essendo raffigurata con
una corona che aveva la forma delle mura di una
città, presso i romani era nota anche come Mater
turrita.
Al culto di Cibele erano preposti sacerdoti eunuchi
chiamati Coribanti, che guidavano i fedeli in riti
orgiastici accompagnati da urla selvagge e da una
frenetica musica di flauti, tamburi e cembali.
Sta a rappresentare insieme a Crono la regalità,
anteriore all'avvento di Zeus.
Il suo culto si diffuse in gran parte nella Grecia
continentale in cui si dava ai propri santuari il
nome di metroon (Olimpia, Atene, il Pireo, ecc.),
A Roma, questo culto fu introdotto, in 204 a.C.
Per riceverla, si costruì un tempio sul palatino
e si commemorò ogni anno quest'evento con la festa
di megalesia, accompagnata da giochi megalesiani
(4-10 aprile). La grande festa annuale di Cibele
comprendeva cerimonie simboliche dove si rappresentava
la storia degli amori della dea, il dolore, la mutilazione,
la morte ed il resurrezione di Atys, suo figlio;
processioni di sacerdoti (coribanti), che camminavano
con la statua in legno della dea; corse, danze,
ecc., tutto ciò evocando l'agonia della morte della
vegetazione e, quindi, il suo grande risveglio.
Gli strumenti del culto erano il coltello incoronato,
il corno, il flauto di Frigia, i cembali, le castagnette,
il timpano.
Le rappresentazioni dell'immagine di Cibele sono
numerose, soprattutto nell' Asia minore. All'origine,
un semplice meteorite simbolizzava la dea: tale
era la pietra nera di Pessinonte. Poco a poco, sotto
l'influenza dello antropomorfismo greco, si rappresentò
Cibele sotto le caratteristiche di una donna seduta
che tiene un leone sulle proprie ginocchia, o affiancata
da due leoni.
Temi:
Temi non è la dea della Giustizia
come erroneamente si crede, ma la dea delle leggi
naturali e perciò vigila su quanto è lecito ed illecito,
regola la convivenza fra gli dèi, fra i mortali
e i due sessi.
La Giustizia invece è rappresentata da una delle
Ore, Dike (sua figlia), I cui attributi sono la
spada e la bilancia assieme alla cornucopia e agli
occhi bendati (l'imparzialità della legge) e simboleggia
il diritto e la giustizia. è spesso rappresentata
come una donna con l'aria autorevole che tiene i
piatti d'una bilancia con la quale pesa le argomentazioni
delle controparti.
Teti
Sposa Oceano, uno dei suoi fratelli,
e diviene madre di tutti i fiumi del mondo e degli
esseri femminili acquatici detti Oceanine.
è lei che quando il figlio Achille, angustiato da
Agamennone per la sottrazione della bella Briseide,
va in riva al mare a sfogarsi, apparendogli gli
domanda:
Figlio, a che piangi? e qual t'opprime affanno?
Dì, non celarlo in cor; meco il dividi.
(Iliade I).
E saputo il fatto subito va sull'Olimpo da Zeus:
Innanzi a lui
la Dea s'assise; colla manca strinse
le divine ginocchia; e colla destra
molcendo il mento, e supplicando, disse:
- Giove padre, se d'opre e di parole
giovevole fra' numi unqua ti fui,
un mio voto adempisci.
Col cuore amareggiato di madre chiede a Zeus di
volgere la guerra a favore dei troiani in modo da
fare un dispetto ad Agamennone.
Il Sommo Dio acconsente per poi ricambiare nuovamente
le sorti quando Achille addolorato ed infuriato
per la morte dell'amico Patroclo riprende la battaglia.
Teti si identificava con una enorme massa d'acqua
che scorreva nell'oceano pur restandone distinta
e rappresentava l'elemento femminile fertile dei
mari e dei fiumi che nutriscono la terra. La sua
dimora era localizzata nell'estremo Occidente, oltre
il giardino delle Esperidi, dove tramonta il sole.
E' un meraviglioso giardino difeso dalle Esperidi
dove fruttificano arance e limoni, simbolo della
fecondità e dell'amore (ancor oggi i fiori di arancio),
e una delle fatiche di Ercole fu quella di portare
agli uomini questi pomi d'oro.
Quando Aesacos, figlio di Priamo e di Alexirhoe
, dopo la morte della moglie Asterope non riuscì
a darsi pace cercando più volte la morte, gettandosi
in mare da un'erta rupe, Téthys si mosse a compassione
e lo tramutò in un uccello pescatore; in tal modo
potè abbandonarsi alla sua ossessione, senza offendere
il creato.
Teti aveva cinquanta Nereidi come assistenti, sirene
gentili figlie della ninfa Doride e di Nereo figlio
di Ponto e di Gea.
Febe
Sposata al fratello Ceo, da lui
ebbe Asteria e Leto (o Latona), madre di Apollo
e Artemide.
E' la dea ispiratrice negli oracoli prima dell'avvento
di Apollo. E' lei che dona il potere all'oracolo
di Delfi e Apollo l'attributo di "Febo", lo prende
da lei. Per il suo genetliaco Apollo riceve in regalo
l'oracolo da Febe perché attraverso Latona, è suo
nipote.
Mnemosine
MNEMOSINE è la memoria che gli
Esseri figli di ERA dovranno usare per affrontare
le contraddizioni nella loro esistenza. MNEMOSINE
è il conoscere le cose attraverso le quali il soggetto
prende le decisioni nelle quali esercita la propria
volontà. Esercitando la propria volontà il soggetto
sceglie i migliori adattamenti per costruire sé
stesso.
Fu amata dal nipote Zeus, che le si presentò sotto
forma di pastore.
Mnemosine e Zeus giacquero insieme per nove notti
sul monte Pierio e dopo un anno nacquero nove figlie:
le Muse.
Attraverso MNEMOSINE si aprono dei "canali di passione"
con i quali collegare il singolo Essere alla MNEMOSINE
universale. Questi "canali di passione" quando praticati
dall'Essere della Natura e dall'Essere Umano, travolgono
come una valanga emozionale l'Essere figlio di ERA.
Questa Coscienza di Sé sono le MUSE!
Esiodo elenca nove muse. Ogni MUSA è un "canale
di passione" capace di condurre l'Essere Umano che
la evoca fuori dai confini della ragione. E' un
canale che può portare l'Essere Umano nell'infinito
collegandolo alla MNEMOSINE che figlia di URANO
STELLATO e GAIA fa risuonare tutte le voci dell'infinito.
Le mani, le passioni e l'intuire è la triade attraverso
la quale gli Esseri Umani possono riuscire ad uscire
dalla ragione e giungere nell'infinito che li circonda.
La mani, le passioni e l'intuire portano a praticare
l'impeccabilità dell'individuo che chiama la MUSA
a sorreggere il suo cammino di uscita dalla ragione.
Proviamo ad elencare le MUSE nominate da Esiodo:
CLIO, EUTERPE, TALIA, MELPOMENE, TERSICORE, ERATO,
POLIMNIA, URANIA e CALLIOPE. Quale di queste MUSE
è la più importante? Quella praticata dal singolo
individuo! Quella che emerge dentro la singola persona,
diversa da ogni persona e praticata in maniera soggettiva!
Sotto il regno
di Crono la terra conobbe l'età dell'oro, ma la sua
tranquillità fu minata da un triste vaticinio: gli fu
infatti predetto che il suo regno avrebbe avuto fine
per mano di uno dei suoi figli. Terrorizzato, per tentare
di ingannare il destino iniziò a divorare i suoi figli
non appena nascevano, tenendoli così prigionieri nelle
sue viscere.
Rea, disperata, subito dopo la nascita del suo ultimogenito
Zeus, si recò da Crono e anziché presentargli il figlio,
gli consegnò un masso avvolto nelle fasce che Crono
ingoiò senza sospettare nulla.
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IL REGNO DI ZEUS
Nel frattempo
il piccolo Zeus era stato portato in una caverna del
monte Ida nell'isola di Creta e affidato alle cure della
ninfa Amaltea che possedeva una capra che aveva due
capretti la quale costituiva l'orgoglio del suo popolo
per le superbe corna ricurve all'indietro e per le mammelle
ricche di latte, degne di allattare il grande Zeus.
Un giorno la capra si spezzò un corno urtando contro
un albero perdendo metà della sua bellezza. Il corno
fu raccolto da Amaltea che lo ricolmò di frutta ed erbe
e lo donò a Zeus. Zeus una volta diventato il re degli
dei, pose Amaltea fra le costellazioni e rese fecondo
il corno che ancor oggi porta il suo nome, cornucopia
(dal latino "cornu=corno" e "copia = abbondanza").
Anche l'ape Panacride nutriva Zeus dandogli il miele
ed un'aquila gli portava ogni giorno il nettare dell'immortalità.
I suoi pianti erano coperti dai Cureti che battevano
il ferro per impedire ad alcuno di sentire i suoi vagiti.
La conquista del regno celeste:
Titanomachia. Quando Zeus fu grande, salì in
cielo e con l'inganno fece bere a Crono una speciale
bevande preparata da Metis che gli fece vomitare i figli
che aveva divorato e dopo ciò dichiarò guerra al padre
per impossessarsi del suo scettro. I Titani si schierarono
al fianco del fratello Crono da cui ne scaturì una guerra
chiamata Titanomachia.
Ebbe così inizio una lunga guerra che durò dieci anni
che vide da una parte Crono, al cui fianco si schierarono
i Titani e dall'altra Zeus, al cui fianco c'erano i
suoi fratelli Poseidone e Ade.
Entrambe le parti si battevano senza esclusione di colpi.
La terra era devastata dai Titani che con la loro forza
cambiavano i contorni della terra, distruggendo montagne
scagliandole nell'Olimpo, il monte più alto della Grecia,
dove Zeus ed i suoi fratelli avevano stabilito il proprio
regno.
La guerra sarebbe andata avanti ancora per parecchio
tempo se Gea non fosse intervenuta per consigliare a
Zeus di liberare i Ciclopi e stringere un'alleanza con
loro. I Ciclopi, per ripagare Zeus di avergli reso la
libertà fabbricarono per lui le armi che sarebbero entrate
nella leggenda e con le quali avrebbe retto il suo regno
dalla cima dell'Olimpo: le folgori.
Zeus liberò anche gli Ecatonchiri, che con le loro cento
braccia iniziarono a scagliare una quantità infinita
di massi contro gli alleati di Crono che assieme alle
folgori scagliate da Zeus, decretarono la vittoria finale.
Sulla sorte che Zeus fece fare al padre Crono ci sono
diverse ipotesi. Secondo alcuni fu condotto a Tule e
sprofondato in un magico sonno. Secondi altri, Crono
viene liberato dalle catene, riconciliato con Zeus e
dimorante nelle Isole dei Beati. Questa tradizione considera
Crono come un re buono, il primo che abbia regnato sul
cielo e sulla terra, e generò le leggende dell'Età dell'Oro.
Si narrava in Grecia che in tempi lontanissimi egli
regnasse ad Olimpia su un mondo felice di pace e abbondanza.
Presso i Romani - dove Crono fu assimilato a Saturno
(pur essendo, questi, una divinità di origine propriamente
italica) - si favoleggiava della beata Età dell'Oro
e si poneva il trono del dio, costruito da Romolo stesso,
sul Campidoglio.
Certa è invece la sorte che fu destinata ai Titani:
furono incatenati nel Tartaro, e la loro custodia fu
affidata agli Ecantonchiri.
Gli antichi per spiegare la causa dei terremoti, immaginavano
i Titani sprofondati nelle viscere della terra, schiacciati
da montagne e isole ed i loro tentativi di liberarsi
sarebbero la causa dei terremoti.
Da un dialogo (Luciano: Saturnali) tra Crono detronizzato
e vecchio, ed un suo sacerdote: " (…) Crono: Ti dirò.
In prima essendo vecchio e perduto di podagra (e questo
ha fatto creder al volgo che io ero incatenato) io non
potevo bastare a contenere la gran malvagità che c'è
ora: quel dover sempre correre su e giù, a brandire
il fulmine, e folgorare gli spergiuri, i sacrileghi,
i violenti, era una fatica grande e da giovane; onde
con tutto il mio piacere la lasciai a Zeus. Ed ancora
mi parve bene di dividere il mio regno tra i miei figlioli,
ed io godermela zitto e quieto , senza aver rotto il
capo da quelli che pregano e che spesso domandano cose
contrarie, senza dover mandare i tuoni, i lampi e talora
i rovesci di grandine. E così da vecchio meno una vita
tranquilla, fo buona cera, bevo del nettare più schietto,
e fo un po' di conversazioncella con Giapeto e con altri
dell'età mia; ed egli si ha il regno e le mille faccende.
(…)"
Terminava così il regno di Crono, secondo sovrano della
divina famiglia e aveva inizio quella di Zeus, terzo
sovrano e figlio suo.
Zeus, dopo la sconfitta del padre Crono ed avere precipitato
gli alleati del padre, i Titani, nel Tartaro, regnava
sereno sulla stirpe divina e sugli uomini.
(Omero: Iliade, VIII, 3)
"Su l'alto Olimpo il folgorante Giove
Tenea consiglio. Ei parla e riverenti
stansi gli Eterni ad ascoltar: M'udite
Tutti ed abbiate il mio voler palese;
E nessuno di voi, nè Dio nè Diva,
Di frangere s'ardisca il mio decreto;
Ma tutti insieme il secondate ...
... degli Dei son io
Il più possente ... "
La Gigantomachia
La gigantomachia è la guerra che i Giganti ingaggiarono
contro gli Dei dell'Olimpo, aizzati dalla loro madre
Gea e dai Titani incatenati.
Gea, si era recata infatti a Pallade, dove avevano dimora
i Giganti, suoi figli generati con Urano. Ad essi chiese
aiuto per muovere guerra contro Zeus. I Giganti, acconsentendo
alla richiesta della madre, forti anche della profezia
secondo la quale nessun immortale sarebbe stato in grado
di batterli, guidati da Porfirione, il più forte tra
loro e da Alcioneo, si recarono nell'Olimpo e iniziarono
quella che gli storici chiamarono GIGANTOMACHIA.
La profezia della loro invincibilità nei confronti degli
immortali era nota anche a Zeus, pertanto lo stesso
decise di far partecipare alla lotta, oltre a tutti
gli dei, anche il semidio Eracle (noto anche come Ercole),
suo figlio, generato assieme ad Alcmena .
I Giganti che parteciparono furono ventiquattro, altissimi
e terribili, con lunghi capelli inanellati e lunghe
barbe e code di serpenti a coprire i piedi. Per raggiungere
la vetta dell'Olimpo dovettero mettere tre monti uno
sopra l'altro.
Alcioneo ne fu il capo. Fu anche il primo che Eracle
abbatté. Fu la volta di Porfirione: riuscì quasi a strangolare
Era ma, ferito al fegato da una freccia di Eros, la
sua brama omicida si trasformò in lussuria e tentò di
violentare la dea. Zeus divenne pazzo di gelosia e abbatté
il gigante con una folgore. Eracle lo finì a colpi di
clava.
Efialte ebbe uno scontro con Ares che, sempre con l'aiuto
di Eracle, riuscì a trarsi in salvo. E la storia si
ripete con Eurito contro Dioniso, Clizio contro Ecate,
Mimante contro Efesto, Pallade contro Atena: alla fine
tocca sempre a Eracle dare il colpo di grazia.
Demetra ed Estia, donne pacifiche, stanno in disparte,
mentre le tre dispettose Moire scagliano pestelli di
rame da lontano.
Scoraggiati, i Giganti superstiti scappano. Atena riesce
a scagliare un grosso masso contro Encelado che crolla
in mare e diventa l'isola di Sicilia. Poseidone strappa
un pezzo a Coo e lo scaglia nel mare, dove diventa l'isola
di Nisiro, nel Dodecaneso. Ermes abbatte Ippolito e
Artemide Grazione, mentre i proiettili infuocati lanciati
dalle Moire bruciano le teste di Agrio e Toante.
Sileno, il satiro nato dalla Terra, si vantò di aver
fatto scappare i Giganti col raglio del suo asino, ma
Sileno era sempre ubriaco, e veniva accolto all'Olimpo
solo per ridere di lui.
Zeus contro Tifone
In realtà però, una nuova minaccia si affacciava all'orizzonte
che avrebbe portato Zeus ad intraprende un'ennesima
lotta contro un temibile nemico: Tifone.
Quando gli dei ebbero vinto i Giganti, Gea, ancora piu'
adirata, si unisce al Tartaro e, in Cilicia, partorisce
Tifone che aveva natura mista, di uomo e di bestia.
Per la statura e la forza,Tifone era superiore a tutti
i figli di Gea e non aveva eguali sulla terra.
La sua forza e la sua imponenza superavano di gran lunga
quelle di tutti i figli della Terra.
Fino alle cosce aveva una forma umana, ma di spaventosa
enormità: era più grande di tutte le montagne, e la
sua testa spesso sfiorava le stelle.
Le sue braccia aperte toccavano da una parte il tramonto
e dall'altra l'aurora, e terminavano con cento teste
di serpente.
Dalle cosce in giù, invece, aveva smisurate spire di
vipera: se le stendeva, gli arrivavano fino alla testa,
e producevano orrendi sibili.
Tutto il suo corpo era alato; un pelo irsuto gli ondeggiava
sulla testa e sulle guance, e gli occhi sprizzavano
fiamme.
Con tutta la sua mostruosa grandezza, Tifone si mise
a scagliare massi infuocati contro il cielo, fra urla
e sibili. Dalla bocca delle sue cento teste sgorgavano
torrenti di fuoco reso ancora più orribile dall'ira
che lo animava. Così spaventoso e così enorme era Tifone
quando sferrò il suo attacco contro lo cielo. Quando
gli dei videro che assaliva il cielo, la sorpresa e
lo spavento fu tale che andarono a rifugiarsi in Egitto,e
poiché lui li inseguiva,si trasformarono in animali
(Apollo in corvo, Artemide in gatta, Afrodite in pesce,
Ermes in cigno, ecc.), lasciando da solo Zeus ad affrontarlo.
Il combattimento fu lungo. Zeus dapprima iniziò a scagliare
le sue folgori, poi, mano mano che Tifone si avvicinava,
lo colpì ripetutamente con la falce. Il mostro sembrava
vinto ma quando Zeus si avvicinò per scagliare il colpo
mortale, fu afferrato da Tifone per le gambe ed immobilizzato.
Tifone fu rapido a strappargli la falce con la quale
gli recise i tendini delle mani e dei piedi.
Zeus era vinto.
Tifone decise quindi di nascondere Zeus in Cilicia,
rinchiudendolo in una grotta chiamata Korykos, mentre
i suoi tendini, deposti in una sacca di pelle d'orso,
li affidò alla custodia della dragonessa Delfine, metà
fanciulla e metà serpente.
Il suo destino sarebbe stato segnato, quando Ermes,
figlio di Zeus, ripresosi dallo spavento decise di reagire.
Rubò la sacca a Delfine e trovata la grotta dove era
stato imprigionato il padre, lo liberò e lo curò rendendolo
nuovamente forte e potente.
Zeus, iniziò allora una nuova aspra e dura lotta contro
Tifone, che riuscì a sconfiggere scagliandogli addosso
l'isola di Sicilia e ad imprigionarlo sotto il monte
Etna, dove ancora giace. Le eruzioni del vulcano altro
non sarebbero che le fiamme scagliate da Tifone per
la rabbia di essere stato vinto.
(Ovidio: Metamorfosi 346-358): "(...) la vasta isola
della Trinacria si accumula sulle membra gigantesche,
e preme, schiacciando con la sua mole Tifone, che osò
sperare una dimora celeste. Spesso, invero, egli si
sforza e lotta per rialzarsi, ma la sua mano destra
è tenuta ferma dall'Ausonio Peloro, la sinistra da Pachino;
i piedi sono schiacciati dal (Capo) Lilibeo, l'Etna
gli grava sul capo. Giacendo qui sotto, il feroce Tifone
getta rena dalla bocca e vomita fiamme. Spesso si affatica
per scuotersi di dosso il peso della terra, e per rovesciare
con il suo corpo le città e le grandi montagne. Perciò
trema la terra, e lo stesso re del mondo del silenzio
teme che il suolo si apra e si squarci con larghe voragini."
Dopo questa ennesima lotta sostenuta da Zeus, seguì
un nuovo periodo di tranquillità. Gli dei fecero ritorno
all'Olimpo dove Zeus aveva stabilito la loro dimora.
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POSEIDONE (Nettuno)
Poseidone (Nettuno per i Romani) era, nella mitologia
ellenica, il dio del mare, della navigazione, delle
tempeste e dei terremoti. Con Zeus e Ade s'era diviso
il regno di Crono, Poseidone fu uno degli dei più potenti
dell'Olimpo.
Abitava negli abissi del mare Egeo, presso la Tracia,
in una casa rilucente d'oro. Andava per mare ritto su
di un cocchio d'oro e con un tridente nella mano destra
come simbolo di comando, trainato da cavalli marini
che galoppavano sul pelo dell'acqua, mentre tutte le
creature marine accorrevano gioiose, tributando un caldo
saluto al loro signore.
Aveva per attributi il tridente, regalo dei ciclopi,
il toro, il delfino ed il cavallo che avrebbe addomesticato.
Nelle sue vaste stalle vi erano cavalli bianchi dalla
criniera d'oro e dagli zoccoli di bronzo; vi era pure
un carro d'oro con cui comandava ai mostri marini ed
alle tempeste.Il culto di Poseidone era molto importante
nell'antica Grecia perché i greci erano per lo più pescatori
e marinai. Era inoltre considerato anche il dio dei
terremoti che provocava sbattendo il suo formidabile
tridente.
A Poseidone/Nettuno era sacro anche il delfino, sempre
apprezzato dai marinai in quanto il suo apparire era
segno di mare calmo e, quando nuotava vicino alle imbarcazioni,
si riteneva che contribuisse a mantenerle in rotta.
I Greci, grandi navigatori, ovviamente avevano un particolare
culto per la massima divinità marina. Non vi fu luogo
o città della Grecia dove non venissero innalzate statue
o templi per il dio che squassava le onde col tridente.
Gli fu costruito un tempio sull'istmo di Corinto e là
si svolgevano i giochi Istmici, ai quali accorrevano
tutti i Greci. Gli si intitolavano anche città, come
Paestum, nell'Italia meridionale, che nacque come Posidonia,
ossia città di Poseidone.
I marinai rivolgevano preghiere a Poseidone perché concedesse
loro un viaggio sicuro e talvolta come sacrificio annegavano
dei cavalli in suo onore. Quando mostrava il lato benigno
della sua natura Poseidone creava nuove isole come approdo
per i naviganti ed offriva un mare calmo e senza tempeste.
Quando invece veniva offeso e si sentiva ignorato allora
colpiva la terra con il suo tridente provocando mari
tempestosi e terremoti, annegando chi si trovasse in
navigazione ed affondando le imbarcazioni.
E al dio delle acque era stata consacrata anche una
pianta: il pino. Le navi erano infatti quasi interamente
costruite con tavole di legno di pino (o di cedro del
Libano), considerato il migliore per la loro realizzazione.
Veniva onorato il 23 luglio, con le festività dei Neptunalia,
a cui furono poi uniti i ludi Neptunialicii (dal III
secolo a.C.) Il suo tempio si trovava al Circo Flaminio
all'interno del Campo Marzio a Roma. Nella mitologia
Romana aveva una divinità associata (paredra) detta
a volte Salacia a volte Venilia.
In onore al Dio Nettuno, vi è anche la città di Nettuno,
nella provincia di Roma nel Lazio.
Avendo cospirato con Era e Apollo contro Zeus, venne
punito ed esiliato nella Troade al servizio di Laomedonte.
Questi gli negò il compenso pattuito per la costruzione
delle mura della città. Poseidone, irato, fece scaturire
dal mare un mostruoso drago. Per placarlo, il re dovette
esporre la figlia Esione per essere divorata dal mostro.
La giovane fu salvata e liberata da Eracle che uccise
il mostro.
Per punizione per aver offeso Zeus, Poseidone ed Apollo
furono mandati a servire il re di Troia Laomedonte:
questi disse loro di costruire un'enorme cinta muraria
che corresse tutt'attorno alla città, promettendo di
ricompensarli per questo servizio, ma poi non mantenne
la parola data. Per vendicarsi, Poseidone mandò ad attaccare
la città un mostro marino che però venne ucciso da Eracle.
Dall'umore instabile come il mare era ora sorridente
e benevolo ora burrascoso e violento, con il suo tridente
aveva il potere di rendere il mare calmo o agitato.
poteva cambiare forma a suo piacimento: simbolo dell'incostanza
del mare.
Le sue contese con altre divinità si spiegano col fatto
che egli era anche dio delle acque terrestri, prima
che il suo regno fosse ridotto al solo mare.
Atena era in competizione con Poseidone per diventare
la divinità protettrice della città di Atene che, all'epoca
in cui si svolge questa leggenda, ancora non aveva un
nome. Si accordarono in questo modo: ciascuno dei due
avrebbe fatto un dono agli Ateniesi e questi avrebbero
scelto quale fosse il migliore, decidendo così la disputa.
Poseidone piantò al suolo il suo tridente e dal foro
ne scaturì una sorgente. Questa avrebbe dato loro sia
nuove opportunità nel commercio che una fonte d'acqua,
ma l'acqua era salmastra e non molto buona da bere.
Secondo altre versioni Poseidone offrì invece il primo
cavallo Atena invece offrì il primo albero di ulivo
adatto ad essere coltivato. Gli Ateniesi scelsero l'ulivo
e quindi Atena come patrona della città, perché l'ulivo
avrebbe procurato loro legname, olio e cibo. Si pensa
che questa leggenda sia sorta nel ricordo di contrasti
sorti nel periodo Miceneo tra gli abitanti originari
della città e dei nuovi immigrati.
Poseidone, avido di regni terrestri, un giorno rivendicò
l'Attica piantando il suo tridente nell'acropoli di
Atene facendo scaturire, immediatamente, un pozzo d'acqua
salata che vi si trova ancora. Più tardi, durante il
regno di Cecrops, arrivò Atena venne e si installò in
modo più piacevole piantando il primo ulivo vicino al
pozzo. Poseidone, furioso, la sfidò in combattimento
ed Atena era pronta ad accettare se Zeus non si fosse
interposto e non avesse ordinato loro di sottoporsi
ad un arbitrato. Zeus non emise un verdetto, ma tutti
gli altri dei sostennero Poseidone e tutte le dee sostennero
Atena. E così, a maggioranza di una voce, il tribunale
decretò che Atena aveva più diritti sul territorio perché
lo aveva dotato di un regalo più utile.
Poseidone contese ad Atena anche Trézène, una città
del Peloponneso; in quest'occasione Zeus diede l'ordine
che la città fosse divisa tra i due e ciò che fu sgradevole
all'uno ed all'altro.
Contese Corinto a Elios, ma ricevette soltanto l'istmo,
mentre l'acropoli restò ad Elios. Furioso, provò a prendere
a Era l'Argolide ed era pronto a combattere ancora,
rifiutando di apparire dinanzi ai suoi pari olimpici,
che, diceva, erano prevenuti contro lui. Di conseguenza,
Zeus sottopose l'affare ai dio-fiumi Inachos, Céphise
ed Asterione, e il giudizio che scaturì fu a favore
di Era.
Rivendica anche l'invenzione della briglia, benché Atena
l'abbia inventata prima di lui; ma non gli contestano
di avere istituito le corse dei cavalli.
Poseidone fu allevato dai Telchini di Rodi e si unì
alla loro sorella Alia, che gli dette sei maschi e,
secondo alcune tradizioni, anche la figlia Rodo, da
cui il nome dell'isola di Rodi. Afrodite fece impazzire
i figli, inducendoli ad attentare alla propria madre,
per cui Poseidone li precipitò nei visceri della terra
con un colpo di tridente.
Glauco è una figura della mitologia greca, figlio di
Poseidone e di una Naiade.
Come il padre fu una divinità del mare. La sua figura
appare ne Le Argonautiche di Apollonio Rodio e nelle
Metamorfosi (libro XIII) di Ovidio.
Secondo la leggenda, nacque umano, praticò l'attività
di pescatore, la sua immortalità e la sua natura di
divinità marina derivarono da un'erba magica. Il suo
corpo mutò sembianze, assumendo una forma di coda di
pesce nella parte inferiore.
Si ricordano i suoi amori, da quello per Scilla fino
al tentativo di circuire Arianna. Glauco cercò di sedurre
Scilla senza successo, impedito da Circe che lo coprì
di ridicolo.
Poseidone, innamoratosi di Anfitrite, una delle Nereidi
figlie di Nereo e di Doride, la chiese in sposa ma la
fanciulla intimorita, per timidezza fuggì via nascondendosi
nelle acque dell'Oceano, oltre le colonne d'Ercole.
Il dio inviò, allora, un delfino alla sua ricerca e
ritrovatala la convinse alle nozze. La novella sposa,
gelosa di Scilla la mutò in un mostro dai dodici piedi
e dalle sei bocche che divoravano i marinai che attraversano
lo Stretto di Messina.
Da Anfitrite ebbe figli Tritone, Bentesecime e una figlia
di nome Roda (spesso confusa con Rodo), poi moglie di
Elio, dio del Sole.
Da Eurite Poseidone ebbe il figlio Alirrozio, protagonista
di due diverse versioni del mito: secondo la prima,
tentò di usare violenza ad Alcippe figlia del dio Ares,
che quindi lo uccise; secondo l'altra, Alirrozio si
adirò perché l'Attica era stata destinata ad Atena anziché
al padre Poseidone e, per rappresaglia, cercò di recidere
l'ulivo che la dea aveva donato a quella regione; ma
l'ascia gli cadde dalle mani e gli tagliò la testa.
Da Ifimedia, figlia di Triope, ebbe i giganti Oto ed
Efialte, detti Aloadi, che crescevano in modo smisurato:
quando raggiunsero l'altezza di quasi venti metri decisero
di assaltare l'Olimpo e dare battaglia agli dei, manifestando
l'intenzione di prosciugare il mare, riempiendolo di
massi, e di allagare la terra. Suscitarono quindi le
ire divine e, secondo una versione, furono fulminati
da Zeus; secondo un'altra, furono uccisi con l'inganno
da Artemide, che assunse le forme di una cerbiatta e
si slanciò tra i due, che si trafissero a vicenda nella
fretta di colpirla.
Amò anche Alope figlia di Cercione, contro il volere
del padre di lei, ed ebbe un figlio che fu abbandonato
dalla nutrice nella foresta. Poseidone mandò una giumenta,
animale a lui sacro, per allattare il bambino che, dopo
diverse disavventure, fu allevato da un pastore e chiamato
Ippotoo, poi capostipite della tribù degli Ippotoontidi.
Alope fu invece messa a morte da Cercione e fu trasformata
in fonte da Poseidone.
Secondo una diversa versione del mito, Poseidone era
padre dello stesso Cercione re di Eleusi e possedeva
forza e crudeltà smisurate: costringeva alla lotta i
viandanti e poi squartava i vinti, legandoli alle cime
ravvicinate di alberi opposti, che poi rilasciava, provocando
così lo smembramento delle sue vittime. Fu ucciso da
Teseo.
Eufemo, nato da Poseidone e da Europa, eccelleva nella
corsa al punto da poter scivolare sulle acque senza
bagnarsi i piedi.
Secondo alcuni mitografi, succedette a Tifi come pilota
della nave Argo e prese parte alla caccia contro il
Cinghiale Calidonio, figlio della scrofa Fea. Era questi
grande come un toro, con setole acuminate come dardi,
zanne lunghe come falci e alito che uccideva chiunque
lo respirasse. Fu mandato da Artemide a devastare il
paese di Oeneo, re di Calidone.
Una delle figlie di Poseidone, Lamia, fu amata da Zeus
e mise al mondo la Sibilla Libica. Le Sibille erano
profetesse rivelatrici degli oracoli di Apollo, e molte
sono le sacerdotesse con questo nome e le leggende che
le riguardano. Secondo una delle tante storie, la prima
profetessa fu appunto la figlia di Lamia, chiamata Sibilla
dai Libici.
Una donna mortale di nome Tiro, discendente di Eolo,
era sposata con Creteo (dal quale aveva avuto un figlio,
Esone), ma era innamorata di Enipeo, una divinità fluviale:
la donna si offrì ad Enipeo che però la rifiutò. Un
giorno Poseidone, incapricciatosi di Tiro, assunse le
sembianze di Enipeo e dalla loro unione nacquero i due
gemelli Pelia e Neleo. Abbandonati alla nascita dalla
madre, furono nutriti dalla giumenta inviata da Poseidone,
cui l'animale era consacrato. Secondo una leggenda,
Pelia fu colpito da un calcio della giumenta che gli
deturpò il volto, da cui il suo nome, derivato dal greco
pelion, cioè "livido". Diventati adulti, i due gemelli
ritrovarono la madre, soggetta alle angherie della propria
matrigna Sidero; Pelia uccise quest'ultima, nonostante
ella si fosse rifugiata nel tempio di Era, e tale sacrilegio
fu la causa della sua morte, dopo una vita lunga e densa
di fatti e misfatti.
Dalla ninfa Satiria - considerata figlia di Minosse,
re di Creta - Poseidone ebbe Taranto, eponimo della
città omonima, mentre il nome di lei fu dato al locale
Capo Satirione. Così si giustifica la tradizione che
attribuisce origini cretesi alla città di Taranto.
Amico - il Gigante nato anch'egli dal dio del mare,
che aveva inventato il pugilato e il cesto, e regnava
sui Bebrici in Bitinia - metteva a morte, prendendoli
a pugni, gli stranieri che approdavano nella sua terra.
Quando vi sbarcarono gli Argonauti egli li sfidò in
combattimento; Polluce accettò la sfida e, con la sua
prontezza e abilità, riuscì vincitore sulla violenza
del gigante. La posta della lotta era che il vincitore
avrebbe ucciso l'avversario, ma Polluce si contentò
di far promettere ad Amico, vincolandolo con un solenne
giuramento, di rispettare in futuro gli stranieri.
I poemi omerici ci narrano di Poseidone che insieme
ad Apollo costruì le mura inespugnabili di Troia, per
ricompensare il re Laomedonte della sua ospitalità.
Nell'Odissea Poseidone svolge un ruolo importante a
causa del suo odio e irriducibile ira nei confronti
di Ulisse, che gli aveva accecato il figlio Polifemo.
L'inimicizia di Poseidone nei suoi confronti impedisce
per molti anni ad Odisseo di fare ritorno ad Itaca nel
lungo viaggio di ritorno in patria, malgrado gli interventi
a favore del suo protetto di Atena e dello stesso Zeus.
Demetra era alla ricerca di sua figlia Persefone, stancata
e scoraggiata dalla sua ricerca era poco pronta trattare
innamoramenti con nessun dio o Titano, allora si trasformò
in giumenta ed andò nutrirsi con il gregge di un certo
Oncos, figlio di Apollo che regnava a Oncéion in Arcadia.
Ma non riuscì ad ingannare Poseidone, che si trasformò
anch'egli e venne a congiungersi ad essa; da quest'unione
nacquero la ninfa Despoena ed il cavallo selvaggio Aerione.
Argolide fu essiccata da Poseidone, furioso che questo
territorio che ambiva gli era stato rifiutato. Fu allora
che Amymoné ricevette da suo padre Danaos l'ordine di
scoprire una fonte per dissetare la popolazione e soprattutto,
con la sua condotta, di non dispiacere a Poseidone.
Ma, in cammino, incontrò un satiro che tentò di violentarla
e chiamò Poseidone che cacciò l'imprudente lanciandogli
il suo tridente; l'arma si piantò in una roccia da cui
scaturì, immediatamente, una fonte limpida e fresca
che Amymoné supplicò di lasciare scorrere. Poseidone,
che si era innamorato, acconsentì a condizione che la
giovane donna si fosse data a lui; Amymoné non esitò
un solo momento e da quest'unione nacque Nauplios.
Figlio di Poseidone e della Pleiade Alcione è Irieo,
padre di Orione e re di Iria, città della Beozia. Secondo
altre leggende, Irieo era invece un umile contadino
che, per aver accolto nella sua capanna Zeus, Poseidone
ed Ermes, fu premiato con l'esaudimento di un desiderio.
Chiese pertanto un figlio, che gli dei fecero nascere
fecondando la pelle del bue sacrificato in loro onore.
Quel figlio fu Orione.
Secondo altre versioni, il gigantesco cacciatore Orione
era invece figlio dello stesso Poseidone e di Euriale.
Accolto nei cieli in forma di costellazione, era apportatore
di pioggia. Dice Virgilio (Eneide, I, 873-877, nella
trad. di A. Caro): "... quando / Orion tempestoso i
venti e 'l mare / Sì repente commosse, e mar sì fero
/ Venti sì pertinaci, e nembi e turbi / Così rabbiosi
..." Così pure Parini (La caduta,-4): "Quando Orion
dal cielo / Declinando imperversa, / E pioggia e nevi
e gelo / Sopra la terra ottenebrata versa, / ...".
Poseidone ebbe un rapporto sessuale con Medusa sul pavimento
del tempio di Atena che, per vendicarsi dell'affronto,
trasformò la Gorgone in un mostro. Quando, tempo dopo,
fu decapitata dall'eroe Perseo dal suo collo emersero
il cavallo alato Pegaso ed il gigante Crisaore.
con Melanto si unì sotto forma di delfino, da cui il
nome Delfo del figlio; e suoi figli sembrano essere
anche i Lestrigoni, giganti antropofagi che attaccarono
le navi di Ulisse, quindi collocati tra il Lazio e la
Campania.
Figlio suo è anche l'aggressivo gigante Anteo figlio
di Gea (o Gaia, la Madre Terra) che costringeva tutti
coloro che attraversavano la sua terra - la Libia o
il Marocco - a lottare con lui. Dopo averli vinti e
uccisi, con i loro crani ornava il tempio dedicato a
Poseidone. Era invulnerabile finché toccava con i piedi
la madre Terra che gli infondeva rinnovato vigore, ma
Eracle, durante il suo passaggio in Libia, riuscì ad
averne la meglio, sollevandolo sulle spalle.
Da Lisianassa Poseidone ebbe Busiride che figura nella
leggenda come re d'Egitto, posto sul trono da Osiride
quando questi intraprese il viaggio intorno alla terra.
Tuttavia il suo nome non compare nelle dinastie faraoniche
e potrebbe essere una deformazione di "Osiride".
Era un tiranno crudele, colpevole di molti misfatti,
al quale l'indovino cipriota Frasio aveva vaticinato
che solo il sacrificio di un forestiero, una volta l'anno,
avrebbe allontanato la carestia che si era abbattuta
sull'Egitto. Il vate fu quindi la prima vittima e lo
stesso Eracle, transitando per il Paese, fu catturato
e destinato al sacrificio, ma riuscì a sciogliersi dai
vincoli e a riacquistare la libertà, dopo aver ucciso
Busiride e tutti i sacerdoti.
Secondo una leggenda era figlio di Poseidone - e non
di Oceano, come tutti i fiumi - anche Acheloo, dio del
fiume omonimo, oggi Aspropotamo. Come dio-fiume aveva
il potere di assumere qualunque forma e quindi si trasformò
in serpente e poi in toro per combattere Eracle quando
questi chiese in moglie Deianira, già sposata con Acheloo.
Nella lotta che ne seguì, Eracle gli strappò un corno
e Acheloo si dichiarò vinto; rinunciò a Deianira e donò
al rivale il proprio corno che, consacrato a Copia,
dea dell'abbondanza (cornu copiae), acquistò il potere
di elargire fiori e frutti in quantità. Mutilato e sconfitto,
Acheloo si gettò nel fiume, che prese il suo nome.
Legato al ciclo di Eracle è un altro figlio di Poseidone,
chiamato Sileo, che aveva per fratello Diceo, ossia
"il Giusto", cioè di nome e di fatto l'opposto del fratello.
Questi era infatti il crudele padrone di una vigna,
in Tessaglia, e costringeva i passanti a lavorare per
lui, prima di metterli a morte. Eracle, ricevuto l'ordine
di punire Sileo, si mise al suo servizio ma, invece
di accudire le viti, devastò la vigna e uccise lo stesso
Sileo con un colpo di zappa. Poi si innamorò della figlia
di lui e la sposò ma, di lì a poco, dovette assentarsi
e la giovane morì per il dolore del distacco. Lo stesso
Eracle fu trattenuto a forza dal gettarsi sulla pira
funebre dell'amata moglie.
Con Afrodite ebbe figli: Rodo, Erice, Erofilo
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ADE
Ade era figlio di Crono e di Rea, e i suoi fratelli
e sorelle erano Estia, Demetra, Era, Zeus e Poseidone.
Secondo il mito venne divorato dal padre insieme ai
suoi fratelli e sorelle.
Ade partecipò alla Titanomachia, nell'occasione in cui
i Ciclopi gli fabbricarono la kunée, un copricapo magico
in pelle d'animale che gli permetteva di diventare invisibile:
si poté introdurre così segretamente nella dimora di
Crono rubandogli le armi e, mentre Poseidone minacciava
il padre col tridente, Zeus lo colpì con la folgore.
In seguito, ricevette la sovranità del mondo sotterraneo
e degli Inferi, quando l'universo fu diviso con i suoi
due fratelli Zeus e Poseidone, che ottennero rispettivamente
il regno dell'Olimpo e del mare.
Viene annoverato saltuariamente fra le divinità olimpiche,
nonostante questo sia contrario alla tradizione canonica;
Ade è d'altra parte assai poco presente nella mitologia,
essendo essenzialmente legato ai racconti mitologici
legati agli eroi: Orfeo, Teseo ed Eracle sono tra i
pochi mortali ad averlo incontrato. Inoltre la tradizione
lo vuole riluttante ad abbandonare il mondo dell'aldilà:
le uniche due eccezioni si ricordano per il rapimento
di Persefone e per ricevere alcune cure dopo essere
stato ferito da una freccia di Eracle.
Nella mitologia latina inizialmente Plutone è definito
Signore degli Inferi, e solo successivamente Signore
dell'Ade. Altro termine utilizzato è Averno, nome del
lago dal quale si può accedere agli inferi.
La leggenda lo vuole padrone delle greggi solari, al
pascolo nell'isola Erizia, la cosiddetta isola rossa,
dove il Sole muore quotidianamente. Il pastore era chiamato
Menete.
Persefone:
Ade, innamorato di Persefone, la rapì con l'accordo
di Zeus mentre stava raccogliendo dei fiori in compagnia
delle ninfe, secondo il mito nelle attuali pianure di
Enna. Sua madre, Demetra, disperata per la scomparsa
della figlia, la cercò per nove giorni arrivando fino
alle regioni più remote: il decimo giorno, con l'aiuto
di Ecate ed Elio, seppe che il rapitore era il dio degli
Inferi. Adirata, Demetra abbandonò l'Olimpo e scatenò
una tremenda carestia in tutta la terra, affinché questa
non offrisse più i suoi frutti ai mortali e agli dei.
Zeus tentò allora di riconciliare Ade e Demetra, affinché
si evitasse la fine del genere umano: inviò il messaggero
Ermes al fratello, ordinandogli di restituire Persefone,
a patto che ella non si fosse cibata del cibo dei morti.
Ade non si oppose all'ordine ma, poiché Persefone era
effettivamente digiuna dal rapimento, la invitò a mangiare
prima di tornare dalla madre: le offrì così un melograno,
frutto proveniente dagli Inferi, in dono. In procinto
di mettersi sulla via di Eleusi, uno dei giardinieri
di Ade, Ascalafo, la vide mangiare pochi grani del melograno:
in questo modo si compì dunque il tranello ordito da
Ade, affinché Persefone restasse con lui negli Inferi.
Allo scatenarsi nuovamente dell'ira di Demetra, Zeus
propose un nuovo accordo, per cui, dato che Persefone
non aveva mangiato un frutto intero: sarebbe rimasta
nell'oltretomba solamente per un numero di mesi equivalente
al numero di semi da lei mangiati, potendo così trascorrere
con la madre il resto dell'anno; avrebbe trascorso così
sei mesi con il marito negli Inferi, e sei mesi con
la madre sulla terra. La proposta fu accettata da entrambi,
e da quel momento si associarono la primavera e l'estate
ai mesi che Persefone trascorreva in terra dando gioia
alla madre, e l'autunno e l'inverno ai mesi che passava
negli Inferi, durante i quali la madre si struggeva
per la figlia.
Menta e Leuce:
Secondo Ovidio e Strabone, Ade tentò di approfittarsi
della ninfa Menta. Persefone, gelosa del marito, si
dispiacque dell'unione e si infuriò quando Menta proferì
contro di lei minacce spaventose e sottilmente allusive
alle proprie arti erotiche molto sviluppate. Persefone,
sdegnata, la fece a pezzi: Ade le consentì di trasformarsi
in erba profumata, la menta, ma Demetra la condannò
alla sterilità, impedendole di produrre frutti.
Leuce, un'altra ninfa figlia di Oceano, fu rapita da
Ade e trasformata da Persefone in pioppo bianco presso
la fontana della Memoria.
Per Ade si sacrificavano, unicamente nelle ore notturne,
pecore o tori neri, e coloro che offrivano il sacrificio
voltavano il viso: secondo Omero, infatti, Ade era il
più ripugnante degli dei. Il suo culto non era molto
sviluppato ed esistono poche statue con sue raffigurazioni.
Dei pochi luoghi di culto a lui dedicati, il solo degno
di nota è Samotracia, mentre si suppone ne esistesse
un secondo situato nell'Elide, a nord ovest del Peloponneso;
è possibile che un altro centro del suo culto si trovasse
ad Eleusi, strettamente connesso con i misteri locali.
Euripide indica che Ade non riceveva libagioni rituali.
Veniva solitamente rappresentato come un uomo maturo,
barbato e feroce, spesso seduto su un trono e dotato
di una patera e di uno scettro, con il cane a tre teste
protettore degli Inferi, Cerbero. A volte si trovava
anche un serpente ai suoi piedi. Indossa molto spesso
un elmo, oppure un velo che gli copre il volto e gli
occhi.
Si hanno sue rappresentazioni in moltissimi contesti
ceramici, soprattutto nelle pìnakes di Locri Epizefiri.
Altri esempi si conoscono in alcuni affreschi della
Tomba dell'Orco (altro nome del dio) a Tarquinia, mentre
ad Orvieto se ne ha una raffigurazione all'interno della
Tomba Golini I. Per la Grecia si ricordano un trono
del Partenone attribuito a Fidia ed una base colonnare
da Efeso, più esattamente dal Tempio di Artemide. Nel
mondo romano i sarcofagi, soprattutto in età tardo antica,
usavano rappresentare il ratto di Proserpina e dunque
una raffigurazione del dio infernale.
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ERA
Considerata regina dell'Olimpo.Di
matronale bellezza, di impeccabili costumi, proteggeva
la castità del matrimonio e la santità del parto. Fu
dai Romani assimilata all'italica Giunone.
Figlia di Crono e di Rea, fu la terza ad essere stata
ingoiata dal padre.
Fu allevata nella casa di Oceano e Teti, e poi nel giardino
delle Esperidi. Zeus amava segretamente Era già dal
tempo in cui Crono regnava sui Titani, ma, come spesso
accade ai giovani, non sapeva come fare a dichiararle
il suo amore.
Particolare è il modo in cui fu sedotta da Zeus . Egli,
per conquistarla, scatenò un tremendo temporale e, trasformatosi
in cuculo, si lasciò bagnare per bene. Quando dopo la
pioggia la Dea decise di fare una passeggiatina vide
il povero uccellino e, commossa, lo prese in mano per
riscaldarlo. Come lo fece, Zeus assunse le sue vere
sembianze e la sedusse.
Sulla cima del monte Ida sposò Zeus. Era è la patrona
del matrimonio propriamente detto e rappresenta l'archetipo
simbolico dell'unione di uomo e donna nel talamo nuziale,
tuttavia non è certo famosa per le sue qualità di madre.
I figli legittimi nati dalla sua unione con Zeus sono
Ares, Ebe (la dea della giovinezza), Eris (la dea della
discordia) ed Ilizia (protettrice delle nascite).
Nei tempi più antichi la sua associazione più importante
era quella con il bestiame, come dea degli armenti,
venerata specialmente nell'isola Eubea detta "ricca
di mandrie". Il suo epiteto più comune nei poemi omerici,
"boopis", viene sempre tradotto "dall'occhio bovino"
dal momento che, come i Greci dell'età classica, la
nostra cultura rifiuta la più naturale traduzione "dal
volto di vacca" o "dall'aspetto di vacca": un'Era dalla
testa bovina come il Minotauro verrebbe percepita come
un oscuro e spaventoso demone. Tuttavia sull'isola di
Cipro sono stati trovati dei teschi di toro adattati
ad essere usati come maschera, il che suggerisce un
probabile antico culto dedicato a divinità con un simile
aspetto.
Era veniva ritratta come una figura maestosa e solenne,
spesso seduta sul trono mentre porta come corona il
"Polos", il tipico copricapo di forma cilindrica indossato
dalle dee madri più importanti di numerose culture antiche.
In mano stringeva una melagrana, simbolo di fertilità
e di morte usato anche per evocare, grazie alla somiglianza
della sua forma, il papavero da oppio. Omero la definiva
la Dea dagli occhi "bovini" per l'intensità del suo
regale sguardo. Le bastava agitarsi sul trono per fare
tremare l'Olimpo, al suo sposo Zeus, bastava aggrottare
le ciglia per avere lo stesso risultato.
Nelle raffigurazioni ellenistiche il carro di Era era
trainato da pavoni, una specie di uccello che in Grecia
è rimasta sconosciuta fino alle conquiste di Alessandro:
Aristotele, l'istitutore di Alessandro si riferiva a
quest'animale come all'"uccello persiano". Il motivo
artistico del pavone fu riportato molto più tardi, quando
si fusero tra loro le figure di Era e Giunone.In epoca
arcaica, un periodo durante il quale ad ogni dea dell'area
egea era associato il "suo" uccello, veniva associato
ad Era anche il cuculo che appare in alcuni frammenti
che raccontano la leggenda dei primi corteggiamenti
alla vergine Era da parte di Zeus.
L'importanza di Hera fin dall'età arcaica è testimoniata
dai grandi edifici di culto che vennero realizzati in
suo onore.
I templi di Era costruiti in due dei luoghi in cui il
suo culto fu particolarmente sentito, l'isola di Samo
e l'Argolide, risalgono al VIII secolo a.C. e furono
i primissimi esempi di tempio greco monumentale della
storia (si tratta rispettivamente dell'Heraion di Samo
e dell'Heraion di Argo).
Nella cultura greca classica, gli altari venivano costruiti
a cielo aperto. Era potrebbe essere stata la prima divinità
a cui fu dedicato un tempio dotato di un tetto chiuso,
che fu eretto circa nell'800 a.C. a Samo, e fu successivamente
sostituito dall'Heraion, uno dei templi greci più grandi
in assoluto. I santuari più antichi, per i quali vi
sono meno certezze circa la divinità a cui erano dedicati,
erano realizzati secondo un modello Miceneo chiamato
"casa-santuario". Gli scavi archeologici di Samo hanno
portato alla luce offerte votive, molte delle quali
risalenti al VIII e VII secolo a.C., che rivelano come
Era non fosse considerata soltanto una dea greca locale
di ambiente egeo: attualmente il museo raccoglie statuette
che rappresentano dèi, supplici e offerte votive di
altro tipo provenienti dall'Armenia, da Babilonia, dalla
Persia, dall'Assiria e dall'Egitto, a testimonianza
dell'alta considerazione di cui godeva questo santuario
e del grande flusso di pellegrini che attirava.
Era fu sempre fedele al suo sposo e fu perciò venerata
come simbolo della santità e della devozione coniugale.
Della sua fedeltà diede prova specialmente quando ISSIONE,
re dei Lapiti, invitato da Giove ad un banchetto tra
gli dei osò corteggiarla, tradendo così il sacro rispetto
dell'ospitalità e la stima di cui il re degli dei lo
aveva onorato.
La Dea infatti avvertì subito il marito, che, astutamente,
per cogliere sul fatto l'intraprendente e punirlo come
meritava, escogitò una insidia veramente singolare.
Prese una nuvoletta, le diede le forme e la fisionomia
di Giunone: si nascose poi fra le altre nuvole e attese
gli eventi. Di nulla sospettando, Issione cadde nel
tranello e, sorpreso da Giove mentre tentava con parole
di miele la bella nuvola, fu da lui condannato nel Tartaro
a girare su se stesso senza posa, per l'eternità, legato
a una ruota infuocata, spinta da venti furiosi. Dalla
nuvola di Issione Giove fece poi nascere i CENTAURI,
mostri dal corpo di cavallo con forma umana dal petto
in su, perché rimanesse il ricordo del suo tradimento.
A tanta fedeltà della moglie - come già si è detto -
non ne corrispondeva altrettanta da parte di Giove.
Da ciò l'ira continua di Giunone, che, superba, gelosa,
vendicativa, perseguitava spietatamente non solo le
Dee, le Ninfee e le donne amate da Giove, ma anche gli
innocenti figli che da loro nascevano. L'Olimpo spesso
tremava per i fragorosi litigi della coppia divina,
e guai a chi osava frapporsi!!!!
Così, quando da Giove e da ALCMENA, regina di Tebe,
nacque ERCOLE, Giunone lo perseguitò fin dalla nascita
mandando sulla sua culla due serpenti che lo uccidessero
(ma il prodigioso fanciullo li strozzò entrambi con
le proprie mani!), e poi costringendolo a servire il
re EURISTEO (che gli impose le famose dodici fatiche!)
nella speranza che morisse affrontando pericoli e mostri
di ogni genere.
Un'altra volta Giove s'innamorò di IO, giovane principessa
greca. Per fare in modo che nessuno, e in particolare
Giunone, sospettasse qualcosa, escogitò un nuovo stratagemma:
trasformò la giovinetta in giovenca. Giunone capì l'inganno
e astutamente… gliela chiese in dono. Giove, per non
tradirsi, fu costretto a stare al gioco: " Prendila
pure! E' tua! Di giovenche ce ne sono tante! ". La dea,
per nulla ingannata da quella faccia tosta, avuta la
Giovenca, la diede in custodia ad ARGO, un gigante che
aveva cento occhi, cinquanta dai quali, a turno, rimanevano
sempre spalancati quand'egli dormiva.
La partita sembrava ormai definitivamente chiusa a favore
di Giunone, sennonché Giove, per liberare la sua amata
giovenca, incaricò MERCURIO di addormentare completamente
il severo custode con una dolce, soporifera melodia
e poi di ucciderlo. Allora Giunone, furibonda, si vendicò
contro l'infelice Io per mezzo di un tafano che incominciò
a punzecchiarla tanto furiosamente, che la povera Giovenca
fu costretta ad una fuga precipitosa fino al lontano
Egitto, dove, finalmente, ad un tocco di Giove, riebbe
la figura umana e fu quindi venerata dagli Egizi come
una dea dal nome di ISIDE. Anche l'ira, di Giunone,
allora, si placò; ma la dea, non dimentica dei servigi
resi del fedelissimo e sfortunato Argo, volle che i
suoi cento occhi ornassero la coda del pavone a lei
sacro, che, come abbiamo già ricordato, con i suoi cangianti,
purissimi colori è il simbolo dell'incantevole cielo
stellato.
I suoi simboli sacri erano la vacca ed il pavone.
Moglie fedele e gelosa era famosa per perseguitare le
amanti ed i figli di Zeus e per non dimenticare mai
alcuna offesa.
Le vendette di Era venivano tramandate in varie leggende,
tra di esse probabilmente la più famosa è quella nei
confronti del principe troiano Paride che le aveva preferito
Afrodite in una gara di bellezza e che, per questa ragione,
aiutò i greci nella guerra di Troia finché la città
non venne distrutta.
Efesto:
Era, resa gelosa dal fatto che Zeus era diventato padre
di Atena senza di lei (infatti l'aveva avuta da Metide),
decise di per ripicca di mettere al mondo Efesto senza
la collaborazione del marito, semplicemente battendo
il suolo con la mano, un gesto di grande solennità nella
cultura greca antica. Rimasta però disgustata al vedere
la bruttezza di Efesto lo scagliò giù dall'Olimpo. Efesto
si vendicò del rifiuto subito dalla madre costruendole
un trono magico che, una volta che ella vi si sedette,
non le permise più di alzarsi. Gli altri dèi pregarono
più volte Efesto di tornare sull'Olimpo e liberarla,
ma egli rifiutò ripetutamente. Allora Dioniso lo fece
ubriacare e lo riportò sull'Olimpo incosciente, trasportandolo
con un mulo. Efesto accettò di liberare Era, ma solo
dopo che gli fu concessa in moglie Afrodite.
Eracle:
Era era la matrigna dell'eroe Eracle, nonché la sua
principale nemica. Quando Alcmena era incinta di Eracle,
Era tentò di impedirne la nascita facendo annodare le
gambe della puerpera. Fu salvata dalla sua serva Galantide
che disse alla dea che il parto era già avvenuto, facendola
desistere. Scoperto l'inganno, Era trasformò Galantide
in una donnola per punizione.
Quando Eracle era ancora un bambino, Era mandò due serpenti
ad ucciderlo mentre dormiva nella sua culla. Eracle
però strangolò i due serpenti afferrandoli uno per mano,
e la sua nutrice lo trovò che si divertiva con i loro
corpi come fossero giocattoli.
E fu per il suo accanimento, per la volta che scatenò
una tempesta contro l'eroe, che Zeus adirato la appese
nel cielo con un'incudine d'oro appesa ai piedi.
Una descrizione dell'origine della Via Lattea dice che
Zeus aveva indotto con l'inganno Era ad allattare Eracle:
quando si era accorta di chi fosse, l'aveva strappato
via dal petto all'improvviso e uno schizzo del suo latte
aveva formato la macchia nel cielo che ancor oggi possiamo
vedere (un'altra versione afferma che fu Ermes ad avvicinare
Eracle al seno di Era, che era addormentata, per fargli
bere il latte benedetto. A causa di un morso di Eracle,
però, la dea si sveglio e, per togliere il seno di bocca
ad Eracle, cadde una goccia del suo latte formando la
Via Lattea). Gli Etruschi dipinsero un Eracle adulto
e già con la barba attaccato al seno di Era.
Era fece in modo che Eracle fosse costretto compiere
le sue famose imprese per conto del re Euristeo di Micene
e, non contenta, tentò anche di renderle tutte più difficili.
Quando l'eroe stava combattendo contro l'Idra di Lerna
lo fece mordere ad un piede da un granchio, sperando
di distrarlo. Per causargli ulteriori problemi, dopo
che aveva rubato la mandria di Gerione, Era mandò dei
tafani per irritare e spaventare le bestie, quindi fece
gonfiare le acque di un fiume in modo tale che Eracle
non potesse più guadarle con la mandria, costringendolo
a gettare nel fiume enormi pietre per renderlo attraversabile.
Quando finalmente riuscì a raggiungere la corte di Euristeo,
la mandria fu sacrificata in onore di Era. Euristeo
avrebbe voluto sacrificare alla dea anche il Toro di
Creta, ma Era rifiutò perché la gloria di un simile
sacrificio sarebbe andata di riflesso anche ad Eracle
che l'aveva catturato. Il toro fu così lasciato andare
nella piana di Maratona diventando famoso come il Toro
di Maratona.
Alcune leggende dicono che Era alla fine si riconciliò
con Eracle, dato che l'aveva salvata da un gigante che
tentava di stuprarla, e gli concesse anche come moglie
sua figlia Ebe.
Eco:
Una volta, Zeus convinse una ninfa di nome Eco a distrarre
Era dai suoi amori furtivi. Quando Era scoprì l'inganno
condannò la ninfa a non aver più una voce propria e
a poter, da allora in poi, soltanto ripetere le parole
altrui.
Latona:
Quando Era venne a sapere che Latona era incinta e che
il padre era Zeus, con un incantesimo impedì a Latona
di partorire facendo sì che ogni terra ove si recasse
risultasse ostile nei suoi confronti. Latona trovò l'isola
galleggiante di Delo, che non era né terraferma né una
vera e propria isola ed era troppo inospitale per poterla
peggiorare. Su questa partorì mentre veniva circondata
da cigni. In segno di gratitudine Zeus fissò Delo, che
da allora fu sacra ad Apollo, con quattro pilastri.
Vi sono anche altre versioni della storia. In una di
queste Era rapì la figlia Ilizia, la dea della nascita,
per impedire a Latona di cominciare il travaglio, ma
gli altri dèi la costrinsero a lasciarla andare. Alcune
leggende dicono che Artemide, nata per prima, aiutò
la madre a partorire Apollo, mentre un'altra sostiene
che Artemide, nata il giorno precedente sull'isola Ortigia,
aiutò la madre ad attraversare il mare fino a giungere
a Delo per mettere al mondo il fratello.
Callisto e Arcade:
Callisto, una ninfa che faceva parte del seguito di
Artemide, fece voto di restare vergine, ma Zeus si innamorò
di lei e assunse l'aspetto di Apollo (secondo altre
versioni di Artemide stessa) per adescarla e sedurla.
Era allora, per vendicarsi del tradimento, trasformò
Callisto in un'orsa. Tempo dopo Arcade, il figlio che
Callisto aveva generato con Zeus, quasi uccise per errore
la madre durante una battuta di caccia e Zeus, per proteggerli
da ulteriori rischi, li mise in cielo trasformandoli
in costellazioni.
Semele e Dioniso:
Dioniso era figlio di Zeus e di una mortale. Era, gelosa,
tentò di uccidere il bambino mandando dei Titani a fare
a pezzi Dioniso dopo averlo attirato con dei giocattoli.
Nonostante Zeus fosse riuscito infine a scacciare i
Titani con i suoi fulmini, erano riusciti a divorarlo
quasi tutto e ne era rimasto solo il cuore salvato,
a seconda delle versioni della leggenda, da Atena, Rea,
o Demetra. Zeus si servì del cuore per ricreare Dioniso,
ponendolo nel grembo di Semele (per questo Dioniso diventò
conosciuto come "il due volte nato"). Le versioni della
leggenda sono comunque molte e varie.
Io:
Un giorno Era stava per sorprendere Zeus con una delle
sue amanti, chiamata Io, ma Zeus riuscì ad evitarlo
all'ultimo, trasformando Io in una giovenca bianca.
Era, tuttavia, ancora insospettita, chiese a Zeus di
darle la giovenca in dono. Una volta ottenutala, Era
la affidò alla custodia del gigante Argo, perché la
tenesse lontana da Zeus. Il re degli dèi allora ordinò
ad Ermes di uccidere Argo, cosa che il dio fece addormentando
il gigante dai cento occhi grazie al suono del suo flauto
e poi tagliandogli la testa. Era prese gli occhi del
gigante e, per onorarlo, li pose sulle piume della coda
del pavone, il suo animale sacro. Quindi mandò un tafano
a tormentare Io, che cominciò a fuggire per tutto il
mondo conosciuto, fino a giungere in Egitto dove, dopo
aver partorito il figlio Epafo, riacquistò forma umana.
Lamia:
Lamia era una regina della Libia della quale Zeus si
era innamorato. Era per vendicarsi trasformò la donna
in un mostro, ed uccise i figli che aveva avuto da Zeus.
Una diversa versione della leggenda dice che Era le
uccise i figli e Lamia si trasformò in un mostro per
il dolore. Lamia venne anche colpita da Era con la maledizione
di non poter mai chiudere gli occhi, in modo che fosse
per sempre condannata a vedere ossessivamente l'immagine
dei suoi figli morti. Zeus, per consentirle di riposare,
le concesse il potere di cavarsi temporaneamente gli
occhi e poi rimetterli al loro posto.
Gerana:
Gerana era una regina dei Pigmei che si vantò di essere
più bella di Era. La dea, furibonda, la trasformò in
una gru e proclamò solennemente che gli uccelli suoi
discendenti sarebbero stati in eterna lotta contro il
popolo dei Pigmei.
Altre leggende su Era:
Cidippe:
Cidippe, una sacerdotessa di Era, doveva partecipare
ad una cerimonia in onore della dea. Dato che il bue
che avrebbe dovuto essere aggiogato al suo carro non
arrivava, i suoi due figli, Bitone e Cleobi, trainarono
essi stessi il carro per 8 km per permetterle di prendere
parte al rito. Cidippe rimase impressionata dalla loro
devozione e chiese ad Era di premiare i suoi figli con
il miglior dono che una persona potesse ricevere. Come
risposta, Era dispose che i fratelli morissero nel sonno
senza soffrire.
Tiresia.
Tiresia era un sacerdote di Zeus: quando era giovane
si imbatté in due serpenti arrotolati tra loro e, con
un bastone, uccise il serpente femmina. Fu allora improvvisamente
trasformato in una donna e, cambiato sesso, divenne
una sacerdotessa di Era, si sposò ed ebbe dei figli
(tra i quali Manto). Altre versioni dicono che diventò
invece una famosa ed abile prostituta. Passati sette
anni, Tiresia trovò altri due serpenti intrecciati e
questa volta uccise il serpente maschio, recuperando
il suo sesso originario. A questo punto, dato che era
stato sia uomo che donna, Era e Zeus lo convocarono
per chiedergli, visto che aveva vissuto entrambi i ruoli,
se durante il rapporto amoroso provasse più piacere
l'uomo o la donna. Zeus sosteneva fosse la donna, Era
naturalmente l'opposto. Quando Tiresia si mostrò propenso
a confermare le tesi di Zeus, Era lo accecò infuriata.
Zeus allora, non potendo rimediare a ciò che la consorte
aveva fatto, per compensarlo del danno gli diede il
dono della profezia.
Una versione diversa della leggenda di Tiresia dice
che fu invece accecato da Atena per averla vista mentre
faceva il bagno nuda, e Zeus gli diede la profezia per
le suppliche di sua madre Cariclo.
Mitopsicologia:
L'esegesi psicologica del mito di Era descrive un archetipo
di donna e moglie abbastanza particolare: l'obiettivo
della donna Hera è il controllo e la gestione del ménage
familiare, più che la ricerca di un'intesa sessuale
col proprio uomo.
Tali donne non ricercano di godere della presenza del
proprio compagno, ma costruiscono case lustre e contemplative,
tavole ben preparate, facciate dipinte e infiorate per
i vicini.
Era-Giunone, Vesta e altre dee del focolare, dedite
al matrimonio come istituzione, non sono amanti particolarmente
eccitanti: lo dimostrano i continui tradimenti di Zeus.
Tali donne sono sessualmente povere, piene di inibizioni.
L'eros è messo alla porta, e il rapporto coniugale ne
risulta appiattito. Con una donna così, sopprimendo
la relazione erotica, il rapporto d'amore si sposta
sul modello di altri affetti familiari, come la sorella
e la madre.
Se il partner della donna Hera non è una persona forte,
risulta spesso essere più vicino al bambino viziato,
prima dalla mamma e poi dalla moglie.
Altrimenti tale marito è simile a Zeus. E allora la
perfetta donna Hera prorompe in violente e vocianti
scenate: come ci raccontano i miti l'Olimpo intero tremava,
quando la regina degli dèi era infuriata.
Tale donna non è gelosa in senso erotico, ma è posseduta
da una gelosia impersonale, poiché "qualcosa" nel suo
focolare non va come lei vuole che vada. La donna Hera,
seppur conosca le attività libertine dell'uomo Zeus,
non chiede il divorzio, non rompe il legame coniugale,
poiché quello che conta di più è l'istituzione del matrimonio,
e non la coppia.
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DEMETRA
Demetra, Cerere presso i romani,
era figlia di Crono e Rea, e apparteneva alla prima
generazione divina degli dei Olimpi, i fratelli Zeus,
Ade e Poseidone e le sorelle Era ed Estia e fu inghiottìta
per seconda dal padre.
Demetra era dea di alto rango: figlia di Crono e di
Rea, e sorella di Zeus, dunque una pari del signore
degli uomini e degli dei. Questa parità virtuale si
realizzava a volte come autonomia rispetto alla sovranità
di Zeus.
Demetra era la dea delle plebi rustiche in opposizione
all'aristocrazia cittadina che si riferiva a Zeus come
fonte del suo potere; era la dea che prometteva una
specie d'immortalità oltretombale contro l'ordine di
Zeus che fissava nella mortalità l'invalicabile limite
umano; era la dea delle esperienze mistiche che elevavano
l'uomo all'altezza degli dei, mentre l'ordine di Zeus
considerava ogni sconfinamento dall'umano come il peccato
per eccellenza (hýbris) e lo puniva inesorabilmente.
Questa posizione di Demetra la metteva in relazione
con altre divinità ugualmente opposte a Zeus, quali
Ade, Posidone e Dioniso.
Raramente è stata ritratta con un consorte o un compagno:
l'eccezione è rappresentata da Giasione, il giovane
cretese che giacque con Demetra in un campo arato tre
volte e fu in seguito, secondo la mitologia classica,
ucciso con un fulmine da un geloso Zeus. Con Giasione
ebbe Pluto, il dio della ricchezza.
Poseidone una volta inseguì Demetra che aveva assunto
l'antico aspetto di dea-cavallo. Demetra tentò di resistere
alla sua aggressione, ma neppure confondendosi tra la
mandria di cavalli del re Onkios riuscì a nascondere
la propria natura divina; Poseidone si trasformò così
anch'egli in uno stallone e si accoppiò con lei. Demetra
fu letteralmente furibonda per lo stupro subito, ma
lavò via la propria ira nel fiume Ladona. Dall'unione
nacquero una figlia, il cui nome non poteva essere rivelato
al di fuori dei Misteri Eleusini, ed un cavallo dalla
criniera nera chiamato Arione. Anche in epoche storiche,
in Arcadia Demetra era adorata come una dea dalla testa
di cavallo.
Le storie orfiche accennano al suo congiungimento con
Zeus dal quale è nata Core o Persefone, l'unica figlia
di Demetra.
Cerere, madre di Proserpina, era la dea che insegnò
agli uomini l'arte del coltivare la terra. La figlia,
di leggiadra bellezza, amava lo sbocciare dei fiori
e si trastullava tra i campi.
Un giorno di primavera, il Dio Plutone (Ade), re del
mondo sotterraneo e fratello di Giove, sbucò in Sicilia
dal lago di Pergusa rimanendo estasiato dalla visione
davanti ai suoi occhi: in mezzo ai prati, la giovane
Proserpina, assieme alle ninfe che la accompagnavano,
raccoglieva fiori variopinti e profumati. Plutone se
ne innamorò e - naturalmente - la rapì.
Elios, il dio Sole, informò dell'accaduto Demetra (Cerere).
La madre per nove giorni e nove notti cercò Proserpina,
per tutta la terra, facendosi luce di notte con un pino
da lei divelto e acceso nel cratere dell'Etna. Le ricerche
furono però infruttuose e Cerere si adirò, prendendosela
con gli uomini: siccità, carestie e pestilenze si abbatterono
sull'umanità. Gli uomini allora chiesero l'intervento
di Giove, supplicandolo di trovare una soluzione; Giove
voleva porre rimedio facendo tornare Proserpina sulla
terra ma ella non volle tornare, perchè aveva provato
il dolce sapore del melograno, simbolo d'amore, donatole
da Plutone. Giove, impietosito dal dolore della sorella
Cerere, stabilì allora che Proserpina abitasse per otto
mesi, da gennaio ad agosto, sulla terra assieme alla
madre e per quattro mesi da settembre a dicembre, sotto
terra col marito Plutone. Questi quattro mesi sono chiaramente
quelli invernali, durante i quali le sementi vengono
messi sotto terra e la maggior parte della vegetazione
ingiallisce e muore.
Nel pantheon classico greco, Persefone ricoprì il ruolo
di moglie di Ade, il dio degli inferi. Diventò la dea
del mondo sotterraneo. Inutile aggiungere che, in questo
modo, implicitamente Giove aveva deciso che in Sicilia
le stagioni fossero solo due, a tutto beneficio delle
generazioni future di turisti di tutto il mondo, che
in questa regione trovano uno tra i più temperati climi
del mondo.
Oggi si parla sempre più spesso dei cambiamenti climatici
e della sparizione delle stagioni intermedie quali autunno
e primavera. Sarà una constatazione dei fatti, ma mitologicamente
parlando, così era stato disposto dall'ALTO!
Demetra, come Rea e Gea, era venerata come Madre Terra;
ma Gea figurava l'elemento delle forze primordiali,
Rea figura la potenza generatrice della terra, mentre,
Demetra figura la divinità della terra coltivata, la
dea del grano, dell'ordine costituito. Con il dono dell'agricoltura,
base di civiltà per tutte le popolazioni, Demetra dà
agli uomini anche le norme del vivere civile e, di conseguenza,
le leggi.
Il suo campo d'azione comprendeva la cerealicoltura
e le istituzioni civili, riferite all'introduzione dell'agricoltura.
Veniva significativamente chiamata la "Legislatrice"
, attributo che identifica Demetra in colei che insegnando
agli uomini la coltivazione dei cereali li sottrae alla
barbarie e li fa partecipi di una civiltà fondata sulle
leggi.
Demetra ruppe ogni relazione col mondo di Zeus (l'Olimpo)
e andò a vivere tra gli uomini, cui insegnò la coltivazione
dei campi e diede i principi fondamentali del vivere
civile. In una versione di questo mito, consegnataci
da un famoso poema attico del sec. VI a. C. (l'Inno
a Demetra, attribuito a Omero), la dea si rifugia a
Eleusi, presso il re Celeo, e qui introduce le iniziazioni
misteriche, che, in questo contesto, stanno al posto
dell'agricoltura come fattore di miglioramento della
condizione umana.
Mentre stava cercando la figlia Persefone, Demetra assunse
le sembianze di una vecchia di nome Doso e con quest'aspetto
fu accolta con grande senso dell'ospitalità da Celeo,
re di Eleusi nell'Attica. Questi le chiese di badare
ai suoi due figli, Demofoonte e Trittolemo, che aveva
avuto da Metanira. Per ringraziare Celeo della sua ospitalità,
Demetra decise di fargli il dono di trasformare Demofoonte
in un dio. Il rituale prevedeva che il bimbo fosse ricoperto
ed unto con l'ambrosia, che la dea stringendolo tra
le braccia soffiasse dolcemente su di lui e lo rendesse
immortale bruciando nottetempo il suo spirito mortale
sul focolare di casa. Demetra una notte, senza dire
nulla ai suoi genitori, lo mise quindi sul fuoco come
fosse un tronco di legno ma non poté completare il rito
perché Metanira, entrata nella stanza e visto il figlio
sul fuoco, si mise ad urlare di paura e la dea, irritata,
dovette rivelarsi lamentandosi di come gli sciocchi
mortali non capiscano i rituali degli dei.
Invece di rendere Demofoonte immortale, Demetra decise
allora di insegnare a Trittolemo l'arte dell'agricoltura,
così il resto della Grecia imparò da lui a piantare
e mietere i raccolti. Sotto la protezione di Demetra
e Persefone volò per tutta la regione su di un carro
alato per compiere la sua missione di insegnare ciò
che aveva appreso a tutta la Grecia. Tempo dopo Trittolemo
insegnò l'agricoltura anche a Linco, re della Scizia,
ma costui rifiutò di insegnarla a sua volta ai suoi
sudditi e tentò di uccidere Trittolemo: Demetra per
punirlo lo trasformò allora in una lince.
Il mito degli agricoltori nasce intorno al VII-VIII
millennio prima di Cristo quando si trovano già ampie
testimonianze di quell'età che venne chiamata l'età
dell'agricoltura e che significò, per la storia dell'umanità,
un grande progresso. Ma, anche in questo periodo - come
nel periodo della caccia - la natura continuava a mantenere
per l'uomo un gran numero di segreti e solo attraverso
il mito l'uomo può ordinare il suo mondo, può trovare
una logica per quello che accade. In questo periodo,
rispetto all'età della caccia, lo scenario mitico cambia
profondamente anche se i miti della caccia non scompaiono,
anzi, finiscono per sovrapporsi a volte a quelli degli
agricoltori.
I CEREALI:
La scoperta dei cereali contribuì nel Pleistocene a
rendere più facile la vita e a creare una certa sicurezza
fisica e morale.
Aumentarono le nascite, diminuì la mortalità infantile
e ci si poté permettere di tenere con sé gli anziani
e i malati. E' possibile che i rapporti di forza tra
uomini e donne, giovani e vecchi diventassero più sfumati,
mentre la presenza degli anziani in una società è molto
importante, implicando le nozioni di memoria, tradizione,
esperienza, radici culturali.
E non senza motivo la Cultura con l'iniziale maiuscola,
quella di interi popoli, e la coltivazioni delle piante
derivano dalla stessa parola.
Le donne, addette alla raccolta dei vegetali notarono
come il seme proveniente da spighe non aperte desse,
a seguito di nuove semine, un cereale più resistente.
A partire da quel momento, cominciarono a delinearsi
i culti delle dee madri tutelari dei raccolti e delle
messi, ormai posti sotto il segno della femminilità
feconda. In tali culti si può scorgere sia il ricordo
di antiche raccoglitrici, sia un evidente rapporto con
il simbolismo generale della donna: le analogie fra
il "grembo" della terra e quello materno, o tra la permanenza
ciclica della vegetazione e la fisiologia femminile
si sono senz'altro affacciate alla mente dei primi agricoltori,
tanto più che il grano seminato in autunno richiede
nove mesi prima di essere raccolto in estate.
Gli uomini molto primitivi non hanno conosciuto attrezzi
per frantumare il grano perché avevano mandibole talmente
forti da rompere anche le noci. In seguito, quando la
forza della mandibola è retrocessa ed è aumentata l'intelligenza,
l'uomo si è aiutato a frantumare il grano con delle
pietre.
La tostatura di cereali poteva essere adottata prima
dell'immagazzinamento contro l'attacco di muffe e parassiti.
Le granaglie venivano immagazzinate e conservate in
silos sotterranei, documentati in molti villaggi neolitici.
Si tratta di fosse circolari o pozzetti scavati nel
terreno, che talvolta conservano ancora parte dell'originaria
chiusura in argilla; le pareti di queste fosse potevano
essere rivestite di argilla indurita e arrossata dal
fuoco. I chicchi potevano quindi essere ridotti in farina
tramite la macinatura, utilizzando le macine, grandi
pietre piatte, sulle quali si sfregava una pietra più
piccola, lunga e stretta, il macinello. L'uso di macine
e macinelli è generalizzato in tutti i periodi della
Preistoria e della Protostoria, arrivando fino alla
piena età storica. La materia prima utilizzata per questi
strumenti consisteva in rocce dal potere abrasivo.
Raffigurazioni dell'antico Egitto mostrano come questo
duro lavoro venisse svolto da schiave, che lo effettuavano
inginocchiate sulla pietra per macinare. Più tardi i
molini primitivi furono sostituiti da altri più potenti.
nell'Antica Grecia e nella Roma repubblicana, vennero
azionati da schiavi oppure da animali come asini e cavalli.
I primi mulini a mano preistorici consistevano di un
"piatto" di roccia di grande resistenza sul quale veniva
sparsa una manciata per volta di frumento. I chicchi
venivano frantumati con altra pietra dura, focaia, di
forma rotondeggiante o piatta.
Il mulino idraulico si diffuse nel mondo Greco - Romano
dal° secolo a.C. mentre era presente in Cina già dal
V° secolo a.C. Veniva ubicato in prossimità di corsi
d' acqua, rapide, cascate, torrenti, poiché aveva bisogno
di tanta acqua per consentire alla macina superiore,
collegata con un asse verticale ad una ruota di pale
sulla quale precipitava con violenza l' acqua, di attivare
il sistema molitorio. Invenzione antica, il mulino ad
acqua é tuttavia medioevale dal punto di vista della
diffusione. Tutte le testimonianze indicano il I secolo
a.C. come periodo e l'area dell' Oriente mediterraneo
come culla dell'invenzione di questa macchina.
Amata in quanto apportatrice di messi, Demetra era anche
ovviamente temuta, in quanto capace, all'inverso, di
provocare carestie, come ricorda il mito di Erisittone
che, avendola offesa tagliando degli alberi da un frutteto
sacro, ne venne punito con una fame insaziabile.
Demetra viene solitamente raffigurata mentre si trova
su un carro, e spesso associata ai prodotti della terra,
come fiori, frutta e spighe di grano. A volte viene
ritratta insieme a Persefone.
L'iconografia di Demetra è nota dai testi, dagli ex
voto dei santuari e da numerose opere d'arte. Da tipi
di tradizione forse micenea, in cui la dea è raffigurata
con teste animalesche (cavallo, capra, mucca), si passa,
soprattutto dal sec. VI a. C., al tipo tradizionale
della dea stante o seduta in trono con chitone e himátion,
in capo il pólos, il kálathos o il modio e nelle mani
lo scettro, le fiaccole oppure le spighe. Oltre a statuette
fittili, monete, raffigurazioni vascolari e rilievi
eleusini, nei quali Demetra appare in compagnia della
figlia Persefone e di Trittolemo.
Col suo mito gli antichi si riferirono ai cicli della
natura, delle stagioni, dei raccolti, in particolare
ai frutti della terra che trascorrono parte dell'anno
nascosti sotto la superficie per poi sbocciare e fruttificare.
Al nucleo centrale della leggenda di Demetra, il cui
significato era rivelato solo agli iniziati dei Misteri
di Eleusi, si aggiunsero in varie epoche miti secondari,
come quello della violenza che subì da Poseidone. Un'altra
leggenda vuole che Demetra si sia innamorata di Iasione
dal quale ebbe Pluto, la ricchezza.Tutti i miti, anche
se contraddittori, sono comunque concordi nel non attribuire
un marito a Demetra, che generò i suoi figli al di fuori
di ogni vincolo coniugale.
Negli scritti di Teocrito si trovano tracce di quello
che fu il ruolo di Demetra nei culti arcaici:
* "Per i Greci Demetra era ancora la dea dei papaveri"
* "Nelle mani reggeva fasci di grano e papaveri"
Una statuetta d'argilla trovata a Gazi sull'isola di
Creta, rappresenta la dea del papavero adorata nella
cultura Minoica mentre porta i baccelli della pianta,
fonte di nutrimento e di oblio, incastonati in un diadema.
Appare dunque probabile che la grande dea madre, dalla
quale derivano i nomi di Rea e Demetra, abbia portato
con sé da Creta nei Misteri Eleusini insieme al suo
culto anche l'uso del papavero, ed è certo che nell'ambito
dei riti celebrati a Creta, si facesse uso di oppio
preparato con questo fiore.
Quando a Demetra fu attribuita una genealogia per inserirla
nel Pantheon classico greco, diventò figlia di Crono
e Rea, sorella maggiore di Zeus. Le sue sacerdotesse
erano chiamate Melisse.
Cerere era già presente nel Pantheon dei popoli italici
preromani, specialmente gli osco umbro sabelli e fu,
in seguito, identificata con la dea greca Demetra. Il
suo culto era inizialmente associato a quello delle
antiche divinità rustiche di Liber e Libera e presentava
delle similitudini con i riti celebrati a Eleusi in
onore di Demetra , Persefone e Iacco (uno dei nomi di
Dioniso).
Tale culto è attestato al santuario dei3 altari di Lavinio
grazie al ritrovamento di una lamina metallica sulla
quale vi è l'iscrizione Cerere(m) auliquoquibus, interpretata
come offerta alla dea di interiora dell'animale sacrificato,
bollite in pentola.Un suo santuario a Roma era ai piedi
dell'Aventino, fondato nel V secolo a.C.. In suo onore
si celebravano le "Cerealia", ogni2 aprile, durante
le quali venivano sacrificati buoi e i maiali, ed offerti
frutta e miele. Si compivano anche sacrifici per purificare
la casa da un lutto familiare.
Cerere è legata anche al mondo dei morti. Una fossa
che veniva aperta soltanto in tre giorni particolari,
il 24 agosto, il 5 ottobre e l'8 novembre. Questi giorni
sono dies religiosi, vale a dire che ogni attività pubblica
veniva sospesa perché l'apertura della fossa metteva
idealmente in comunicazione il mondo dei vivi con quello
sotterraneo dei morti. In quei giorni non si attaccava
battaglia con il nemico, non si arruolava l'esercito
e non si tenevano i comizi. L'apertura del mundus era
un momento delicato e pericoloso, non tanto per paura
che i morti uscissero in massa invadendo il mondo dei
vivi ma al contrario perché, il mundus avrebbe attratto
i vivi nel mondo dei morti, specialmente in occasione
di scontri e battaglie.
Un altro riferimento al mondo dei morti sembra essere
il termine cerritus che significa "invaso dallo spirito
di Cerere". Il termine indica qualcuno che oggi si definirebbe
"posseduto" (come il termine analogo larvatus). Secondo
Renato Del Ponte questo termine potrebbe rivelare un'antica
concezione della dea come mater larvarum ("madre degli
spettri"), anche in relazione al fatto che il termine
cerritus viene definito da Marziano Capella come vox
obsoleta, "termine antiquato" quindi "arcaico"
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ESTIA
Dea del focolare domestico. Era la
prima figlia di Crono e di Rea, quindi sorella maggiore
di Zeus. Per diritto di nascita era una delle dodici
maggiori divinità dell'Olimpo, dove tuttavia non abitava,
cosicché non protestò quando Dioniso crebbe d'importanza
e la sostituì nella cerchia dei dodici. Poiché non si
coinvolse nelle storie di guerra che hanno tanta parte
nella mitologia greca.
Il suo culto è uno dei più semplici ed è quasi privo
di leggende. E' la meno conosciuta fra le divinità più
importanti dell'antica Grecia. Era tuttavia tenuta in
grande onore, veniva invocata e riceveva le offerte
migliori in ogni sacrificio che i mortali presentavano
agli dèi.
Viene descritta come 'la venerabile vergine Estia',
una delle tre dee che Afrodite non riesce a sottomettere,
a persuadere, a sedurre o anche soltanto a 'risvegliare
a un piacevole desiderio'. Fece voto di castità non
perché non fosse bella, infatti Afrodite fece sì che
Poseidone e Apollo si innamorassero di Estia e chiesero
la sua mano, ma lei aveva fatto giuramento di restare
vergine e così li respinse entrambi. Zeus, data la decisione
della sorella di restare vergine ed evitando così un
possibile concorrente al trono,respinse le loro proposte.
Persino il dio Priapo che tentò di farle violenza non
ci riuscì perchè il raglio di un asino svegliò la dea
che dormiva dopo un banchetto, e gli altri dei che lo
costrinsero a darsi alla fuga. L'episodio ha un carattere
di avvertimento aneddotico per chi pensi di abusare
delle donne accolte in casa come ospiti, sotto la protezione
del focolare domestico: anche l'asino, simbolo della
lussuria, condanna la follia criminale di Priapo.
Insieme alla sua equivalente divinità romana, Vesta,
non era nota per i miti e le rappresentazioni che la
riguardavano, e fu raramente rappresentata da pittori
e scultori con sembianze umane, in quanto non aveva
un aspetto esteriore caratteristico. La sua presenza
si avvertiva nella fiamma viva, posta al centro della
casa, del tempio e della città. Il simbolo di Estia
era un cerchio. I suoi primi focolari erano rotondi
e così i suoi templi. Né abitazione né tempio erano
consacrati fino a che non vi aveva fatto ingresso Estia,
che, con la sua presenza, rendeva sacro ogni edificio.
Era una presenza avvertita a livello spirituale come
fuoco sacro che forniva illuminazione, tepore e calore.
Suo attributo è il focolare, santuario della pace e
della concordia. Suo simbolo era il cerchio e la sua
presenza era avvertita nella fiamma viva posta nel focolare
rotondo al centro della casa e nel braciere circolare
nel tempio di ogni divinità.
Estia compariva spesso insieme a Ermes, messaggero degli
dèi, noto ai romani come Mercurio, la cui effigie fu
una pietra a forma di colonna, chiamata erma.
Nelle case, il focolare rotondo di Estia era posto all'interno,
mentre il pilastro fallico di Ermes si trovava sulla
soglia. Il fuoco di Estia provvedeva calore e santificava
la dimora, mentre Ermes rimaneva sulla soglia a portare
fortuna e a tenere lontano il male. Anche nei templi
queste due divinità erano legate l'una all'altra.
Così, nelle dimore e nei tempIi, Estia ed Ermes erano
insieme ma separati. Ciascuno dei due svolgeva una funzione
distinta e preziosa.
Estia provvedeva il luogo sacro dove la famiglia si
riuniva insieme: il luogo dove fare ritorno a casa.
Ermes dava protezione sulla soglia della porta ed era
guida e compagno nel mondo, dove la comunicazione, la
capacità di orientarsi, l'intelligenza e la buona fortuna
sono tutti elementi assai importanti.
Ogni città, nell'edificio principale, aveva un braciere
comune, il pritaneo, dove ardeva il fuoco sacro di Estia,
che non doveva spegnersi mai. Poiché le città erano
considerate un allargamento del nucleo familiare, era
adorata anche come protettrice di tutte le città greche.
Nelle famiglie, il fuoco di Estia provvedeva a riscaldare
la casa e a cuocere i cibi.
Era nota per i miti e le rappresentazioni che la riguardavano:
la sua importanza stava nei rituali simbolizzati dal
fuoco.
Perché una casa diventasse un focolare, era necessaria
la sua presenza. Quando una coppia si sposava, la madre
della sposa accendeva una torcia sul proprio focolare
domestico e la portava agli sposi nella nuova casa,
perché accendessero il loro primo focolare. Questo atto
consacrava la nuova dimora.
Dopo la nascita di un figlio, aveva luogo un secondo
rituale estiano.Il neonato diventava membro della famiglia
dopo cinque giorni dalla nascita, con un rito in cui
il padre lo portava camminando attorno al focolare,
come simbolo della sua ammissione nella famiglia.
Ogni volta che una coppia o una comunità si accingevano
a fondare una nuova sede, Estia li seguiva come fuoco
sacro, collegando la vecchia residenza con la nuova,
forse come simbolo di continuità e di interdipendenza,
di coscienza condivisa e d'identità comune.
I coloni che lasciavano la Grecia, portavano con sé
una torcia accesa al pritaneo della loro città natale,
il cui fuoco sarebbe servito a consacrare ogni nuovo
tempio ed edificio. Un rito che sopravvive anche nelle
Olimpiadi moderne.
Estia provvedeva al luogo dove sia la famiglia che la
comunità si riunivano insieme: il luogo dove si ricevevano
gli ospiti, il luogo dove fare ritorno a casa, un rifugio
per i supplici. La dea e il fuoco erano una cosa sola
e formavano il punto di congiunzione e il sentimento
della comunità, sia familiare che civile.
Per lungo tempo credetti stoltamente che ci fossero
statue di Vesta,
ma poi appresi che sotto la curva cupola non ci sono
affatto statue.
Un fuoco sempre vivo si cela in quel tempio
e Vesta non ha nessuna effige, come non ne ha neppure
il fuoco.
(Ovidio, Fasti, V, 255-258)
Più tardi, nell'antica Roma, il suo fuoco sacro veniva
custodito dalle Vestali, che dovevano incarnare la verginità
e l'anonimato della Dea. In un certo senso, ne erano
la rappresentazione umana, sue immagini viventi, al
di là di ogni raffigurazione scolpita o pittorica.
Le fanciulle scelte come vestali venivano portate al
tempio in età molto giovane, per lo più quando non avevano
ancora sei anni. Tutte vestite allo stesso modo, con
i capelli rasati come neo iniziate, qualunque cosa le
rendesse distinguibili e riconoscibili veniva eliminata.
Vivevano isolate dagli altri, erano onorate e tenute
a vivere come Estia: se venivano meno alla verginità
le conseguenze erano atroci. I rapporti sessuali della
vestale con un uomo profanavano la dea, e come punizione
la vestale veniva sepolta viva in una piccola stanza
sotterranea, priva di aria, con una lucerna, olio, cibo
e un posto per dormire. La terra soprastante veniva
poi livellata come se sotto non ci fosse niente. In
tal modo la vita della vestale (personificazione della
fiamma sacra di Estia) che cessava di impersonare la
dea veniva spenta, gettandovi sopra la terra, come si
fa per spegnere la brace ancora ardente nel focolare.
Estia era la maggiore delle tre dee vergini. A differenza
delle altre due, non si avventurò nel mondo a esplorare
luoghi selvaggi come Artemide, o a fondare città come
Atena. Rimase nella casa o nel tempio, racchiusa all'interno
del focolare.
A uno sguardo superficiale, l'anonima Estia sembra avere
poco in comune con un'Artemide dalla vivace intraprendenza
o con un'intelligente Atena dall'armatura dorata. Eppure,
qualità fondamentali e impalpabili accomunavano le tre
dee vergini, per quanto fossero diverse le loro sfere
di interesse o le loro modalità d'azione. Tutte e tre
erano "complete" in , se stesse', qualità che caratterizza
la dea vergine. Nessuna di Ioro fu vittima di divinità
maschili o di mortali. Ciascuna aveva la capacità di
concentrarsi su quanto la interessava, senza lasciarsi
distrarre dal bisogno altrui o dal proprio bisogno degli
altri.
L'archetipo Estia ha in comune con le altre due dee
vergini una messa 'a fuoco' della coscienza (è la dea
del 'focolare'). Tuttavia, l'orientamento di questa
messa a fuoco è diverso. Artemide o Atena, che sono
orientate verso il mondo esterno, si concentrano sul
conseguimento di mete o sulla realizzazione di progetti.
Estia invece si concentra sull'esperienza soggettiva
interna: quando medita, ad esempio, è completamente
concentrata.
La percezione di Estia avviene attraverso lo sguardo
interiore e l'intuizione di ciò che sta accadendo. La
modalità estiana ci permette di stabilire un contatto
con quelli che sono i nostri valori, mettendo a fuoco
ciò che è significativo a livello personale. Grazie
a questa polarizzazione interna noi possiamo percepire
l'essenza di una situazione, intuire il carattere degli
altri e comprenderne il modello di comportamento o il
significato delle azioni. Questa prospettiva interiore
dà chiarezza, in mezzo alla miriade di particolari confusi
che si presentano ai nostri sensi.
L'introversa Estia, quando si occupa di ciò che la interessa
può anche diventare emotivamente distaccata e percettivamente
disattenta a quanto la circonda. In aggiunta alla tendenza
a ritirarsi dalla compagnia degli altri, il suo essere
'una in sè stessa' è una qualità che ricerca la tranquillità
silenziosa, che si ritrova più di tutto nella solitudine.
Estia è il 'punto fermo' che dà senso all' attività,
il punto di riferimento che consente a una donna di
rimanere ben salda in mezzo al caos del mondo esterno,
al disordine o alla consueta agitazione della vita quotidiana.
Quando Estia è presente nella personalità di una donna,
la sua vita acquista un senso.
Il focolare di Estia, di forma circolare, con il fuoco
sacro al centro, ha là stessa forma del mandala, un'immagine
usata nella meditazione come simbolo di completezza
e di totalità. A proposito del simbolismo dei mandala,
Jung ha scritto: "Il loro motivo di base è l'idea di
un centro della personalità, di una sorta di punto centrale
all'interno dell' anima al quale tutto sia correIato,
dal quale tutto sia ordinato e il quale sia al tempo
stesso fonte di energia. L'energia del punto centrale
si manifesta in una coazione pressoché irresistibile,
in un impulso a divenire ciò che si è; così come ogni
organismo è costretto, quali che siano le circostanze,
ad assumere la forma caratteristica della propria natura.
Questo centro non è sentito né pensato come lo, ma,
se così
si può dire, come Sé".
Il Sé è ciò che sperimentiamo internamente quando sentiamo
un rapporto di unità che ci collega all' essenza di
tutto ciò che è fuori di noi. A questo livello spirituale,
'unione' e 'distacco' sono paradossalmente la stessa
cosa.
Quando ci sentiamo in contatto con una fonte interna
di amore e di luce (metaforicamente, scaldate e illuminate
da un fuoco spirituale), questo 'fuoco' scalda coloro
che amiamo e con cui condividiamo il focolare e ci tiene
in contatto con chi è lontano.
Il sacro fuoco di Estia ardeva sul focolare domestico
e nei templi. La dea e il fuoco erano una sola cosa
e univano le famiglie l'una all' altra, le città-stato
alle colonie. Estia era l'anello di congiunzione spirituale
fra tutti loro. Quando questo archetipo permette la
concentrazione sulla spiritualità, l'unione con gli
altri è un' espressione del Sé.
Estia, in quanto dea del focolare, è l'archetipo attivo
nelle donne che considerano le occupazioni domestiche
un' attività significativa e non semplicemente 'le faccende
di casa'. Con Estia, la cura del focolare diventa un
mezzo attraverso il quale la donna, insieme alla casa,
mette ordine nel proprio sé.
La donna che è in contatto con questo aspetto archetipico,
nello svolgere le mansioni quotidiane sente nascersi
dentro un senso di armonia interiore.
Attendere alle cure domestiche è un' attività che induce
alla concentrazione e che equivale alla meditazione.
Se dovesse parlare del proprio mondo interno, la donna
Estia potrebbe scrivere un libro intitolato Lo Zen e
l'arte della cura della casa. Si dedica alle faccende
domestiche perché la interessano di per sé e perché
le piace. Trae una pace profonda da quello che fa, come
accade a ogni donna che vive in una comunità religiosa,
per la quale ogni attività viene compiuta 'al servizio
di Dio'.
Quando Estia è presente, la donna si dedica ai lavori
della casa con la sensazione di avere davanti a sé tutto
il tempo possibile. Non tiene d'occhio l'orologio, perché
non si muove sulla base di un orario e non 'inganna
il tempo'. Si trova quindi in quello che i greci chiamavano
kairos, tempo propizio: 'sta partecipando àl tempo',
e ciò la nutre psicologicamente (come succede in quasi
tutte le esperienze dove perdiamo il senso del tempo).
Mentre smista e ripiega la biancheria, rigoverna i piatti
e mette in ordine, non ha fretta, ed è pacificamente
concentrata in ogni cosa che fa.
Le custodi del focolare rimangono sullo sfondo mantenendo
l'anonimato: spesso la loro presenza è data per scontata
e non sono personalità che fanno notizia o diventano
famose.
L'archetipo Estia fiorisce nelle comunità religiose,
specialmente là dove si coltiva il silenzio.
Gli ordini contemplativi cattolici e le religioni orientali
la cui pratica spirituale si basa sulla meditazione
forniscono un buon ambiente per le donne Estia.
Le vestali e le suore hanno in comune questo modello
archetipico. Le giovani donne che entrano in convento
rinunciano alla precedente identità. Il loro primo nome
viene cambiato e il cognome non viene più usato. Vestono
tutte allo stesso modo, si sforzano di praticare l'altruismo,
vivono una vita di castità e dedicano quella vita al
servizio religioso. Poiché le religioni orientali attirano
molti occidentali, tanto negli ashram quanto nei monasteri
è possibile trovare donne che impersonano Estia. Entrambe
le discipline mettono in primo piano la preghiera o
la meditazione. Subito dopo segue la cura della comunità
(o governo della casa), che viene svolta nel convincimento
che sia anch'essa una forma di adorazione.
La maggior parte delle donne Estia che vivono in un
tempio sono anche creature anonime che partecipano in
modo discreto ai riti quotidiani della spiritualità
e alle cure domestiche della comunità religiosa.
Donne famose che appartengono a queste comunità combinano
l'aspetto Estia con altri archetipi forti: santa Teresa
di Avila, famosa per i suoi scritti mistici, combinava
Estia con un aspetto Afrodite; Madre Teresa di Calcutta,
Premio Nobel per la Pace, sembra una combinazione di
Estia e della materna Demetra.
Le superiore di conventi che si rivelano abili amministratrici
e sono mosse dalla spiritualità, accanto a Estia, hanno
forti tratti Atena.
Come sorella maggiore della prima generazione degli
dèi dell'Olimpo e zia nubile della seconda generazione,
Estia aveva la posizione di un' anziana onorata.
Si teneva al di sopra o al di fuori degli intrighi e
delle rivalità della sua divina parentela ed evitava
di farsi coinvolgere dalle passioni del momento. Quando
nella donna è presente questo archetipo , gli eventi
non hanno su di lei lo stesso impatto che sugli altri.
Quando Estia è la dea presente, la donna non è 'attaccata'
alla gente, agli esiti, al possesso, al prestigio o
al potere. Si sente completa così com'è. Poiché la sua
identità non è importante, non è legata alle circostanze
esterne, e quindi niente che possa accadere la esalta
o la sconvolge.
Possiede la libertà interiore dal desiderio concreto,
la libertà dall' azione e dalla sofferenza, libertà
dalla necessità interna ed esterna e tuttavia è circondata
da una grazia di senso, una bianca luce immobile eppure
mobilissima.
Il distacco di Estia dà a questo archetipo la qualità
della 'donna saggia'. è come una donna anziana che abbia
visto tutto e ne sia venuta fuori con lo spirito non
offuscato e il carattere temprato dall' esperienza.
La dea Estia era onorata nei templi di tutti gli altri
dèi. Quando Estia condivide il 'tempio' (o la personalità)
con altre divinità archetipiche, dà a obiettivi e propositi
la sua dimensione di saggezza.
In questo senso, la donna Era che reagisce con dolore
alla scoperta dell'infedeltà del compagno, se possiede
anche l'archetipo Estia, non sarà vulnerabile come è
caratteristico di quella dea. Gli eccessi di tutti gli
altri archetipi vengono mitigati dal saggio consiglio
di Estia, una presenza forte, portatrice di una verità,
di una visione spirituale profonda.
Il pilastro (Erma) e l'anello circolare sono diventati
rispettivamente il simbolo del principio maschile e
di quello femminile.
In India e in altri paesi dell'oriente pilastro e cerchio
sono 'accoppiati'. Il lingam fallico rivolto verso l'alto
penetra la yoni o anello, che si trova sopra di lui,
come nel gioco del lancio dei cerchi. Qui, pilastro
e anello si fondono, mentre greci e romani mantennero
collegati, ma separati, questi due simboli che rappresentavano
Ermes e Estia.
A sottolineare ulteriormente questa separazione, Estia
è una dea vergine, che non verrà mai penetrata, è la
più anziana degli dèi dell'Olimpo ed è anche la zia
nubile di Ermes, che veniva considerato il più giovane
tra loro: un'unione estremamente improbabile.
Dal tempo dei greci in poi, le culture occidentali hanno
messo l'accento sulla dualità, su una separazione o
differenziazione fra maschile e femminile, mente e corpo,
logos ed eros, attivo e ricettivo, che divennero tutti,
rispettivamente, và!ori superiori e inferiori.
Quando Estia ed Ermes venivano entrambi onorati presso
il focolare domestico e nei templi, i valori femminili
estiani erano, semmai, i più importanti: alla dea andavano
infatti i più alti onori. A quei tempi la dualità era
complementare. Ma da allora, Estia ha perso valore ed
è stata dimenticata. I suoi fuochi sacri non vengono
più custoditi e ciò che rappresentava non è più onorato.
Quando i valori femminili legati al suo archetipo vengono
dimenticati e disonorati, l'importanza del santuario
interno - il viaggio interiore per trovare senso e pace
- e della famiglia come santuario e sorgente di calore,
diminuisce o va perduta. Scompare anche il senso di
sottostante legame con gli altri, così come, negli abitanti
di una città, di un paese o della terra, il bisogno
di sentirsi uniti da un vincolo spirituale comune.
A livello mistico, Estia ed Ermes rappresentano le idee
archetipiche dello spirito e dell' anima.
Ermes è lo spirito che accende l'anima. In questo senso,
è come il vento che soffia sulla brace sotto cui cova
il fuoco, al centro del focolare, e che fa alzare la
fiamma.
Allo stesso modo, le idee possono infiammare sentimenti
profondi e le parole possono dare espressione a ciò
che fino allora era rimasto inesprimibile e illuminare
ciò che era stato percepito in modo oscuro.
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IL GENERE UMANO
Prometeo "colui che è capace di prevedere".
Figlio di Giapeto e dell'oceanina
Asia ( o Climene, Figlia di Oceano e di Teti) viveva
con il fratello Epimeteo il cui nome vuol dire "colui
che comprende in ritardo". Entrambi facevano pertanto
parte della famiglia dei Titani che avevano osato sfidare
Zeus quando aveva combattuto contro Crono, suo padre,
per impossessarsi del trono. Prometeo però, a differenza
dei fratelli, si era schierato con Zeus ed aveva partecipato
alla lotta solo quando oramai volgeva al termine. Come
premio aveva ricevuto di poter accedere liberamente
all'Olimpo anche se, nel profondo del suo cuore, i sentimenti
che Prometeo provava nei confronti di Zeus non erano
amichevoli a causa della sorte che questi aveva destinato
ai suoi fratelli .
La nascita del primo uomo.
Zeus, per la stima che riponeva in Prometeo, gli diede
l'incarico di forgiare l'uomo che modellò dal fango
e che animò con il fuoco divino.
A quell'epoca, gli uomini erano ammessi alla presenza
degli dei, con i quali trascorrevano momenti conviviali
di grande allegria e serenità. Durante una di queste
riunioni tenuta a Mekone, fu portato un enorme bue,
del quale metà doveva spettare a Zeus e metà agli uomini.
Il signore degli dei affidò l'incarico della spartizione
a Prometeo che approfittò dell'occasione per vendicarsi
del re degli dei.
Divise infatti il grosso bue in due parti ma in una
celò la tenera carne sotto uno spesso strato di pelle
e nell'altra, macinò insieme le ossa ed il grasso che
ricoprì con un sottile strato di pelle tanto da far
sembrare quest'ultima il boccone più succulento. Zeus,
poiché gli toccava la prima scelta, optò per la parte
all'apparenza più ricca. Subito dopo accortosi dell'inganno,
più che mai irato, privò gli uomini del fuoco, riportandolo
nell'Olimpo. Prometeo, considerata ingiusta la punizione,
rapì qualche scintilla dall'Olimpo nascondendola in
un giunco e riportò così il fuoco agli uomini.
Zeus, accortosi dell'inganno che Prometeo gli aveva
perpetrato, decise una punizione ben più grande di quella
che aveva destinato ai suoi fratelli: ordinò ad Ermes
e ad Efesto d'inchiodare Prometeo ad una rupe nel Caucaso,
dove un'aquila (Echidna) durante il giorno gli avrebbe
roso il fegato con il suo becco aguzzo mentre durante
la notte si sarebbe rigenerato.
Ecco come Luciano racconta il meritato (a suo giudizio)
supplizio di Prometeo (Dialoghi):
E poi mi stanno a dire che Prometeo
Non meritava d'esser inchiodato
A quelle rupi? Egli ci diede il fuoco,
Ma niente altro di buono. Fece un male,
Per qual, cred'io, tutti gli Dei l'aborrono:
Le femmine formò! Numi beati,
Che brutta razza! Ora, ammogliati; ammoglia.
Tutti i vizi con lei t'entrano in casa.
La nascita della prima donna
Zeus, non contento della punizione che aveva inflitto
a Prometeo, decise di punire anche la stirpe umana.
Dato che nel mondo non esisteva ancora la donna Zeus
diede incarico ad Efesto di modellare un'immagine umana
servendosi di acqua e di argilla che non avesse nulla
da invidiare alla bellezze delle dee, per l'infelicità
del genere umano. Efesto fu tanto bravo nel modellarla
che la donna che ne ebbe origine era superiore ad ogni
elogio e ad ogni possibile immaginazione. Tutti gli
dei furono incaricati da Zeus di riporre in lei dei
doni: Atena le donò delle vesti morbide e leggere a
significare il candore, fiori per adornare il corpo
ed una corona d'oro mentre Ermes pose nel suo cuore
pensieri malvagi e sulle curve sinuose delle sue labbra,
frasi tanto seducenti quanto ingannevoli.
Narra Esiodo (Le opere e i giorni)
"L'adornò del cinto
E delle vesti, le donar le Grazie
E Pito veneranda aurei monili,
E de' più vaghi fior di primavera
L'Ore chiamate, le intrecciar corone.
Ma l'uccisor d'Argo, Mercurio, a lei,
Ché tal di Giove era il voler, l'ingegno
Scaltri d'astuzie e blande parolette
E fallaci costumi …"
A questa creatura fu dato nome Pandora (dal greco "pan
doron" = "tutto dono") perché ogni divinità dell'Olimpo
le aveva fatto un regalo.
Mancava solo il regalo di Zeus che fu superiore a tutti
gli altri doni. Egli infatti, donò alla fanciulla un
vaso (il vaso di Pandora), con il divieto di aprirlo,
contenente tutti i mali che l'umanità ancora non conosceva:
la vecchiaia, la gelosia, la malattia, la pazzia, il
vizio, la passione, il sospetto, la fame e così via.
Quindi Zeus affidò la fanciulla ad Ermes perché la portasse
in dono a Prometeo che però, pensando ad un inganno,
rifiutò il dono. Allora Zeus ordinò ad Ermes di portarla
a Epimeteo, fratello di Prometeo, che appena la vide
si innamorò di lei e l'accettò come sua sposa nonostante
i moniti del fratello che gli aveva raccomandato di
non accettare alcun dono dagli dei.
Racconta Esiodo (Le opere e i giorni)
"Aveva Prometeo a lui
Fatto divieto d'accettar mai dono
Venutogli da Giove, ché funesto
Esser questo potea; ma, del fratello
Obliando Epimeteo i saggi avvisi.
Accettollo, e del male, allor che il dono
Era già suo, di subito s'accorse."
Dopo poco che Pandora era sulla terra, presa dalla curiosità
aprì il vaso. Da esso veloci corsero come fulmini sulla
terra tutti i castighi che Zeus vi aveva riposto: la
malattia, la morte, il dolore, e tanti altri, fino ad
allora sconosciuti. L'unico dono buono che Zeus aveva
posto nel vaso rimase incastrato sotto il coperchio
che subito Pandora aveva chiuso: era l'Elpis, la speranza.
La leggenda narra che dopo trent'anni Prometeo fu liberato
dal supplizio da Eracle (Ercole) che recatosi fino alla
cima del Caucaso con una freccia uccise l'aquila liberando
così Prometeo al quale Zeus concesse di ritornare nell'Olimpo.
Racconta Esiodo (Le opere e i giorni)
"Di propria mano scoperchiato il vaso,
Che i mali in sé chiudea, questi si sparsero
Tra i mortali, e sol dentro vi rimase
All'estremo dell'orlo la Speranza,
Perché la donna, subito, il coperchio
Riposto, il volo a lei contese. Tale
Era il cenno di Giove. A stuolo a stuolo
Vagano intanto i mali, e n'è ripiena
La terra e il mare, e n'è ripiena
La terra e il mare; assalgono le genti
Il di e la notte insidiosi e taciti,
perché la voce accortamente il Nume
Loro preclude."
In questo modo fu punito il genere umano per non avere
rispettato il volere del re degli dei, sovrano di ogni
creatura e di ogni altra cosa sulla terra e nel cielo.
Il diluvio universale
Zeus, nell'età del bronzo, epoca nella quale gli uomini
erano crudeli e sanguinari e trascorrevano la loro vita
ad uccidere ogni essere vivente che incontravano, disgustato
dalla natura stessa dell'uomo, decise di cancellare
l'umanità dalla terra allagando tutta la terra con un
diluvio universale.
Prometeo, appreso dell'imminente diluvio che Zeus aveva
deciso di scatenare sul mondo corse da suo figlio Deucalione
per avvertirlo di quello che stava per accadere. Deucalione,
che all'epoca era il re della Tessaglia, costruì allora
un'arca nella quale si rifugiò con la moglie Pirra,
figlia di Epimeteo e di Pandora, sua cugina e moglie,
prima che iniziasse il diluvio. Appena ebbero finito
di costruirla iniziò il diluvio universale che implacabile
spazzò ogni forma di vita sul pianeta abbattendosi per
nove giorni e per nove notti. Il decimo giorno, cessata
la pioggia, l'arca si arenò sul monte Parnaso (Pindaro,
Olimpiche 9, 41 ss.).
Qui aspettarono che le acque si ritirassero, e quando
misero piede sulla terra ferma scesero a valle e la
prima cosa che fecero i due naufraghi fu di offrire
un sacrifico in onore di Zeus per ringraziarlo di averli
salvati e andarono a pregare Temi presso il fiume Cefiso.
Zeus, commosso, disse a Deucalione che avrebbe esaudito
un suo desiderio e questi allora chiese che la terra
fosse ripopolata. La sua preghiera fu tanto accorata
che Zeus consigliò allora a Deucalione di andare a Delfi,
per interpellare l'oracolo. Una volta presso l'oracolo,
Deucalione lo interrogò e questi gli consigliò "Andando
via dal tempio velatevi il capo, slacciatevi le vesti
e alle spalle gettate le ossa della grande madre".
Per lungo tempo Deucalione e Pirra pensarono a cosa
potessero essere le ossa dell'antica madre, fino a quando
capirono che sicuramente si trattava delle pietre, in
quanto sia lui che Pirra discendevano da Gea, la Madre
Terra e le ossa non potevano essere altro che le sue
pietre.
E così entrambi si velarono il capo e si incamminarono
buttandosi alle spalle delle pietre, e da quelle gettate
da Pirra nascevano delle donne mentre da quelle gettate
da Deucalione nascevano degli uomini. Così, dopo il
diluvio mandato da Zeus, Pirra divenne la madre del
genere umano ripopolando la terra con le pietre e la
terra si ripopolò del genere umano.(Inde genus durum
sumus experiensque laborum / et documenta damus qua
simus origine nati "(Ovidio, Metamorfosi I, 414-415).
Quando Deucalione morì venne sepolto vicino al tempio
di Zeus in Atene (Ovidio, Metamorfosi I,77-415).
ELLENO: Figlio di Decaulione e di Pirra. Fu il capostipite
di tutti i Greci, per via dei figli e dei nipoti che
furono a loro volta capostipiti delle varie genti greche.
I nomi dei parenti e delle genti greche: dal nipote
Acheo vennero gli Achei; dal figlio Doro i Dori; dal
nipote Ion gli Ioni; dal figlio Eolo gli Eoli.
Racconta Luciano nei Dialoghi (Dialoghi, V): "... Onde
in un attimo venne quel si gran abisso ai tempi di Deucalione,
che tutto andò sommerso nelle acque: e ne scampò solo
una barchetta approdata sul monte Licoride, nella quale
fu serbata la semenza di questa razza umana, che doveva
rigerminare più scellerata di prima."
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Le NINFE
- Epigee (ninfe terrestri)
- Agrostine , dei campi.
- Aloniadi, dei burroni.
- Oreadi> o Orestiadi, delle montagne
(vedi Eco).
- Napee, delle valli.
- Alseidi, dei boschi e della pelle.
- Auloniadi
- Lemoniadi, ninfe dei proci.
- Coricidi
- Driadi (o Amadriadi), che vivevano
ciascuna in una quercia o comunque in una pianta (una
di esse è Crisopelea).
- Meliadi o Melie, delle piante
di frassino.
- Epimelidi, protettrici dei meli e degli
ovini.
- Ileori
- Esperidi
- Idriadi (ninfe acquatiche)
- Avernali, dei piedi invernali.
- Oceanine
- Aliadi
- Psamidi
- Nereidi, del mare (dette anche
Oceanine o Malie).
- Naiadi o Efidriadi o Idriadi, delle sorgenti.
- Eleadi
- Potameidi, dei fiumi.
- Limnìadi o Lìmnadi, dei laghi
e degli stagni.
- Creneidi e Pegee, delle fonti.
Ninfe celesti
- Pleiadi
- Iadi
- Eliadi
- Alcionidi
Lampadi, ninfe invernali.
Tiadi, chiamate anche Menadi o
Baccanti da Esiodo, in quanto le ninfe sono per
la maggior parte, delle creature umane.
Ninfe Cure, nutrici di neonati.
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LE SETTE SPOSE E LA DISCENDENZA DI ZEUS
Zeus oltre ad essere il dio supremo
di tutti gli dei era una divinità celeste dispensatrice
di luce, di calore e da lui dipendevano tutti gli eventi
atmosferici era infatti anche il re del tuono, dei lampi,
dei fulmini mediante i quali manifestava la sua approvazione
o no.
La sua casa era l'Olimpo dal quale regolava tutto l'ordine
universale e nelle sue mani era il destino di tutti
gli uomini anche se la sua volontà era sottoposta ad
una volontà suprema, quella del Fato le cui leggi e
decisioni neanche il potente re degli dei poteva cambiare.
Aveva diversi soprannomi tra i quali ricordiamo: Zeus
Horkios in quanto il suo nome rendeva sacri i giuramenti;
Zeus Xenios come dio dei vaticini e dell'ospitalità;
Zeus Efestios come difensore del focolare domestico;
Zeus Soter come salvatore del popolo.
- Zeus/METIS
figlia di Oceano e di Teti (che impersonificava
la saggezza, la ragione e l'intelligenza), fu la prima
moglie di Zeus ma che fece una triste fine in quanto
sia Urano che Gea avevano predetto a Zeus che sarebbe
stato detronizzato da un figlio di Metis pertanto quando
questa rimase incinta di Atena Zeus la ingoiò per essere
sicuro di mantenere il regno.
Tutto ebbe inizio quando a Zeus, in quel periodo sposo
di Metis, fu predetto da Gea e da Urano che un giorno
Metis avrebbe partorito due figli, il secondo dei quali
lo avrebbe detronizzato. Zeus, spaventato da quella
profezia e dato che Metis era incinta del loro primo
figlio, decise di non correre rischi e la ingoiò.
Il tempo riprese a scorrere sereno per Zeus che si era
anche dimenticato della fine che aveva fatto fare alla
moglie. Un giorno però iniziò ad essere assalito da
violentissime fitte alla testa. Non potendole sopportare
chiese ad Efesto di colpirlo in testa con il suo martello.
Efesto si rifiutava di eseguire l'ordine in quanto non
capiva cosa stesse succedendo ma date le urla e le insistenze
di Zeus alla fine lo colpì violentemente in testa. Nel
momento stesso in cui il suo martello toccò la testa
di Zeus l'Olimpo tremò, i lampi sconquassarono il cielo
e dal suo cranio uscì una densa nuvola nella quale si
trovava una creatura, vestita con una lucente armatura,
che teneva alla sua destra un giavellotto: era nata
Atena, la dea guerriera che si sarebbe contrapposta
ad Ares personificazione della guerra brutale e violenta.
I mitografi diedero alla sua nascita una concezione
naturalistica e videro in Atena la personificazione
del lampo che disperde le nuvole e riporta il sereno
(da qui il suo epiteto di Glaucopis, cioè dagli occhi
scintillanti).
Atena manifestò doti non solo come guerriera ma anche
come donna saggia ed accorta. Infatti divenne ben presto
anche la dea della ragione, della arti, della letteratura,
della filosofia, del commercio e dell'industria. Era
la personificazione della saggezza e della sapienza
in tutti i campi delle scienze conosciute. Insegnò agli
uomini la navigazione, ad arare i campi, ad aggiogare
i buoi, a cavalcare ed alle donne insegnò anche a tessere,
a tingere e a ricamare. Era anche una dea fiera che
puniva severamente chi osava competere con lei
Con il passare del tempo Atena chiese al padre che le
fosse consacrata una regione della terra che la potesse
onorare. Già da diverso tempo però Poseidone era in
attesa che Zeus gli assegnasse una regione e fu così
che tra le due divinità si accese una violenta disputa
per avere il dominio sull'Attica.
Zeus, dato che non sapeva che fare decise allora di
proclamare una sfida tra Poseidone ed Atena: chi tra
i due avesse fatto alla città il dono più utile, ne
avrebbe avuto la supremazia e Cecrope fu posto ad arbitro
della contesa.
Cecrope è il primo leggendario re di Atene. Nacque dal
suolo stesso dell'Attica, ed era rappresentato con un
corpo da uomo terminante con una coda di serpente.
Nell'antichità, infatti, il serpente era uno dei simboli
della terra. A lui sono attribuiti i primi segni di
civiltà, come l'abolizione dei sacrifici cruenti, il
principio della monogamia, l'invenzione della scrittura
e l'uso di seppellire i morti. La tomba di Cecrope sembra
sia da collocarsi, secondo il mito, sull'acropoli di
Atene, nei pressi dell'Eretteo.
Quando la sfida iniziò alla presenza di tutti gli dei,
Poseidone toccò con il suo tridente la terra e fece
saltar fuori una nuova creatura che mai prima di allora
si era vista, il cavallo che da quel momento popolò
tutte le regioni della terra e divenne un grande aiuto
per la vita dell'uomo.
Atena, dal canto suo percosse il suolo con il suo magico
giavellotto e in conseguenza di ciò scaturì dal terreno
un albero di olivo.
Cercrope, decise che fosse Atena la vincitrice e da
quel giorno la capitale dell'Attica fu chiamata Atene
in onore della dea.
Da quel momento la vita iniziò a scorrere serena in
Attica ed Atena insegnava al suo popolo le scienze e
le arti.
Aracne,
figlia del tintore Idmone, era
una fanciulla che viveva nella città di Colofone,
nella Lidia, famosa per la sua porpora. Era molto
conosciuta per la sua abilità di tessitrice e ricamatrice
in quanto le sue tele erano considerate un dono
del cielo tanto erano piene di grazia e delicatezza
e le persone arrivavano da ogni parte del regno
per ammirarle.
Aracne era molto orgogliosa della sua bravura tanto
che un giorno ebbe l'imprudenza di affermare che
neanche l'abile Atena, anche lei famosa per la sua
abilità di tessitrice, sarebbe stata in grado di
competere con lei tanto che ebbe l'audacia di sfidare
la stessa dea in una pubblica gara.
Atena, non appena apprese la notizia, fu sopraffatta
dall'ira e si presentò ad Aracne sotto le spoglie
di una vecchia suggerendo alla stessa di ritirare
la sfida e di accontentarsi di essere la migliore
tessitrice tra i mortali. Per tutta risposta Aracne
disse che se la dea non accettava la sfida era perchè
non aveva il coraggio di competere con lei. A quel
punto Atena si rivelò in tutta la sua grandezza
e dichiarò aperta la sfida.
Una di fronte all'altra Atena ed Aracne iniziarono
a tessere le loro tele e via via che le matasse
si dipanavano apparivano le scene che le stesse
avevano deciso di rappresentare: nella tela di Atena
erano rappresentate le grandi imprese compiute dalla
dea ed i poteri divini che le erano propri; Aracne
invece, raffigurava gli amori di alcuni dei, le
loro colpe ed i loro inganni.
Quando le tele furono completate e messe l'una di
fronte all'altra, la stessa Atena dovette ammettere
che il lavoro della sua rivale non aveva eguali:
i personaggi che erano rappresentati sembrava che
balzassero fuori dalla tela per compiere le imprese
rappresentate. Atena, non tollerando l'evidente
sconfitta, afferrò la tela della rivale riducendola
in mille pezzi e tenendo stretta la spola nella
mano, iniziò a colpire la sua rivale fino a farla
sanguinare.
Aracne, sconvolta dalla reazione della dea, scappò
via e tentò di suicidarsi cercando di impiccarsi
ad un albero. Ma Atena, pensando che quello fosse
un castigo troppo blando, decise di condannare Aracne
a tessere per il resto dei suoi giorni e a dondolare
dallo stesso albero dal quale voleva uccidersi ma
non avrebbe più filato con le mani ma con la bocca
perchè fu trasformata in un gigantesco ragno.
Racconta Ovidio (Metamorfosi, IV, 23 e segg.): "
(...) Accetta Minerva la sfida ... la dea dai biondi
capelli si corrucciò del felice successo e stracciò
la trapunta tela che scopre le colpe dei numi e
colpì con la spola di citoriaco bosso più volte
la fronte di Aracne. Non lo patì l'infelice: furente
si strinse la gola con un capestro e restò penzoloni.
Atena, commossa, la liberò, ma le disse: - Pur vivi
o malvagia, e pendendo com'ora pendi. E perchè ti
tormenti nel tempo futuro, per la tua stirpe continui
il castigo e pei tardi nepoti -. Poscia partendo
la spruzza con sughi di magiche erbette: subito
il crime toccato dal medicamento funesto cadde e
col crine le caddero il naso e gli orecchi: divenne
piccolo il capo e per tutte le membra si rimpicciolisce:
l'esili dita s'attaccano, invece dei piedi, nei
fianchi: ventre è quel tanto che resta, da cui vien
traendo gli stami e, trasformata in un ragno, contesse
la tela di un tempo" .
Scrive Dante Alighieri (Purgatorio, XII, 43-45):
O folle Aragne, sì vedea io te
Già mezza ragna, trista in su li stracci
De l'opera che mal per te si fé.
Ancor oggi, quando si vede un ragno tessere la sua
tela, si ripensa alla sorte toccata alla tessitrice
della Lidia condannata per il resto della sua vita
a quel triste destino perchè aveva osato essere
più abile di una dea.
Tiresia
Tramandato da Callimaco, Nonno di Panopoli, Properzio,
Apollodoro. L'indovino avrebbe perso la vista per
punizione di Atena; la dea, infatti, fu vista dal
giovane Tiresia mentre faceva il bagno nuda, cosa
che era assolutamente proibita ai mortali. La pena,
di solito era la morte, ma a Tiresia fu risparmiata
in virtù dell'amicizia della dea con la madre del
giovane Tiresia: la dea, anzi, come compensazione
della perdita della vista diede a Tiresia anche
la facoltà di vaticinare.
Tiresia è come indovino, prima di tutto un mediatore
fra gli dei e gli uomini: pertanto questo fatto
gli permette di partecipare dell'immortalità che
caratterizza gli dei. In effetti Tiresia, che visse
per sette generazioni, non conobbe in termini reali
la morte. Dunque, questa posizione privilegiata
gli permette di essere un mediatore, di avere una
posizione particolare proprio all'interno delle
generazioni regali della casa reale di Tebe non
solo tra i vivi, ma anche tra i morti della famiglia
stessa. Da un certo punto di vista questa trascendenza
può apparire come una trasgressione all'ordine abituale
delle cose, fondato sul rispetto delle opposizioni,
stabilito una volta per tutte all'origine del mondo.
Inoltre, Tiresia è oggetto egli stesso di una repressione
che viene dagli dei; essi, infatti, mal sopportano
che i loro segreti siano rivelati agli uomini da
un indovino che, a sua volta, sta anche dalla parte
degli uomini, esseri che, talvolta, non riconoscono
in lui l'autorità di un indovino. (…) Ecco perché
Tiresia, oltre ad essere stato reso cieco dagli
dei, che, per supplire a questa mutilazione gli
hanno donato il bastone (che a sua volta e il simbolo
dello statuto da intermediario che l'indovino occupa),
non è creduto dagli uomini che lo prendono in giro
e qualche volta lo insultano. Nell'analisi del primo
episodio della prima versione (A), si è dimostrato
che questo tipo di relazioni si organizzava, questa
volta, attorno alla figura di un serpente, il guardiano
di tutte le potenze che Gaia, la Terra, raccoglie
(…) Il serpente appariva come il guardiano e il
dispensatore della potenza divina (...) Ecco perché
anche una coppia di serpenti intrecciati attorno
ad un bastone può diventare, per un indovino, l'emblema
della sua funzione di mediatore, la cui bisessualità
successiva non ne è che un aspetto. D'altra parte,
il serpente intrattiene dei rapporti privilegiati
con la vita e la morte; e in effetti sotto forma
di serpente che le anime tornano alla terra e, inoltre,
il fatto che egli si spogli ogni anno della sua
pelle (che corrisponde alla sua vecchiaia), fa sì
che questo animale sia considerato un essere dotato
di una longevità straordinaria, del tipo di quella
di cui è proprio dotato Tiresia.
Narciso
La storia che andiamo a narrare è la più conosciuta
della mitologia greca e sono tante le sue versioni.
Noi prendiamo spunto da quanto ci narra Ovidio nelle
Metamorfosi per narrare le vicende di questo giovane
la cui bellezza, pari a quella di un dio, fu la
causa della sua stessa rovina.
Il fanciullo di cui parliamo si chiama Narciso ed
era figlio della ninfa Liriope e del fiume Cefiso(1)che,
innamorato della ninfa, la avvolse nelle sue onde
e nelle sue correnti, possedendola. Da questa unione
nacque un bambino di indescrivibile bellezza e grazia.
La madre, poichè voleva conoscere il destino del
proprio figlio, si recò dal vate Tiresia per sapere
il suo futuro.
Era questo il più grande fra tutti gli indovini
che la sorte aveva reso cieco perchè aveva osato
porre i suoi occhi sulle nudità della dea guerriera
Atena che, dopo averlo punito per la sua audacia
rendendolo cieco, gli fece dono del vaticinio.
Tiresia dopo aver ascoltato le richieste di Liriope
le disse in tono greve che suo figlio avrebbe avuto
una lunga vita se non avesse mai conosciuto se stesso.
Liriope, che non comprese la profezia dell'indovino,
andò via e con il passare degli anni dimenticò quanto
gli era stato profetizzato.
Gli anni passarono veloci e Narciso cresceva forte
e di una bellezza tanto dolce e raffinata che tutte
le persone che lo rimiravano, fossero esse uomini
o donne, si innamoravano di lui anche se Narciso
rifuggiva ogni attenzione amorosa. Si racconta della
sua insensibilità e vanità tanto che un giorno regalò
una spada ad Aminio, un suo acceso spasimante, perchè
si suicidasse ed Aminio tanto era grande il suo
amore per Narciso, si trafisse il cuore sulla soglia
della sua casa.
Aminio morente invocò gli dei perchè vendicassero
la sua morte e al suo grido rispose Artemide, che
fece innamorare Narciso di se stesso.
La Ninfa Eco
ebbe la ventura di incrociare Narciso, incontro
nefasto che fu la rovina di entrambi i giovani.
Si narra che la sposa di Zeus, Era, la cui gelosia
era nota a tutti gli dei e a tutti i mortali, era
sempre alla ricerca dei tradimenti del marito e
sfortuna volle che un giorno si rese conto che la
compagnia e le continue chiacchiere della ninfa
Eco, altro non erano che un modo per tenerla a bada
e distrarla per favorire gli amori di Zeus dando
il tempo alle sue concubine di mettersi in salvo.
Grande fu la sua rabbia quando apprese la verità
e la sua ira si manifestò in tutta la sua potenza:
rese Eco destinata a ripetere per sempre solo le
ultime parole dei discorsi che le si rivolgevano.
Racconta Luciano (Epigrammi "A una statua di Eco")
"Questa è l'Eco petrosa amica di Pane,
Che rimanda, ripete le parole,
E ti risponde in tutte le lingue umane;
E più scherzare coi pastori suole.
Dille qualunque cosa, odila e poi
Vanne pei fatti tuoi."
Un giorno mentre Narciso era intento a vagare nei
boschi e a tendere reti tra gli alberi per catturare
i cervi, lo vide la bella Eco che, non potendo rivolgergli
la parola, si limitò a rimirare la sua bellezza,
estasiata da tanta grazia. Per diverso tempo lo
seguì da lontano senza farsi scorgere e Narciso,
intento a rincorrere i cervi, nè si accorse di lei
nè si accorse che si era allontanato dai compagni
ed aveva smarrito il sentiero. Iniziò Narciso a
chiamare a gran voce, chiedendo aiuto non sapendo
dove andare. A quel punto Eco decise di mostrarsi
a Narciso rispondendo al suo richiamo di aiuto e
si presentò protendendo verso di lui le sue braccia
offrendosi teneramente come un dono d'amore e con
il cuore traboccante di teneri pensieri.
Ma ancora una volta la reazione di Narciso fu spietata:
alla vista di questa ninfa che si offriva a lui
fuggi inorridito tanto che la povera Eco avvilita
e vergognandosi, scappò via dolente. Si nascose
nel folto del bosco e cominciò a vivere in solitudine
con un solo pensiero nella mente: la sua passione
per Narciso e questo pensiero era ogni giorno sempre
più struggente che si dimenticò anche di vivere
ed il suo corpo deperì rapidamente fino a scomparire
e a lasciare di lei solo la voce. Da allora la sua
presenza si manifesta solo sotto forma di voce,
la voce di Eco, che continua a ripetere le ultime
parole che gli sono state rivolte.
Gli dei vollero allora punire Narciso per la sua
freddezza ed insensibilità e mandarono Nemesi, dea
della vendetta, che fece si che mentre si trovava
presso una fonte e si chinava per bere un sorso
d'acqua, nel vedere la sua immagine riflessa immediatamente
il suo cuore iniziò a palpitare e a struggersi d'amore
per quel volto così bello, tenero e sorridente.
Racconta Ovidio (Metamorfosi III, 420 e segg.):
"Contempla gli occhi che sembrano stelle, contempla
le chiome degne di Bacco e di Apollo, e le guance
levigate, le labbra scarlatte, il collo d'avorio,
il candore del volto soffuso di rossore ... Oh quanti
inutili baci diede alla fonte ingannatrice! ...
Ignorava cosa fosse quel che vedeva, ma ardeva per
quell'immagine ..."
Non consapevole che aveva di fronte se stesso, ammirava
quell'immagine e mandava baci e tenere carezze ed
immergeva le braccia nell'acqua per sfiorare quel
soave volto ma l'immagine scompariva non appena
la toccava.
Rimase a lungo Narciso presso la fonte cercando
di afferrare quel riflesso senza accorgersi che
i giorni scorrevano inesorabili, dimenticandosi
di mangiare e di bere sostenuto solo dal pensiero
che quel malefico sortilegio che faceva si che quell'immagine
gli sfuggisse, sparisse per sempre(4).
Alla fine morì Narciso, presso la fonte che gli
aveva regalato l'amore anelando un abbraccio dalla
sua stessa immagine.
Quando le Naiadi e le Driadi andarono a prendere
il suo corpo per collocarlo sulla pira funebre si
narra che al suo posto fu trovato uno splendido
fiore bianco che da lui prese il nome di Narciso.
Narra Ovidio (Metamorfosi III 420 e segg.):
"Languì a lungo d'amore non toccando più cibo nè
bevanda. A poco a poco la passione lo consumò, e
un giorno vicino alla fonte ... reclinò sull'erba
la testa sfinita, e la morte chiuse i suoi occhi
che furono folli d'amore per sé. ... Piansero le
Driadi, ed Eco rispose alle grida dolenti. Già avevano
preparato il rogo, le fiaccole, la bara, ma il suo
corpo non c'era più: trovarono dove prima giaceva,
un fiore dal cuore di croco recinto di candide foglie".
E gli antichi narrano ancora che a Narciso non fu
di lezione passare ad un'altra vita in quanto, mentre
attraversava lo Stige, il fiume dei morti per entrare
nell'Oltretomba, continuava a cercare il suo amato,
riflesso nelle acque del nero fiume.
In qualunque modo sia morto Narciso è certo che
questo mito è arrivato sino a giorni nostri. Pittori,
musicisti, scrittori, psicologici, continuano a
trarre ispirazione dalla storia di questo giovane.
Era superbo? Era egocentrico? Era egoista? Era ingenuto?
Ognuno ne dia l'interpretazione che ritiene più
consona anche se è certo che in fondo il giovane
Narciso cercava solo una cosa: l'amore, come ogni
creatura che popola questa terra.
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2. Zeus / Temi
Nel mondo antico la Giustizia era una Dea, chiamata
Dike quando rappresentava la giustizia umana, e chiamata
Temi quando indicava la giustizia come legge eterna.
Il suo nome significa "irremovibile", e quindi va considerata
come un'astrazione: essa è l'ordine cosmico ed il suo
nome veniva invocato nei giuramenti.
Essa era la personificazione della regola naturale e
sociale, e perciò vigila su quanto è lecito ed illecito,
regola la convivenza fra gli dèi, fra i mortali e i
due sessi. L'ideale di Giustizia di cui è emblema, era
collegato con il Destino, il Tempo e la Morte.
Dall'unione di Temi con Zeus nacquero:
ASTREA (o Diche) Dea della giustizia, considerata
il principio fondamentale per lo sviluppo di ogni
società civile, perché diffuse i sentimenti di giustizia,
come fece la madre prima di lei, e di bontà.
Secondo il mito la dea viveva in mezzo agli uomini,
durante l'età dell'oro dopo disgustata dalla degenerazione
morale del genere umano, dapprima si rifugiò nelle
campagne, e poi, al principio dell'età del ferro,
risalì definitivamente in cielo, dove splende sotto
l'aspetto della costellazione della Vergine.
LE ORE
In origine Le Ore attiche erano solamente due, Tallo
(germoglio) e Carpo (frutto), nomi alludenti alla
semina e alla crescita del frutto delle piante.
Esiodo nella Teogonia ne indica tre e simboleggiavano
il regolare scorrere del tempo nell'alterna vicenda
delle stagioni (primavera, estate ed autunno fusi
insieme, inverno); poi ne fu aggiunta una quarta
(allusione all'autunno); in epoca romana finirono
col personificare le ore vere e proprie, divenendo
12 e da ultimo 24. Le ore si presentano in duplice
aspetto:
* in quanto figlie di Temi (l'Ordine universale)
assicuravano il rispetto delle leggi morali;
* in quanto divinità della natura presiedevano al
ciclo della vegetazione.
Questi due aspetti spiegano i loro nomi:
* Eunomia, la Legalità;
* Diche, la Giustizia;
* Irene, la Pace;
oppure:
* Tallo, la Fioritura primaverile;
* Auso, il Rigoglio estivo;
* Carpo, la Fruttificazione autunnale.
Le Ore sorvegliavano le porte della dimora di Zeus
sull'Olimpo (le aprivano e le richiudevano disperdendo
o accumulando una densa cortina di nuvole), servivano
Giunone - che avevano allevata -, attaccavano e
staccavano i cavalli dal suo cocchio e da quello
di Elio; inoltre facevano parte del corteo di Afrodite
- insieme con le Cariti - e di Dioniso.
Gli antichi le rappresentavano come leggiadre fanciulle
stringenti nella mano un fiore o una pianticella,
immaginandole peraltro brune ed invisibili con riferimento
alle ore della notte; ma, se si eccettua un presunto
matrimonio di Carpo con Zéfiro, non ne fecero le
protagoniste di alcuna leggenda. Le onoravano con
un culto particolare ad Atene (dove fu loro consacrato
un tempio), ad Argo, a Corinto, ad Olimpia.
Le Moire
Le Moire è il nome dato alle figlie di Zeus e di
Temi o secondo altri di Ananke. Ad esse era connessa
l'esecuzione del destino assegnato a ciascuna persona
e quindi erano la personificazione del destino ineluttabile.
Erano tre: Cloto, nome che in greco antico significa
"io filo", che appunto filava lo stame della vita;
Lachesi, che significa "destino", che lo svolgeva
sul fuso e Atropo, che significa "inevitabile",
che, con lucide cesoie, lo recideva, inesorabile.
La lunghezza dei fili prodotti può variare, esattamente
come quella della vita degli uomini. A fili cortissimi
corrisponderà una vita assai breve, come quella
di un neonato, e viceversa. Si pensava ad esempio
che Sofocle, uno dei più longevi autori greci (90
anni), avesse avuto in sorte un filo assai lungo.
Grandissimo onore diede loro ZEUS prudente,
le quali concedono agli uomini mortali di avere
il bene e il male
Si tratta di tre donne dall'anziano aspetto che
servono il regno dei morti, l'Ade.
Il sensibile distacco che si avverte da parte di
queste figure e la loro totale indifferenza per
la vita degli uomini accentuano e rappresentano
perfettamente la mentalità fatalistica degli antichi
greci.
Pindaro, in epoca più tarda, le indicò invece come
le ancelle di Temi, al suo matrimonio con Zeus.
Esse agivano spesso contro la volontà di Zeus. Ma
tutti gli dei erano tenuti all'obbedienza nei loro
confronti, in quanto la loro esistenza garantiva
l'ordine dell'universo, al quale anche gli dei erano
soggetti.
Si dice anche che avessero un solo occhio grazie
al quale potevano vedere nel futuro e che spartivano
a turno tra loro.
Delle Moire (o Parche) parla anche Virgilio nell'Eneide,
nel famoso verso: "Sic volvere Parcas" ("Così filano
le Parche").
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3. Zeus / Eurinome
Eurinome, Oceanina figlia di Oceano e di Teti. Mangiare,
pascolare, nutrirsi, questo è essere EURINOME, un fare
divino anche dal punto di vista psichico: fagocitare!
Il fagocitare è il fare proprio, non come possesso,
ma come qualche cosa che diventa parte di te; indistinguibile
da te; partecipe della tua Coscienza di Te! Questo fagocitare
come fare divino, fra gli Esseri della Natura diventa
il mangiare.
Ha tre figlie, le tre CARITI rappresentano un potere
incredibile nella vita degli Esseri Umani. Il loro farsi
DEI li porta a sviluppare nei Sistemi Sociali umani,
Quale la bellezza, ma anche la riconoscenza, il favore,
il piacere e la gioia. La manifestazione di queste DEE
negli Esseri della Natura li rende Radiosi (AGLAIA),
Gioiosi (EUFROSINE) e Fiorenti (TALIA). A Roma le CARITI
saranno identificate con le tre GRAZIE. La gioia e la
ricchezza al seguito di APOLLO assieme alle MUSE.
Nela Teogonia di Esiodo si narra:
« [...]
Ed Eurinóme, figlia d'Ocèano, dal fulgido aspetto,
tre Grazie guancebelle gli diede: Eufrosíne, Talía
vezzosa, Aglaia: quando guardavano, a loro dal ciglio
stillava amor, che scioglie le pene: il lor guardo,
un incanto.
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4. Zeus/DEMETRA
DEMETRA, assieme a Gea e a Rea, era, venerata come Madre
Terra; ma Gea figurava l'elemento delle forze primordiali,
Rea figura la potenza generatrice della terra, mentre
Demetra figura la divinità della terra coltivata, la
dea del grano, dell'ordine costituito. Con il dono dell'agricoltura,
base di civiltà per tutte le popolazioni, Demetra dà
agli uomini anche le norme del vivere civile e, di conseguenza,
le leggi. Demetra, figlia di Crono e di Rea era la madre
di Persefone, avuta dal fratello Zeus.
Proserpina (o Persefone)
Persefone era la dea della vegetazione primaverile.
Crebbe in Sicilia fino al giorno in cui Ade il signore
dei morti, la rapì.
Un giorno Persefone, mentre coglieva dei fiori con
altre compagne si allontanò dal gruppo e all'improvviso
la terra si aprì e dal profondo degli abissi apparve
Ade, dio dell'oltretomba e signore dei morti che,
col permesso di Zeus, la rapiva perché da tempo
innamorato di lei. La portò negli inferi per sposarla
ancora fanciulla contro la sua volontà.
Demetra, accortasi che Persefone era scomparsa,
per nove giorni corse per tutto il mondo alla ricerca
della figlia sino alle più remote regioni della
terra. Ma per quanto cercasse, non riusciva né a
trovarla, né ad avere notizie del suo rapimento.
All'alba del decimo giorno venne in suo aiuto Ecate,
che aveva udito le urla disperate della fanciulla
mentre veniva rapita ma non aveva fatto in tempo
a vedere il volto del rapitore e suggerì pertanto
a Demetra di chiedere ad Elios, il Sole. E così
fu. Elios disse a Demetra che a rapire la figlia
era stato Ade.
Inutile descrivere la rabbia e l'angoscia di Demetra,
tradita dalla sua stessa famiglia di olimpici. Demetra
abbandonò l'Olimpo e per vendicarsi, decise che
la terra non avrebbe più dato frutti ai mortali
così la razza umana si sarebbe estinta nella carestia.
In questo modo gli dei non avrebbero più potuto
ricevere i sacrifici votivi degli uomini di cui
erano tanto orgogliosi.
La dea si mise quindi a vagare per il mondo per
cercare di soffocare la sua disperazione, sorda
ai lamenti degli dei e dei mortali che già assaporavano
l'amaro gusto della carestia.
Il suo pellegrinaggio la portò ad Eleusi, in Attica,
sotto le spoglie di una vecchia, dove regnava il
re Celeo con la sua sposa Metanira. Demetra fu accolta
benevolmente nella loro casa e divenne la nutrice
del figlio del re, Demofonte.
Col tempo Demetra si affezionò al fanciullo che
faceva crescere come un dio, nutrendolo, all'insaputa
dei genitori, con la divina ambrosia, il nettare
degli dei.
Attraverso Demofonte la dea riusciva in questo modo
a saziare il suo istinto materno, soffocando il
dolore per la perduta figlia. Decise anche di donare
a Demofonte l'immortalità e di renderlo pertanto
simile ad un dio, ma, mentre era intenta a compiere
i riti necessari, fu scoperta da Metanira, la madre
di Demofonte. A quel punto Demetra, abbandonò le
vesti di vecchia e si manifestò in tutta la sua
divinità facendo risplendere la reggia della sua
luce divina.
Delusa dai mortali che non avevano gradito il dono
che voleva fare a Demofonte, si rifugiò presso la
sommità del monte Callicoro dove gli stessi Eleusini
gli avevano nel frattempo edificato un tempio.
Il dolore per la scomparsa della figlia, adesso
che non c'era più Demofonte a distrarla, ricominciò
a farsi sentire più forte che mai e a nulla valevano
le suppliche dei mortali che nel frattempo venivano
decimanti dalla carestia.
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Alla fine Zeus, costretto a cedere alle suppliche
dei mortali e degli stessi dei, inviò Ermes, il
messaggero degli dei, nell'oltretomba da Ade, per
ordinargli di rendere Persefone alla madre. Ade,
inaspettatamente, non recriminò alla decisione di
Zeus ma anzi esortò Persefone a fare ritorno dalla
madre. L'inganno era in agguato. Infatti Ade, prima
che la sua dolce sposa salisse sul cocchio di Ermes,
fece mangiare a Persefone un frutto di melograno,
compiendo in questo modo il prodigio che le avrebbe
impedito di rimanere per sempre nel regno della
luce.
Persefone ignorava il trucco di Ade: chi mangia
i frutti degli inferi è costretto a rimanervi per
l'eternità. Secondo altre interpretazioni, il frutto
che nel mito stabilisce il contatto con il regno
dell'oltretomba non è il melograno ma, a causa delle
sue virtù narcotiche e psicotrope, l'oppio, la cui
capsula è peraltro straordinariamente simile (eccetto
che per le dimensioni, più ridotte) al frutto del
melograno.
Grande fu la commozione di Demetra quando rivide
la figlia ed in quello stesso istante, la terrà
ritornò fertile ed il mondo riprese a godere dei
suoi doni.
Solo più tardi Demetra scoprì l'inganno teso da
Ade: avendo Persefone mangiato il frutto di melograno
nel regno dei morti, era costretta a farvi ritorno,
ogni anno, per un lungo periodo.
Con l'intervento di Zeus si giunse ad un accordo,
per cui, visto che Persefone non aveva mangiato
il frutto intero, sarebbe rimasta nell'oltretomba
solo per un numero di mesi equivalente alla quantità
del mezzo frutto da lei mangiato, potendo trascorrere
con la madre il resto dell'anno. Così Persefone
avrebbe trascorso sei mesi con il marito negli inferi
e sei mesi con la madre sulla terra. Demetra allora
accoglieva con gioia il periodico ritorno di Persefone
sulla Terra, facendo rifiorire la natura in primavera
ed in estate.
Allora Demetra decretò che nei sei mesi che Persefone
fosse stata nel regno dei morti, nel mondo sarebbe
calato il freddo e la natura si sarebbe addormentata,
dando origine all'autunno e all'inverno, mentre
nei restanti sei mesi la terra sarebbe rifiorita,
dando origine alla primavera e all'estate.
Gli antichi adombrarono in questo mito riferimenti
impliciti ai cicli della natura, delle stagioni,
dei raccolti, in particolare ai frutti della terra
che trascorrono parte dell'anno nascosti sotto la
superficie per poi sbocciare e fruttificare. Questo
era un mito che esaltava insieme il valore del matrimonio
(sei mesi a fianco dello sposo), la fertilità della
Natura (risveglio primaverile), la rinascita e il
rinnovare la vita dopo la morte, motivi questi che
rendevano la dea Persefone particolarmente popolare
e venerata. A lei si sacrificavano vacche nere e
sterili, il suo emblema è il papavero, e aveva la
base del suo culto in Sicilia, in Beozia e ad Eleusi.
A Persefone si sacrificavano giovenche nere e il
suo emblema è il papavero. Aveva la base del suo
culto in Sicilia, in Beozia, ad Eleusi, e in suo
onore si eseguivano i giochi Tarentini che duravano
tre giorni ed erano caratterizzati da un'eccessiva
sfrenatezza. Era celebrata in Grecia con le feste
Eleusine ed in Sicilia le Antesforie. Nella mitologia
latina presiedeva alla crescita ed al germogliare
delle messi. In suo onore si celebravano i giochi
Tarentini che duravano tre giorni ed erano caratterizzati
da un'eccessiva sfrenatezza.
Testimonianze magno-greche del culto dedicato a
Persefone sono oggi rappresentate dal notevole quantitativo
di reperti rinvenuti nell'area di Reggio Calabria,
soprattutto presso gli scavi di Locri Epizefiri
dei quali uno smisurato numero di Pinakes (tavolette
votive in terracotta) è custodito al Museo Nazionale
della Magna Grecia di Reggio; mentre la magnifica
"Statua di Persefone" esposta oggi al museo di Berlino,
fu trafugata da Locri nel911 o da Taranto nel 1912,
ed acquistata da un emissario del Kaiser di Prussia
dopo aver migrato per Spagna e Francia. Un ulteriore
testimonianza del culto di Persefone ci viene da
Oria, dove fu presente ed attivo dal VI secolo a.C.
fino all'età romana, un importante santuario (oggi
sito presso Monte Papalucio), dedicato alle divinità
Demetra e Persefone. Qui vi si svolgevano culti
in grotta legati alla fertilità. Gli scavi archeologici
svolti negli anni ottanta, infatti, hanno evidenziato
numerosi resti composti di maialini (legati alle
due divinità) e di melograno. Inoltre, a sottolineare
l'importanza del santuario, sono state rinvenute
monete di gran parte della Magna Grecia, e migliaia
di vasi accumulatisi nel corso dei secoli come deposito
votivo lungo il fianco della collina. Di particolare
interesse sono alcuni vasetti miniaturistici ed
alcune statuette raffiguranti colombe e maialini
sacri alle due divinità cui era dedicato il luogo
di culto. Altri esempi di ritrovamenti della Kore
si hanno a Gela, una delle capitali della Magna
Grecia. Diversi reperti sono custoditi presso il
Museo Regionale di Gela, tra i più ricchi presenti
nell'Isola.
KORE
Kore, altro nome di Proserpina, è l'archetipo della
fanciulla, nata e cresciuta in un ambiente profondamente
femminile, allegra e leggera, sempre positiva, in
cui si accentua il lato sventato, di giovine imprevidente:
la donna Persefone è distratta, svagata, poetica.
è attratta da Ade, il lato oscuro degli uomini,
e di lui ha bisogno, ma necessita di tornare periodicamente
dalla madre, in quella primavera della quale si
nutre da sempre: è di solito una casa ricca di affetti,
di cose, di cultura femminile, che le impediscono
di crescere veramente. Ade è costretto ad aspettarla
pazientemente, ma sa che tornerà. Per questi motivi
Persefone è considerata la dea della vegetazione
primaverile ma anche una divinità lunare per la
coincidenza della sua "comparsa - scomparsa" con
le fasi della luna.
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5. Zeus/MNEMOSINE
Mnemosine è la personificazione della memoria (e secondo
altre fonti anche del canto e della danza), titanide,
figlia di Urano (il Cielo) e Gea (la Terra).
Dopo la sconfitta dei Titani gli dei chiesero a Zeus
di creare un gruppo di divinità che cantassero la vittoria.
Mnemosine fu amata da Zeus il quale le si presentò sotto
forma di pastore. Giacquero insieme per nove notti sui
monti della Pieria e dopo un anno nacquero nove figlie:
le Muse. Le Muse furono rese responsabili di ispirare
canti funebri, la poesia, il dramma e la danza...per
questa ragione è solito che gli artisti invochino la
protezione e l'ispirazione delle Muse. Compaiono spesso
associate alla compagnia di Apollo e Pegaso. Saffo fu
considerata da molti essere la decima Musa. La nostra
parola "museum" deriva dal termine"museion" che è il
tempio dedicato alle Muse; e anche Musica.
Le genealogie differiscono, ma tutte evidentemente si
ricollegano, più o meno indirettamente, a concezioni
filosofiche sul primato delle musica nell'Universo;
le Muse infatti presiedono al pensiero in tutte le sue
forme: eloquenza, persuasione, saggezza, storia, matematica,
astronomia.
A partire dall'epoca classica il numero nove s'è imposto
e ciascuna, a poco a poco, ha ricevuto una determinata
funzione, d'altronde variabile secondo gli autori; si
ammette in genere la lista seguente: Calliope - poesia
epica, Polimnia - pantomima, Euterpe - flauto, Tersicore
- danza, Erato - lirica corale, Melpomene - tragedia,
Talia - commedia, Urania - astronomia, Clio - storia.
CLIO
è la celebrazione. CLIO sono le storie della
vita. Le storie della specie. Le storie delle
trasformazioni dei Sistemi Sociali. Raccontare
cosa fu il passato per conoscere i meccanismi
attraverso i quali costruire il futuro. Quante
cose sono dimenticate nella memoria degli Esseri
Umani ma non sono perdute. Ogni cosa ha partecipato
a costruire quello che noi siamo. Ogni cosa
è dentro di noi e ci circonda. Un ululato di
un lupo, un'umana imprecazione, il canto di
una civetta. Nulla è andato perduto. Tutto è
manipolazione di quanto esiste e manifestazione
di quanto è esistito. Ricorda e celebra! Celebra
e segui le orme e gli insegnamenti di chi ha
costruito un'esperienza.
EUTERPE
è la MUSA della musica strumentale.
E' un altro "canale di passione" generato nell'Essere
Umano per la musica auletica. La musica del
flauto. EUTERPE è la trasformazione di un Essere
Umano nel divino, che usando uno strumento,
un oggetto, per costruire armonie riesce ad
entrare in relazione con le armonie dell'universo.
EUTERPE è la trasformazione dell'Essere Umano
per entrare in sintonia con l'oggetto che suona
e poi con i suoni dell'universo. Se al tempo
di Esiodo questo strumento era il flauto, oggi
come oggi gli strumenti sono numerosi.
TALIA
la MUSA, perché c'e anche una CARITE (una
Grazia).
Un altro "canale di passione" è la Musa TALIA.
La passione per la vita intesa come una commedia
che deve essere recitata sul palcoscenico del
mondo. Una recitazione che impegna chi la esegue
al punto tale da co|||| propria personalità
a cambiare d'umore e di emozione a seconda del
personaggio che intende recitare o della situazione
che si appresta a rappresentare.
TALIA la manifestazione della Follia Controllata
nell'Essere Umano attraverso la quale costui
affronta il mondo, gli spettatori del mondo.
Reagisce nei confronti dei fenomeni percepiti
che gli arrivano dal mondo. Un Essere Umano
che decide come deve rappresentarsi. Quando
deve rappresentarsi. Un Essere Umano che sceglie
di organizzare la propria apparenza in funzione
del raggiungimento di uno scopo nei confronti
degli spettatori. E ride TALIA! La sua comicità
è arte della rappresentazione. E' la sua Follia
davanti alla quale lo spettatore altro non fa
che ridere, divertirsi: quanto è sciocca TALIA!
Quanto è immenso il suo progetto di vita; quanto
è serio! Quanto è sciocco lo spettatore: costruisce
il suo giudizio guardando TALIA anziché pescarlo
dal proprio cuore! E TALIA fa ridere lo spettatore.
Nel farlo ridere nasconde la fierezza, la determinazione
e la durezza del proprio progetto.
MELPOMENE
è come TALIA! Se TALIA presenta il lato allegro
e comico col quale nasconde la propria determinazione
e il proprio progetto di vita, MELPOMENE presenta
la sua disperazione, la sua tragedia con cui
nascondere il proprio progetto di vita. TALIA
fa ridere lo spettatore; MELPOMENE lo fa piangere!
Due modi diversi attraverso i quali rappresentare
la follia controllata degli Esseri Umani. Due
modi diversi per rappresentare le umane passioni
con cui nascondere i progetti attraverso i quali
affrontare la vita. MELPOMENE costringe lo spettatore
a vivere delle sue stesse passioni e delle sue
stesse traversie. Lo costringe ad essere partecipe.
Costringe l'attenzione dello spettatore ad adeguarsi
alla sua storia.
TERSICORE
è la danza. Provate ad addestrarvi
a danzare: Rappresentare l'universo attraverso
il fluire delle movenze. La trasformazione soggettiva
che comporta. L'uso dell'Attenzione che ciò
implica. La manipolazione della propria soggettività
attraverso la quale devono fluire le rappresentazioni
della vita, dei sentimenti, delle emozioni che
dal mondo arrivano al soggetto che danza e che
questo ritrasmette al mondo che lo guarda. Danzare
significa rappresentare. Rappresentare quei
fenomeni e quelle tensioni che hanno inciso
i propri sentimenti attraversando la propria
attenzione.
L'individuo che danza manipola sé stesso.
All'inizio è una manipolazione dell'azione fisica,
ma a mano a mano che questa procede diventa
manipolazione delle sue emozioni, dei suoi sentimenti
della sua percezione del mondo. La direzione
del suo sentire sarà soltanto sua, come soltanto
sua sarà la rappresentazione del mondo, ma lui
la trasmette. Lui prende il suo sentire e costruisce
una rappresentazione che dona agli Esseri della
propria specie. Non è il sentire che gira vuoto
nella vita, ma è il sentire che viene rappresentato
attraverso la manipolazione della soggettività
dell'attore.
ERATO
è un canale di passione proprio degli Esseri
della Natura attraverso il quale si manifesta
AFRODITE. E' il canto armonioso, la passione
dell'amore e il travolgere delle emozioni che
attraversano gli Esseri figli di ERA. Quando
le passioni amorose travolgono gli Esseri, ogni
prescrizione, ogni tabù imposto dalla ragione
crolla! Si rimescola l'Energia Vitale e si sfondano
i confini posti dalla ragione. Nuovi fenomeni,
nuovi giudizi si formano negli Esseri Umani,
tutto cambia: la ragione stessa!
Gli DEI TITANI posero dei fondamenti nell'universo
e ZEUS genera i canali di passione per i figli
di ERA affinché non rimanessero prigionieri
di tristi e grigi confini. Attraverso quei canali
di passione i figli di ERA possono muovere i
loro passi e la passione amorosa è calata tanto
profondamente negli Esseri figli di ERA da rappresentare
l'attività emozionale primaria sulla quale si
innestano tutte le altre passioni.
ERATO è il canto d'amore. Il canto di passione
di ogni Essere che si fonde con la vita. ERATO
vive di questa passione; ERATO è questa passione;
ERATO alimenta questa passione.
POLIMNIA
è un "canale di passione" molto legato agli
Esseri Umani. Le passioni POLIMNIA le esprime
con le parole e la mimica. Parole e mimica che
necessitano di altrettanta disciplina che per
suonare uno strumento o per danzare esprimendo
sentimenti, sensazioni ed emozioni. Parole che
travolgono, parole che offendono, parole che
coinvolgono, parole che affascinano! Gesti!
Gesti di offerta, gesti di rabbia, gesti cortesi
e gesti di passione.
Sembra quasi normale POLIMNIA nelle azioni degli
Esseri Umani, nel loro corrugare la fronte o
farsi scuotere da riso irrefrenabile. Passione
che esce dai gesti, passione che si esprime
con le parole davanti ad un uditorio che deve
essere coinvolto, travolto, appassionato oppure
indignato e rabbioso!
Per far questo, per ottenere questo risultato
è necessario essere coinvolti! Non si tratta
della Follia Controllata di TALIA né di quella
di MELPOMENE; si tratta di una piccola pietra
che si mette in moto generando una valanga.
TALIA e MELPOMENE nascondono l'intento allo
spettatore. L'attore crea l'inganno per giungere
al proprio INTENTO. Si tratta dell'arte della
rappresentazione sul palcoscenico della vita.
Lo spettatore ride e piange, si diverte e si
commuove, ma rimane uno spettatore al di là
della rappresentazione dell'attore. L'attore
mantiene le distanze dallo spettatore: io sono
colui che agisce! Lo spettatore assiste.
POLIMNIA non divide gli Esseri in attivi e passivi,
ma fra chi la manifesta e chi ancora non la
manifesta, ma deve essere chiamato a manifestarla.
L'arte di POLIMNIA è quella di mettere in moto
gli Esseri Umani. "Alle armi, difendiamo la
patria!"
C'è una POLIMNIA che percepisce le emozioni
del mondo e le trasmette risvegliando la POLIMNIA
in ogni Essere che assiste alla sua rappresentazione
URANIA
Quanto è piacevole guardare il cielo stellato;
quante emozioni! Il cielo stellato è in grado
di dare all'Essere Umano, il senso dell'INFINITO
in cui è immerso.
Che grande "canale di passione" è URANIA! Figlia
di ZEUS e calata negli Esseri Umani affinché
non perdano il contatto con l'INFINITO dal quale
sono emersi: URANO STELLATO! Quante notti gli
Esseri Umani hanno trascorso ammirando il mondo
sopra la loro testa. Un mondo sempre vario che
hanno descritto e popolato di Esseri fantastici.
La loro fantasia ha tentato di mettere ordine
in un INFINITO nel quale il loro sentimento
e le loro emozioni si perdono. Per loro "fortuna"
la ragione ha ritagliato lo spazio della descrizione
altrimenti l'Essere Umano avrebbe rincorso ogni
voce e ogni sussurro che da quell'immenso sarebbe
giunto a lui senza la possibilità di costruire
la disciplina del proprio sentire. Senza la
possibilità di costruire la propria esistenza!
"Fortuna"? No! Necessità! L'Essere Umano è divenuto
in questo modo perché quelle erano le condizioni
e ZEUS poteva ritagliare delle condizioni nell'insieme
in cui esisteva.
Gli Esseri della Natura separati dall'INFINITO
per fondare la propria Coscienza di Sé. Nello
stesso tempo attori nell'INFINITO legati da
un "canale di Passione" che permette loro di
anelare alla LIBERTA' intesa come movimento
in spazi senza confini.
URANIA è un sussurro dell'immenso. Un immenso
nel quale Esseri Umani si sono immersi tentando
di mettere ordine. Descrivendo e catalogando,
ma sempre in quell'immenso facevano correre
la loro fantasia. Sempre in quell'immenso facevano
rifugiare i propri desideri e, quando questi
prendevano forma, erano sempre pregnati del
Potere dell'Immenso che alimentava il sentire
e la determinazione degli Esseri che a quell'immenso
anelavano.
CALLIOPE
Esiodo dice: "e Calliope, che è la più illustre
di tutte!".
La MUSA che esprimo è la più importante di tutte
in quanto io la esprimo. Se io esprimessi una
diversa o diverse MUSE queste sarebbero le più
importanti. Lo sono perché attraverso quei canali
di passione costruisco il mio cammino nell'infinito.
Altri cammini, altri "canali di passione" mi
sono sconosciuti. Non li conosco, non li alimento,
loro mi ignorano! E' più illustre perché quella
si esprime attraverso il mio fare e il mio esistere.
Quante gesta e quante storie racconta CALLIOPE.
Storie epiche in cui gli Esseri Umani dettero
l'assalto al cielo della conoscenza e della
consapevolezza. Grandi Eroi e grandi DEI hanno
alimentato CALLIOPE che tramandandone le gesta
ha mantenuto un "canale di passione" vivo e
attento nella ragione dell'Essere Umano e del
grigiore della vita alla quale spesso è costretto.
Certo, mi alzo al mattino per lavorare, ma ERCOLE
ha compiuto le sue fatiche ed è diventato un
DIO. Certo guardo le mani distrutte dal lavoro
o la noia del quotidiano, ma CRONOS ha tagliato
i genitali di URANO STELLATO e ZEUS ha abbattuto
CRONOS e lottato contro i TITANI. Certo è dura
spaccare la terra, ma in un maggese tre volte
arato, DEMETRA a GIASONE generò PLUTO, la tensione
alla ricchezza e al benessere!
In ognuna delle storie che CALLIOPE ricorda
e racconta ci sono io! C'è ogni Essere Umano
che le ascolta. C'è la sua identificazione con
l'eroe. C'è il suo sogno del balzo nell'infinito.
Il suo sogno di uscita dal quotidiano. Il suo
sogno di eternità!
CONCLUDENDO
Le MUSE sono delle Coscienze di Sé che generatesi
da ZEUS mantengono aperta la comunicazione fra gli
Esseri circoscritti nella ragione e l'infinito circostante.
Vivere le MUSE (e quant'altre MUSE che non conosciamo)
consente agli Esseri figli di ZEUS ed ERA di percorrere
il sentiero virtuoso della costruzione del proprio
corpo luminoso e di bussare alle porte dell'OLIMPO
rivendicando il riconoscimento di sé stessi in quanto
DEI.
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6. Zeus/LETO (Latona)
Latona nacque dai titani Febe e Ceo, possedeva i poteri
del progresso tecnologico e vegliava sulla tecnologia
e sui fabbri. I suoi poteri erano molto simili a quelli
di Efesto (Vulcano). Generò da Zeus i gemelli Apollo
e Artemide cacciatrice, personificazione della luna.
Leto, a causa di una maledizione lanciatale dalla moglie
di Zeus, Era, di cui il Dio temeva le ire e la gelosia,
non trovò ospitalità da nessuno, anzi inseguita dal
serpente Pitone, per poter mettere al mondo i
due bambini fu costretta a vagare per il Mar Egeo
in cerca di un luogo che non avesse mai visto la luce
del sole: per questo motivo Zeus fece emergere dal mare
un'isola fino ad allora sommersa che, di conseguenza,
il sole non aveva ancora toccato. Si trattava dell'isola
di Delo (Ortigia nel Mar Egeo) e Leto vi partorì aggrappata
ad una palma sacra.
Altri miti riportano che la vendicativa Era, pur di
impedirne la nascita, giunse a rapire Ilizia, dea del
parto. Solo l'intervento degli altri déi, che offrirono
alla regina dell'Olimpo una collana di ambra lunga nove
metri, riuscì a convincere Era a desistere dal suo intento.
Artemide nacque per prima, dopo soli sei mesi di gestazione
ed aiutò poi la madre a dare alla luce Apollo che nacque
invece il settimo mese.
Partoriti Apollo e Diana, Latona in segno di gratitudine
fissò l'isola a quattro pilastri emergenti dal fondo
marino per darle stabilità. I figli di Latona in seguito
uccisero il serpente, sul monte Parnaso, per vendicarsi
delle sofferenze inflitte alla madre.
Artemide (Diana),
Nella mitologia greca, è una figura molto complessa.
Come Apollo è il dio del sole, Artemide è la dea
della luna. E' anche identificata più comunemente
come la dea della caccia che armata di arco e di
frecce, seguita dal suo corteo di ninfe, corre per
monti e praterie alla ricerca di selvaggina non
risparmiando i coraggiosi che osano sfidarla.
Era, per sua espressa richiesta, vergine ma era
adorata anche come dea del parto e della fertilità
perché si diceva avesse aiutato la madre a partorire
il fratello Apollo. Nei secoli Artemide/Diana,Ecate
e Selene/Luna divennero una triade lunare contemplata
nel (neo)paganesimo,nell'esoterismo e nella wicca.
In Arcadia era considerata la progenitrice del popolo
e venerata come Agròtera (dea della natura selvaggia),
ma era adorata e celebrata allo stesso modo in quasi
tutte le zone della Grecia. I più importanti luoghi
di culto a lei dedicati si trovavano a Delo (sua
isola natale), Braurone, Munichia (su una collina
nei pressi del Pireo) ed a Sparta.
Nella Ionia, la "Signora di Efeso", una dea che
viene identificata con Artemide, era oggetto di
uno dei culti più importanti, infatti questa
divinità era considerata la protettrice della natura
ed il suo culto era tanto forte e radicato che rimase
fin agli inizi dell'era cristiana. Il Tempio di
Artemide ad Efeso, una delle sette meraviglie del
mondo, fu probabilmente il più conosciuto centro
dedicato al suo culto all'infuori di Delo. Negli
Atti degli apostoli i fabbri efesini , quando sentono
la loro fede minacciata dalla predicazione di Paolo,
si levano a difenderla con fervore gridando: "Grande
è Artemide degli efesini!!".
Le fanciulle ateniesi di età compresa tra i cinque
e dieci anni venivano mandate al santuario di Artemide
a Braurone per servire la dea per un anno: durante
questo periodo le ragazze erano conosciute come
"arktoi" (orsette). Una leggenda spiega le ragioni
di questo periodo di servitù narrando che un orso
aveva preso l'abitudine di entrare nella cittadina
di Braurone e la gente aveva cominciato a nutrirlo,
in modo che in breve tempo l'animale era diventato
docile ed addomesticato. Una giovinetta prese ad
infastidire l'orso che, secondo una versione la
uccise, secondo un'altra le strappò gli occhi. Ad
ogni modo il fratello della ragazza uccise l'orso,
Artemide andò per questo in collera e pretese che
le ragazze prendessero il posto dell'orso nel suo
santuario come riparazione per la morte dell'animale.
Le più antiche rappresentazioni di Artemide nell'arte
greca dell'età arcaica la ritraggono come "Potnia
Theron" (La regina degli animali selvatici): una
dea alata che tiene in mano un cervo e un leopardo,
qualche volta un leone e un leopardo. Nell'arte
classica greca era abitualmente ritratta come vergine
cacciatrice , con una corta gonna, gli stivali da
caccia, la faretra con le frecce d'argento ed un
arco. Spesso è ritratta mentre sta scoccando una
freccia e insieme a lei vi sono o un cane o un cervo.
Gli attributi caratteristici della dea variano spesso:
l'arco e le frecce sono talvolta sostituiti da delle
lance da caccia. Vi sono rappresentazioni di Artemide
vista anche come dea delle danze delle fanciulle,
ed in questo caso tiene in mano una lira, oppure
come dea della luce mentre stringe in mano due torce
accese e fiammeggianti.
Solo nel periodo post-classico si possono trovare
rappresentazioni di un'Artemide che porta la corona
lunare, simbolo della sua identificazione con la
dea Luna, mentre nei tempi più antichi, sebbene
questa identificazione fosse già presente, questo
tipo di iconografia non fu mai usata.
L'infanzia di Artemide non è raccontata da alcun
mito giunto fino a noi, ma un poema di Callimaco
– "la dea che si diverte usando l'arco sulle montagne"
– ne riporta un suggestivo aneddoto. Giunta all'età
di tre anni Artemide, sedendo sulle ginocchia del
re degli dei, chiese al padre Zeus di far avverare
alcuni suoi desideri: per prima cosa chiese di restare
per sempre vergine, poi di non dover mai sposarsi
e di avere sempre a disposizione cani da caccia
con le orecchie basse, cervi che tirassero il suo
carro e ninfe come compagne di caccia ("sessanta
fanciulle danzanti, figlie di Oceano, tutte di nove
anni, tutte piccole ninfe di mare"). Il padre la
assecondò e realizzò i suoi desideri. Tutte
le sue compagne rimasero così vergini ed Artemide
vigilò strettamente sulla loro castità.
Atteone:
Un giorno Artemide stava facendo il bagno nuda in
una valle sul monte Citerone quando arrivò il principe
tebano Atteone, che stava andando a caccia. Si fermò
a guardarla, affascinato dalla sua incantevole bellezza,
e ne fu talmente incantato che, senza accorgersene,
calpestò un ramo e per il rumore Artemide si accorse
di lui. Restò così disgustata dal suo sguardo fisso
sul suo corpo nudo che decise di lanciargli addosso
dell'acqua magica e trasformarlo in un cervo: in
questo modo i suoi cani, scambiandolo per una preda,
lo uccisero sbranandolo. Una versione alternativa
della storia narra che Atteone si fosse vantato
di essere un cacciatore migliore di lei e che quindi
la dea lo trasformò in cervo, facendolo divorare
per vendetta.
Adone:
Secondo alcune versioni della leggenda di Adone,
Artemide mandò un cinghiale selvaggio ad uccidere
il giovane per punirlo per essersi vantato di essere
un cacciatore migliore della dea. Secondo altre,
invece, Adone era uno degli amanti di Afrodite,
così Artemide lo uccise per rendere la pariglia
ad Afrodite per la morte di Ippolito, uno dei suoi
favoriti.
Callisto:
Una delle ninfe compagne di Artemide, Callisto,
perse la verginità per mano di Zeus, che andò da
lei trasformato in Apollo o, secondo altre versioni,
in Artemide stessa: infuriata, la dea la trasformò
in un'orsa. Il figlio di Callisto, Arcade, per poco
non uccise la madre durante una battuta di caccia,
ma fu fermato da Zeus che li pose entrambi nel cielo
sotto forma di costellazioni, l'Orsa maggiore e
l'Orsa Minore. Altre versioni riportano invece che
Artemide uccise l'orsa con una freccia.
Ifigenia e Artemide a Tauride:
Artemide volle punire Agamennone per aver ucciso
un cervo sacro oppure, secondo un'altra versione,
per essersi vantato di essere un cacciatore migliore
di lei. Quando la flotta greca si stava preparando
per salpare verso Troia per portare la guerra, Artemide
fece sparire il vento. L'indovino Tiresia disse
ad Agamennone che l'unico modo per placare la dea
era sacrificare sua figlia Ifigenia. Quando il re
era sul punto di farlo, Artemide la portò via dall'altare
e la sostituì con un cervo. La fanciulla fu trasportata
in Crimea e nominata sacerdotessa del tempio della
dea a Tauride, nel quale le venivano offerti come
sacrifici umani gli stranieri. In seguito suo fratello
Oreste la riportò in Grecia dove, in Laconia, istituì
il culto di Artemide Tauridea. Secondo le cronache
spartane il legislatore Licurgo sostituì l'usanza
del sacrificio umano con la flagellazione.
Niobe:
Niobe, regina di Tebe e moglie di Anfione, si vantò
di essere migliore di Latona perché mentre lei aveva
avuto4 figli, sette maschi e sette femmine (niobidi),
Latona ne aveva avuti soltanto due. Quando Artemide
e Apollo vennero a saperlo si affrettarono a vendicarsi:
usando delle frecce avvelenate, Apollo le uccise
i figli mentre stavano facendo ginnastica, badando
che soffrissero molto prima di morire, mentre Artemide
colpì le figlie, che si accasciarono all'istante
senza un lamento. Anfione, vedendo i suoi figli
morti, decise di togliersi a sua volta la vita.
Niobe, distrutta, quando iniziò a piangere fu trasformata
in pietra da Artemide. Secondo alcune versioni della
leggenda fu scagliata in qualche luogo sperduto
del deserto egiziano. Un'altra sostiene che le sue
lacrime formarono il fiume Acheloo. Dato che Zeus
aveva trasformato in statue tutti gli abitanti di
Tebe, nessuno seppellì i Niobidi per nove giorni,
perciò furono gli dei stessi a provvedere a calarli
nella tomba.
Taigete:
Taigete, una delle Pleiadi, era una delle compagne
di caccia di Artemide. Quando si accorse che Zeus
tentava con insistenza di insidiarla, la ninfa pregò
Artemide di aiutarla e la dea la trasformò in una
cerva. Zeus però la possedette ugualmente mentre
si trovava in stato di incoscienza, e dall'unione
nacque Lacedemone il mitico fondatore di Sparta.
Oto ed Efialte
Oto ed Efialte erano due fratelli giganti che un
giorno decisero di assaltare il Monte Olimpo e riuscirono
a rapire Ares ed a tenerlo richiuso in un grosso
vaso per tredici mesi. Artemide si trasformò in
un cervo e si mise a correre tra di loro: I due
giganti, per non farsela sfuggire dato che erano
esperti cacciatori, le lanciarono contro le loro
lance, ma finirono per uccidersi l'un l'altro.
Le Meleagridi:
Dopo la morte di Meleagro, Artemide trasformò le
sue inconsolabili sorelle, le Meleagridi in galline
faraone.
Atalanta ed Eneo:
Artemide salvò la piccola Atalanta dalla morte per
assideramento, dopo che suo padre l'aveva abbandonata,
mandando da lei un'orsa che la allattò finché non
venne raggiunta da alcuni cacciatori. Tra le sue
avventure, Atalanta partecipò alla caccia del Cinghiale
Calidonio che Artemide aveva mandato per distruggere
Calidone, dato che il re Eneo si era dimenticato
di lei durante i sacrifici per celebrare il raccolto.
La guerra di Troia:
Durante la decennale guerra, Artemide si schierò
dalla parte dei troiani contro i Greci. Si azzuffò
con Era quando i divini alleati delle due parti
si scontrarono tra loro: Era la colpì sulle orecchie
con la sua stessa faretra e le frecce caddero a
terra mentre Artemide fuggì da Zeus piangendo. Pare
che Artemide sia stata rappresentata come sostenitrice
della causa troiana sia perché il fratello Apollo
era il protettore della città, sia perché essa stessa
nell'antichità era molto venerata nelle zone dell'Anatolia
occidentale.
Mitopsicologia:
L'esegesi psicologica del mito di Artemide descrive
un archetipo femminile caratterizzato da un forte
spirito d'indipendenza dall'uomo e da una forte
solidarietà col mondo delle altre donne.
è un femminile caratteristico dell'età moderna,
dalle letterate e artiste del primo Novecento all'esperienza
femminista e oltre.
In molte rappresentazioni pittoriche e in letteratura,
Diana cacciatrice - la cui grazia femminile del
corpo contrasta decisamente con l'aspetto fiero
e quasi virile del viso - viene spesso raffigurata
con arco e frecce. Di figura atletica e longilinea,
ha i capelli raccolti dietro il capo e indossa vesti
semplici quasi a sottolineare una natura dinamica
se non addirittura androgina.
Diana italica
Diana , latina e romana, è signora delle selve,
protettrice degli animali selvatici, custode delle
fonti e dei torrenti, protettrice delle donne, cui
assicurava parti non dolorosi, e dispensatrice della
sovranità. Più tardi fu assimilata alla dea greca
Artemide assumendone le stesse caratteristiche di
vergine dea della caccia, irascibile quanto vendicativa,
e l'accostamento alla Luna
Il principale luogo di culto di Diana si trovava
presso il piccolo lago laziale di Nemi, sui colli
Albani, e il bosco che lo circondava era detto nemus
aricinum per la vicinanza con la città di Ariccia.
Il santuario di Ariccia potrebbe essere stato il
nuovo santuario federale dei latini dopo la caduta
di Alba Longa. Ciò è desumibile da quanto riportato
da Catone il Censore nelle Origines, cioè che il
dittatore tusculano Manio Egerio Bebio officiò una
cerimonia comunitaria nel nemus aricinum insieme
ai rappresentanti delle altre principali comunità
latine dell'epoca (Ariccia, Lanuvio, Laurentum,
Cora, Tibur, Pometia, Ardea e i Rutuli).
In seguito Servio Tullio fonda il nuovo tempio di
Diana sull'Aventino e lì sposta il centro del culto
federale con il consenso dell'aristocrazia latina.
Altri santuari erano situati nei territori del Lazio
antico e della Campania: il colle di Corne, presso
Tusculum, dove è chiamata con il nome latino arcaico
di deva Cornisca e dove esisteva un collegio di
cultori della dea come attesta un'iscrizione ritrovata
presso Tuscolo e dedicata ai Mani di Giulio Severino
patrono del collegio; il monte Algido, sempre presso
Tuscolo; a Lanuvio, dove è festeggiata alle idi
(13) di agosto dal Collegio Salutare di Diana e
Antinoo; a Tivoli, dove è chiamata Diana Opifera
Nemorens; un bosco sacro citato da Tito Livio ad
compitum Anagninum, cioè all'incrocio fra la via
Labicana e la via Latina, presso Anagni, e del quale
nel settembre 2007 si è parlato del possibile ritrovamento
dei suoi resti; il monte Tifata, presso Capua.
Apollo (Febo)
Abbandonata da Giove alla furia vendicativa di Giunone,
Leto andava cercando disperatamente un luogo dove
potesse dare alla luce il bambino che portava in
seno, figlio di Giove. Giunone proibì alla Madre
Terra di offrire ospitalità a Leto e mandò a perseguitarla
un mostruoso serpente, Pitone. Da ultimo Leto mise
al mondo un figlio e una figlia sulla fluttuante
isola di Delo.
Apollo venne allevato nel paese degli Iperborei
e diventò un bravissimo arciere.
Poco più che bambino si cimentò nell'impresa di
uccidere il drago ctonio Pitone, reo di aver tentato
di stuprare Leto mentre questa era incinta del dio,
e che come ricompensa aveva ricevuto l'incarico,
da Rea, di guardiano del sacro speco a Delfi. Apollo
lo uccise presso la sua tana, situata nei pressi
della fonte castalia nei pressi di Delfi, città
dove sarebbe poi sorto l'oracolo a lui dedicato.
Per commemorare l'uccisione da lui compiuta del
mostro, Apollo istituì i Giochi Pitici, che culminavano
in una gara di corsa da Delfi alla Tessaglia. Altro
che Maratona!
Apollo è il dio delle arti, della medicina, della
musica e della profezia; in seguito fu venerato
anche nella religione romana.
Era patrono della poesia, in quanto capo delle Muse,
e viene anche descritto come un provetto arciere
in grado di infliggere, con la sua arma, terribili
pestilenze ai popoli che lo contrariavano. In quanto
protettore della città e del tempio di Delfi, Apollo
era anche venerato come dio oracolare, capace di
svelare, tramite la sacerdotessa chiamata Pizia
o Pitonessa, il futuro agli esseri umani. Per questo,
era adorato nell'antichità come uno degli dèi più
importanti del Dodekatheon.
Nella tarda antichità greca Apollo usurpò il posto
di Elio, dio del Sole. Preceduto dalla sua assistente
Aurora (Eos), Elio conduceva ogni giorno il cocchio
solare dal suo splendido palazzo di oriente al lontano
mare in occidente. Dopo aver fatto pascolare i suoi
cavalli nelle Isole Fortunate, Elio ritornava alla
base seguendo il fiume Oceano che circondava il
mondo. A causa della somiglianza fra i loro attributi,
e per la giovanile bellezza di entrambi, Elio venne
identificato con Apollo, e i loro miti si fusero.
Un simile "passaggio di consegne" avvenne anche
presso i Romani, in quanto, a partire dalla tarda
età Repubblicana, Apollo divenne "alter ego" del
Sol Invictus, una delle più importanti divinità
romane. In ogni caso, almeno presso i Greci Apollo
ed Elios rimasero entità separate e distinte, almeno
nei testi letterari e mitologici dell'epoca.
Erano ben due le città che si contendevano il titolo
di luoghi di culto principali del dio: Delfi, sede
del già citato oracolo, e Delo. L'importanza attribuita
al dio è testimoniata anche da nomi teoforici come
Apollonio o Apollodoro, comuni nell'antica Grecia,
e dalle molte città che portavano il nome di Apollonia.
Il dio delle arti veniva inoltre adorato in numerosi
siti di culto sparsi, oltre che sul territorio greco,
anche nelle colonie disseminate sulle rive africane
del Mediterraneo, nell'esapoli dorica in Caria,
in Sicilia e in Magna Grecia.
Suoi attributi tipici erano l'arco e la cetra. Altro
suo emblema caratteristico è il tripode sacrificale,
simbolo dei suoi poteri profetici. Animali sacri
al dio erano i cigni (simbolo di bellezza), i lupi,
le cicale (a simboleggiare la musica e il canto),
e ancora falchi, corvi e serpenti, questi ultimi
con riferimento ai suoi poteri oracolari. Altro
simbolo di Apollo è il grifone, animale mitologico
di lontana origine orientale.
Come molti altri déi greci, Apollo possedeva numerosi
epiteti, atti a riflettere i diversi ruoli, poteri
e aspetti della personalità del dio stesso. Il titolo
di gran lunga maggiormente attributo ad Apollo (e
spesso condiviso dalla sorella Artemide) era quello
di Febo, letteralmente "splendente" o "lucente",
riferito sia alla sua bellezza sia al suo legame
con il sole (o con la luna nel caso di Artemide).
Quest'appellativo venne mutuato e utilizzato anche
dai romani.
Dafne
figlia e sacerdotessa di Gea, la Madre Terra e del
fiume Peneo (o secondo altri del fiume Lacone),
era una giovane ninfa che viveva serena passando
il suo tempo a deliziarsi della quiete dei boschi
e del piacere della caccia la cui vita fu stravolta
a causa del capriccio di due divinità: Apollo ed
Eros. Racconta infatti la leggenda che un giorno
Apollo, fiero di avere ucciso a colpi di freccia
il gigantesco serpente Pitone alla tenera età di
quattro giorni, incontra Eros che era intendo a
forgiare un nuovo arco e si burlò di lui, del fatto
che non avesse mai compiuto delle azioni degne di
gloria.
Il dio dell'amore, profondamente ferito dalle parole
di Apollo, volò in cima al monte Parnaso e lì preparò
la sua vendetta: prese due frecce, una spuntata
e di piombo, destinata a respingere l'amore, che
lanciò nel cuore di Dafne ed un'altra ben acuminata
e dorata, destinata a far nascere la passione, che
scagliò con violenza nel cuore di Apollo.
Da quel giorno Apollo iniziò a vagare disperatamente
per i boschi alla ricerca della ninfa, perchè era
talmente grande la passione che ardeva nel suo cuore
che ogni minuto lontano da lei era una tremenda
sofferenza. Alla fine riuscì a trovarla ma Dafne
appena lo vide, scappò impaurita e a nulla valsero
le suppliche del dio che gridava il suo amore e
le sue origini divine per cercare di impressionare
la giovane fanciulla.
Dafne, terrorizzata, scappava tra i boschi. Accortasi
però che la sua corsa era vana, in quanto Apollo
la incalzava sempre più da vicino, invocò la Madre
Terra di aiutarla e questa, impietosita dalle richieste
della figlia, inziò a rallentare la sua corsa fino
a fermarla e contemporaneamente a trasformare il
suo corpo: i suoi capelli si mutarono in rami ricchi
di foglie; le sue braccia si sollevarono verso il
cielo diventando flessibili rami; il suo corpo sinuoso
si ricoprì di tenera corteccia; i suoi delicati
piedi si tramutarono in robuste radici ed il suo
delicato volto svaniva tra le fronde dell'albero.
Dafne si era trasformata in un leggiadro e forte
albero che prese il nome di LAURO (In greco dafnos
vuol dire lauro).
La trasformazione era avvenuta sotto gli occhi di
Apollo che disperato, abbracciava il tronco nella
speranza di riuscire a ritrovare la dolce Dafne.
Scrive Ovidio nelle Metamorfosi (I, 555-559): "Apollo
l'ama, e abbraccia la pianta come se fosse il corpo
della ninfa; ne bacia i rami, ma l'albero sembra
ribellarsi a quei baci. Allora il dio deluso così
le dice:"Poichè tu non puoi essere mia sposa, sarai
almeno l'albero mio: di te sempre, o lauro, saranno
ornati i miei capelli, la mia cetra, la mia faretra".
Il dio quindi proclamò a gran voce che la pianta
dell'alloro sarebbe stata sacra al suo culto e segno
di gloria da porsi sul capo dei vincitori.
Così ancor oggi, in ricordo di Dafne, si è solito
cingere il capo di coloro che compiono imprese memorabili,
con una corona di alloro.
Giacinto
Esiste anche un fiore che è legato a una disavventura
di Apollo egli amava un bel giovinetto di nome Giacinto,
ch'era ardentemente bramato pure da Zeffiro, dio
del vento occidentale. Apollo e il ragazzo stavano
giocando al lancio del disco ad Amiclae, presso
Sparta, allorché Zefiro soffiò così violentemente
sul disco di Apollo da mandarlo a finire addosso
a Giacinto, che ne rimase mortalmente ferito. Le
gocce del suo sangue furono cangiate in fiori che
presero il suo nome.
Apollo e Pan
Apollo ebbe una sfida musicale con il dio Pan, che
aveva avuto l'ardire di affermare di essere più
bravo del dio a suonare. Il giudice della contesa
fu Tmolo, dio di una montagna omonima in Lidia;
esso rimase incantato quando Pan suonò il suo strumento,
incoraggiato dal sostegno del suo buon amico Mida,
ma appena Apollo sfiorò le corde della sua lira,
Tmolo non poté che dichiarare il dio vincitore della
gara. Mida protestò vivamente per questa decisione,
e arrivò a mettere in dubbio l'imparzialità dell'arbitro.
Apollo, offeso, trasformò le orecchie dell'irrispettoso
umano in orecchie d'asino.
Apollo e Admeto
Quando Zeus uccise Asclepio, figlio di Apollo, come
punizione per aver osato resuscitare i morti con
il suo talento medico, il dio per vendetta massacrò
i ciclopi, che avevano forgiato i fulmini di Zeus.
Stando alla tragedia di Euripide Alcesti, come punizione
per questo suo gesto Apollo venne costretto dal
padre degli déi a servire l'umano Admeto, re di
Fere, per nove anni. Apollo lavorò dunque presso
il re come pastore, e venne da questi trattato in
modo tanto gentile che, allo scadere dei nove anni,
gli concesse un dono: fece sì che le sue mucche
partorissero solo figli gemelli. In seguito, il
dio aiutò Admeto a ottenere la mano di Alcesti,
che per volere del padre sarebbe potuta andare in
sposa solo a chi fosse riuscito a mettere il giogo
a due bestie feroci: Apollo gli regalò dunque un
carro trainato da un leone e un cinghiale.
Apollo ed Ermes
Un mito degli inni omerici racconta dell'incontro
tra il giovane Ermes e Apollo. Il dio dei ladri,
appena nato, sfuggì infatti alla custodia della
madre Maia e iniziò a vagabondare per la Tessaglia,
fino a imbattersi nel gregge di Admeto, custodito
da Apollo. Ermes riuscì con uno stratagemma a rubare
gli animali e, dopo essersi nascosto in una grotta,
usò gli intestini di alcuni di essi, tesi sul guscio
vuoto di una tartaruga, per confezionarsi una lira.
Quando Apollo, infuriato, riuscì a rintracciare
Ermes e a pretendere, con l'appoggio di Zeus, la
restituzione del bestiame, non poté fare a meno
di innamorarsi dello strumento e del suo suono,
e accettò infine di lasciare a Ermes il maltolto,
in cambio della lira, che sarebbe diventata da allora
uno dei suoi simboli.
Orfeo
Il Dio Apollo un giorno donò la Lira ad Orfeo e
le muse gli insegnarono ad usarla e divenne talmente
abile che fu il più famoso poeta e musicista che
la storia abbia mai avuto. Acquistò una tale padronanza
dello strumento che aggiunse anche altre due corde
portando a nove il loro numero per avere una melodia
più soave.
Partecipando alla spedizione degli Argonauti, quando
la nave Argo giunse in prossimità dell'isola delle
Sirene, fu grazie ad Orfeo e alla sua cetra che
gli argonauti riuscirono a non cedere alle insidie
nascoste nel canto delle sirene.
Ogni creature amava Orfeo ed era incantata dalla
sua musica e dalla sua poesia ma Orfeo aveva occhi
solo per una donna: Euridice, figlia di Nereo e
di Doride che divenne sua sposa. Il destino però
non aveva previsto per loro un amore duraturo infatti
un giorno la bellezza di Euridice fece ardere il
cuore di Aristeo che si innamorò di lei e cercò
di sedurla. La fanciulla per sfuggire alle sue insistenze
si mise a correre ma ebbe la sfortuna di calpestare
un serpente nascosto nell'erba che la morsicò, provocandone
la morte istantanea.
Orfeo, impazzito dal dolore e non riuscendo a concepire
la propria vita senza la sua sposa decise di scendere
nell'Ade per cercare di strapparla dal regno dei
morti. Convinse con la sua musica Caronte a traghettarlo
sull'altra riva dello Stige; il cane Cerbero ed
i giudici dei morti a farlo passare e nonostante
fosse circondato da anime dannate che tentavano
in tutti i modi di ghermirlo, riuscì a giungere
alla presenza di Ade e Persefone.
Una volta giunto al loro cospetto, Orfeo iniziò
a suonare e a cantare la sua disperazione e solitudine
e le sue melodie erano così piene di dolore e di
disperazione che gli stessi signori degli inferi
si commossero; le Erinni piansero; la ruota di Issione
si fermò ed i perfidi avvoltoi che divoravano il
fegato di Tizio non ebbero il coraggio di continuare
nel loro macabro compito. Anche Tantalo dimenticò
la sua sete e per la prima volta nell'oltretomba
si conobbe la pietà come narra Ovidio nelle Metamorfosi
(X, 41-63).
Fu così che fu concesso ad Orfeo di ricondurre Euridice
nel regno dei vivi a condizione che durante il viaggio
verso la terra la precedesse e non si voltasse a
guardarla fino a quando non fossero giunti alla
luce del sole.
Narra Ovidio nelle Metamorfosi (X, 41-63). "(...)
Nè la regale sposa, nè colui che governa l'abisso
opposero rifiuto all'infelice che li pregava e richiamarono
Euridice. Costei che si trovava tra le ombre dei
morti da poco tempo, si avanzò, camminando a passo
lento per causa della ferita. Il tracio Orfeo la
riebbe,a patto che non si voltasse indietro a guardarla
prima di essere uscito dalla valle infernale (...)"
Orfeo, presa così per mano la sua sposa iniziò il
suo cammino verso la luce.
Durante il viaggio, un sospetto cominciò a farsi
strada nella sua mente pensando di condurre per
mano un'ombra e non Euridice. Dimenticando così
la promessa fatta si voltò a guardarla ma nello
stesso istante in cui i suoi occhi si posarono sul
suo volto Euridice svanì, ed Orfeo assistette impotente
alla sua morte per la seconda volta.
Narra Ovidio nelle Metamoforsi (X, 61-63): "Ed Ella,
morendo per la seconda volta, non si lamentò; e
di che cosa avrebbe infatti dovuto lagnarsi se non
d'essere troppo amata? Porse al marito l'estremo
addio, che Orfeo a stento riuscì ad afferrare, e
ripiombò di nuovo nel luogo donde s'era mossa"
Invano Orfeo per sette giorni cercò di convincere
Caronte a condurlo nuovamente alla presenza del
signore degli inferi ma questi per tutta risposta
lo ricacciò alla luce della vita.
Si rifugiò allora Orfeo sul monte Rodope, in Tracia
trascorrendo il tempo in solitudine e al pensiero
del tenebroso baratro dove aveva visto costretta
la sua euridice. Per questo inizio ad adorare Elio
(che chiamava Apollo) e non più Dioniso ed ogni
mattina si svegliava all'alba per accogliere il
sorgere del sole. Allora Dioniso istigò le Baccanti
che decisero di ucciderlo durante un'orgia bacchica.
Arrivato il momento stabilito, si scagliarono contro
di lui con furia selvaggia, lo fecero a pezzi e
sparsero le sue membra per la campagna gettando
la testa nel fiume Ebro (ma esistono altre versioni).
Disse Virgilio (Georgiche, IV): "... anche allora,
mentre il capo di Orfeo, spiccato dal collo bianco
come marmo, veniva travolto dai flutti, "Euridice!"
ripeteva la voce da sola; e la sua lingua già fredda:
"Ah, misera Euridice!" chiamava con la voce spirante;
e lungo le sponde del fiume l'eco ripeteva "Euridice"."
Le Muse recuperarono le membra di Orfeo e le seppellirono
ai piedi del monte Olimpo ed ancor oggi, in quel
luogo, il canto degli usignoli è il più soave che
in qualunque parte della terra.
Ma gli dei che tutto vedevano e giudicavano, decisero
di inviare una tremenda pestilenza in tutta la Tracia
per punire il delitto delle Baccanti. La popolazione
allo stremo delle forze consultò l'oracolo per sapere
come far cessare quella disgrazia e questi sentenziò
che per porre fine a tanto dolore era necessario
cercare la testa di Orfeo e rendergli gli onori
funebri. Fu così che la sua testa venne ritrovata
da un pescatore nei pressi della foce del fiume
Melete e fu deposta nella grotta di Antissa, sacra
a Dioniso. In quel luogo la testa di Orfeo iniziò
a profetizzare finchè Apollo, vedendo che i suoi
oracoli di Delfi, Grinio e Claro non erano più ascoltati,
si recò alla grotta e gridò alla testa di Orfeo
di smettere di interferire con il suo culto. Da
quel giorno la testa tacque per sempre.
Fu recuperata anche la sua lira che fu portata a
Lesbo nel tempio di Apollo che però decise di porla
nel cielo in modo che tutti potessero vederla a
ricordo del fascino della poesia e delle melodie
dello sfortunato Orfeo, alle quali anche la natura
si arrendeva, creando la costellazione della Lira.
Apollo e Oreste
Apollo ordinò a Oreste, tramite il suo oracolo di
Delfi, di uccidere sua madre Clitennestra; per questo
suo crimine Oreste venne a lungo perseguitato dalle
Erinni.
Apollo durante la guerra di Troia
L'inizio del'Iliade di Omero vede Apollo schierato
a fianco dei Troiani, durante la guerra di Troia.
Il dio era infatti infuriato con i greci, e in particolare
con il loro capo Agamennone, per il rapimento da
questi perpetrato di Criseide, giovane figlia di
Crise, sacerdote di Apollo. Per vendicare l'affronto,
il dio decimò le schiere achee con le sue terribili
frecce, fino a che il capo dei greci non acconsentì
a rilasciare la prigioniera, pretendendo in cambio
Briseide, schiava di Achille. Questo fatto provocò
l'ira dell'eroe mirmidone, che è uno dei temi centrali
del poema.
Apollo continuò comunque a parteggiare per i troiani
durante la guerra: in un'occasione salvò la vita
a Enea, ingaggiato in duello da Diomede. In seguito,
aiutò Paride a uccidere Achille, guidando la freccia
da questi scagliata nel tallone dell'eroe, il suo
unico punto debole. Da non dimenticare infine,l'importantissimo
aiuto che il dio offrì a Ettore e a Euforbo nel
combattimento che li vedeva avversari del potente
Patroclo, amico e maestro del valorosissimo Achille,
il dio infatti, oltre ad aver stordito il giovane,confuso
per il re mirmidone, vista l'armatura che indossava,
lo privò di quest'ultima sciogliendola come neve
al sole. Distrusse perfino la punta della lancia
con cui Patroclo stava mietendo vittime tra le file
troiane.
Apollo e Cassandra
Per sedurre Cassandra, figlia del re di Troia Priamo,
Apollo le promise il dono della profezia. Tuttavia,
dopo aver accettato il patto, la donna si tirò indietro,
rimangiandosi la parola data. Il dio allora, sputandole
sulle labbra, le diede sì il dono di vedere il futuro,
ma la condannò a non venir mai creduta per le sue
previsioni.
Apollo e Marpessa
Apollo amò anche una donna chiamata Marpessa, che
era contesa fra il dio e l'umano chiamato Ida. Per
dirimere la contesa tra i due, intervenne Zeus,
che decise di lasciare la donna libera di decidere;
questa scelse Ida, perché consapevole del fatto
che Apollo, essendo immortale, si sarebbe stancato
di lei quando l'avrebbe vista invecchiare.
Asclepio
Il più noto figlio di Apollo è Asclepio, dio della
medicina presso i greci. Asclepio nacque dall'unione
tra il dio e Coronide; quest'ultima però, mentre
portava in grembo il bambino, si innamorò di Ischi
e fuggì con lui. Quando un corvo andò a riferire
l'accaduto ad Apollo, questi dapprima pensò a una
menzogna, e fece diventare il corvo nero come la
pece, da bianco che era. Scoperta poi la verità,
il dio chiese a sua sorella Artemide di uccidere
la donna. Apollo salvò comunque il bambino, e lo
affidò al centauro Chirone, perché lo istruisse
alle arti mediche. Come ricompensa per la sua lealtà,
il corvo divenne animale sacro del dio, ed ebbe
da Apollo il potere di prevedere le morti imminenti.
In seguito Flegias, padre di Coronide, per vendicare
la figlia diede fuoco al tempio di Apollo a Delfi,
e venne per questo ucciso dal dio e scaraventato
nel Tartaro.
Nel frattempo Asclepio cresceva forte e saggio grazie
agli insegnamenti di Chirone e più passava il tempo
e più diventava abile e sapiente nell'uso dei medicamenti
e dei ferri chirurgici tanto che decise di mettere
a disposizione di tutte le persone che soffrivano
per malattia, le sue conoscenze.
Un giorno Asclepio ricevette in dono da Atena due
fiale: una contenente il sangue colato dalle vene
della parte sinistra del corpo della Gorgona Medusa
che aveva il potere di resuscitare i morti; un'altra
con il sangue che era colato dalla parte destra
dello stesso corpo ma che aveva il potere di dare
la morte.
Asclepio iniziò ad usare questo sangue e furono
in molti a beneficiare di questo straordinario dono:
Licurgo, Capaneo, Tindareo, Glauco, Ippolito, e
tanti altri che furono riportati in vita.
Tutto procedeva per il meglio fino a che Ade, che
regnava sul mondo dei defunti si recò da Zeus per
chiedergli di fermare Asclepio perchè a suo giudizio
stava sovvertendo l'ordine naturale delle cose e
le leggi stesse della natura. Zeus, dopo averlo
attentamente ascoltato, gli diede ragione e decise
che l'operato di Asclepio doveva essere interrotto
e così scagliò su di lui le sue folgori, uccidendolo.
Apollo, appresa la morte del figlio e disapprovando
il comportamento di Zeus, si recò presso la dimora
dei Ciclopi, che avevano il compito di creare le
folgori per Zeus, e li uccise tutti.
Asclepio dopo la morte, fu premiato da Zeus che
per la sua saggezza lo elevò al rango di divinità,
facendogli innalzare templi e statue.
Zeus fece di lui una costellazione, la costellazione
di Ofiuco (Ophiucus) dal greco "ofiókos = colui
che tiene il serpente": la si vede a partire dal
mese di maggio e fino a settembre e si rappresenta
come un uomo che tiene tra le mani un serpente e
per questo motivo viene anche chiamata Serpentario.
Ad Asclepio furono consacrati i serpenti. Una leggenda
racconta infatti che un giorno mentre pensava su
come resuscitare Glauco (figlio di Minosse e Pasifae)
teneva in mano un bastone sul quale un serpente
cercò di salire. Asclepio, infastidito, lo uccise
a bastonate. Poco dopo arrivò un altro serpente
che appoggiò sulla testa del serpente morto un'erba
e questo resuscitò. Allora Asclepio prese quella
stessa erba e con essa riportò alla vita Glauco.
Da qui probabilmente l'associazione del serpente
con Asclepio.
Ad Asclepio fu consacrata la scienza della medicina
e gli furono innalzati templi e statue e rapidamente
il suo culto si diffuse ovunque nel mondo conosciuto
diventando il padre della medicina.
Per i romani il culto di Asclepio divenne il culto
di Esculapio introdotto nel 293 a.C. per ordine
dei Libri Sibillini per far cessare una terribile
epidemia.
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7. Zeus / ERA
Fu dai Romani assimilata all'italica Giunone. Di matronale
bellezza, di impeccabili costumi, proteggeva la castità
del matrimonio e la santità del parto. Già in
Omero si trasforma in moglie gelosa che perseguitava
le amanti di Zeus. In ogni caso con il tempo Era divenne
divenne il simbolo dell'amore coniugale e protettrice
del focolare e del vincolo matrimoniale e tutti gli
avvenimenti importanti nella vita delle donne. Divenne
in pratica il simbolo di ogni virtù femminile.
Orgogliosissima, nemica acerrima dei Troiani a causa
del giudizio di Paride. Ma ancora più accanita fu contro
Eracle, e proprio per il suo accanimento, quella volta
che scatenò una tempesta contro l'eroe, Zeus adirato
la appese nel cielo con un'incudine d'oro appesa ai
piedi. Aiutò Giasone ad attraversare le Rocce Vaganti
e per fare questo si fece aiutare da Teti e dalle Nereidi.
Le erano sacri il pavone, la cornacchia e la melagrana;
aveva come messaggeri Iride e le Ore.
Ebbe culto speciale ad Argo, a Samo, nella Magna Grecia
e soprattutto sul promontorio Lacinio. Le bastava agitarsi
sul trono per fare tremare l'Olimpo; al suo sposo Zeus,
bastava aggrottare le ciglia per avere lo stesso risultato.
Secondo Esiodo (Teogonia v. 921 e sgg.) in ordine temporale
fu la settima sposa di Zeus.
Ebbero figli : Ares (Marte), Efesto (Vulcano), Iliza,
Ebe.
ARES
Nella mitologia latina è identificato come Marte
e fu un dio particolarmente onorato in quanto considerato
il padre di Romolo e Remo.
Era un'antica divinità guerriera degli indoeuropei,
la cui figura aveva però assunto in territorio italico
caratteri diversi da quello greco, essendo una divinità
molto più complessa e importante dell'Ares greco.
Fu anche assunta dagli Etruschi col nome di Maris.
Ares aveva una quadriga trainata da quattro cavalli
immortali dal respiro infuocato, legati al carro
con finimenti d'oro. Tra tutti gli dei si distingueva
per la sua armatura bronzea e luccicante ed in battaglia
abitualmente brandiva una lancia.
Viene molto spesso identificato come il dio della
guerra in senso generale, ma si tratta di un'imprecisione:
in realtà Ares personifica il furore bellico. E'
il dio solo degli aspetti più selvaggi e feroci
della guerra, e della lotta intesa come sete di
sangue. Venne cresciuto da Enio che era una divinità
che personificava tutta la crudeltà, la ferocia
e la distruzione della guerra.
Per i Greci Ares era un dio del quale diffidare
sempre. Sebbene anche Atena, la sorellastra di Ares,
venisse considerata come dea della guerra. Ma mentre
la dea ne rappresentava gli aspetti positivi (guerra
"giusta", difensiva, punitiva, condotta con intelligenza,
ecc.), e il suo campo di azione era quello delle
strategie di combattimento e dell'astuzia applicata
alle battaglie; Ares ne rappresentava gli aspetti
negativi (furore, odio, follia distruttrice, ecc.),
e prediligeva gli improvvisi ed imprevedibili scoppi
di furia e violenza che in guerra si manifestano.
La contrapposizione tra le due divinità ha anche
un fondamento mitico: Ares sarebbe stato procreato
da Era in concorrenza e in odio alla nascita di
Atena che Zeus aveva generato da solo, esprimendola
dalla sua testa. La contrapposizione è viva in Omero
che pone Atena dalla parte dei Greci e Ares dalla
parte dei Troiani; in un'occasione i due dei si
scontrano direttamente sul campo di battaglia: è
quando Atena stende Ares colpendolo con una pietra.
Ares è chiaramente un dio caotico che si oppone
all'ordine di Zeus (come la guerra si oppone alla
pace); egli è "odioso" a Zeus, come si esprime Omero,
ma è amato da Afrodite, divinità anch'essa caotica
in un certo senso, o comunque precosmica e agente
al di fuori dell'ordine di Zeus. Non era questo
un amore che il mito poteva fissare nell'ordinata
forma matrimoniale: infatti Ares è l'amante e non
lo sposo di Afrodite. « Ares, Ares funesto ai mortali,
sanguinario, eversore di mura non potremmo lasciare
i Troiani e gli Achei azzuffarsi, a chiunque offra
gloria il padre Zeus? e noi due ritirarci e schivare
il corruccio di Zeus? » (Atena, Iliade, Omero Libro
V, 31-34)
La parola "Ares" fino all'epoca classica fu usata
anche come aggettivo, intendendosi come infuriato
o bellicoso. Pur essendo protagonista nelle vicende
belliche, raramente Ares risultava vincitore. Era
più frequente, invece, che si ritirasse vergognosamente
dalla contesa, come quando combatté a fianco di
Ettore contro Diomede, o nella mischia degli Dei
sotto le mura di Troia: in entrambi i casi si rifugiò
sull'Olimpo perché messo in seria difficoltà - direttamente
o indirettamente - da Atena. Altre volte la sua
furia brutale si trovò contrapposta alla lucida
astuzia e alla forza di Eracle, come nell'episodio
dello scontro dell'eroe con suo figlio Cicno.
I suoi uccelli sacri erano il barbagianni, il picchio,
il gufo reale e, specialmente nel sud della Grecia,
l'avvoltoio. Secondo le Argonautiche gli uccelli
di Ares, muovendosi come uno stormo e lasciando
cadere piume appuntite come dardi, difendevano il
suo tempio costruito dalle Amazzoni su di un'isola
vicina alla costa del Mar Nero. Spesso Ares viene
rappresentato su pietra con il colore rosso, rosso
come il sangue, simbolo degli atti feroci che si
compiono in guerra. Nonostante la sua figura sia
importante per poeti ed aedi, il culto di Ares non
era molto diffuso nell'antica Grecia, tranne che
a Sparta dove veniva invocato perché concedesse
il suo favore prima delle battaglie e, nonostante
sia presente nelle leggende riguardanti la fondazione
di Tebe è uno degli dei sul conto del quale gli
antichi miti meno si soffermano. A Sparta c'era
una statua di Ares che lo ritraeva incatenato, a
simboleggiare che lo spirito della guerra e della
vittoria non avrebbero mai potuto lasciare la città;
durante le cerimonie in suo onore venivano sacrificati
cani, usanza mutuata dall'antica pratica di sacrificare
cuccioli alle divinità ctonie. Il tempio di Ares,
nell'agorà di Atene che il geografo Pausania ebbe
modo di vedere nel II secolo, era in realtà un tempio
la cui destinazione era stata cambiata all'epoca
di Augusto. In effetti si trattava di un tempio
romano dedicato a Marte. L' Areopago, ovvero la
collina di Ares, si trova invece ad una certa distanza
dall'Acropoli e nei tempi antichi vi si svolgevano
i processi e la sua presunta relazione con Ares
potrebbe essere solo frutto di un'errata interpretazione
etimologica.
Nonostante la sua ferocia si innamorò perdutamente
di Afrodite e per volere di Zeus i due si sposarono
ed ebbero cinque figli: Armonia (la concordia),
Eros (l''amore), Anteros (l'amore reciproco), Deimos
(lo spavento) e Fobos (il terrore). Ebbe numerose
amanti mortali, ma Afrodite fu la compagna più amata.
Ares era oggetto di culto solo presso i Traci, considerato
un popolo guerriero e selvaggio. Aveva però diversi
templi a lui dedicati a Tebe essendo il padre di
Armonia il cui figlio, Cadmo era stato il fondatore
della città.
Solitamente Ares scendeva in guerra accompagnato
Deimos e Fobos che personificavano gli spiriti del
terrore e della paura. Sorella e degna compagna
del sanguinario Ares era Enio, dea degli spargimenti
di sangue, Bia, la violenza e Cratos, la forza bruta;
da Kydoimos (il demone del frastuono della battaglia),
dai Makhai (spiriti della battaglia), dagli Hysminai
(gli spiriti dell'omicidio), da Polemos (uno spirito
minore della guerra) e dalla figlia di Polemos Alala,
personificazione del grido di guerra dei Greci e
il cui nome Ares decise di usare come proprio grido
di guerra. Suo fedele soldato fu anche Alettrione.
Nella guerra di Troia parteggiò per i troiani e
fu ferito da Diomede al quale Atene diresse l'asta.
Racconta Omero nell'Iliade (Iliade, V) ... Mugolò
il ferito nume, e ruppe in un tuon, pari di nove
o dieci mila combattenti al grido quando appiccan
la zuffa ...
Uno dei miti più importanti riguardo ad Ares è quello
che tratta del suo coinvolgimento nella fondazione
della città di Tebe in Beozia. L'eroe Cadmo aveva
ricevuto dall'Oracolo di Delfi l'ordine di seguire
una vacca e fondare una città nel luogo ove si fosse
fermata. L'animale si fermò presso una fonte custodita
da un drago acquatico sacro ad Ares. Cadmo uccise
il mostro e, su consiglio di Atena, ne seminò al
suolo i denti: da questi nacquero istantaneamente
dei guerrieri, gli Sparti che aiutarono Cadmo a
fondare quella che sarebbe appunto diventata Tebe.
Cadmo, prima di diventarne il re dovette però servire
Ares per otto anni per espiare l'affronto fattogli
uccidendo il drago, nonché sposare la figlia del
dio e di Afrodite, Armonia per appianare la discordia
tra loro sorta.
Alcuni racconti parlano di un figlio di Ares che
abitava in Macedonia, Cicno, che era così sanguinario
da aver tentato di costruire un tempio dedicato
al padre usando le ossa ed i teschi dei viaggiatori
da lui trucidati. Questo mostro venne a sua volta
ucciso da Eracle: la morte del figlio suscitò l'ira
di Ares che a sua volta si scontrò con il più grande
degli eroi, finendone però ferito e sconfitto.
EFESTO (Vulcano)
Efesto, nella mitologia greca, era la divinità del
fuoco terrestre inteso in senso positivo, il fuoco
come elemento di civiltà.
Secondo la maggior parte degli studiosi era figlio
di Zeus e di Era mentre per Esiodo sarebbe nato
solo da Era la quale, alla vista di un figlio così
brutto, vergognandosi di lui, lo scaglio giù dal
cielo cadendo in mare. Le ninfe lo salvarono e lo
portarono nell'isola di Lesvos. dove rimase per
nove anni in una grotta curato da Teti ed è in quella
grotta che si dice fece la sua prima officina di
fabbro, dove creò per lei splendidi gioielli, in
segno di eterna gratitudine. Efesto è il dio del
fuoco, dei metalli e dell'arte di forgiarli; regna
sui vulcani che sono le sue officine, dove lavora
aiutato dai Ciclopi,
e lì fabbrica armi invincibili per Achille, implorato
da Teti, madre dell'eroe, che vuole assicurare il
ritorno del figlio dalla guerra di Troia.
Una volta cresciuto, Volle poi vendicarsi della
madre e fabbricò allo scopo un marchingegno straordinario
in un trono d'oro, che avviluppava di catene chiunque
vi si sedesse, e in più il trono si metteva a galleggiare
nell'aria. Lo mandò come proprio dono ad Era, che
vi rimase infatti imprigionata, senza potersi liberare
dai vincoli. Gli dèi non riuscendo a togliere la
dea
da quella posizione ridicola ordinarono a Efèsto
che liberasse sua madre, ed egli rispose ridendo
che non aveva avuto il piacere di conoscerla. Ares
provò con la forza a costringere Efèsto a liberare
la dea, ma fu scacciato a malo modo, allora ci provò
Dioniso che andato con la sua combriccola da Efèsto
lo fece ubriacare a puntino e caricatolo sul dorso
di un mulo lo
portò sull'Olimpo. Benché ubriaco il dio aveva mantenuto
una certa lucidità, difatti per liberare Era, volle
in cambio Afrodite per sposa. Non l'avesse mai fatto!!!
La dea, sì, lo sposò, ma subito dopo lo cornificò
senza pietà con quasi tutti gli dèi dell'Olimpo.
Dopo varie vicende si affezionò tanto a sua madre
da prendere sempre le sue difese, come quella volta
che Efesto cercò di aiutare Era incatenata: Zeus
l'aveva appesa fuori dall'Olimpo, perché aveva osato
scatenare una tempesta contro Eracle, mentre navigava
alla conquista di Troia. Zeus irritato perchè difendeva
sempre la madre lo scagliò anche lui dall'Olimpo
ed Efesto cadde nell'isola di Lemno. Fu in seguito
a questa caduta che divenne zoppo.
Sull'isola aveva particolare culto e, secondo il
mito, anche una delle sue officine più importanti
dove, si dice, avesse i Cabiri come dipendenti;
altra officina era nell'Etna e là i suoi dipendenti
erano i Ciclopi. I coloni greci che erano andati
a popolare il sud dell'Italia presero ben presto
venerare Efesto nella città di Adranòn collocata
sull'Etna, l'odierna Adrano, e nelle Isole Lipari.
Nonostante la sua deformità, Efesto, il più brutto
degli dei, ebbe celebri amori, di cui il più noto
con Afrodite, la più bella delle dee, che Zeus gli
aveva destinato in moglie. Sennonché la dea divenne
l'amante di Ares, ed Elio, dio del Sole che tutto
vede, informò Efesto. Questi non disse nulla, ma
intessé una rete invisibile attorno al letto della
moglie che, non appena Ares e Afrodite si incontrarono,
si chiuse immobilizzandoli ed esponendoli alla derisione
dell'intero Olimpo.
In ogni caso Efesto è ricordato come un grande fabbro:
sono sue la creazione del carro del sole, i fulmini
e lo scettro di Zeus, la corazza d'oro di Eracle,
l'elmo di Ares, le armature di Achille e di Enea,
il tridente di Poseidone. Aiutò anche a creare la
prima donna Pandora, un regalo di Zeus contro Prometeo
(solo per la sua stirpe) la quale riversò da
un vaso soprannaturale tutto il male del mondo sull'umanità.
EFESTO ( Vulcano ) è il Dio del fuoco, della tecnologia,
dei fabbri, degli artigiani, degli operai, degli
scultori, dei
metalli e della metallurgia; fabbro, inventore e
artefice geniale e progenitore della moderna robotica.
Abilissimo artefice dei palazzi dell'Olimpo e di
tanti altri oggetti e automi meravigliosi. Lui è
il più gentile e sereno di tutti gli
dei olimpici: ... opere egregie agli uomini apprese,
che prima vivevano in antri, sui monti, simili a
fiere... (XX Inno omerico a Efesto)
EBE
E' la poco conosciuta dea della giovinezza eterna
e della forza vitale, secondo Omero, data in sposa
a Eracle dopo che era stato assurto in cielo. Con
Eracle generò Alessiare e Aniceto.
Dai Romani fu assimilata alla loro Juventus. La
sua figura appare più volte nei poemi omerici.
Nel monte Olimpo Ebe era ancella delle divinità,
a cui serviva nettare e ambrosia. Il suo successore
fu il giovane principe troiano Ganimede. Nel libro
V dell'Iliade è lei che immerge il fratello Ares
nell'acqua, dopo la battaglia con Diomede.
Non sono sopravvissuti miti relativi a Ebe e l'unico
santuario a lei attribuito è quello di Flio.
In Arte, è famosa una sua statua di Antonio Canova,
di cui esistono quattro versioni: oltre a quella
conservata a Forlì, nel Museo di San Domenico in
una sala appositamente dedicata, è possibile ammirarne
un superba versione in gesso alla Galleria d'Arte
Moderna di Milano.
ILIZIA
Nonostante nessun mito la veda protagonista, è citata
da numerose iscrizioni di nascite. Il suo nome appare
in alcune tavolette di Cnosso, che sono state analizzate
attentamente e che mostrano una continuità di culto
dal neolitico all'epoca classica.
è descritta come presente alla nascita di numerosi
dei, tra i quali Eracle, Apollo e Artemide. Secondo
il III Inno Omerico ad Apollo, Hera catturò Ilizia,
per ostacolare le doglie di Leto per Artemide ed
Apollo, essendone Zeus il padre. Le altre dee presenti
a Delo per assistere alla nascita, mandarono allora
Iris a prenderla. Non appena Ilizia mise piede sull'isola,
iniziarono le doglie.
Inizialmente le Ilizie (nel plurale utilizzato da
Omero) erano coloro che provocavano i dolori del
parto. Solo successivamente, a Creta, l'Ilizia fu
venerata come dea della fertilità, prima di affermarsi
a Delo. Col passare del tempo il culto si diffuse
in molte città Greche, in Etruria e in Egitto, e
la sua funzione diventò quella di aiutare le partorienti.
Ad Ilizia furono consacrate delle caverne (probabilmente
simboleggianti l'utero), che si ritiene fossero
il suo luogo di nascita così come quello del suo
culto, come menziona chiaramente l'Odissea; una
delle più importanti è quella di Amnisos, il rifugio
di Cnosso, dove sono state trovate stalagmiti che
probabilmente la rappresentano. La caverna di Creta
ha suggestive stalattiti dalla forma di una doppia
dea che causa le doglie e le ritarda; inoltre sono
state anche trovate delle offerte votive. Qui fu
probabilmente adorata durante il periodo Minoico-Miceneo.
Nel periodo classico, si trovano santuari di Ilizia
nelle città cretesi di Lato e Eleutherna ed una
grotta sacra ad Inatos.
Pausania, nel II secolo, fece un resoconto di un
tempio arcaico ad Olimpia, con una cella dedicata
al serpente salvatore della città (Sisipolis) e
ad Ilizia. In esso è raffigurata Ilizia come una
sacerdotessa-vergine che sfama un serpente con dolci
torte di orzo ed acqua. Il tempio, infatti, commemora
l'apparizione improvvisa di una vecchia con un bambino
fra le braccia, proprio quando gli Eli stavano per
essere minacciati da Arcadia; il bimbo, posto a
terra fra i contendenti, si mutò in serpente, spazzando
via gli Arcadi in volo, per poi sparire dietro la
collina.
Ilizia, insieme ad Artemide e Persefone è spesso
raffigurata con in mano delle torce per portare
i bimbi verso la luce, fuori dall'oscurità; nella
mitologia Romana infatti è rappresentata da Lucina
(della luce).
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Le AMANTI e i FIGLI di ZEUS
Zeus/ERIS (LA DISCORDIA)
Malefica figlia della Notte e sorella di Nemesi, delle
Parche e della Morte; madre della Miseria, della Fame,
della Guerra, dell' Omicidio, della Contesa, e di tutto
quanto c'è di cattivo. Dea della discordia, fedele ancella
di Ares.
Fu scacciata da Zeus dall'Olimpo perché causava continui
litigi e conflitti fra gli dèi. Per non essere stata
invitata alle nozze di Peleo e di Teti, tirò sulla tavola
nuziale la funesta mela d'oro che causò il giudizio
di Paride e la lunghissima guerra di Troia.
Virgilio la descrive in compagnia di mostri all'ingresso
dell'Ade, con serpenti per capelli, annodati con bende
insanguinate. Altre volte è descritta come una donna
con il capo alto, labbra livide e smorte, occhi biechi,
malati e pieni di lacrime che solcano le pallide gote,
le gambe torte, i piedi sottili, un pugnale infisso
nel petto, avvolta da una tenebrosa ed oscura aura.
Dalla sua unione con zeus nacquero: ATE e LITE.
Ate:«rovina, inganno, dissennatezza»)
La dea Ate nella mitologia greca era la potente dea
della sventura e della vendetta, colei che toglieva
la ragione dagli uomini e agli stessi dei. Era la personificazione
della maledizione divina.
Racconta Omero nell'Iliade (iliade XIX)
"... Un Dio
Così dispose, la funesta a tutti
Ate, tremenda del Saturnio figlia,
Lieve ed alta dal suolo ella sul capo
De' mortali cammina, e lo perturba,
e a ben altri pur nocque. Anche allo stesso
Degli uomini e de' numi arbitro Giove
Fu nocente costei ........
D'alto dolor ferito infuriossi
Giove; e tosto ai capelli Ate afferrando ,
Per lo Stige giurò: che questa a tutti
Furia dannosa, non avria più mai
Riveduto l'Olimpo. E, sì, dicendo,
La rotò colla destra, e fra' mortali
Dagli astri la scagliò ...."
Frequentemente induce al peccato di "hýbris", la tracotanza
che nasce dalla mancanza di senso della misura.
Ate non tocca il suolo: cammina leggera sul capo dei
mortali e degli stessi dei, inducendoli in errore.
La seguono, senza riuscire mai a raggiungerla, le Litai,
le rugose Preghiere, che si prendono cura di coloro
cui Ate ha nuociuto nel suo cammino. Quando qualcuno
si rivela sordo alle Preghiere, queste si rivolgono
al padre Zeus perché faccia perseguitare da Ate chi
le ha respinte.
A lei Agamennone attribuisce la responsabilità degli
eventi che portarono alla disputa con Achille. Lo stesso
Agamennone narra che Zeus, quando suo figlio Eracle
stava per nascere da Alcmena, si vantò con gli dei Olimpi
che il suo prossimo discendente avrebbe regnato su tutti
i vicini; sollecitato da Era, il dio ne fece giuramento,
non sospettando che sulla sua testa si era in quel momento
posata Ate. Era fece in modo che Euristeo, figlio di
Stenelo, nascesse prima di Eracle, e questi fu dunque
costretto a servire per molti anni il fratellastro.
Quando Zeus scoprì l'accaduto, prese Ate per le trecce
e la scagliò sulla terra, giurando che non avrebbe mai
più rivisto l'Olimpo.
Stando allo Pseudo-Apollodoro, Ate atterrò su una collina
in Frigia, in una località che assunse il nome della
dea. Nello stesso luogo Zeus scaraventò anche il Palladio,
e Ilo vi fondò Troia.
Ate ed Eris sono talora confuse. Secondo alcuni non
fu Eris, ma Ate, infuriata per non essere stata invitata
alle nozze di Peleo e Teti, a lasciare scivolare durante
il banchetto una mela d'oro recante la scritta "alla
più bella". La mela della discordia generò una disputa
fra Era, Atena e Afrodite, poi risolta in favore di
quest'ultima con il giudizio di Paride, ponendo le premesse
per la guerra di Troia.
Secondo Nonno, Ate fu indotta da Era a convincere il
giovane Ampelo, amato da Dioniso, a cavalcare un toro
per impressionare il dio; Ampelo fu disarcionato e si
ruppe il collo.
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Zeus/REA (Cibele)
Rea era la figlia di Gea e Urano, sposa di Crono (Saturno)
e madre di Zeus.
Per vanificare la profezia che lo voleva spodestato
dal figlio, Saturno divorava tutti i figli che la moglie
gli partoriva. Alla nascita di Zeus, però, Rea si intenerì
alla vista del bambino e decise di sottrarlo alla voracità
del padre nascondendolo nel monte Ida, al centro dell'isola
di Creta.
Per questo motivo la dea era venerata in particolare
a Creta come "mater Idaea", personificazione della natura
montagnosa. Il suo culto si diffuse soprattutto nell'Anatolia,
in Asia Minore, dove fu identificata con Cibele, venerata
come Grande Madre, dea della natura, degli animali e
dei luoghi selvatici.
Il centro principale del suo culto era Pessinunte, nella
Frigia, da cui attraverso la Lidia passò approssimativamente
nel VII secolo a.C. nelle colonie greche dell'Asia Minore
e successivamente nel continente.
Cibele viene generalmente raffigurata seduta sul trono
tra due leoni o leopardi, spesso con in mano un tamburello
e con su il capo una corona turrita.
Collegato con il mito e il culto di Cibele era il giovane
dio Attis, a volte considerato suo figlio, che in un
primo momento aveva ricambiato il suo amore, ma che
in seguito si innamorò della ninfa Songaride.
Durante il banchetto nuziale Cibele per vendetta fece
impazzire il giovane che, fuggito sui monti, si uccise
evirandosi o gettandosi da una rupe. La tradizione vuole
che Attis sia poi resuscitato o comunque fu salvato
da Cibele afferrandolo per i capelli lo trasformò in
un pino non appena toccò il terreno. Le due divinità
sono sovente raffigurate insieme sul carro divino trainato
da leoni in un corteo trionfale.
Nelle cerimonie funebri che si tenevano in suo onore
durante l'equinozio di primavera, i sacerdoti della
dea, i Coribanti, suonavano tamburi e cantavano in una
sorta di estasi orgiastica.
Il culto di Cibele, la Magna Mater dei Romani, fu introdotto
a Roma il 4 aprile 204 a.C., quando la pietra nera,
di forma conica, simbolo della dea, vi fu trasferita
da Pessinunte e collocata in un tempio sul Palatino
realizzato nel91 a.C. La struttura bruciò per ben due
volte, nel11 a.C. e nel 3 d.C. e fu ricostruita per
l'ultima volta da Augusto. L'edificio seguiva un orientamento
ben determinato da motivi di culto, e lo stile era corinzio
a pianta regolare; all'interno le pareti erano sostenute
da un colonnato.
Per celebrare tale evento, durante la Repubblica venivano
organizzati dei giochi in suo onore, i Megalesia, o
Ludi Megalensi. Le feste in onore di Cibele e Attis
si svolgevano nel mese di marzo, dal5 al 28, nel periodo
dell'equinozio di primavera, prevedevano i riti del
Sanguem e l'Hilaria. Tracce di questi culti, che presero
il nome di Attideia, sono presenti anche in colonie
greco-romane (per esempio quella di Egnazia in Puglia).
e si protrassero fino al III secolo d.C..
In epoca imperiale, il ruolo di Attis, la cui morte
e resurrezione simboleggiava il ciclo vegetativo della
primavera, si accentuò gradualmente, dando al culto
una connotazione misterica e soteriologica.
Attis è il servitore eunuco che guida il
carro della dea.
Secondo la tradizione frigia, conservata in Pausania
(Perieghesis, VII,7,0-12) ed in Arnobio (Adversus
Nationes, V, 5-7), il demone bisessuale Agdistis
sarebbe nato dallo sperma di Zeus caduto sulla pietra,
mentre il dio cercava di accoppiarsi con la Grande
Madre sul monte Agdos.
Gli dei dell'Olimpo spaventati dalla forza e dalla
ferocia dell'essere lo evirarono: dalle gocce del
sangue fuoriuscito dalla ferita nacque un albero
di mandorlo.
La figlia del fiume Sakarya(Sangarios), Nana, colse
un frutto dall'albero e rimase incinta.
Tempo dopo nacque il figlio che venne chiamato Attis,
in quanto fu allattato da una capra (in frigio attagos),
dopo essere stato cacciato sulle montagne per ordine
di Sakarya.
Attis crebbe e fu mandato a Pessinunte per sposare
la figlia del re. Durante la celebrazione del matrimonio,
Agdistis, innamorato del giovane, fece impazzire
Attis, che si recise i genitali sotto un pino. Cibele,
madre degli dei, ottenne che il corpo del giovane
rimanesse incorrotto.
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Zeus/EOS (Aurora)
Eos o Aurora, era la Dea che dischiudeva le porte al
Giorno. Dopo aver attaccato il carro di suo fratello
Elio, Febo o il Sole, "colui che è destinato a diffondere
la luce nell'universo" lo precedeva con il suo.
I Greci la chiamarono Eos, che deriva da Eoo, Orientale.
I Latini le attribuirono il nome di Aurora, " Quasi
Aurea, colei che ha il colore dell'oro". La Dea dalle
dita rosate, come è anche chiamata, per il colore rosa
del cielo all'alba.
Eos, dea dell'aurora, è figlia dei titani Iperione e
Teia,
e sorella di Elio (il Sole) e di Selene (la Luna).
è moglie di Astreo, col quale ha generato i venti Zefiro,
Borea, Noto ed Euro. Venti importanti, che bisognava
conoscere per garantirsi una tranquilla e facile navigazione,
Borea dal nord, Noto dal sud, Zefiro da ovest ed Euro
da sud-est. Non come i venti derivati da Tifone, mostro
capace con il soffio infuocato di portare scompiglio
e distruzione.
Tra i primi amanti di Eos si nomina lo stesso Zeus,
da cui ebbe una figlia di nome Ersa (o Erse), la rugiada.
Più tardi fu amata da Ares, il dio della guerra, con
cui condivise più volte il suo talamo; sdegnata per
il tradimento del suo amante, Afrodite punì la dea sua
rivale, condannandola ad innamorarsi di continuo di
comuni mortali.
La maledizione di Afrodite ebbe il suo effetto, quando
Eos intravide, durante una sua passeggiata presso la
città di Troia, un fanciullo di straordinaria bellezza
e di sangue reale, di nome Titone, figlio del re Laomedonte.
Così, un giorno, la dea lo rapì e lo condusse con sé,
rivolgendosi poi a Zeus per concedergli l'immortalità.
Titone apparteneva alla stirpe di Dardano, stirpe privilegiata
dal dono della bellezza,dono che condivideva con Ganimede
e Anchise. Aurora se ne innamorò così perdutamente da
chiedere per lui il dono dell'immortalità agli Dei,
dimenticandosi però di chiedere anche il dono dell'eterna
giovinezza. Così mentre Aurora era splendida più che
mai, il suo amato Titone invecchiava inesorabilmente,
finché del fiero principe troiano non rimase altro che
un corpo devastato dagli anni e una voce stridula che
si lamentava senza smettere mai all'interno del palazzo
dove Aurora l'aveva fatto rinchiudere affinché nessuno
potesse vederlo, quando gli anni l'avevano reso imbelle.
Titone fu trasformato in una cicala dalla voce stridula.
Dalla loro unione nacquero due figli, Emazione e Memnone,
ucciso da Achille durante l'assedio di Troia. Da quel
giorno la dea dell'aurora piange inconsolabilmente il
proprio figlio ogni mattina, e le sue lacrime formano
la rugiada.
Un'altro amante di Eos fu Cefalo figlio di Deioneo,
sposo felice di Procri. Uniti dall'amore e dalla passione
per la caccia, i due giovani si erano promessi reciproca
fedeltà. Recatosi a caccia di buon mattino, Cefalo fu
notato da Aurora che gli propose di giacere con lei.
Cefalo pur sedotto dal fascino di Aurora, rifiutò, aveva
promesso alla sua Procri di esserle sempre fedele e
intendeva mantenere la promessa fatta. Allora Aurora
disse: non voglio che tu infranga la tua promessa se
prima non l'avrà infranta lei. Detto questo lo trasformò
in un giovane straniero pieno di doni da portare all'ignara
Procri per tentare di sedurla. Sotto le spoglie del
giovane attico Pteleone si presentò a Procri e le cinse
la fronte con un ricco frontale d'oro finemente cesellato.
Affascinata dal bellissimo giovane e dagli splendidi
regali che costui le aveva offerto, Procri cedette alle
lusinghe e si lasciò sedurre. Quando nel letto, Cefalo
si lasciò riconoscere, Procri umiliata e piena di vergogna,comprese
di essere stata ingannata da Aurora e allora fuggì via
per recarsi a Creta dove Artemide stava cacciando. Procri
si unì alle cacciatrici, ma Artemide la cacciò via perché
con lei cacciavano solo le vergini. Procri affranta
le raccontò dell'inganno di Aurora, allora Artemide
impietosita le regalò una lancia che colpiva qualsiasi
bersaglio e un cane Lailape a cui nessun animale poteva
sfuggire, invitandola a sfidare Cefalo nella caccia.
Per altri autori, la lancia e il cane furono un dono
di Minosse miracolosamente guarito da Procri da un maleficio
fattogli da sua moglie Pasifae affinché nessuna donna
potesse giacere con lui; nel momento dell'amplesso,
dal suo corpo scaturivano ogni sorta di animali repellenti,
scorpioni, serpenti e millepiedi. Si tagliò i capelli
e sotto le sembianze di un giovanetto, così come era
stata consigliata da Artemide, si recò da Cefalo per
sfidarlo nella caccia. Complice la lancia infallibile
e il cane Lailape, il giovanetto vinse. Cefalo affascinato
dalla lancia e dal cane gli chiese di scambiarli con
tutte le ricchezze e metà del suo regno. Il giovane
dapprima rifiutò ma poi acconsentì solo ad una condizione:
avrebbe avuto la lancia e il cane solo se lui gli si
fosse concesso, così come fanno i giovinetti. Cefalo
fremente dal desiderio di possedere il cane e la lancia
acconsentì. Solo in quel momento Procri si lasciò riconoscere
e gli concesse il suo perdono. Sul fare del giorno,
quando Cefalo si recò a caccia con i doni di Procri,
gelosa di Aurora lei lo seguì per spiare le sue mosse.
Nascosta in un cespuglio, vide Cefalo fermarsi per riposare,
quando sentì un'invocazione: Aura vieni! Aura vieni!
Era questo il nome del vento che Cefalo stava invocando
per avere un momento di refrigerio dopo la battuta di
caccia. La gelosissima Procri, credendo di udire il
nome di Aurora uscì improvvisamente dal cespuglio,Cefalo
scambiandola per una bestia selvatica le scagliò contro
la lancia infallibile uccidendola. Cefalo sopraffatto
dal dolore si uccise con la stessa lancia e insieme
a Procri ascesero al Cielo dove furono trasformati nella
stella che precede il mattino.
Omero la chiama la dea dalle dita rosate per l'effetto
che si vede nel cielo all'alba.
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Zeus/ASTERIA
Asteria è figlia della titanide Febe e del titano Ceo.
Fu la sposa del titano Perse figlio, di Crio ed Euribia,
e gli diede una figlia che chiamarono Ecate.
Per sfuggire all'amore fedifrago di Zeus, Asteria si
trasformò in una quaglia, ma la fuga precipitosa la
fece precipitare nel mar Egeo. Zeus ne fu addolorato
e trasformò Asteria in un'isola, che si chiama anche
Ortigia, nei pressi di Siracusa (Ortix in greco, Quaglia),
ovvero "isola delle quaglie". Quest'isola aveva la proprietà
di non essere ancorata al fondale e di nuotare quindi
libera, fino al momento in cui Leto (sorella di Asteria)
dette alla luce i suoi gemelli e l'isola fu fissata
al fondo del mare da Zeus o da Poseidone. Per la nascita
di Apollo e Diana l'isola fu tutta circonfusa da luce
e da allora chiamata Delo», che in greco significa "la
chiara, la luminosa", in coerente simmetria con l'altro
nome, Asteria, che significa "stella".
ECATE
Non ci sono molte informazioni redatte su Ecate
poiché non ha molta partecipazione in mitologia
né ha avuto molte interazioni con altre divinità.
Soltanto alcuni Dei sono documentati bene in letteratura
ed Ecate è una dei molti che sono in gran parte
assenti, particolarmente prima del IV secolo. Si
spiega questa poca documentazione in relazione al
fatto che Ecate ha natali davvero antichi, pre-olimpici
e quindi precedenti alle numerose storie narrate
intorno agli dei abitanti il famoso monte Olimpo:
Ecate ha sempre voluto tenersi in disparte da quel
gruppo che riconosceva come poco familiare ed appare
in mitologia rare volte, come nell'episodio del
rapimento di Persefone in cui racconta l'accaduto
alla madre della fanciulla, Demetra, e le intima
di rimanere calma e pensare bene sul da farsi.
Le origini di Ecate sono antichissime. Alcuni studiosi
affermano che ella non era originariamente greca,
poiché il suo culto aveva viaggiato verso sud (dov'era
adorata come Iside già 5000 anni fa) e la maggioranza
degli studiosi è concorde nell'affermare che questa
figura nasce nell'Asia Minore occidentale (la regione
della Caria o della Tracia).
Il nome di Ecate deriva dalla dea-levatrice egizia
Heqit, Heket o Hekat. L'anziana era la matriarca
tribale dell'Egitto pre-dinastico ed era nota come
una donna saggia. Heket era una dea dalla testa
di rana che era connessa con lo stato embrionale
quando il seme muore, si decompone e inizia a germinare.
Ella era inoltre una delle levatrici che assistono
ogni giorno alla nascita del Sole. Tutte queste
analogie con Ecate, al di là del nome, farebbero
pensare ad un archetipo comune.
In pochi, inoltre, conoscono Heka:
"Ra donò all'umanità Heka come un'arma per respingere
l'effetto degli eventi pericolosi."
Heka era visto come la manifestazione dell'energia
divina di Ra donata agli uomini per creare parole
e azioni, in modo da eguagliare la forza creatrice
del sole.
E' anche l'energia magica insita negli esseri viventi,
nei simboli del potere.
Uno dei titoli del dio Heka era "Colui che consacra
le immagini", riferendosi all'abilità del dio di
dare poteri ai pensieri creativi, alle azioni e
tradurli nei loro quivalenti fisici nel modo fisico.
Cosi Heka era anche percepito come la forza animata
che si manifesta in ogni atto rituale.
Ecate è, come sappiamo, strettamente collegata agli
incantesimi, alla magia. L'assonanza con nome e
la natura di queste due divinità ne autorizzano
il riconoscimento della medesima etimologia.
Il nome Ecate, tuttavia, avrebbe anche altre interpretazioni:
ekaton (cento), ekati (a proprio piacimento) oppure
ekatos (saettatore, che colpisce da lontano).
La prima è moderna e piuttosto superficiale, derivante
dal fatto che le anime dei defunti che non avevano
ricevuto una degna sepoltura avrebbero dovuto vagare
per cento anni sulle rive dell'Acheronte senza trovare
pace; in questo caso viene sottolineata in Ecate
la sua custodia delle zone di confine. Legare Ecate
all'avverbio "a proprio piacimento" delinea in maniera
maggiore la fisionomia di questa divinità tenendo
conto dell'opera di Esiodo Teogonia, il testo più
antico ritrovato in cui si parla di Ecate. Ekatos
è oggi l'ipotesi più accreditata anche perché intorno
agli anni ' 60 P. Chantraine nel suo Dictionnaire
étymologique de la langue grecque ha canonizzato
questa idea e da allora non si è più tornati molto
sull'argomento. Ecate "saettatrice" è in diretta
associazione con Artemide, sua cugina sia di natali
che celeste, un'associazione che nasce nel VII sec.
a.C. ma che si consolida solo due secoli dopo.
In ogni caso, l'antichità di Ecate, e quindi la
sua importanza, fu riconosciuta da quelle divinità
pre-olimpiche che Zeus e la sua corte hanno spodestato.
Infatti, sebbene non fosse considerata parte della
compagnia olimpica, ella mantenne il dominio su
cielo, terra e mondo sotterraneo facendone la custode
della ricchezza e delle benedizioni della vita.
Zeus stesso onorò Ecate così tanto che le concesse
sempre l'antico potere di donare o negare ai mortali
i loro desideri. Non osò quindi destituirla, nonostante
il potere di Ecate rimaneva grande quanto se non
più del suo.
Ecate è esperta nelle arti della divinazione. Ella
dona agli umani i sogni e visioni che, se interpretati
saggiamente, portano a grande chiarezza. Inoltre,
conseguentemente alla sua associazione con Persefone,
ella è connessa con la morte e la rigenerazione.
La sua presenza è permesso, nella terra dell'aldilà,
di speranza pre-ellenica di rinascita e trasformazione
in opposizione ad Ade, che rappresenta l'inevitabilità
della morte.
Perse era associato alla distruzione, sia in agricoltura
che in guerra. Alcune fonti suggeriscono che egli
era a volte dipinto in spoglie canine, in modo simile
ad Anubi, dio egiziano dalla testa di sciacallo
associato all'aldilà. Questo è interessante se pensiamo
al fatto che Ecate è regolarmente associata con
i cani e con il mondo dei morti. Asteria, invece,
è la dea titana che governa visioni, oracoli, sogni,
profezie e necromanzia. Era anche associata a meteoriti,
comete e astrologia. Di nuovo un chiaro collegamento
ad Ecate, dea della magia, dei prodigi e del cielo
notturno. Ricordiamo che Asteria ospitò la sorella
Leto sotto forma di isola quando quest'ultima era
perseguitata da Pitone agli ordini della gelosa
Hera, che aveva ordinato a tutta la terra di non
dare rifugio alla titana.
Ecate era considerata una grande dea portatrice
di benefici e benedizioni sicuramente fino al V
sec. a.C., e sebbene da questo momento il suo lato
più oscuro inizia a prendere piede, ancora sotto
Silla (I sec. a.C.) ella era una dea romana delle
feste pubbliche, quindi associata all'abbondanza,
alla letizia e ai benefici.
Durante il Medioevo, come abbiamo visto, Ecate divenne
nota come Regina delle Streghe. Sebbene vada da
sé che la dea incarnò per le donne che venivano
chiamate "streghe" la loro protettrice, per la saggezza,
l'illuminazione e gli insegnamenti che ella portava
loro, in realtà questo nome venne affibbiato ad
Ecate dalle autorità cattoliche. Queste affermavano
che le persone più pericolose per la fede erano
coloro che erano protette da Ecate, come levatrici,
guaritori, saggi, erboristi, ecc. Per non parlare
dei pagani, ovvero gli abitanti dei villaggi (pagus)
dove l'insegnamento cattolico stentava ad arrivare
o a insediarsi: i contadini, così attaccati ai rituali
ed alle divinità della terra, vennero tacciati di
adorazione del diavolo. Fu proprio in questo periodo
che la potenza di Ecate fu offuscata dalle dicerie
e dalle menzogne cattoliche che iniziarono a ritrarla
come una vecchia brutta, bitorzoluta, cattiva e
che lanciava maledizioni mentre portava a spasso
il suo gregge di streghe.
nel XVI sec. Ecate addirittura è sinonimo nell'immaginario
collettivo del Male,la divinità è ritratta col suo
folle seguito che rapisce bimbi e giovinetti. Questo
corteo non rispondeva a quello di Ecate nella tradizione
greco-romana, sebbene le figure demoniche che popolavano
il folklore greco e che potevano costituire il corteggio
di Ecate (Lamia, Empusa, Mormò, Gorgò e simili),
così come i demoni mesopotamici (Lamashtu, Lilu,
Ardat-Lili e simili) avevano queste caratteristiche.
Accade invece nel Rinascimento che questi personaggi
minori vengono dimenticati oppure più semplicemente
associati e fusi insieme nel personaggio di Ecate
(come già succedeva in alcuni casi anche in età
greca). In questo periodo, artisti come Shakespeare
menzionano Ecate nelle loro opere, ma è una dea
ormai troppo associata alla stregoneria e al mondo
degli spettri. Sicuramente gli studiosi come anche
gli artisti conoscevano bene le origini di Ecate,
ma il tentativo di aver mordente tra la massa li
costringeva ad adottare le stesse immagini familiari
a chi non aveva accesso agli studi.
"Nel XIX sec. Ecate divenne (con l'eccezione della
sopravvivenza del suo culto in Italia presso il
lago Averno e altri posti in Grecia) una figura
oscura conosciuta quasi esclusivamente fra gli studiosi.
Poiché poco materiale scritto riguardo Ecate è sopravvissuto
(e per altre ragioni) questi stessi studiosi la
classificarono come una divinità minore e poco importante,
e molti di loro di conseguenza tesero a ignorare
il suo ruolo nel mito classico e nella cultura europea,
minimizzarlo o semplicemente demonizzarla. Nonostante
questa stereotipizzazione clamorosa, nel XX sec.
Ecate, come parte di una riesaminazione globale
del ruolo della Dea Oscura nel credo pagano, ritornò
ad una posizione di preminenza. Ella trovò rispetto
in una larga area di vari prospettive e culti e
come un archetipo del lato oscuro della natura femminile,
fu inclusa da molte streghe femministe nel loro
pantheon della Grande Dea Madre. Fu addirittura
abbracciata da molti pagani come loro esclusiva
divinità.
Allo stesso tempo, i suoi tributi ctonici la portarono
ad essere adottata da un numero di gruppi non tradizionali
considerati parte del movimento satanico. Fu anche
la sua associazione con il sangue, la vita dopo
la morte e la rinascita che fu motivo di connessione
con i gruppi odierni di vampiri; ciò anche a causa
del ritenuto corteo formato da creature vampirische
quali Lamia ed Empusa.
Comunque, riemergendo dall'oscurità nel dialogo
sociale del XXI sec., Ecate non è ancora totalmente
accettata e benvoluta. Ci sono ancora studiosi che,
contro ogni evidenza del contrario, continuano a
seguire le vecchie credenze e ad accantonarla come
una spaventosa dea della notte, senza esaminare
ulteriormente la sua figura. Inoltre, sebbene molti
pagani la includono nei loro sistemi di credenze
e culto, ce ne sono ancora molti che insistono al
meglio nel vedere Ecate come l'aspetto pericoloso
della Madre Oscura e, al peggio, nel rifiutarla
completamente in nome del "politically correct".
Questo rifiuto è dovuto non solo all'eccessivo sottolineare
il suo aspetto ctonio ma anche a casa della sua
forte associazione con l'uso della magia, che alcuni
pagani tendono a vedere come una pratica coercitiva
e crea, a volte, degli scismi. Comunque andranno
le cose intorno al paganesimo come religione, Ecate
rimarrà ancora per molto una figura controversa."
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Zeus/SELENE
Nella mitologia greca Selene (in greco Σελήνη, "luna";
etimo: "la risplendente") è la dea della luna, figlia
di Iperione e Teia, sorella di Elio (il sole) ed Eos
(l'aurora).
Selene è la personificazione della luna piena, insieme
ad Artemide (la luna crescente), alla quale è a volte
assimilata, ed a Ecate (la luna nuova). La dea viene
generalmente descritta come una bella donna con il viso
pallido, che indossa lunghe vesti fluide bianche od
argentate e che reca sulla testa una luna crescente
ed in mano una torcia. Molte rappresentazioni la raffigurano
su un carro trainato da buoi o su una biga tirata da
cavalli, che insegue quella solare.
Fu amante di Zeus, dal quale ebbe Pandia ed Erse (la
rugiada). Ebbe una relazione con Pan, che per sedurla
si travestì con un vello di pecora bianca e Selene vi
salì sopra.
Pandia è una figura della mitologia greca. Figlia di
Zeus e di Selene, era la personificazione del plenilunio
e quindi dea della luna piena. Viene ricordata tra gli
altri dei immortali, dai quali si distingue soprattutto
per la sua avvenenza.
Veniva celebrata con il padre Zeus in una festa ateniese
nel mese di Elafebolione. feste che si celebravano ad
Atene al termine delle Dionisie urbane in onore di Pandia,
figlia di Selene e Zeus, In origine erano le feste più
importanti d'Atene, ma con l'affermarsi delle Panatenee
si ridussero ad appendice delle Dionisie.
Un altro mito che la riguarda è quello dell'amore per
Endimione, re dell'Elide. Una storia romanticissima
e un po' triste: un giorno vide in una grotta un bellissimo
giovane addormentato, Endimione; se ne innamorò perdutamente
e lo baciò sugli occhi; ne nacque un grande amore, che
diede la luce a ben cinquanta figlie; ma Selene non
sopportava l'idea che un giorno il suo amante potesse
morire, e lo fece sprofondare in un sonno eterno per
poi andare a trovarlo ogni notte. Endimione dormiva
con gli occhi aperti, per poter vedere l'apparizione
della sua donna. Altre versioni meno romantiche della
storia sostengono che Endimione avesse chiesto a Zeus
di dormire per non perdere la sua giovanile bellezza,
o addirittura per evitare che Selene rischiasse un'ulteriore
gravidanza! Selene comunque non perde il suo fascino
di personificazione della luna, che regala un po' di
luce alla notte e un po' di sogno alla realtà.
Amche nella mitologia romana fu associata alla Luna;
il tempio della Luna si trovava a Roma sull'Aventino.
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Zeus/CALLIOPE
Il nome significa "dalla bella voce". Fu la Musa ispiratrice
a Omero dell'Iliade e dell'Odissea. La Maggiore fra
le Muse, e la più saggia e sicura di se, fu giudice
nella disputa fra Afrodite e Persefone su chi di loro
dovesse frequentare Adone, decidendo che ciascuna di
loro avrebbe trascorso lo stesso periodo di tempo con
l'amato. E' conosciuta con una stilo con cui srive su
tavolette di cera, o con un rotolo, o con un libro,
e in capo porta una corona d'oro. Da Apollo ebbe i due
figli Orfeo e Lino. Da Zeus suo padre, ebbe figli i
coribanti che erano i sacerdoti di Cibele (Rea) (divinità
nata dall'unione tra Gea e Urano). Onoravano la loro
dea con danze sfrenate e orgiastiche, durante queste
rumorosissime feste spesso si infliggevano volontariamente
delle ferite. Inventori del tamburo a cornice, creavano
musica basata sul ritmo ossessivo per curare l'epilessia
e per sconfiggere la malinconia di Zeus. Inoltre onoravano
il pino in onore di Attis (figlio della dea).
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Zeus/MAIA
Ninfa del monte Cillene in Arcadia, figlia di Atlante
e Plione. E' una delle sette figlie di Atlas.
Il nome deriva da una radice ma- : si tratta di un nome
di carattere familiare, significa "piccola madre".Con
Zeus ebbe figlio Ermes o Mercurio.
Mercurio (Ermes)
Mercurio è il più intelligente di tutti gli dei
olimpici ed è messaggero degli dei; per questo porta
dei sandali dorati e alati, un cappello alato ed
un'asta magica.
E' il dio del commercio e dei ladri, la guida alle
anime dei morti verso il mondo sotterraneo ed è
quello che porta sogni ai mortali. Ha inventato
la lira, la scala musicale, l'astronomia, i pesi
e le misure.
Come molti dei, Mercurio ha anche relazioni amorose
con dee, ninfe e mortali. Pan, mezzo uomo e mezzo
caprone, nacque dalla sua unione con Driope (la
figlia del re Driops). Anche Abderus era suo figlio;
era il compagno dell'eroe Ercole.
Ermafrodite era nato dall'unione di Mercurio e di
Afrodite ed era una divinità androgena. Mercurio
era adorato in tutta la Grecia, specialmente in
Arcadia; i festival in suo onore erano chiamati
Ermea.
Il mito del vello d'oro
Eolo — non il Dio e padre dei venti, ma il progenitore
della gente eolica, una delle grandi stirpi
degli Elleni — aveva avuto dodici figli. Uno
di questi Atamante, re dei Minii nella Beozia,
aveva sposato Nefele, la dea della nube, dalla
quale gli erano nati un figlio e una figlia:
Frisso ed Elle; poi, ripudiata Nefele, era passato
a seconde nozze con una donna mortale, Ino,
figlia di Cadmo, fondatore di Tebe.
La matrigna non amava i figliastri e cercò di
perderli. Indusse le donne del paese a seminare
chicchi di grano tostato, dai quali, naturalmente,
non germogliarono messi. Una grave carestia
scoppiò e il re mandò uomini a interrogare l'oracolo
di Delo. Ino corruppe i messaggeri e questi,
ritornando da Delo, riferirono non il responso
dell'oracolo, ma le parole imposte dalla regina:
— La carestia cesserà soltanto se Frisso sarà
sacrificato a Giove (Zeus).
«Cominciamo con Frisso — si era detta la matrigna
— dopo penseremo a Elle». Atamante amava i suoi
figli e di sacrificare Frisso non voleva affatto
saperne; ma i sudditi insorsero ed egli dovette
piegare il capo. Furono fatti i preparativi
per il sacrificio e il giovinetto era vicino
all'altare, quando Nefele, la madre divina,
chiese aiuto a Mercurio (Ermes) il quale le
mandò un ariete dal vello d'oro, che poteva
correre liberamente così sulla terra come attraverso
il cielo; Frisso ed Elle montarono sulla groppa
dell'ariete e l'ariete, levatosi in volo, in
pochi istanti sparì all'orizzonte.
— Non guardare in giù, sorellina, non guardare
in giù — aveva subito raccomandato Frisso.
Malauguratamente a un certo punto del viaggio
Elle abbassò gli occhi, fu colta da vertigini,
cadde e annegò in quel tratto di mare che da
lei prese il nome di Ellesponto.
Frisso invece arrivò a destinazione,
nella Colchide, dove venne ospitato da Eete.
Frisso dunque sacrificò l'animale agli dei,
donando il vello ad Eete, che lo nascose in
un bosco, ponendovi un drago di guardia.
Il vello venne successivamente rubato da
Giasone e dai suoi compagni, gli Argonauti,
con l'aiuto di Medea, figlia di Eete.
Giasone e gli argonauti
Il mito sembrerebbe rifarsi ai primi viaggi
dei mercanti-marinai proto-greci alla ricerca
di oro, di cui la penisola greca è assai scarsa.
Da notare che tuttora nelle zone montuose della
Colchide e delle zone limitrofe, vivono pastori-cercatori
d'oro seminomadi che utilizzano un setaccio
ricavato principalmente dal vello di ariete,
tra le cui fibre si incastrano le pagliuzze
di oro.
Il capo e organizzatore della spedizione, Giasone,
era figlio di Esone, ed era discendente del
dio Eolo. L'eroe viveva a Iolco, dove suo zio
Pelia aveva usurpato il regno di Esone.
Il giovane Giasone venne affidato, per crescere
bene, alle cure del Centauro Chirone, che gli
insegnò oltre a l'arte della guerra anche la
medicina.
L'avventura per la conquista del Vello iniziò
quando Giasone, divenuto adulto, tornò al suo
paese per pretendere il trono usurpato, vestito
in modo bizzarro: indossava una pelle di pantera,
ed aveva un piede scalzo, perché aveva perduto
un sandalo nel guado del fiume Anauro. Il giovane
arrivò nella piazza di Iolco mentre Pelia stava
eseguendo dei sacrifici per gli dei.
Si presentò al re e gli dichiarò chi egli era
e che cosa pretendeva di ottenere. Pelia allibì.
Peggio ancora; lo sguardo essendogli caduto
sui piedi del nipote, gli tornò a mente la vecchia
predizione di un oracolo ai principi del suo
regno: «Guardati dall'uomo che calza un sandalo
solo». Allora egli non aveva capito; ora capì
e pensò tosto come disfarsi del pericoloso nipote.
— Sta bene — gli disse cortesemente. — Io non
mi rifiuto di riconoscere i diritti che tu accampi,
sebbene tuo padre a suo tempo abbia rinunciato
al trono. Ma, prima, ascoltami. Se tu fossi
re e temessi che un suddito minacciasse la tua
vita, quale provvedimento prenderesti?
Giasone immaginò che il re gli rivolgesse quella
domanda solo per saggiare l'accortezza della
sua mente e rispose pronto:
— Manderei quell'uomo alla conquista del Vello
d'oro dell'ariete che ha trasportato in salvo
Frisso.
— Ebbene, va, e portami il Vello d'oro — disse
il re cambiando tono d'un tratto e parlando
imperioso. — Soltanto allora accederò alle tue
richieste.
Giasone aveva venti anni, era pieno di pensieri
di gloria, aveva forte il braccio e ardito il
cuore. Nonostante la pericolosità dell'impresa,
accettò. Dovendo sottrarre il vello d'oro che
Eete, re della Colchide, aveva nascosto nel
tempio di Marte, convocò i generali più forti
della grecia e costruì una nave.
La mitica nave che portò Giasone e gli Argonauti
alla conquista del vello d'oro, si chiamava
Argo.
Diverse leggende parlano di questa nave:
- La nave Argo venne progettata e costruita
grazie al contributo della dea Atena, ella aveva
personalmente preparato la prua della nave con
una quercia sacra, proveniente dalla foresta
di Dodona, donando alla prua il dono della parola
oltre alla capacità di profetizzare.
- Dopo il riuscito viaggio, Argo venne consacrata
a Poseidone nell'istmo di Corinto. Venne quindi
trasportata in cielo e trasformanta nella costellazione
Argo Navis.
- Diversi autori dell'antichità (Apollonio,
Rodio, Plinio, Filostefano) discussero della
figura ipotetica della nave. Veniva in genere
immaginata come una nave da guerra greca, una
galera, e gli autori ipotizzarono che fosse
anche la prima nave di questo tipo che avesse
intrapreso un viaggio in alto mare, e il suo
equipaggio era protetto dalla dea Era
- Anche il nome dato alla nave fece discutere.
Alcuni lo descrissero come il nome del suo costruttore,
il carpentiere Argo, figlio di Phrixus; altri
come la parola greca αργός, "rapida", essendo
una nave leggera; altri alla città di Argos,
dove si suppone che venne costruita; altri ancora
alle Argive, che vi salirono a bordo, secondo
il distico citato dallo statista dell'antica
Roma Cicerone nel suo primo Tuscolano.
LIBRO PRIMO
Con lui salpavano:
Orfeo, il mitico cantore figlio della musa Calliope
e del dio fluviale Eagro. Si narrava che il
suo canto avesse poteri taumaturgici, tali da
costringere le querce di un bosco a seguirlo
ed allinearsi lungo le coste.
Dopo Orfeo, che è posto così in rilievo, inizia
il catalogo vero e proprio dei partecipanti
che vengono presentati nell'atto di raggiungere
la spiaggia per unirsi a Giasone: Asterione,
Polifemo, Ificlo (zio di Giasone), Admeto di
Fere, Erito ed Echione (figli di Hermes e di
Antianira), Etalide (figlio di Hermes ed Eupolemea),
Corono (figlio di Ceneo). L'indovino Mopso,
Euridamante, Menezio (figlio di Attore e padre
di Patroclo).
Eurizione, Eribote, Oileo, Canto (figlio di
Caneto d'Eubea).
Clizio e Ifito, figli di Eurito.
Telamone e Peleo, figli di Eaco.
Bute e Falero, dalla Cecropia.
Tifi, figlio di Agnia, pilota della nave.
Fliante, della città di Aretira (Peloponneso).
Taleo e Areo (figli di Biante), con Leodoco,
da Argo.
Al centro del catalogo compare, in posizione
di particolare rilievo, la figura di Eracle.
Apollonio lo presenta appena tornato dalla cattura
del cinghiale del monte Erimanto che subito,
contro il volere di Euristeo, si incammina per
unirsi alla spedizione degli Argonauti.
E' con lui il giovane scudiero Ila, figlio di
Teodamante, re della Misia. Nauplio, discendente
di Danao e padre di Palemede. Idmone, altro
indovino della missione, che decise di partire
pur prevedendo la propria morte.
I Dioscuri Castore e Polluce, figli di Leda
e di Zeus (in altre versioni solo Castore è
figlio del dio).
Ida e Linceo, figli di Afareo.
Periclimeno, figlio di Neleo.
Anfidamante e Cefeo, figli di Aleo; Anceo, figlio
di Licurgo.
Augia, figlio del Sole, noto per la fatica di
Eracle nelle sue stalle.
Asterio e Anfione, figli di Iperasio, dall'Acaia.
Eufemo, figlio di Posidone e di Europa, così
veloce da poter correre sull'acqua.
Ergino di Mileto e Anceo, figlio di Posidone,
dell'Asia Minore.
Meleagro, figlio di Eneo, giovanissimo, accompagnato
dal precettore Laocoonte.
Ificlo, zio di Meleagro, da non confondere con
l'omonimo zio di Giasone.
Palemonio, figlio di Efesto.
Ifito della Focide, da non confondere con l'omonimo
fratello di Clizio.
Zete e Calais, figli di Borea, dotati di ali.
Completano il catalogo Acasto, figlio di Pelia
ed Argo, che sotto la guida di Atena aveva costruito
la nave.
Con grande effetto scenico Apollonio rende l'atmosfera
della partenza degli eroi tramite le parole
di due gruppi di astanti, in funzione di semicori
teatrali, l'uno maschile e l'altro femminile:
mentre il primo elogia l'aspetto eroico degli
Argonauti, il secondo descrive il dolore e la
desolazione di Esone ed Alcimede, genitori di
Giasone.
Segue il lamento di Alcimede per la partenza
del figlio, lamento consolato da Giasone. Tema
del colloquio è, accanto alla disperazione della
madre, la controllata rappresentazione antieroica
che Apollonio fornisce di Giasone.
Infine Giasone si incammina verso la nave, fra
l'emozione della folla.
Qui si tratteggia l'episodio della vecchia Ifiade,
sacerdotessa di Artemide, che bacia la destra
di Giasone ma non riesce a parlare, vinta dall'emozione,
e rimane indietro, superata dalla folla di giovani.
Prima di salpare Giasone raduna gli uomini e
propone la libera elezione di un comandante,
tutti guardano ad Eracle, ma questi rifiuta
ed propone, con un breve discorso, che il capo
sia Giasone. Giasone accetta lietamente ed ordina
che prima di partire si costruisca un altare
in onore di Apollo e si celebri un banchetto
rituale con sacrifici al dio.
Infine si procede al varo della nave, operazione
che viene descritta nei particolari con linguaggio
sapientemente vivace, si sorteggiano i posti
dei rematori e si affida a Tifi il compito di
pilotare Argo. Idmone pronuncia un vaticinio,
guardando il sangue dei sacrifici, è una prima
risposta alle preghiere rivolte da Giasone ad
Apollo: il fato prescrive l'esito positivo della
missione. Quanto a se stesso, Idmone conferma
che non potrà tornare in Grecia, ma accetta
la morte per la gloria della sua famiglia.
Al tramonto gli eroi banchettano sulla spiaggia
allegramente, con grande abbondanza di vino
e di cibo, Eracle ed Anceo hanno infatti abbattuto
due buoi offerti da Giasone per i sacrifici.
Solo Giasone appare triste e pensieroso, lo
nota Ida che, con atteggiamento tracotante,
lo esorta a non aver paura. A Ida risponde con
durezza Idmone deprecandone la superbia, la
lite che segue è placata da Orfeo che inizia
a cantare di argomenti mitici catturando l'attenzione
di tutti.
Nel canto di Orfeo Apollonio riprende tradizioni
rare ed erudite che vedono Ofione e Eurinome
come predecessori di Crono e Rea, mentre nella
mitologia più diffusa Crono succedeva direttamente
a Urano dopo averlo evirato.
Si parla anche di Zeus, cresciuto nell'isola
di Creta, al riparo dalla minaccia paterna,
al quale i Ciclopi avevano fornito il trono
e la folgore.
All'alba Tifi risveglia i compagni e finalmente
ci si dispone alla partenza. Apollonio descrive
solennemente la nave sospinta dai remi che si
stacca dalla riva e prende il largo, osservata
dagli dei. Il centauro Chirone con il piccolo
Achille raggiunge la spiaggia per salutare Peleo
e i suoi compagni.
Usciti dal porto a forza di remi, gli Argonauti
issano la vela mentre Orfeo intona un canto
in onore di Artemide protrettrice delle navi
e di Iolco.
Dopo un giorno di navigazione nell'Egeo, la
nave Argo approda sulle coste di Magnesia, presso
la tomba dell'eroe arcaico Dolope. Dopo tre
giorni di sosta forzata dai venti contrari la
nave riprende il mare.
Apollonio continua la descrizione sintetica
dell'itinerario, un'elencazione catalogica dei
luoghi. Il secondo giorno, dopo aver superato
il monte Athos, Argo raggiunge l'isola di Lemno.
Qui l'anno precedente si era consumata una grande
tragedia; gli uomini avevano a lungo trascurato
le mogli per amare delle schiave trace giunte
sull'isola. Accecate dalla gelosia, provocate
anche dall'ira di Afrodite che era stata a lungo
privata degli amori dovutile, le donne avevano
ucciso tutti gli uomini e le loro amanti. Nell'eccidio
non erano morti soltanto i mariti infedeli ma
tutti gli individui di sesso maschile dell'isola.
In questo modo - avevano pensato le omicide
- nessuno avrebbe potuto in futuro punirle.
Si salvò solo il vecchio Toante al quale la
figlia Ipsipile offrì una possibilità di scampo
abbandonandolo in mare in una cassa.
Da allora le donne di Lemno avevano svolto i
lavori maschili, sempre temendo che dal mare
arrivassero i nemici Traci. Per questo timore
le donne di Lemno accolgono con ostilità gli
Argonauti (che scambiano per Traci) ma Etalide
- inviato come araldo alla regina Ipsipile -
la convince a lasciarli pernottare sull'isola.
Ipsipile convoca in adunanza le concittadine
e propone che si offrano doni agli Argonauti
portandoli sulla spiaggia per evitare che questi,
entrando in città, scoprano i loro misfatti.
Ma la vecchia Polisso è di diversa opinione:
prevedendo un'orrenda vecchiaia per tutte loro
che senza figli e senza sposi, resteranno indifese
a morire sull'isola, propone che si trattengano
i nuovi venuti, si affidi loro il governo dell'isola
ed il futuro della sua popolazione.
Così decide l'assemblea ed Ipsipile invia Ifinoe
alla nave perché inviti gli Argonauti ad entrare
in città. Accogliendo l'invito Giasone veste
il suo mantello, donatogli da Atena, e qui inizia
una lunga digressione nella quale Apollonio
descrive gli episodi mitici ricamati nei riquadri
del mantello, con evidente riferimento al modello
omerico della descrizione dello scudo di Achille.
I riquadri del mantello riproducono:
- i Ciclopi intenti a fabbricare la folgore
di Zeus;
- la fondazione di Tebe ad opera di Anfione
e Zeto;
- Afrodite che si specchia nello scudo del suo
amante Ares;
- i pirati Teleboi che fanno strage dei figli
di Elettrione;
- la gara tra Enomao e Pelope per la mano di
Ippodamia;
- Apollo che uccide Tizio;
- Frisso che dialoga con il magico montone
Continua la descrizione della vestizione di
Giasone con la lancia a questi donata da Atalanta.
La vergine guerriera aveva chiesto di partecipare
all'impresa, ma Giasone non l'aveva accettata
temendo che la sua presenza femminile creasse
difficoltà e gelosie.
Giasone si reca alla reggia di Ipsipile attraversando
la città fra gli sguardi affascinati delle donne.
La regina gli fornisce una versione parzialmente
falsata degli eventi: sconvolti dalla passione
per le schiave trace gli uomini di Lemno avevano
abbandonato e trascurato le loro donne finchè
queste, indignate, non si erano accordate per
chiuderli tutti fuori della città. Gli uomini
si erano tutti trasferiti in Tracia portando
con loro i figli maschi ed ora Lemno era popolata
di sole donne. Per questi motivi esse pregavano
gli stranieri di rimanere sull'isola, in particolare
Ipsipile offriva a Giasone la sua casa, il suo
letto ed il trono paterno.
Giasone torna alla nave per riferire la proposta
ai compagni dopo aver avvisato Ipsipile che
in nessun caso essi potranno rimanere per sempre
in quanto hanno una missione da compiere. Lo
seguono le donne recando doni ai marinai. Gli
Argonauti si trattengono a lungo sull'isola
finchè Eracle, che con pochi compagni ha rifiutato
di lasciare la nave, non li riunisce per rimproverarli.
Con il suo discorso Eracle riprende di fatto
il comando della missione ed ordina ai compagni
di rimettersi in mare, Giasone resti pure, se
vuole, nel letto di Ipsipile per ripopolare
l'isola di Lemno.
Le donne di Lemno prendono commiato con dolce
tristezza degli Argonanti. Anche Ipsipile saluta
Giasone e gli promette di conservagli il trono
se un giorno vorrà tornare da lei. Giasone le
chiede, se avrà un suo figlio maschio, di mandarlo
a Iolco, una volta cresciuto a conoscere i nonni
paterni.
Gli Argonauti ripartono e, verso sera, raggiungono
l'isola di Samotracia, dove - su consiglio di
Orfeo - partecipano a riti misterici che l'autore
dice di non poter descrivere in ossequio al
segreto religioso.
Proseguendo il viaggio Argo raggiunge l'Ellesponto
"fremente di vortici", giunge infine ad una
penisola della Propontide, nel Mar Nero, detta
"Monte degli Orsi", abitata da mostri a sei
braccia. Loro vicini sono i Dolioni, sui quali
regna Cizico, figlio di Eneo. Cizico, che era
stato avvertito da un oracolo, accoglie gli
Argonauti ed offre loro la sua ospitalità. Il
re, giovanissimo, aveva da poco sposato Clite,
figlia di Merope, e non aveva ancora avuto figli.
Dopo il banchetto offerto da Cizico, Dolioni
e Argonauti sono attaccati dagli orrendi vicini,
i "Figli della terra", giganti con sei braccia.
Li combatte Eracle, subito imitato dagli altri
compagni ed infine i mostri vengono sterminati.
Dopo la battaglia gli Argonauti riprendono il
mare, ma durante la notte il vento contrario
li riporta sulla costa dei Dolioni. Nelle tenebre
gli Argonauti non si rendono conto di essere
tornati indietro ed anche i Dolioni non li riconoscono
e credono si tratti sbarco nemico. L'equivoco
provoca una battaglia nella quale Cizico cade
ucciso da Giasone. La luce dell'alba svela l'accaduto
e Argonauti e Dolioni si uniscono nella comune
disperazione. Grandi onori funebri vengono tributati
a Cizico, mentre la sua sposa Clite si toglie
la vita.
Per dodici giorni e dodici notti la condizione
del mare impedisce agli Argonauti di ripartire,
una notte l'indovino Mopso interpreta la voce
di un alcione che sorvola il capo di Giasone
addormentato: Giasone dovrà placare la collera
di Cibele per ottenere il vento propizio.
Subito Giasone ed i compagni costruiscono un
altare per Cibele e svolgono riti pregando la
dea di far cessare la tempesta. La danza rituale
degli Argonauti, che con il clangore delle armi
disperdono i lamenti dei Dolioni, serve ad Apollonio
per giustificare l'origine di comportamenti
cultuali ancora ai suoi tempi in essere in quelle
regioni.
Accogliendo la supplica, la dea si manifesta
con vari prodigi: subitanea fioritura dei campi,
belve mansuete e l'improvviso sgorgare di una
fonte che sarà poi detta "fonte di Giasone".
Il mattino seguente Argo riprese il mare e,
nella bonaccia, i marinai improvvisarono una
gara di resistenza. A sera, tuttavia, il mare
si ingrossò e mentre tutti, sfiniti, abbandonavano
il remo, solo Eracle continuò a vogare. Erano
già in vista delle coste della Misia quando
il remo di Eracle si ruppe. Apollonio descrive
ironicamente il fortissimo eroe che cade in
terra per il contraccolpo e rimane stupito ed
imbarazzato a guardarsi le mani.
I Misi accolgono gli Argonauti con amicizia
ed offrono loro un abbondante banchetto.
Solo Eracle diserta il banchetto per cercare
nel bosco un tronco con il quale costruire un
nuovo remo. Trovato un albero di suo gradimento
non esita a svellerlo dal terreno a forza di
braccia. Intanto Ila si era allontanato dai
compagni in cerca di una fonte.
Breve disgressione sulla storia di Ila: Eracle
lo aveva preso con se ancora fanciullo dopo
aver ucciso il padre Teodamante, re dei Driopi
in una guerra da lui stesso provocata per punire
l'ingiustizia di quel popolo.
Giunto ad una fonte Ila incontra un gruppo di
ninfe intente a danzare in onore di Artemide.
Una ninfa, colpita dalla bellezza del giovane,
lo abbraccia trascinandolo nel vortice della
fonte. Solo Polifemo sente il grido di Ila e
si da inutilmente a cercarlo nei pascoli.
Polifemo incontra Eracle e lo avverte della
sparizione di Ila e del grido che ha udito.
Anche Eracle, sconvolto, comincia a vagare per
la vegetazione cercando e chiamando il giovane
scomparso.
All'alba gli Argonauti riprendono il mare e
solo dopo qualche tempo si accorgono della mancanza
di alcuni compagni.
Nasce una lite per quanti vogliono tornare a
cercare Eracle e quanti vogliono proseguire,
Giasone è incapace di prendere una decisione
e Telamone lo accusa di gradire la scomparsa
di Eracle, che avrebbe potuto offuscare la sua
gloria. A Telamone si oppongono Zete e Calais
che, anticipa Apollonio, saranno per questo
uccisi da Eracle molto tempo più tardi.
A dirimere la contesa appare dal mare Glauco,
eroe divinizzato, che spiega gli eventi agli
Argonauti: Eracle deve tornare ad Argo per volere
di Zeus ed ivi completare le sue fatiche prima
di essere ammesso all'Olimpo, Polifemo è destinato
a rimanere nella Misia per fondare una gloriosa
città, quanto a Ila è stato rapito da una ninfa
che ne ha fatto il suo sposo.
Tranquillizzati gli Argonauti riprendono il
viaggio mentre Telamone chiede ed ottiene il
perdono di Giasone.
Eracle, rimasto in Misia, minaccia di distruggere
il paese e gli vengono consegnati alcuni giovani
in ostaggio per rassicurarlo sulla continuità
degli sforzi per rintracciare Ila.
Il libro si chiude con gli Argonauti che, dopo
aver navigato per tutto il giorno e la notte
successiva sospinti da un vento impetuoso giungono
all'alba in vista di una nuova terra.
LIBRO SECONDO
Erano giunti nel paese dei Bebrici,
governati da Amico, figlio di Posidone e della
ninfa Melia. Amico, estremamente arrogante,
aveva stabilito una legge nei confronti degli
ospiti: nessuno poteva andar via senza essersi
battuto con lui nel pugilato, in questo modo
aveva ucciso molti ospiti. Amico sfida subito
gli Argonauti, ignorando le più semplici regole
dell'ospitalità. Alla sua sfida risponde con
indignazione Polluce.
I preparativi del combattimento sono descritti
con effetti di grande efficacia: Amico è rosso,
selvaggio, viene paragonato con il mostruoso
Tifeo. Per contro Polluce appare giovane e radioso,
paragonabile ad una divinità solare. Il contrasto
dell'aspetto fisico dei contendenti è ripetuto
e accentuato nei loro atteggiamenti. Con parole
arroganti e minacciose Amico ordina a Polluce
di scegliere i cesti (i guantoni) con i quali
combattere. Polluce ribatte solo con un sorriso
alle provocazioni dell'altro.
Anche durante lo scontro Apollonio confronta
la forza bruta di Amico con l'intelligenza di
Polluce: mentre il primo attacca senza sosta
con l'irruenza "del flutto che si solleva violento
contro una rapida nave" il secondo evita agilmente
i colpi più duri e studia la tattica e le debolezze
del nemico. Dopo un lungo combattimento Polluce
schiva un colpo micidiale e colpisce Amico alla
testa fratturandogli il cranio. Mentre Amico
esala l'ultimo respiro i Bebrici si scagliano
su Polluce che viene subito protetto da alcuni
compagni. Ne segue un combattimento descritto
in stile omerico, almeno nelle linee generali
anche se i singoli episodi sono riportati in
estrema sintesi. I Bebrici vengono presto sopraffatti,
è in particolare Anceo che giù in precedenza
ha presentato caratteri molto simili a quelli
di Eracle, a scatenarsi fra i nemici mettendoli
in fuga. Nel frattempo, avverte Apollonio, i
Mariandini, nemici dei Bebrici, approfittando
dell'assenza di Amico, avevano saccheggiato
capi e villaggi.
Durante la notte gli Argonauti banchettano sulle
rive e festeggiano la vittoria di Polluce. Al
mattino Argo riprende il mare e si dirige verso
il Bosforo. Qui un'onda gigantesca minaccia
la nave che viene tratta in salvo dall'abilità
del timoniere Tifi. Il giorno seguente la nave
approda alla terra di Fineo.
Fineo, indovino ed ex re dei Traci, era stato
punito da Zeus per aver abusato delle sue arti
profetiche e condannato ad un interminabile
vecchiaia tormentata dalle cecità e dalle Arpie
che rubavano sempre il suo cibo lasciandogliene
solo pochi resti immondamente contaminati. Fineo
riconosce gli Argonauti grazie alla chiaroveggenza
e li prega di liberarlo dalle Arpie, giura che
l'aiuto a lui dato non provocherà l'ira degli
dei.
Viene preparato del cibo per Fineo ma l'intervento
fulmineo delle Arpie gli impedisce come sempre
di servirsene. Zete e Calais si lanciano all'inseguimento
dei mostri volanti. Gli alati figli di Borea
raggiungono i mostri e stanno per ucciderli
quando interviene Iride, messaggera di Zeus:
non è a loro concesso uccidere le Arpie, ma
Iride giura sullo Stige che esse non torneranno
più a tormentare Fineo.
Credendo al giuramento i Boreadi tornano indietro.
Intanto gli Argonauti avevano lavato il vecchio
ed approntato un banchetto al quale Fineo partecipa
assaporando il cibo con un piacere quasi onirico.
Finalmente sazio il vecchio indovino pronuncia
una profezia sull'esito della missione di Argo.
Inizia precisando che l'oracolo sarà incompleto
come vuole Zeus e che non ripeterà l'errore
che gli è già costato tanta sofferenza. Fineo
avverte gli Argonauti che dovranno superare
le Simplegadi, rupi mobili che seguono il passaggio
fra il Bosforo ed il Mar Nero: prescrive di
mandare avanti una colomba, se questa non supererà
le rupi dovranno senz'altro abbandonare l'impresa,
pena l'essere schiacciati dalle rupi. Se supereranno
le Simplegadi - e la profezia è pronunciata
in modo da non fornire garanzie in merito -
gli Argonauti entreranno nel Ponto. Vengono
elencate rapidamente le tappe successive (l'isola
di Tinia, la terra dei Mariandini, la scogliera
Acherusia, la terra dei Paflagoni, ecc.) in
una elencazione di stile catalogico. La profezia
giunge fino alla Colchide, con la descrizione
del Vello appeso ad una quercia nel bosco sacro
ad Ares evitando tuttavia di soffermarsi sugli
aspetti chiave del viaggio e di dare indicazioni
ulteriori di comportamento, secondo il desiderio
del voto non ripetere i suoi errori passati.
Giasone, angosciato, chiede esplicitamente se
dopo l'impresa riusciranno a tornare in Grecia
e come potranno, inesperti di navigazione come
sono, affrontare un viaggio tanto lungo e pericoloso.
Fineo risponde in modo oscuro che un dio li
assisterà e che dovranno "cercare l'inganno
di Cipride, alludendo all'aiuto di Medea".
Tornano Zete e Calais e riferiscono dell'inseguimento,
dell'intervento di Iride e del suo giuramento
con grande letizia di tutti ed in particolare
di Fineo.
Sorge l'aurora ed i vicini di Fineo giungono
come di consueto a portare aiuto al vecchio
ed a chiedere consigli alla sua chiaroveggenza,
tutti si rallegrarono apprendendo all'arrivo
degli Argonauti e della cacciata delle Arpie,
eventi che il vecchio aveva da tempo predetto.
Fra loro è Parebio, un pastore che aveva a lungo
scontato con una vita di difficoltà e privazioni
la colpa del padre che aveva abbattuto un albero
sacro, ignorando le preghiere di una ninfa che
vi abitava. Parebio, su consiglio di Fineo,
aveva ottenuto il perdono innalzando un altare
e dedicando sacrifici alla ninfa. Il pastore
era stato sempre riconoscente all'indovino e
lo aveva aiutato con ogni suo mezzo. Ora Fineo
gli chiede un montone da offrire agli eroi e
subito Parebio gliene porta due, gli animali
vengono sacrificati e gli eroi trascorrono in
un lungo banchetto un altro giorno di riposo.
Apollonio inserisce qui una digressione sul
mito di Aristeo che aveva risolto una terribile
siccità implorando Zeus ed ottenendo i benefici
venti etesi. La digressione serve appunto ad
introdurre l'alzarsi di tali venti che, spirando
in senso contrario, costringono gli Argonauti
ad una lunga ed imprevista sosta presso Fineo.
Infine, dopo aver costruito un altare agli dei,
gli Argonauti si rimettono in viaggio, pronti
ad affrontare il passaggio delle Simplegadi.
Dall'Olimpo la dea Atena si porta sul luogo
per prestare il suo soccorso. Come prescritto
da Fineo gli Argonauti liberano una colomba
e vistala attraversare illesa il terribile passaggio,
si mettono ai remi con grande vigore per superare
le Simplegadi. L'episodio è reso con grande
tensione drammatica: l'abilità del timoniere,
lo sforzo supremo dei rematori, le grida di
Eufemo che incita i compagni a remare più forte;
il riflusso della corrente finisce comunque
per immobilizzare la nave nella minacciosissima
gola e solo una spinta poderosa della mano invisibile
di Atena fa uscire Argo dal passaggio prima
che le rupi si richiudano saldandosi definitivamente
fra loro.
La tensione dell'episodio si risolve in una
scena dialogata: Tifi, pur non consapevole dell'intervento
di Atena, attribuisce alla dea il merito del
successo riferendosi alla solidità strutturale
di Argo della quale Atena è la principale artefice.
Ora che le Simplegladi sono alle loro spalle
l'esito dell'impresa è assicurato, conclude
Tifi ottimisticamente. Giasone tuttavia risponde
con un discorso in negativo, si dichiara pentito
di essere partito e tormentato dal timore di
esporre continuamente i suoi compagni a pericoli
mortali. I commenti dei compagni - non riferiti
dall'autore - servono però a confortare Giasone
che finisce per condividere l'ottimismo di Tifi
e tutti tornano, rinfrancati a remare.
Dopo un altro tratto di faticosa navigazione,
nella prima luce del giorno, Argo raggiunge
l'isola Tinia. Qui agli Argonauti stremati dalla
fatica appare il dio Apollo. Il dio cammina
verso la terra degli Iperborei, recando con
se l'arco e la faretra. Non si rivolge agli
Argonauti, anzi li ignora e quelli rimangono
muti a contemplare in religioso stupore le divine
fattezze del Nume. Solo dopo che Apollo è svanito
in lontananza, camminando nell'aria sopra il
mare, Orfeo si riscuote ed invita i compagni
ad onorare Apollo.
Subito si innalza un altare e, con la caccia,
si procurano vittime per i sacrifici. Orfeo
canta le gesta di Apollo, l'uccisione del serpente
Pitone, e tutti si giurano amicizia e reciproco
aiuto, in nome della Concordia.
All'alba del terzo giorno Argo lascia l'isola
per raggiungere, il mattino successivo, il porto
di Capo Acherusio, nella terra dei Mariandini.
Nei pressi si trova uno degli ingressi dell'Ade,
dove il fiume Acheronte si getta in un orrido
immenso.
Gli Argonauti, preceduti dalla loro fama, vengono
accolti dai Mariandini con grande amicizia.
Questi infatti sono al corrente dell'uccisione
di Amico, re dei Bebrici, loro tradizionali
nemici.
Il re Lico offre loro un lauto banchetto e Giasone
gli racconta tutti gli eventi del viaggio. Lico
si duole con gli Argonauti per la perdita del
famoso Eracle. Apollonio utilizza lo spunto
per narrare per bocca di Lico le precedenti
imprese di Eracle. Eracle era stato in quei
luoghi in passato ed aveva aiutato i Mariandini
contro vari nemici. Partito Eracle i Bebrici
di Amico avevano tolto a Lico molte delle sue
terre, ma ora Polluce li aveva vendicati.
In segno di riconoscenza Lico dispone che suo
figlio Dascilo si unisca alla spedizione procurando
agli Argonauti benevoli accoglienze fra i popoli
amici. Inoltre Lico decide di costruire un tempio
in onore dei Dioscuri sulla vetta del promontorio
Acherusio.
Poco prima della partenza si verifica un triste
evento: Idmone viene aggredito da un feroce
cinghiale, Peleo ed Ida abbattono la bestia
ma Idmone spira fra le loro braccia mentre viene
condotto alla nave. Gli Argonauti rimandano
la partenza per rendere le dovute onoranze funebri
ad Idmone, ma durante le esequia muore anche
Tifi, ucciso da un morbo improvviso.
La perdita del pilota e dell'indovino getta
gli Argonauti in uno stato di impotente desolazione
finché Anceo, ispirato da Era, non si offre
di sostituire Tifi alla guida di Argo. La proposta
di Anceo, caldeggiata da Peleo serve a scuotere
gran parte degli uomini e, nonostante il pessimismo
di Giasone, si decide di riprendere il viaggio.
Navigando vedono la foce del fiume Callicoro,
dove Dioniso aveva istituito danze a lui sacre,
ed il sepolcro di Stenelo, caduto combattendo
le Amazzoni al fianco di Eracle. L'ombra dell'eroe
appare rapidamente sulla tomba, inducendo gli
Argonauti a fermarsi per rendergli onore.
La tappa successiva è nella terra d'Assiria,
dove nel mito aveva dimora la vergine Sinope,
negatasi a tre divinità. Qui gli Argonauti incontrano
tre ex compagni di Eracle: Deileonte, Autolico
e Flogio i quali si uniscono alla spedizione.
Proseguendo gli Argonauti raggiungono e superano
la terra delle Amazzoni, senza avere occasione
di incontrarle, occasione che avrebbe certamente
provocato uno scontro data l'indocile natura
delle figlie di Ares.
Subito dopo oltrepassano il paese dei Calibi,
popolazione che ricavava il proprio sostentamento
dalla produzione del ferro.
Seguono i Tibareni, noti per l'usanza degli
uomini di mimare le doglie del parto delle loro
mogli.
Proseguendo l'elenco di particolari curiosi
e sorprendenti che caratterizza questa parte
del viaggio, Apollonio parla del popolo dei
Mossineci, dalle singolari usanze: fanno l'amore
in pubblico e condannano il re, quando sbaglia
un giudizio, ad un giorno di digiuno e reclusione.
Giunti in vista dell'isola di Ares, gli Argonauti
vengono aggrediti da terribili uccelli che li
feriscono lasciando cadere le loro penne taglienti.
Anfidamante escogita un espediente per superare
l'ostacolo: gli Argonauti indossano gli elmi,
ostentano lance e scudi, levano grida fortissime,
il tutto per produrre un effetto tale da spaventare
gli uccelli. L'espediente ha successo e gli
Argonauti, protetti dalla tettoia formata dagli
scudi, raggiungono l'isola, mentre gli uccelli
fuggono spaventati. La tappa sull'isola di Ares
è stata consigliata da Fineo ed Apollonio passa
ora a spiegarne le ragioni.
I figli di Frisso, poco prima, avevano intrapreso
un viaggio contemporaneo ed in direzione opposta
a quella di Argo, erano partiti dalla Colchide
per raggiungere Orcomeno e recuperare le ricchezze
del padre, come questi aveva ordinato loro morendo.
Avevano però fatto naufragio sull'isola di Ares
e qui incontrano gli Argonauti ai quali si affrettano
a chiedere aiuto. Interrogati da Giasone i naufraghi
sintetizzano la storia di Frisso che aveva raggiunto
la Colchide cavalcando un montone volante poi
mutato in oro da Hermes. Frisso aveva sposato
Calciope, figlia di Eeta e dalla loro unione
erano nati i quattro naufraghi: Citissoro (Cilindro),
Frontis, Melas, Argo.
Giasone rivela loro di essere nipote di Creteo,
fratello di Atamante, padre di Frisso, sono
dunque parenti, offre loro quindi indumenti
con i quali coprirsi ed insieme offrono sacrifici
ad Ares.
Giasone chiede ai figli di Frisso di seguirlo
ed aiutarlo, con la loro esperienza dei luoghi,
nella conquista del vello d'oro. Quelli inorridiscono
e descrivono la crudeltà di Eeta e la ferocia
del serpente immortale, nato dal sangue di Tifone
che custodisce il vello. Interviene Peleo ed
interrompe il discorso che minaccia di terrorizzare
gli Argonauti.
L'indomani Argo lascia l'isola di Ares e costeggia
l'isola di Filira, qui si era svolto l'adulterio
di Crono con l'oceanina Filira, da cui era nato
il centauro Chirone.
Giunti in vista del Caucaso gli Argonauti avvistano
la grande aquila che si nutriva del fegato di
Prometeo, ivi incatenato, quindi odono il lamento
del Titano.
Quella notte, guidati dai figli di Frisso, giungono
alla foce del fiume Fasi, estremo confine del
Ponto. Risalendo il fiume raggiungono il bosco
sacro ad Ares dove il mostruoso serpente custodisce
il vello d'oro.
LIBRO TERZO
Dall'Olimpo Era ed Atena osservano
gli eroi finalmente giunti in Colchide e discuteno
su come aiutarli, Era propone di coinvolgere
Afrodite perché faccia innamorare Medea di Giasone
ed Atena, ignara dei giochi e delle pene d'amore,
acconsente.
Nella casa di Efesto, Afrodite accoglie con
sorpresa la visita di Era ed Atena. Le parla
Era spiegando le ragioni del suo affanno per
Giasone: ella lo stima per un atto di pietà
compiuto nei suoi confronti mentre si fingeva
una debole vecchia, inoltre ha in odio Pelia
che l'aveva una volta trascurata nei suoi sacrifici.
Dunque Era chiede ad Afrodite di mandare suo
figlio Eros da Medea perché si innamori di Giasone,
Afrodite è perplessa, spiega che suo figlio
le reca ben poco rispetto e nessuna obbedienza,
tuttavia tenterà, per compiacere le dee.
Afrodite va in cerca di Eros e lo trova nelle
valli di Olimpo intento a giocare a dadi con
Ganimede. Ganimede, sconfitto, si allontana
con disappunto, senza notare l'arrivo della
dea.
Afrodite incarica Eros di colpire con le sue
magiche frecce il cuore di Medea e gli promette
in cambio un giocattolo favoloso, già di Zeus
quando era bambino, una palla luminescente dai
mille riflessi che lanciata lascia nell'aria
un alone di luce. Come un bambino capriccioso
Eros insiste per ottenere subito il regalo me
Afrodite promette che glielo darà solo a missione
compiuta.
Mentre Eros vola verso Colclide gli Argonauti
si riuniscono in assemblea.
Giasone propone di compiere un tentativo diplomatico
per ottenere il Vello d'Oro senza far uso della
forza. Ottenuto il consenso dei compagni prende
con se i quattro figli di Frisso, Telamone ed
Augia e si reca alla reggia di Eeta.
Il cammino di Giasone e dei suoi compagni attraversa
una scena macabra: non era infatti uso dei Colchi
cremare o seppellire i morti, ma li appendevano
agli alberi, fuori città, avvolti in pelli di
bue non conciate.
Viene descritta la splendida reggia di Eeta,
adornata da molte opere fra cui i tori di bronzo
forgiati da Efesto. Nella stanza più grande
abitava Eeta, con la sua sposa Idea, figlia
di Oceano e di Teti. In un'altra abitava Assirto
da questi concepito con la ninfa caucasica Asterodea,
prima del matrimonio.
Nella reggia vivevano anche le due figlie di
Eeta, Calciope e Medea, sacerdotesse di Ecate.
Scorgendo improvvisamente i visitatori Medea
lancia un grido, richiamando la sorella e le
ancelle.
Calciope, accorsa, riconosce i propri figli
che abbraccia con gioia. Accorrono anche Eeta
e Idea, si riunisce gran folla ed i servi si
affrettano ad imbandire il consueto banchetto.
Nel frattempo giunge, invisibile, Eros ed in
un istante compie la sua missione lasciando
Medea sconvolta ed innamorata.
Durante il banchetto Eeta interroga I nipoti
sulle ragioni del ritorno e sull'identità dei
loro accompagnatori. Risponde Argo, il maggiore
dei figli di Frisso, ricordando la tempesta
ed il naufragio, nonché l'aiuto ricevuto dagli
Argonauti sull'isola di Ares.
Infine Argo spiega la ragione del viaggio di
Giasone. Argo dichiara che le intenzioni di
Giasone sono pacifiche e che in cambio del Vello
egli intende aiutare Eeta a combattere i Sauromati,
nemici dei Colchi. Passa quindi ad esporre le
origini dei suoi amici, Giasone discende, come
Frisso, da Eolo; Augia - come Eeta - è figlio
del Sole e Telamone è figlio di Eaco, nato da
Zeus.
La reazione di Eeta è terribile, egli sospetta
che gli Argonauti tramino per privarlo del regno
e che i figli di Frisso siano d'accordo con
loro. Li caccia tutti e rimpiange che l'averli
accolti alla sua mensa gli impedisca ora di
punirli severamente.
Con un breve discorso adulatorio Giasone riesce
a calmarlo, ma Eeta gli propone una terribile
prova: egli dovrà arare un campo usando i buoi
di bronzo creati da Efesto, seminarlo con denti
di drago e vincere i terribili guerrieri che,
al tramonto, nasceranno dalla semina. Solo quando
avrà superato questa prova - alla quale Eeta
dichiara di essersi più volte sottoposto - Giasone
otterrà il Vello d'Oro. Giasone, dopo un'angosciata
esitazione, accetta la prova pur disperando
di riuscire a superarla. Spavaldamente Eeta
lo congeda perché vada a riferire l'accaduto
ai suoi compagni.
Mentre Giasone ed i suoi lasciano la reggia
Medea si tormenta per il nuovo amore e prega
Ecate per la salvezza dell'eroe.
Quando Giasone spiega ai compagni la terribile
prova che dovrà affrontare molti di loro si
offrono di sostituirlo ma Argo - lo ha già proposto
strada facendo a Giasone - insiste perché si
chieda l'aiuto di Medea.
In quel momento gli dei danno un segno (una
colomba sfugge ad uno sparviero e si posa sulle
gambe di Giasone) e Mopso lo interpreta come
un'esortazione a ricorrere a Medea, ricordando
l'allusione di Fineo e gli inganni di Afrodite.
Medea può aiutare Giasone - ha spiegato Argo
- perché la dea Ecate di cui è sacerdotessa
l'ha resa edotta di misteriosi sortilegi.
Solo Ida, come sempre arrogante e rozzo, si
oppone alla decisione e propone di ricorrere
alla forza, ma la decisione è ormai presa ed
Argo viene incaricato di tornare alla reggia
e parlare con sua madre Calciope.
Eeta con un lungo discorso - che Apollonio riferisce
in forma indiretta - prepara la rovina degli
Argonauti, quando Giasone sarà perito nella
prova, la nave Argo sarà incendiata e "i pirati"
verranno puniti. Altrettanto dura sarebbe stata
la punizione dei figli di Frisso e Calciope
che Eeta considerava ormai alla stregua di traditori.
Il ritmo della narrazione si fa sempre più intenso:
Argo si sforza di convincere Calciope a procurare
l'aiuto di Medea, Medea intanto sogna di combattere
e vincere i tori, sogna che il Vello d'oro sia
soltanto un pretesto di Giasone che, in realtà,
vuole conquistarla come sposa e sogna di scegliere
di seguirlo, abbandonando la casa paterna.
Magistrale la descrizione dell'angoscia che
assale Medea al suo risveglio: ella spera che
Calciope chieda il suo aiuto per i suoi figli
ma, combattuta fra desiderio e vergogna, esita
a lungo sulla porta della sua stanza. Una richiesta
d'aiuto da parte di Calciope le fornirebbe una
sorta di alibi per salvare Giasone senza svelare
la sua passione, ma nel sollecitare una tale
richiesta, dovrebbe svelare i propri sentimenti
alla sorella ed in questo la trattiene il pudore.
Mediatrice un'ancella che ha scorto il pianto
di Medea, è Calciope a raggiungere la sorella
e nel trovarla stravolta teme un presagio funesto.
Medea esita ancora ed infine risolve con l'inganno,
spiegando di aver sognato terribili mali induce
Calciope a chiedere il suo aiuto. Alle suppliche
di Calciope Medea risponde promettendo che aiuterà
lo straniero con i suoi filtri. Cela una gioia
invereconda quando Calciope le dice che Giasone,
tramite Argo, ha richiesto il suo aiuto.
Scende la notte, portatrice di quiete e di riposo
e nel profondo silenzio Medea medita sulla sua
decisione. E' un brano di alta letteratura nel
quale Apollonio indaga le passioni dell'animo
della sua protagonista con sorprendente lucidità.
Medea è combattuta fra le sue passioni e tutto
il retaggio della sua educazione: la trattengono,
dall'aiutare Giasone, più che il timore della
punizione paterna, il senso dell'implicito tradimento
e la vergogna per l'onore perduto. Potrebbe
morire, si dice, dopo aver salvato Giasone,
ma anche in questo caso sarebbe disonorata e
la sua memoria rinnegata dai conterranei. Meglio
dunque morire quella notte stessa, abbandonando
Giasone al proprio destino e liberandosi del
tormento della passione prima di aver compiuto
qualsiasi azione disonorevole. Medea pone mano
al cofanetto contenente il veleno, ma proprio
quando sta per darsi la morte la salva un subitaneo
attaccamento alla vita, rivede i momenti felici
della sua infanzia, ripensa alla dolcezza della
luce del sole e questo sano desiderio di vivere
aiuta la sua ragione e riprende il controllo,
Medea ha infine deciso: depone il cofanetto
ed attende impazientemente l'aurora per poter
preparare il filtro che salverà Giasone.
All'alba i preparativi di Medea, il suo vestirsi
ed abbellirsi per l'incontro imminente con Giasone,
sono descritti sapientemente e fanno pensare
alla vestizione di una sposa.
Mentre le ancelle preparano il carro che la
porterà al tempio Medea estrae dal cofanetto
un filtro - detto filtro di Prometeo - che rende
invulnerabile chi ne cosparga le membra. L'unguento
era ricavato da un fiore nato dal sangue di
Prometeo sparso dall'aquila tormentatrice.
Giunta al tempio Medea cerca la complicità delle
ancelle, anche questa volta con l'inganno. Confida
loro che Argo e Calciope le hanno promesso del
danaro per aiutare Giasone e che lei intende
fingere di farlo con un finto filtro per ottenere
il compenso che spartirà con le sue ancelle
se queste sapranno mantenere il segreto e se
si fermeranno in disparte per lasciarla incontrare
Giasone da sola.
Intanto Giasone - che Era ha reso per l'occasione
irresistibilmente bello - accompagnato da Mopso,
si avvicina al tempio dove - come Argo lo ha
avvertito - dovrà incontrare Medea. Mopso -
che ha ormai chiari i risvolti erotici della
situazione riceve, in forma grottesca, un avvertimento
divino. Una cornacchia lo schernisce da un albero
facendogli notare quanto inopportuna sarà la
sua presenza all'incontro galante. Sorridendo
Mopso si ferma ed invita Giasone a proseguire
da solo verso il tempio.
L'incontro di Giasone e Medea: il primo a parlare
è Giasone che invita delicatamente Medea a non
temerlo e a non eccedere nel pudore, quindi
pronuncia una supplica, con la consueta invocazione
a Zeus protettore degli ospiti per ottenere
il magico aiuto di lei. Senza parlare Medea
gli porge l'unguento: Apollonio rende l'emozione
di Medea in un crescendo, dell'esitazione iniziale,
alle istruzioni sull'uso del filtro pronunciate
con voce rotta; dalla tensione fino al definitivo
cedere del pudore e all'appassionata dichiarazione
di Medea che vorrebbe trovarsi improvvisamente
nella casa di Giasone ed in sua compagnia. Molto
più misurato il comportamento di Giasone che
pure si mostra sensibile al fascino della donna:
le dice che potrà seguirlo in Grecia, se vorrà,
e diventare sua sposa, ma le sue parole sembrano
più dettate dalla gratitudine che dall'amore.
Al termine del colloquio, mentre Medea esita
stordita dalle emozioni, è Giasone a riportarla
alla realtà e a prendere dolcemente commiato
da lei.
Tornato alla nave ed informati i compagni, Giasone
segue scrupolosamente le istruzioni di Medea
celebrando i riti ed i sacrifici in onore di
Ecate necessari per attivare l'unguento.
Giunto il giorno della prova Giasone cosparge
il proprio corpo e le armi con l'unguento e
subito si sente invadere da una forza sovrumana.
Davanti a Colchi esterefatti costringe i buoi
ad accettare il giogo, insensibile alle fiamme
che quelli gli alitano contro, e trascorre la
giornata arando il campo e seminando i denti
del drago. A sera i giganti guerrieri escono
prodigiosamente dai solchi. Come gli aveva suggerito
Medea, Giasone scaglia una grande pietra fra
i giganti e quelli, con brutale stupidità si
gettano sulla pietra stessa contendendosela
ed uccidendosi fra loro mentre Giasone con la
spada abbatte i superstiti.
Alla fine della prova Eeta torna in città furibondo,
meditando sul modo di colpire Giasone e gli
Argonauti.
LIBRO QUARTO
Apollonio si rivolge alla Musa,
egli non saprebbe dire se sulla decisione di
Medea di seguire Giasone pesò più l'amore della
maga per l'eroe o la paura della vendetta di
Eeta. Oltre a queste due cause umane l'autore
ne sottintende una terza: Era vuole che Medea
parta perché prevede che una volta giunta Iolco,
sarà causa della rovina di Pelia che si ricorderà,
aveva offeso la dea trascurandone il culto.
Infatti Era infonde nel cuore di Medea un folle
terrore e la maga fugge nella notte, protetta
dal buio, dopo un muto addio alla casa della
sua giovinezza. La vede la Luna che prevedendo
il futuro, pronuncia un breve monologo sugli
"infiniti dolori" che attendono Medea.
Medea raggiunge la riva e chiama a gran voce
i figli di Frisso. La odono dalla nave e subito
Giasone scende a terra ad accoglierla. Medea
grida che si deve fuggire, che Eeta ha intuito
l'inganno: aiuterà lei Giasone a prendere il
Vello, ma vuole un giuramento. Giasone giura
solennemente che la porterà in Grecia come sua
legittima sposa.
Senza altre esitazioni si recano subito al bosco
sacro a prendere il Vello ma li sente avvicinarsi
il mostruoso dragone che subito blocca la strada.
Le strida del dragone svegliano tutti i Colchi
e vengono udite anche a grande distanza, ma
Medea invocando Ecate ed il dio Sonno e ricorrendo
ad un altro suo filtro, riesce a far addormentare
la belva. Preso il Vello Giasone e Medea tornano
rapidamente alla nave dove tutti vorrebbero
guardare e toccare la reliquia, ma non c'è tempo
- dice Giasone - Eeta sta sicuramente organizzando
la loro cattura.
Infatti Eeta, ormai chiaro il tradimento di
Medea, sta organizzando una grande flotta per
inseguire gli Argonauti.
In tre giorni, grazie al vento propizio mandato
da Era, Argo raggiunge la Paflagonia dove approda
per consentire a Medea di celebrare misteriosi
riti di ringraziamento ad Ecate che ha favorito
la conquista del Vello d'Oro.
Qui gli Argonauti discutono sulla via del ritorno,
Fineo ha infatti profetizzato che non potranno
tornare per la stessa rotta di andata. Argo,
il figlio di Frisso, indica come rotta possibile
il risalire l'Istro (il Danubio) finchè questo
non si biforca a seguire poi l'altro ramo che
raggiunge l'Adriatico. E' un passo complesso
e non si capisce da dove Argo tragga le sue
indicazioni, comunque "la dea mandò loro un
messaggio propizio" e tutti decisero di seguire
la strada indicata, facendo subito rotta verso
la foce dell'Istro.
Fra le isole al delta del fiume gli inseguitori
Colchi raggiungono e circondano Argo. Dalla
nave si pensa di patteggiare, consegnare Medea
e tenere il Vello, ma Medea se ne avvede parla
a Giasone in modo molto minaccioso. La flotta
dei Colchi è guidata da Assirto, figlio di Eeta
e Giasone pensa di catturarlo ma Medea è molto
più risoluta, sarà lei a trarre in inganno il
fratello, ad attirarlo chiedendogli un colloquio
privato perché Giasone possa ucciderlo.
Così si procede, Giasone invia doni e messaggeri
ad Assirto e si organizza un incontro fra i
due fratelli nel tempio di Artemide che sorgeva
su una delle isole. Durante il colloquio Giasone,
che era rimasto in agguato, aggredisce Assirto
e lo uccide. Subito dopo gli Argonauti assaltano
una delle navi dei Colchi e ne uccidono tutti
gli occupanti, aprendo un varco nell'accerchiamento.
Quando al mattino, il grosso dei Colchi scopre
l'accaduto la mancanza di un capo impedisce
di organizzare l'inseguimento, Era dal canto
suo li terrorizza con i fulmini e molti dei
Colchi, spaventati all'idea della punizione
di Eeta per il fallimento, rinunciano a tornare
in patria e prendono terra, in seguito fonderanno
varie colonie.
Qui Apollonio anticipa che il viaggio di ritorno
degli Argonauti sarà molto più lungo del previsto
e ne spiega la ragione: Zeus, sdegnato per l'assassinio
di Assirto aveva decretato che gli Argonauti
non tornassero in patria senza essere stati
purificati dalla mano di Circe. Dopo aver raggiunto
l'Adriatico navigando sull'Istro, ed aver fatto
sosta nella terra degli Illei (presso la penisola
di Zara), gli Argonauti raggiungono Corcira
(Adriatico Meridionale) che prendeva nome dall
ninfa Corcira amata da Posidone e madre di Feace.
Quando Argo è ormai in vista dei Monti Cerauni
una tempesta la respinge a Nord mentre una voce
prodigiosa che fuoriesce dalla nave stessa avverte
gli Argonauti dell'ira di Zeus e della necessaria
purificazione presso Circe.
Spinta dalle onde la nave entra nella foce dell'Eridano.
Non è chiaro qui se con questo nome Apollonio
intenda indicare il Po o il Rodano, comunque
in questo libro si ipotizza l'esistenza, a Nord
delle Alpi, di un sistema fluviale tale da permettere
agli Argonauti di attraversare un lungo tratto
dell'Europa per raggiungere il Tirreno. E' questa
parte del viaggio caratterizzata dalla passività
degli Argonauti che più che navigare sembrano
lasciarsi trasportare dalle correnti nell'intricata
rete fluviale. Storditi dai miasmi dell'Eridano,
che la leggenda attribuiva al corpo semicombusto
di Fetonte ivi precipitato, avvolti da una fitta
nebbia voluta da Era per nasconderli alla vista
delle selvagge popolazioni locali, essi procedono
fra terre misteriose. In un punto rischiano
di finire nell'Oceano, dove si sarebbero definitivamente
perduti e li salva un tremendo grido ammonitore
di Era. Infine raggiungono il Tirreno e, sbarcati
alle isole Stecadi, rendono grazie agli dei.
La tappa successiva è all'isola Etalia (Elba)
quindi, proseguono verso sud raggiungono il
porto di Eea, sede di Circe.
Trovano la maga intenta a purificarsi con l'acqua
marina, ancora sconvolta da un incubo notturno
che le ha mostrato la propria casa grondante
di sangue, funesto presagio dell'uccisione di
Assirto. La circonda uno stuolo di mostri le
cui membra sono in parte umane ed in parte bestiali.
L'incontro fra Giasone e Circe è descritto senza
alcun dialogo: gli Argonauti la riconoscono
subito per la sua somiglianza con il fratello
Eeta, Circe li riconosce grazie ai suoi poteri
di maga e veggente.
Giasone e Medea vengono accolti nella casa di
Circe ove ha luogo il rito di purificazione.
Anche quando Circe interroga Medea e Medea risponde
il dialogo viene riportato in forma indiretta.
Nel suo breve resoconto Medea giustifica le
proprie azioni con l'ansia per la sorella ed
i nipoti e non fa parola dell'uccisione di Assirto,
nota a Circe a causa dei suoi sogni. Circe risponde
che disapprova le azioni di Medea, non le farà
del male in quanto supplice e parente ma la
caccia dalla sua casa.
Giasone prende per mano Medea, affranta dalle
parole della zia, ed insieme tornano alla nave.
Ora che la purificazione è avvenuta Era vuole
affrettare il ritorno degli Argonauti ed incarica
Iride di parlare con varie divinità (Teti, Efesto,
Eolo) perché facilitino il viaggio.
A Teti, Era si rivolge personalmente convocandola
sull'Olimpo perché protegga la nave dai marosi
e la tenga lontano da Scilla e Cariddi. Il discorso
di Era e Teti costituisce una digressione in
cui viene riepilogato il mito di Teti (la resistenza
a Zeus, le nozze con Peleo, la nascita di Achille)
e fa riferimento ad una versione in cui Medea
finiva per sposare Achille. Dopo aver avvertito
tutte le sue sorelle del volere di Era, Teti
raggiunge gli Argonauti sulla spiaggia di Eea
e, manifestandosi al solo Peleo, li sollecita
a riprendere il mare. Con grande delicatezza
Apollonio descrive l'emozione e il rimpianto
di Peleo, sposo abbandonato di Teti, nel rivedere
dopo anni la sua sposa divina.
Il mattino seguente Argo giunge in vista di
Antemoessa, l'isola delle Sirene. A salvare
gli Argonauti dalle seduzioni del canto delle
Sirene è Orfeo che con il suono della cetra
riesce a coprire le voci delle mitiche creature.
Solo uno degli eroi,
Bute, affascinato dal canto si getta in mare
ma viene salvato da Afrodite, che impietosita,
lo porta a terra assegnandogli per dimora il
Capo Lilibeo in Sicilia.
Ad attraversare lo stretto di Scilla e Cariddi
e superare le Plancte, orribili scogliere infuocate
dall'officina di Efesto, aiutano Argo tutte
le Nereidi che muovendosi nel mare come delfini
intorno alla nave la guidano e sospingono oltre
i pericoli. Costeggiando la Sicilia gli Argonauti
vedono le bianche mandrie del Sole condotte
al pascolo da Faetusa e Lampezie, giovani figlie
del dio. Finalmente Argo raggiunge l'isola dei
Feaci dove, si diceva, era interrata la falce
con cui Crono evirò Urano.
La grande gioia con cui gli Argonauti sono accolti
dai Feaci è turbata dall'arrivo dei Colchi che
attraverso il Ponto, sono venuti a riprendere
Medea.
Si fa mediatore Alcinoo, re dei Feaci: intanto
Medea, sconvolta dal terrore del padre, si affida
alla protezione della regina Arete, moglie di
Alcinoo, e prega disperatamente ciascuno degli
Argonauti perché tengano fede al loro impegno
di proteggerla.
Durante la notte Arete supplica Alcinoo in favore
di Medea ed Alcinoo decide che se Medea è ancora
vergine la renderà ad Eeta ma se divide il letto
con Giasone non vorrà spezzare un unione legittima.
Poiché Medea nel supplicare Arete le ha confidato
di essere ancora vergine la regina si affretta
ad avvertire Giasone della decisione presa da
Alcinoo.
Gli Argonauti, aiutati da ninfe inviate da Era
preparano subito il talamo nunziale e durante
la notte Giasone e Medea celebrano il loro matrimonio
che avrebbero voluto rimandare all'arrivo a
Iolco.
Al mattino Alcinoo comunica solennemente la
propria decisione ai Colchi, mentre si diffonde
la notizia delle nozze e tutti recano doni agli
sposi. Davanti all'inflessibile decisione di
Alcinoo i Colchi rinunciano ad insistere, ma
temendo l'ira di Eeta al loro ritorno, chiedono
ed ottengono di potersi stabilire nella terra
dei Feaci.
Dopo sette giorni, con molti doni ospitali da
parte di Alcinoo, gli Argonauti ripartono.
Quando sono ormai in vista delle coste greche
una terribile tempesta li respinge e li trasporta
verso la Libia dove Argo finisce con l'insabbiarsi
nel Golfo della Sirte.
Alla vista delle terre desertiche e dell'ampia
distesa di fango che li circonda gli Argonauti
sono vinti dalla disperazione.
Al calar della sera gli eroi si dispongono sparsi
sulla riva, velandosi il corpo, decisi ad aspettare
la morte.
Hanno pietà di loro le "Eroine della Libia",
divinità locali del deserto che, apparendo a
Giasone, gli indicano sotto forma di enigma,
una via di salvezza: gli eroi dovranno "pagare
il debito verso la madre per le pene sofferte
portandovi tanto tempo nel ventre, quando Anfitrite
scioglierà il rapido carro di Posidone".
Giasone riunisce subito i compagni e racconta
loro della prodigiosa apparizione, appena ha
finito di parlare un gigantesco cavallo esce
dal mare e si slancia in corsa nell'entroterra.
E' Peleo a sciogliere l'enigma: l'apparizione
del cavallo indica che Anfitrite ha sciolto
il carro di Posidone, nonché la direzione da
prendere. Quanto alla "madre" da ricompensare
si tratta della nave che per tanto tempo li
ha trasportati nel suo ventre. Dovranno quindi
proseguire per un tratto via terra trascinando
la nave.
Così avviene e gli eroi con grandissima fatica
trasportano per dodici giorni la nave lungo
le dune del deserto seguendo le orme del cavallo.
Arrivano alle acque del lago Tritonide dove
possono riposare depositando Argo. Nei pressi
del lago giaceva inerte il drago Ladone, custode
delle mele d'oro delle Esperidi. Intorno al
drago, che era stato abbattuto da Eracle, le
Esperidi levano un lamento funebre. Alla vista
degli Argonauti che vagando in cerca di una
fonte si avvicinavano, le ninfe si tramutano
in polvere. Orfeo indirizza loro una preghiera
chiedendo l'indicazione di una fonte e le Esperidi
si commuovono: immediatamente il suolo si copre
di erba e di virgulti fioriti, le ninfe di tramutano
in alberi prima di riprendere il loro aspetto
originale.
Una di loro, Egle, racconta del passaggio in
quei luoghi di Eracle, che aveva ucciso il drago
e rubato le mele. Forse ispirato da un dio Eracle
aveva colpito una roccia facendo sgorgare una
fonte che la ninfa indica agli Argonauti.
Dopo essersi dissetati cinque Argonauti esplorano
la zona nella speranza di rintracciare Eracle:
Zete, Calais, Linceo, Eufemo e Canto. La ricerca
è vana ma Canto, nel tentativo di rubare delle
pecore per sfamare se stesso e i compagni, viene
ucciso dal pastore Cafauro, discendente di Apollo.
Anche Mopso muore nel deserto per il morso di
un velenosissimo serpente. Dopo averlo sepolto
e onorato gli Argonauti riprendono posto sulla
nave ma dopo una lunga perlustrazione non riescono
a trovare una via d'uscita dal lago Tritonide.
Giasone decide di offrire alle divinità locali
un tripode avuto in dono da Apollo, sperando
di ottenere un aiuto. Li soccorre il dio marino
Tritone che compare loro con aspetto umano ed
indica chiaramente il passaggio fra il lago
ed il mare aperto. Mentre la nave si allontana
Tritone si immerge nel lago ma poiché Giasone
gli offre un sacrificio dal ponte della nave
il dio riappare con il suo vero aspetto e porge
un ulteriore aiuto spingendo vigorosamente Argo
che procedeva lentamente a forza di remi.
Dopo una navigazione tranquilla Argo si avvicina
a Creta ma qui il gigante di bronzo Talos, scagliando
pietre, impedisce l'approdo. Gli Argonauti hanno
grande necessità di approdare per rifornirsi
di acqua e di cibo, quindi Medea, ricorre alle
sue arti magiche contro il gigante. Dopo aver
evocato le demoniache Chere, Medea concentra
la propria volontà sul gigante, questi colpito
dalla malia di Medea urta contro una roccia
l'unico punto vulnerabile del suo corpo, una
vena sotto la caviglia, e muore dissanguato.
Dopo una sosta a Creta, gli Argonauti riprendono
il mare me una notte senza stelle e senza luna
si perdono nelle tenebre.
Disperato Giasone invoca Apollo che lo ascolta
e sceso dal cielo rischiara la notte con i bagliori
del suo arco dorato. Grazie a questo aiuto gli
Argonauti raggiungono una delle Sporadi che
chiameranno Anafe (luogo dell'apparizione).
Sull'isola si svolgono dei modesti sacrifici,
data la scarsa disponibilità di cibo e di vino,
la situazione suscita l'ilarità di tutti (l'episodio
costituisce l'Aition di un rituale in vigore
nell'isola ai tempi di Apollonio).
Ripartiti, Eufemo ricorda un sogno della notte
precedente: gli era sembrato di unirsi ad una
giovane nata dalla piccola zolla di terra che
Tritone aveva donato loro in precedenza e che
questa gli dicesse di essere figlia di Tritone
e di Libia e gli chiedesse di lasciarla nel
mare di Anafe. Più tardi lo avrebbe raggiunto
per essere la nutrice dei suoi figli.
Su consiglio d Giasone, che interpreta il sogno,
Eufemo getta la zolla in mare e ne nasce l'isola
di Callista, ove ebbero dimora i figli di Eufemo,
dopo aver vissuto in Lemno ed a Sparta.
Facendo sosta ad Egina gli Argonauti gareggiano
a portare l'acqua alla nave (Aition di una competizione
che si svolgeva ad Egina detta Idroforie).
E' il commiato di Apollonio: dopo Egina, egli
induce senza ulteriori difficoltà gli Argonauti
a proseguire nell'Egeo fino a sbarcare lietamente
a Iolco il porto di Pegase.
In citta Giasone trova il padre condannato
a morte e Medea trova il modo di liberarsi di
Pelia che rifiuta di cedere il trono a Giasone
dopo che gli ha consegnato il vello d'oro: Fa
vedere alle due figlie di Pelia un caprone decrepito.
lo squarta a pezzi e lo bolle in un pentolone.
Aggiunge delle erbe magiche e pronunciando delle
frasi propiziatorie fa vedere alle donne il
caprone ritornare in vita come un robusto agnello.
"Vostro padre è anziano", dice loro,"se gli
volete bene fate che ritorni vigoroso come questo
agnello e possa regnare a lungo". Le figlie
abboccano. Tagliano a pezzi il padre dentro
il pentolone, e ora aspettano da Medea le erbe
magiche e le parole propiziatorie per far tornare
in vita il padre ringiovanito. Ma Medea è sparita,
e le erbe non ci sono. Il padre resta morto
in pentola.
Acasto figlio di Pelia Capisce il raggiro e
insegue a morte Giasone e Medea che si danno
alla fuga da Iolco sulla nave Argo e si diressero
presso Efira nei pressi di Corinto. Giasone
fece incagliare la nave nell'istmo di Corinto
come offerta a Poseidone.
Giasone e Medea vissero dieci anni felici a
Corinto. dove ebbero due figli, ma Medea rimase
sconvolta quando seppe che Giasone, non potendo
più sopportare di essere considerato un proscritto,
aveva deciso di sposare la figlia del re di
Corinto. Il Re Creonte fece grandi onori al
capo degli eroici Argonauti e gli offrì la figlia
Glauce (o Creusa) in isposa.
Fosse l'avidità di salire al trono di Corinto
o l'ingratitudine del suo cuore, Giasone ripudiò
la fedele Medea che tanto lo aveva aiutato in
ogni impresa e che per lui aveva fatto sacrifici
inauditi e aveva abbandonato la patria, e sposò
la giovane figlia del Re di Corinto.
Vedendosi respinta senza pietà, Medea che essendo
straniere non godeva di nessun diritto nell'Ellade,
gli rinfacciò la sua ingratitudine, Giasone
replicò che non era lei che egli doveva ringraziare
bensì Afrodite che l'aveva fatta innamorare
di lui. Inferocita con Giasone per essere venuto
meno alla promessa di amore eterno, Medea si
vendica, regalando alla nuova sposa, come dono
di nozze, una veste nuziale che le diffonde
nelle vene un fuoco magico e violento che si
propaga per tutto il palazzo, facendola morire
insieme al padre accorsa in suo aiuto. Mentre
Medea uccideva, Mermero e Fere, i due figli
che aveva avuto da Giasone. Quando quest'ultimo
venne a saperlo, Medea era già andata via, in
volo su un carro mandatole dal nonno, il dio
del sole, Elios, verso Atene dal re Egeo, che
le aveva promesso asilo.
Il soggiorno ad Atene fu caratterizzato da un
periodo di calma e di pace fino all'arrivo di
Teseo, venuto a farsi riconoscere dal padre
Egeo e ad assicurare i propri diritti alla successione.
Medea, temendo di perdere il proprio ascendente
su Egeo, persuase il re che Teseo non era che
un avventuriero.
Egeo lasciò che Medea preparasse per Teseo una
coppa di vino avvelenato, ma poi riconobbe il
figlio dalla spada che questi portava e strappò
in tempo la coppa dalle mani della maga. Medea
fu costretta a fuggire anche da Atene.
In seguito, Giasone con l'aiuto di Peleo, padre
di Achille,e dei Dioscuri, attaccò e sconfisse
Acasto, riconquistando il trono di Iolco. Ma
avendo disatteso la promessa di fedeltà fatta
a Medea, Giasone perse i favori della dea Era
e morì solo e infelice. Mentre dormiva a poppa
della ormai fatiscente Argo, rimase ucciso all'istante
da un suo cedimento: fu questa la maledizione
degli dei per essere venuto meno alla parola
data.
Ermes e Driope generarono Pan.
Il dio Pan era, per le religioni elleniche, una
divinità non olimpica, mezzo uomo e mezzo caprone.
Solitamente riconosciuto come figlio del dio Ermes
e della ninfa Driope, ninfa della Quercia.
La leggenda vuole che la ninfa Driope sia fuggita
terrorizzata dall'aspetto deforme del figlio, mentre
il dio Ermes (Mercurio) lo raccolse e, avvoltolo
amorevolmente in una pelle di lepre, lo portò sull'Olimpo
per far divertire gli dei, causando così l'ilarità
di Dioniso.
[Secondo altre fonti era figlio di un amorazzo tra
Zeus e la ninfa Callisto dal quale vennero alla
luce Pan ed Arcade. Un'altra versione, sostenuta
da Igino, afferma che Zeus, dopo essersi unito ad
una capra di nome Beroe, le diede un figlio, il
dio Egipan, ovvero la forma caprina di Pan].
Dal suo nome deriva il termine panico, infatti il
dio si adirava con chi lo disturbava, ed emetteva
urla terrificanti provocando nel disturbatore la
paura.
Alcuni racconti ci dicono che lo stesso Pan venne
visto fuggire per la paura da lui stesso provocata.
è un dio potente e selvaggio, esteriormente è raffigurato
con gambe e corna caprine, con zampe irsute e zoccoli,
mentre il busto è umano, il volto barbuto e dall'espressione
terribile. Vaga per i boschi,spesso per inseguire
le ninfe, mentre suona e danza. è molto agile, rapido
nella corsa ed imbattibile nel salto.
è principalmente indicato come dio Signore dei campi
e delle selve nell'ora meridiana, protegge le greggi
e gli armenti, gli sono sacre le cime dei monti.
Secondo il mito descritto da Plutarco fu il suo
grido di terrore ad annunciare, ai marinai egei,
il declino degli dei antichi, annunciando la fine
dell'Olimpo attraverso l'annuncio:
« il grande Pan è morto. »
Il mito
Pan non viveva sull'Olimpo: era un dio terrestre
amante delle selve, dei prati e delle montagne.
Preferiva vagare per i monti d'Arcadia, dove pascolava
le greggi e allevava le api.
Pan era un dio perennemente allegro, venerato ma
anche temuto. Dal suo nome deriva il termine panico.
Legato in modo viscerale alla natura ed ai piaceri
della carne, Pan è l'unico dio con un mito sulla
sua morte. La notizia fu diffusa da Tamo, un navigatore,
e portò angoscia e disperazione nel mondo.
I Romani lo identificarono con il loro dio Fauno.
Pan e il Capricorno
Pan partecipò alla Titanomachia, avendo un ruolo
fondamentale nella vittoria di Zeus su Tifone.
Tifone era un mostro che era nato da Gea e Tartaro,
che volle vendicarsi della morte dei figli, i Giganti.
Quando tentò di conquistare il monte l'Olimpo, gli
Dei fuggirono terrorizzati da questo mostro. Si
recarono in Egitto, dove assunsero forme di animali
per nascondersi meglio:
* Zeus si fece ariete,
* Afrodite pesce,
* Apollo corvo,
* Dioniso capra,
* Era una vacca bianca,
* Artemide un gatto,
* Ares un cinghiale,
* Ermes un ibis,
* Pan trasformò solo la sua parte inferiore in un
pesce e si nascose in un fiume.
Solo Atena non si nascose, e denigrando gli altri
dei convinse il padre Zeus a scendere in battaglia
contro il mostro. Nonostante il dio fosse armato,
il mostro riuscì ad avere la meglio su di lui, e
lo rinchiuse nella grotta dove Gea lo aveva generato.
Con le sue Spire Tifone gli aveva reciso i tendini
di mani e piedi, che aveva poi affidato a sua sorella
Delfine, il cui corpo terminava con la coda di un
serpente.
Il dio Pan spaventò questa creatura con un tremendo
urlo, ed Ermes le sottrasse i tendini di Zeus.
Zeus recuperate le forze, ed i tendini, si lanciò
su un carro trainato da cavalli alati contro Tifone,
bersagliandolo di fulmini.
Zeus riuscì ad uccidere il mostro, e lo seppellì
sotto il monte Etna, che da allora emette il fuoco
causato da tutti i fulmini usati in battaglia, così
come racconta lo Pseudo-Apollodoro.
Per ringraziare Pan, Zeus fece in modo che l'aspetto
da lui acquisito in Egitto fosse visibile in cielo.
Così creò il Capricorno.
Caratteristiche
Dio dalle forti connotazioni sessuali - anche Pan
infatti come Dionisio e Priapo era generalmente
rappresentato con un grande fallo - recentemente
Pan è stato indicato come il dio della masturbazione,
infatti Pan, trovando difficoltà di accoppiamento
a causa del suo aspetto, era solito esaurire la
sua forza generatrice mediante la masturbazione.
Come dio legato alla terra ed alla fertilità dei
campi è legato alla Luna, ed alle forze della grande
Madre.
Pan è un dio generoso e bonario, sempre pronto ad
aiutare quanti chiedono il suo aiuto.
Narra una leggenda che nell'età dell'Oro Pan giunse
nel Lazio, dove venne ospitato dal dio Saturno.
In Grecia la presenza del dio viene collocata in
Arcadia.
In Italia esiste una divinità che ha molte similitudini
con la raffigurazione di Pan, è il dio Silvano.
Pan e le Ninfe
Pan è un dio con una forte connotazione sessuale,
amava sia donne che uomini, e se non riusciva a
possedere l'oggetto della sua passione si abbandonava
a pratiche oscene e onanistiche.
Moltissimi racconti mitologici ci parlano di questo
dio e del suo rapporto con le Ninfe che cercava
di possedere. Tanto che queste si salvavano solo
trasformandosi, anche se spesso non disdegnavano
le attenzioni del dio.
Il mito ci riporta il nome di alcune di queste
Ninfe:
Eco generò con lui Iunge e Iambe, per poi innamorarsi
di Narciso e struggersi per lui fino a diventare
solo una voce.
Eufeme, nutrice delle muse, ebbe Croto, inventore
degli applausi, trasformato nella costellazione
del Sagittario da Zeus
Un suo mito narra del suo amore per la ninfa Eco
dal quale nacquero due figlie, Iambe e Iunce.
Uno lo vede seduttore di Selene, cui si è presentato
nascondendo il pelo caprino sotto un vello bianco.
La Dea non lo riconobbe e acconsentì all'unione.
La più importante resta forse Siringa.
Pan e la Ninfa Siringa
Uno dei miti più famosi di Pan riguarda le origini
del suo caratteristico strumento musicale. Siringa
era una bellissima ninfa dell'acqua di Arcadia,
figlia del dio dei fiumi Ladone. Un giorno, di ritorno
dalla caccia, incontrò Pan. Per sfuggire alle sue
molestie, la ninfa scappò senza ascoltare i complimenti
del dio. Egli la inseguì dal monte Liceo fino a
quando ella non raggiunse le sue sorelle, che la
trasformarono immediatamente in una canna. Quando
il vento soffiò attraverso le canne, si udì una
melodia lamentosa. Il dio, ancora infatuato, non
riuscendo a identificare in quale canna si era trasformata
Siringa, ne prese alcune e ne tagliò sette pezzi
di lunghezza decrescente (alcune versioni sostengono
nove) e li unì uno di fianco all'altro. Creò così
lo strumento musicale che portò il nome della sua
amata Siringa. Da allora Pan fu visto raramente
senza di esso.
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Zeus\ALCMENA
Alcmena, sposa di Amfitrione, è l'ultima donna mortale
con cui Zeus giacque. Quando Eracle, frutto di questa
unione, stava per nascere, Zeus dichiarò fra gli dei
che il discendente di Perseo che avrebbe visto allora
la luce avrebbe dovuto regnare su Micene. Ma Era, gelosa
per il tradimento del marito, persuase la dea di parto
Ilithia a ritardare il parto di Alcmena, cosicché avrebbe
potuto nascere di sette mesi Euristeo, che era un altro
discendente di Perseo. La proclamazione di Zeus indicò
quindi, contro il desiderio dello stesso dio, Euristeo
e non Eracle come nuovo re di Micene e l'eroe divenne
suo servitore. Alcmena ottenne solo col tempo un castigo
per Euristeo per tutte le vessazioni subite dal figlio.
Gli antenati
Alcmena e Amfitrione hanno un illustre antenato in Perseo,
l'uomo che volò in cielo, decapitò Medusa e salvò la
bella principessa etiopica Andromeda che poi sposò,
e fondò anche la città di Micene che fu dominata più
tardi da Agamennone, il re più potente al tempo della
Guerra di Troia. Agamennone, però, non era un discendente
di Perseo, ma di Pelope che, venuto dall'Asia con una
ricchezza enorme, dotato di coraggio e slealtà, riuscì
ad acquisire un tale enorme potere che l'intero Peloponneso
fu chiamato così dopo lui.
Nel corso di una generazione o due, i Pelopidi con accorti
matrimoni finalmente sostituirono la dinastia dei Perseidi
sul trono di Micene. La rivalità tra le due case reali
persistette durante molti anni e causò molti conflitti.
Ma è solamente dopo la Guerra di Troia che i Perseidi,
cambiato il nome in ERACLIDI, ritornarono al Peloponneso
e distrussero molti dei regni che erano stati dominati
dai Pelopidi o dai loro vassalli.
Quando Perseo morì, salì al trono suo figlio Elettrione
e sposò la nipote Anaxo o, come altri dicono, una figlia
di Pelope, Lisidice o Euridice. Secondo alcuni Elettrione
aveva dieci figli e una figlia Alcmena. Si racconta
che questa ragazza superò di molto le altre in bellezza
e altezza, grazie agli occhi scuri e al suo volto affascinante.
L'antefatto
Ora, quando Elettrione era ancora re di Micene, giunsero
a Micene i figli di Pterelao che chiesero restituzione
del regno del loro antenato Mestore, fratello di Elettrione.
Nella guerra che sorse per il potere, Pterelao perse
tutti i figli tranne Everes in battaglia, e stessa sorte
toccò anche ad Elettrione a cui restò solo Licimnio.
Dopo questa battaglia il re di Tafo, comprendendo che
non potevano rimanere nel territorio dei Micenei, veleggiarono
verso casa dopo avere portato via il bestiame che Elettrione
aveva rubato a sua volta a Polisseno, re di Elide.
Elettrione decise poi di rifarsi della guerra contro
Tafo e, poiché aveva perso tutti suoi figli meno uno,
affidò ad Anfitrione il suo regno e sua figlia Alcmena,
facendogli richiesta di mantenerla vergine fino al suo
ritorno dalla guerra. Comunque, Elettrione non tornò
mai, perché fu ucciso accidentalmente, come alcuni dicono,
da Anfitrione. La leggenda racconta che mentre Elettrione
stava ricevendo indietro il bestiame rubatogli, Anfitrione,
che lo aveva appena raggiunto in Elide, gettò contro
una vacca disubbidiente un bastone che, rimbalzando,
colpì Elettrione in testa e lo uccise sul colpo. Ma
altri dicono che Anfitrione e Elettrione litigarono
per il bestiame e che il primo uccise il secondo per
l'ira. Questo è espresso in un frase che Eracle pronunzia
in Eurip. Eracle,260: "Sono il figlio di un uomo che
incorse nella colpa di sangue, prima che lui sposò mia
madre Alcmena, uccidendole padre anziano".
A causa dell'uccisione di Elettrone, suo genero e nipote
(Anfitrione, infatti, era figlio di Alcaeus, figlio
di Perseo) perse l'autorità, e il trono di Micene e
Tirinto fu conquistato dal fratello di Elettrione, Stenelo,
che bandì Anfitrione dal territorio per la morte di
suo fratello.
Alcmena seguì il suo fidanzato in esilio e, in compagnia
di Licimnio, vennero a Tebe, dove Anfitrione fu purificato
da Creonte, l'uomo che regnò su Tebe per molto tempo.
Più tardi in tempi storici secondo Pausania (9.11.1)
la casa di Alcmena e Anfitrione ancora si poteva ammirare
in città con la seguente iscrizione: "Quando Anfitrione
portò qui la sua sposa Alcmena, scelse questa come casa
per lui. Trofonio e Agamede la fecero". Trofonioe Agamede,
figli di Ergino, erano i costruttori del quarto tempio
di Apollo a Delfi.
Quando la coppia giunse a Tebe, Alcmena rifiutò di sposare
Anfitrione finché lui non vendicasse i suoi fratelli
che erano periti nella battaglia contro i figli di Re
Pterelao di Tafo. Così Anfitrione, desiderando sposare
Alcmena, chiesto a Creonte e ai Tebani un aiuto militare,
dopo avere adempiuto certe condizioni che Creonte richiese,
formò una coalizione, sostenuto da Cefalo di Atene,
da Eleo di Argo figlio di Perseo, e da Creonte stesso.
Con tutte queste forze Anfitrione attaccò tutte le isole
dei vicini che erano dominate da Tafo; ma dal momento
che Re Pterelao era immortale grazie dei suoi capelli
d'oro e perciò Tafo non poteva essere presa, Anfitrione
ricorse all'aiuto di Cometo, figlia di Pterelao, che
si era innamorato di lui: ella infatti tagliò i capelli
d'oro di suo padre, causandone la morte e lasciando
che Anfitrione soggiogasse l'isola.
Il sospirato matrimonio, l'inganno di Zeus, la nascita
di un eroe
Così Anfitrione, per accontentare Alcmena, vendicò i
figli di Elettrione. Ma mentre lui era sulla strada
del ritorno, a Tebe Zeus, facendosi simile ad Anfitrione,
giacque con Alcmena fingendo di essere tornato dalla
guerra e raccontandole l'accaduto. Quando anche Anfitrione
ritornò, giacque con sua moglie nella stessa notte dopo
che Zeus andò via: Alcmena non sembrò accoglierlo cordialmente
poichè pensò di essere già stata con suo marito.
Alcuni raccontano che, dopo avuto dormito con Alcmena,
Zeus dichiarò fra gli dei che il discendente di Perseus
che avrebbe visto la luce del sole per primo sarebbe
stato re di Micene. La moglie Era , meditando vendetta
per il tradimento con Alcmena persuase la dea di parto
Ilithyia a ritardare il parto della ragazza, cosicché
potesse nascere prima Euristeo, sebbene fosse un bambino
di sette mesi. E dal momento che anche Euristeo era
un discendente di Perseus, la proclamazione di Zeus
indicò contro il desiderio del dio Euristeo e non Eracle
come re di Micene.
Ilithyia, dea di parto e di madri spaventate in travaglio,
venne a Thebes quando Alcmena era pronto per partorire.
Ma invece di aiutarla, la dea, seguendo le istruzioni
di Era, le ritardo il parto, cosicchè fu in travaglio
per sette notti e sette giorni, sopportando una tale
sofferenza che si supponeva già che Zeus era il padre
del bambino non ancora nato.
Quando finalmente riuscì a partorire, Alcmena generò
due figli: Heracles, figlio di Zeus e Ificle, figlio
di Anfitrione. Chi fosse il padre fu scoperto presto:
solamente il figlio di Zeus poté, ancora bambino, strangolare
i due serpenti che vennero al suo letto spedito da Era.
Zeus giacque con Alcmena secondo alcuni perché intendeva
generare uno che difendesse dei e uomini, contro i mali
e la distruzione. Per quanto riguarda gli dei, infatti,
quando più tardi i Giganti attaccarono cielo, vi fu
bisogno di un mortale per lottare contro loro, e Eracle
fu chiamato ad intervenire. Riguardo agli uomini Eracle
fu benefattore dell'umanità grazie alle tante imprese
compiute contro mostri che seminavano il terrore sulla
terra..
Quell'unione di Zeus e Alcmena era destinata a generare
un essere straordinario dal momento che Zeus aumentò
la lunghezza della notte quando lui giacque con Alcmena
tre volte. Zeus non effettuò la sua unione con Alcmena
per desiderio di amore, ma solamente nell'interesse
di procreare un figlio semidivino, quindi il dio non
le recò violenza, né tentò di persuaderla a tradire
la sua castità, ma l'ingannò prendendo la forma di suo
marito e dando così legalità ai suoi abbracci.
Alla nascita prematura di Euristeo, però, Zeus non poteva
tradire la sua promessa, ma desiderando di prendersi
cura di suo figlio lui persuase Era che, mentre Euristeo
dovesse essere re, ad Eracle sarebbe stato permesso
di servirlo e compiere dodici Fatiche, prescritte da
Euristeo stesso. Ma dopo aver compiuto queste fatiche,
Heracles avrebbe avuto l'immortalità
Naturalmente Alcmena non seppe nulla di questi accordi;
ma, sebbene i mortali qualche volta immaginino di sapere
molto circa le intenzioni di cielo, loro normalmente
li ignorano. Ciononostante Alcmena, temendo la gelosia
di Era, portò il bambino in un luogo detto "Campo di
Eracle", e là l'espose a morire. Ora, è detto che quando
Alcmena espose suo figlio, Era e Atena si avvicinarono
a quel luogo e la seconda, stupita dalla forza del bambino,
persuase la prima ad offrirle la mammella. Era fece
questo ma Eracle, strinse la mammella della dea con
tale violenza che lei, in pena lo allontanò a stento.
Avendo assistito a questa scena straordinaria Atena
rese indietro il bambino a sua madre, riaffidandoglielo.
Alcmena assistette alla vita di suo figlio che si rivelò
piena di eventi fenomenali e addirittura sopravvisse
a suo figlio. Ma suo marito Anfitrione, invece, assistè
a poco: secondo alcune fonti, infatti, all'inizio della
"carriera eroica" di Eracle, ci fu la guerra tra Tebani
e Minii per una questione di tributi. Eracle condusse
i Tebani alla vittoria, ma Anfitrione cadde morto sul
campo di battaglia. Secondo altre tradizioni, vediamo
comunque Anfitrione presente in eventi tardi della vita
dell'eroe, come, ad esempio nell'Eracle di Euripide.
Le dodici fatiche (in greco dodekathlos)
di Eracle, poi Ercole nella mitologia romana, sono una
serie di episodi della mitologia greca, riuniti a posteriori
in un unico racconto, che riguardano le imprese compiute
dall'eroe Eracle per espiare il fatto di essersi reso
colpevole della morte della sua famiglia. Si ritiene
che il ciclo delle dodici fatiche sia stato per la prima
volta fissato in un poema andato perduto, l'Eracleia,
scritto attorno al 600 a.C. da Pisandro di Rodi. Attualmente
le fatiche di Eracle non sono presenti tutte insieme
in un singolo testo, ma si deve raccoglierle da fonti
diverse.
Nelle metope del Tempio di Zeus ad Olimpia, che risalgono
al 450 a.C. circa, si trova una famosa rappresentazione
scultorea delle Fatiche: potrebbe essere stato proprio
il numero di queste metope,2 appunto, ad aver fin dai
tempi antichi indotto a fissare a questa cifra il tradizionale
numero delle imprese.
Premessa
Zeus e Teseo, dopo aver reso Alcmena incinta di Eracle,
proclamano che il primo bambino da allora in poi nato
dalla stirpe di Perseo, sarebbe diventato re. Sua moglie
Era però, sentito questo, fece in modo di anticipare
di due mesi la nascita di Euristeo, appartenente appunto
alla stirpe di Perseo, mentre quella di Eracle fu ritardata
di tre. Venuto a sapere quanto era successo, Zeus andò
su tutte le furie, tuttavia il suo avventato proclama
rimase valido.
Anni dopo, mentre si trova in preda ad un attacco di
follia provocatogli da Era, Eracle uccide sua moglie
e i suoi figli. Ritornato padrone di sé e resosi conto
di ciò che aveva fatto, decide di ritirarsi a vivere
in solitudine in un territorio disabitato. Rintracciato
dal cugino Teseo, si convince a recarsi dall'Oracolo
di Delfi; lì la Pizia gli dice che per espiare la sua
colpa deve recarsi a Tirinto per servire Euristeo per
dodici anni e di compiere una serie di imprese che saranno
stabilite proprio dal re Euristeo, l'uomo che gli ha
rubato i diritti di nascita e che di conseguenza Eracle
odia più di ogni altro. Come compenso gli sarebbe stata
poi concessa l'immortalità.
Le fatiche
Durante le sue fatiche, Eracle viene spesso accompagnato
da un giovane compagno (un Eromenos) che secondo alcuni
si chiama Licinio, secondo altri invece è il nipote
Iolao. Sebbene dovesse originariamente compiere soltanto
dieci imprese, è costretto a causa di questo compagno
a cimentarsi anche in altre due, infatti Euristeo non
giudica valida l'uccisione dell'Idra perché il compagno
l'ha aiutato, né l'episodio delle stalle di Augia perché
questi ha percepito un compenso.
L'ordine tradizionale delle fatiche è riportato dallo
Pseudo-Apollodoro (2.5.1-2.5.12):
- Uccidere l'invulnerabile Leone di Nemea e
portare la sua pelle come trofeo.
La prima impresa di Eracle fu liberare la piana
di Nemea della bestia selvatica, enorme e estremamente
feroce nota come il Leone di Nemea. Questa creatura
enorme era figlio dei mostri Typhon (chi aveva
100 teste) e Echidna (mezzo la fanciulla - mezzo
serpente), e fratello della Sfinge di Tebe.
In alcune leggende è detto che il leone di Nemea
fu allattato da Selene la dea della luna, le
altre versioni dicono che fu allattato dalla
dea Era.
Eracle si lanciò all'inseguimento del mostro
che errava per la terra dell'Argolide, armato
col suo arco e le frecce, (in delle versioni
di solito il periodo Classico lui aveva anche
una spada del bronzo) e la sua clava (fatto
da un albero olivastro che aveva sradicato con
la sua forza). Mentre cacciava attraverso la
foresta nemea e tentava di trovare la tana del
leone, si fermò improvvisamente al sentire un
ruggito terribile. Eracle si girò e vide un
leone enorme che si avventava verso di lui.
Rapidamente tese il suo arco e scocco una freccia,
ma non riuscì a ferire il leone.
Non appena il mostro si avventò su di lui, scoccò
rapidamente un'altra freccia, e di nuovo non
gli recò danno: il bronzo si piegò curvando
come se stesse colpendo una pietra. La pelle
di questa creatura non poteva essere penetrata
dalla più acuta delle punte. Il leone gli balzò
addosso, ma Eracle fracassò il suo bastone pesante
sul mostro, stordendolo.
Non comprendendo quale arma potesse uccidere
questo mostro si liberò di tutte, e lottò il
mostro con le mani nude: con forza incredibile
avvolse le sue braccia grandi intorno al leone,
gli tirò il collo e lo strangolò a morte. Morto
il mostro enorme, Eracle tentò di scuoiare la
bestia, ma la pelle era così dura che non poté
né lacerarla né tagliarla. Allora provò ad adoperare
gli stessi enormi artigli del leone: questi
furono efficaci ed Eracle ottenne il suo trofeo.
Ammirando quella impenetrabilità e resistenza
della pelle del leone, se la gettò addosso come
un mantello e la tirò fin sopra la testa come
un elmo. Da questo momento Eracle indossò sempre
la pelle di leone come protezione in battaglia.
- uccidere l'immortale Idra di Lerna
La seconda impresa di Eracle fu l'uccisione
dell'idra, un mostro dalle tante teste (di cui
una immortale) che viveva nella palude di Lerna
e atterriva i villaggi vicini divorando uomini
e bestie, quando si svegliava dal suo sonno.
In questa impresa Eracle fu affiancato dal nipote
ed auriga Iolao. Giunto nella palude di Lerna
e stanato il mostro dal suo nascondiglio con
l'ausilio di frecce infuocate, cercò di ucciderlo
recidendogli le teste, ma ad ogni taglio in
luogo della testa mozzata ne ricresceva una
nuova.
Non potendo vincere da solo, l'eroe invocò l'aiuto
di Iolao: gli chiese di portare delle torce
infuocate e gli ordino di bruciare i colli dell'Idra
ogni qual volta egli ne tagliava le teste. Soffocò
quella immortale schiacciandola con un sasso.
A questa maniera riuscì a uccidere la bestia
e a liberare Lerna da quel flagello. Intinse
poi nel sangue dell'Idra le sue frecce che in
tal modo procuravano ferite inguaribili e mortali.
- Catturare il cinghiale di Erimanto.
Il cinghiale di Erimanto devastava l'Arcadia.
Euristeo gli ordinò di debellare il mostro,
ma per rendergli l'impresa più ardua, gli impose
di catturare il cinghiale vivo. Durante il viaggio
verso l'Erimanto, Eracle volle far visita al
suo amico, il centauro Folo, che diversamente
dai suoi compagni era una persona gentile ed
ospitale. Accolse Eracle nella sua dimora e
lo rifocillò con carne cotta, nonostante i Centauri
la mangiassero rigorosamente cruda. I problemi
sorsero quando Eracle chiese di poter avere
del vino. in tutto il villaggio c'era un unico
otre di vino, dono di Dioniso, e proprietà di
tutti i Centauri. Controvoglia, tuttavia, Folo
aprì quell'otre: il profumo del vino, però,
si diffuse per tutta la foresta e gli altri
Centauri furono richiamati al villaggio. Quando
si accorsero che Eracle stava bevendo il loro
prezioso dono, gli si gettarono contro armati.
La lotta prese grosse dimensioni e si arrivò
fino alla caverna del Centauro Chirone, il vecchio
maestro di Eracle. Costui rimase colpito da
una freccia e morì. stessa sorte toccò anche
all'amico Folo. Dopo aver pianto gli amici scomparsi,
Eracle perlustrò ogni radura dell'Erimanto,
finché stanò il cinghiale e lo catturò, legandolo
per i piedi. lo condusse ad Euristeo, ma quest'ultimo
ne rimase talmente spaventato da nascondersi
in un pithos e ordinò ad Eracle di riportare
indietro l'animale.
- Catturare la Cerva di Cerinea.
La quarta fatica fu la cattura dela Cerva di
Cerynaea, nota come Cerynitis. Euristeo diede
questo compito ad Eracle sapendo che la l'animale
era proprietà sacra di Artemis: catturarla avrebbe
voluto dire per lui commettere una empietà contro
la dea.
La cerva era molto rapida e per questo Eracle
impiegò un anno intero per avvicinare la creatura.
Seguì le tracce della cerva attraverso la Grecia
e in Tracia, (si dice in alcune versioni che
la caccia lo portò lontano in luoghi come l'Istria
e le terre settentrionali). Mai l'eroe fu abbattuto
dalla lunga caccia, ma cercava di stancare la
cerva ma quella sembrò avere molta resistenza
e agilità.
Eracle riuscì a catturare la creatura quando
per caso si fermò a bere presso un fiume. Prendendo
una freccia e rimuovendo il sangue del Idra
dalla punta, la colpì alla zampa, azzoppandola.
L'eroe le curò la ferita e poi si incamminò
verso casa. Sulla strada verso il palazzo di
Euristeo, gli venne incontro la dea Artemide
e il fratello Apollo. Al vedere la Cerva, la
cacciatrice accusò l'eroe di sacrilegio. Eracle
spiegò loro che doveva riportare la cerva sacra
alla corte di re Euristeo, perché era legato
da servitù impostagli a quel re. Artemide concesse
il perdono ad Eracle e gli fece portare la cerva
viva al palazzo.
- Disperdere gli uccelli del lago Stinfalo.
Per la quinta fatica, Euristeo spedì Eracle
a liberare le paludi circostanti al Lago Stinfalo
in Arcadia da uno stormo enorme di uccelli.
Le loro penne erano metalliche e quindi emettevano
un rumore molto acuto; chiunque entrava in contatto
con loro veniva trafitto a morte. Gli uccelli
stavano distruggendo anche i raccolti e alberi
da frutta, terrorizzando gli abitanti del luogo.
L'eroe si mise in viaggio pensando che questo
doveva essere un compito facile da portare a
termine, ma quando arrivò al Lago Stinfalo Eracle
comprese che non era così. La foresta nella
quale gli uccelli si appollaiavano era molto
densa, e così al buio era difficile vedere qualsiasi
cosa. Tentando di pensare a un modo col quale
scacciare gli uccelli dal loro nascondiglio,
fu avvicinato da Atena, sua protettrice. Con
l'aiuto di Efesto, il dio fabbro concepì un
modo per cacciare gli uccelli dalla foresta.
Seguendo i consigli di Atena, Efesto, infatti,
foggiò un paio enorme di lastre di bronzo che,
facendo rumore, spaventavano gli uccelli in
volo. Eracle con la sua grande forza batteva
insieme le lastre che spinsero gli uccelli a
uscire fuori dalla foresta, e quando gli uccelli
furono visibili gli scagliò contro con le sue
frecce mortali.
- Ripulire in un giorno le Stalle di Augia.
Augia, figlio del Sole, era re dell'Elide nel
Peloponneso, che non assoggettandosi a spargere
il concime delle stalle sui campi, li destinava
alla sterilità. Eracle pulì le stalle in un
giorno solo, deviando un fiume che fece passare
per le stalle. Anche Augia come altri personaggi
incontrati da Eracle sulla sua strada, non mantenne
una promessa: dargli in dono la decima parte
dei suoi armenti. Eracle quindi, adirato per
la mancata ricompensa, devastò il territorio
di Augia e uccise i suoi figli. Dopo di ciò
istituì i Giochi Olimpici.
- Catturare il Toro di Creta.
Quando Eracle arrivò all'isola di Creta, il
re, Minosse diede la piena approvazione per
catturare e portar via il toro minaccioso per
Euristeo, poiché aveva causato devastazioni
errando liberamente in tutto il suo regno. Per
catturare il toro l'eroe intrecciò un laccio,
e poi inseguì la bestia finché la indebolì,
gettandole il laccio intorno al collo. Una volta
domato il toro, l'eroe gli salì in groppa e
lo cavalcò attraverso il mare fino al palazzo
di Euristeo. Qui presentò il toro al re che,
al vedere una bestia tanto bella, volle sacrificarlo
a Era. La dea che provava antipatia per Eracle,
rifiutò l'offerta, dicendo che essa avrebbe
gettato gloria sugli atti dell'eroe, così il
toro fu lasciato correre selvatico in Grecia.
Più tardi arrivò alla piana di Maratona, dove
fu catturato da Teseo.
- Rubare le cavalle di Diomede.
Per l'ottava fatica Eracle fu spedito da Euristeo
a catturare le cavalle di Diomede Tracio (secondo
delle fonti lui era il figlio di Ares e Cyrene).
Viveva in una regione selvatica e accidentata
sulle spiagge del Mare Nero. Aveva quattro cavalle
selvagge, che alimentava con carne di stranieri.
Si dice che fosse selvaggio come le sue cavalle;
loro erano totalmente incontrollabili e furono
legate da catene a una mangiatoia di bronzo.
Quando Eracle arrivò al palazzo, l'eroe prese
prigioniero il re. Poi, conoscendo la brutalità
e le sofferenze che Diomede aveva causato, lo
afferrò e lo gettò nella mangiatoia di bronzo
in pasto alle cavalle. Questo calmò le cavalle
ed Eracle poté condurle ad Euristeo. Giunto
a palazzo, il re le consacrò ad Era e le lasciò
andare liberamente per le piane di Argo.
- Impossessarsi della cintura di Ippolita,
regina delle Amazzoni.
La nona fatica imposta ad Eracle da Euristeo
fu la conquista della cintura preziosa di Ippolita,
regina dei Amazzoni. Admete, la figlia di Euristeo
implorò suo padre per il possesso di questa
cintura. Ippolita era la figlia di Otrera e
Ares. Le Amazzoni erano un popolo esclusivamente
femminile e si crede che vissero nelle terre
misteriose nel nord. La loro capitale Temiscyra
era posta sul pendio del Caucaso.
Per eseguire questa spedizione Eracle organizzò
un gruppo di volontari: Telamone e Teseo erano
fra loro. Armarono una nave, aspettandosi che
le Amazzoni fossero ostili, poi veleggiarono
verso il loro paese.
Ma quando loro arrivarono a Temiscyra sulla
bocca del fiume Termodonte, furono accolti cordialmente
dalle Amazzoni, specialmente da Ippolita. Eracle
spiegò alla regina la ragione della loro spedizione
ed ella rispose di prendere la cintura come
un dono. Era, al sentire questo prese la forma
di un Amazzone, sparse una diceria che Eracle
era venuto a rapire la loro regina, e a portarla
con sé in Grecia. Le donne, per proteggere la
loro regina cominciarono lottare e nella battaglia
fiera che conseguì, Ippolita fu uccisa dalle
mani di Eracle, convinto di essere stato tradito.
Dopo che la battaglia era stata vinta, Eracle
prese la cintura e tutti fecero ritorno a casa.
Durante il viaggio di ritorno Eracle salvò la
vita di Esione, figlia di Laomedonte, re di
Troia. Ad Eracle fu promesso come compenso per
la liberazione una mandria di cavalli, ma dopo
la liberazione della ragazza, il re rifiutò
il pagamento. Eracle diede Esione a Telamone,
il suo compagno che la sposò.
Eracle come vendetta uccise Laomedonte e i suoi
figli, ma risparmiò, alla richiesta di Esione,
Podarce il figlio più giovane che più tardi
divenne noto come Priamo che vuole dire "comprato
riscattato" perché Eracle lo scambiò per un
bel velo che Esione aveva ricamato in oro.
- Rubare i buoi di Gerione.
Figlio di Crisaore e di Calliroe, re dell'isola
Eritea, Gerione era un gigante con tre teste,
sei braccia e sei gambe, cioè con tre corpi
uniti su un unico ventre. Possedeva immensi
armenti di buoi rossi custoditi dal mostruoso
cane Orto, figlio di Echidna. Eracle raggiunse
l'isola di Eritia, dove pose i confini del mondo
conosciuto (le Colonne d'Ercole), uccise Gerione
ed Orto e portò gli armenti ad Argo.
Durante il ritorno da questa impresa avvenne
la maggior parte delle gesta di Eracle nell'Occidente
mediterraneo. Già nel viaggio di andata aveva
innalzato le colonne d'Ercole ai due lati dello
stretto di Gibilterra in ricordo del suo passaggio.
Al ritorno fu attaccato da un gran numero di
briganti che cercarono di sottrargli la mandria,
e per ognuno di questi assalti falliti veniva
costruito un santuario eracleo. Tra questi briganti
va ricordato Caco, che nel Lazio gli rubò le
sue bestie e che egli uccise dopo una violenta
lotta, poi Anteo, anch'esso ucciso dall'eroe.
- Rubare i pomi d'oro del giardino delle Esperidi.
I Pomi d'oro delle Esperidi erano il dono di
nozze fatto da Gea a Era, e che il drago Ladone
custodiva in un giardino nell'estremo Occidente.
Il viaggio verso questo giardino fu punteggiato
di incontri e di difficoltà da superare. Finalmente
giunse al Caucaso, dove liberò Prometeo che
in cambio gli rivelò che doveva inviare Atlante
a cogliere i famosi pomi. Si recò allora da
Atlante e si offrì di sorreggere sulle spalle
il peso del Cielo durante il tempo che occorreva
a compiere l'impresa. Quando Atlante ritornò
non voleva riprendersi il Cielo sulle spalle,
ed Eracle finse di volerlo aiutare purché gli
desse il tempo di mettersi un cuscino sulle
spalle. Appena fu libero, però, scappò via con
i Pomi.
- Portare vivo a Micene Cerbero, il cane a
tre teste guardiano degli Inferi.
L'ultima fatica è la cattura del cane Cerbero,
con l'aiuto di Ermes e di Atena. Si fece dapprima
iniziare ai misteri eleusini, che introducevano
al mondo dell'oltretomba, poi prese la via del
Tenaro e scese negli Inferi dove i morti fuggirono
dinanzi a lui, tranne la Gorgone, Medusa e Meleagro,
a cui promise di sposare Deianira. Poi incontrò
Piritoo e Teseo, venuti a liberare Persefone
e incatenati da Ade. Eracle liberò Teseo ed
uccise alcuni animali presi dagli armenti di
Ade, per dare un po' di sangue ai morti, e dovette
combattere col pastore Menete. Infine chiese
ad Ade di prelevare Cerbero, e Ade acconsentì,
purché combattesse rivestito solo della corazza
e della pelle di Leone. Eracle riuscì a portare
Cerbero a Euristeo che però ne ebbe una tale
paura che lo lasciò andare, e quindi ritornò
nell'Ade.
Il significato delle fatiche
Alle sovrumane imprese di Eracle, spesso compiute con
un atteggiamento di sfida alla morte, si può attribuire
anche un significato filosofico, morale e allegorico
che supera quello immediato di semplice narrazione di
gesta eroiche: la figura di Eracle rappresenta una tradizione
di mistica interiore e le Fatiche possono essere tranquillamente
interpretate come una sorta di cammino spirituale. Le
ultime tre Fatiche di Eracle sono generalmente interpretate
come una metafora della morte. Eracle è l'unico eroe
greco al quale non sia stato attribuito un luogo di
sepoltura, e i sacrifici e le libagioni ctonie in suo
onore venivano celebrati contemporaneamente in tutte
le località. Alcuni studiosi di recente hanno sostenuto
l'ipotesi per cui le dodici fatiche di Ercole (Eracle)
siano state assimilate ai dodici segni dello zodiaco,
anche se in alcuni casi è difficile vederne una analogia.
La geografia delle fatiche
La ricerca di una possibile localizzazione geografica
dei luoghi in cui le Fatiche vengono portate a termine,
porta a concludere che la maggior parte di esse si svolga
nel territorio dell'Arcadia o, comunque, siano in relazione
con esso.
* La cittadina di Nemea a nord-ovest di Argo
* Il lago Lerna (ora scomparso) a sud della stessa città
* Il monte Erimanto, attualmente chiamato Olonos
* La cittadina di Cerinea, a nord-ovest del Peloponneso
* Il lago Stinfalo, immediatamente a ovest di Cerinea.
Anticamente era una palude
* Il fiume Alfeo, che scende dai monti ad occidente
* La città di Sparta, dove si colloca l'entrata al mondo
dei morti
* L'isola di Creta, abitata da abili navigatori e commercianti
* la nazione della Tracia, descritta come nemica di
Argo durante la Guerra di Troia, e qui collegata al
mito di Diomede.
Eracle fu anche uno degli argonauti che insieme a Giasone
partirono alla ricerca del vello d'oro. Quando il centauro
Nesso assalì Deianira, Ercole lo ferì con una freccia
avvelenata con il sangue dell'Idra. Il centauro morente
consigliò Deianira di raccogliere un po' del proprio
sangue, convincendola che fosse un potente filtro d'amore;
si trattava in realtà di un veleno. Credendo che Eracle
si fosse innamorato della principessa Iole, Deianira
gli mandò una tunica immersa in quel sangue. Quando
la indossò, il dolore causato dal veleno fu tale che
Eracle si uccise su una pira funeraria. Dopo la morte,
venne condotto dagli dei nell'Olimpo e sposò Ebe, dea
della giovinezza. Eracle veniva solitamente rappresentato
come un uomo forte e muscoloso con indosso una pelle
di leone ed in mano una clava. Egli fu venerato dai
greci sia come dio sia come eroe mortale.
Acheloo
Presso la casa di Eneo, re di Calidone e di sua moglie
Altea, sorella di Meleagro e Tideo, si erano riuniti
numerosi pretendenti alla mano della loro figlia Deianira.
Tra di essi era presente anche Acheloo figlio di Oceano
e Teti , divinità fluviale dell'Etolia che aveva la
facoltà di assumere qualunque aspetto.
Mentre tutti i pretendenti erano riuniti in una grande
sala, all'improvviso fece il suo ingresso Eracle ornato
con la pelle del leone che aveva ucciso nella pianura
di Nemea. Alla sua presenza tutti i pretendenti di Deianira,
nonostante fossero uomini abili e valorosi nell'arte
della guerra, si ritirarono tranne Acheloo che rimase
a contendere con Eracle la mano della fanciulla.
Eracle, per convincere Deianira ad accettarlo come sposo
iniziò a declamare nel sue origini divine dicendo che
sarebbe diventato nuora di Zeus. Per contro Acheloo
ribatteva che era il dio di un grande fiume e che non
era odiato da nessuno al contrario di Eracle che era
perseguitato da Era, la sposa di Zeus. A quel punto
Eracle disse che meglio delle parole, contavano i fatti
per cui sfidò Acheloo a duello.
I due rivali si disposero nell'arena ed iniziarono a
scrutarsi. Il primo a muoversi fu Eracle che presa una
manciata di sabbia da terra la gettò sul viso di Acheloo.
Questi per poco non rimase accecato ma subito si riprese
e si scagliò contro Eracle. A lungo i due contendenti
combattevano avvinghiati l'uno all'altro e senza esclusione
di colpi. Alla fine però Eracle riuscì a svincolarsi
e a montare sulle spalle di Acheloo immobilizzandolo.
Acheloo era sul punto di soccombere quando si trasformò
in un gigantesco serpente.
La vista del serpente avrebbe fatto inorridire chiunque
ma non Eracle che invece si mise a ridere mentre ricordava
ad Acheloo che ancora in fasce aveva ucciso i due serpenti
che Era gli aveva inviato per ucciderlo. A quel punto
Ercole stringe forte con una sola mano la testa del
serpente e stava per soffocare Acheloo che prontamente
si trasformò in un enorme toro.
Eracle, per nulla intimorito a quella vista, lo afferrò
per le corna e lo scaraventò a terra con talmente tanta
forza che si spezzò una delle due corna ed in questo
modo Acheloo fu mutilato per sempre.
A quel punto per sfuggire ad Eracle, Acheloo si gettò
nel fiume Toante che da allora prese il suo nome (in
greco moderno è Aspropòtamo, il secondo fiume per lunghezza
della Grecia) e da quell'episodio Acheloo venne rappresentato
con il corpo di un toro e la testa di un uomo barbuto
o con il corpo umano e la testa di un toro ma sempre
con un solo corno.
Una delle interpretazioni che si danno a questo episodio
è che Acheloo non era altro che un fiume dell'Etolia
che ricordava un serpente per via del suo percorso sinuoso,
che frequentemente straripava in maniera prorompente
come la carica di un toro. Quando arrivò Eracle questi
arginò il suo corso costringendolo a scorrere in un
solo letto (l'allegoria con il corno strappato) portando
in questo modo prosperità alle regioni che attraversava.
Scrive Tazio (Tebaide, IV,53-156 - Trad. C. Bentivoglio):
" (...) e l'Acheloo scornato, e che non osa
erger la fronte offesa, e mesto giace
ne l'umide caverne, e le sue sponde
restano asciutte e squallide d'arena."
Le ninfe, raccolto il corno di Acheloo lo riempirono
di fiori e di frutti consacrandolo alla dea dell'Abbondanza
e da qui nacque la leggenda della Cornucopia.
Acheloo fu così vinto ed Ercole sposò Deianira, la più
dolce tra le fanciulle mortali.
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Zeus/DANAE
Si racconta che nella lontana città di Argo, regnasse
il re Acriso, figlio di Abante e di Ocalea, assieme
alla sua sposa Euridice (o Aganippe secondo altri) e
alla loro figlia Danae.
La tragica storia di re Acriso ebbe inizio quando si
recò a Delfi per consultare l'oracolo perchè, non riuscendo
ad avere figli maschi, era preoccupato per la sorte
del suo regno non sapendo a chi dover lasciare i suoi
possedimenti. Il responso dell'oracolo fu travolgente
in quanto gli predisse che non solo non avrebbe avuto
figli maschi ma che un giorno sarebbe morto per mano
di suo nipote, il futuro figlio di sua figlia Danae.
Il re, terrorizzato dalla profezia, fece rinchiudere
la figlia in una torre dalle porte di bronzo sperando
in questo modo che non fosse avvicinata da nessun uomo.
Ma Zeus che dall'alto dell'Olimpo seguiva le vicende
dei mortali, impietosito dalla sorte toccata alla giovane
fanciulla ed invaghitosi di lei, entrò nella sua cella
sotto forma di pioggia di gocce d'oro e concepì con
lei quello che un giorno sarebbe diventato uno dei più
grandi uomini dell'antichità: Perseo .
Re Acriso, scoperta la gravidanza della figlia che fu
costretta a confessare le origini divine del figlio,
nonostante la paura e la grande rabbia, non ebbe il
coraggio di ucciderla ma aspettò che il bambino nascesse,
per rinchiudere entrambi in una cassa che abbandonò
alla deriva in mezzo al mare. La loro sorte sarebbe
stata sicuramente segnata se Zeus non avesse sospinto
la cassa verso le rive dell'isola di Serifo, nelle Cicladi,
dove il pescatore Ditti la trovò e una volta aperta,
si accorse che la donna ed il bambino erano ancora vivi.
Immediatamente li portò dal re Polidette, suo fratello,
che li accolse nella sua reggia.
Perseo
Passarono gli anni e Perseo, circondato dall'amore
della madre, cresceva forte e valoroso. Danae, che
la maturità aveva reso ancora più bella, era diventata
oggetto dei desideri del re Polidette che cercava
in tutti i modi di convincerla a sposarlo ma Danae,
il cui unico pensiero era il figlio, non ricambiava
il suo amore. Polidette allora cercò di averla con
l'inganno: finse di voler sposare Ippodamia, figlia
di Pelope e chiese ai suoi amici di fargli come
dono nuziale un cavallo a testa. Perseo, che non
possedeva e non poteva comprare un cavallo per donarlo
al re, si scusò e disse imprudentemente che gli
avrebbe procurato qualunque altro dono.
La Medusa
A quel punto Polidette, gli chiese di portargli
la testa della Gorgona Medusa questo nella speranza
che morisse nell'impresa in quanto mai nessun
mortale era riuscito in una simile avventura
ed in questo modo la madre, priva dell'unico
conforto della sua vita, avrebbe ceduto e l'avrebbe
sposato.
Narra la leggenda che Medusa una delle tre Gorgoni
(Medusa, Euriale, Steno), l'unica alla quale
il fato non avesse concesso l'immortalità, era
un tempo tra le donne più belle. Invaghitasi
di Poseidone, aveva fatto con lui l'amore nel
tempio d'Atena. Quest'ultima profondamente irritata
dall'affronto subito, aveva trasformato la fanciulla
in un orribile mostro: le mani le aveva trasformate
in pezzi di bronzo; aveva fatto comparire delle
ali d'oro e ricoperto il corpo di scaglie; i
denti erano diventati simili alle zanne di un
cinghiale; i capelli erano stati trasformati
in serpenti ed al suo sguardo aveva dato la
capacità di trasformare in pietra chiunque la
guardasse negli occhi.
Narra Ovidio nelle Metamorfosi (IV, 799-801):
"La figlia di Giove si voltò e si coprì con
l'egida il casto volto, ma, perchè quell'oltraggio
non restasse impunito, mutò in luride serpi
i capelli della gorgone".
Mentre di lei scrisse Dante Alighieri nel IX
canto dell'inferno (51-57): "Volgiti indietro,
e tien lo viso chiuso: che se il Gorgon si mostra,
e tu il vedessi, nulla sarebbe del tornar mai
suso".
L'impresa che stava per affrontare non era facile
e sicuramente non sarebbe riuscito a superarla
se Atena ed Ermes non fossero accorsi in suo
aiuto. La prima gli donò uno scudo lucente e
ben levigato, attraverso il quale guardare riflessa
la Gorgona ed evitare così di essere pietrificato
dallo sguardo; il secondo una spada con cui
decapitarla in quanto le sue squame erano più
dure del ferro.
Tali armi non erano però ancora sufficienti
per riuscire nell'impresa, così i due dei gli
suggerirono di farsi donare dalle Ninfe i calzari
alati per volare veloce nel regno di Medusa,
l'elmo di Ade che rendeva invisibile chi lo
portasse ed una sacca magica nella quale riporre
la testa di Medusa, una volta tagliata in quanto
i suoi poteri non sarebbero venuti meno con
la morte ed i suoi occhi sarebbero stati ancora
in grado di pietrificare.
Riuscire a trovare la dimora delle Ninfe non
era semplice in quanto nè Ermes nè Atena ne
erano a conoscenza e pertanto suggerirono a
Perseo di recarsi presso le tre Graie per estorcergli
con una stratagemma la preziosa informazione.
Erano queste sorelle delle Gorgoni e non avevano
mai conosciuto la giovinezza in quanto nate
vecchie. Avevano il corpo di cigno e possedevano
insieme un solo dente ed un unico occhio che
si scambiavano vicendevolmente per mangiare
e vedere. Perseo, arrivato nella loro dimora,
si nascose e attese che una di loro si togliesse
l'occhio dalla fronte per passarlo ad una sorella
e glielo rubò, rifiutandosi di restituirlo se
prima non gli avessero indicato la via per arrivare
al regno delle Ninfe. All'intimazione le tre
sorelle, terrorizzate dall'idea di restare cieche
obbedirono, e così Perseo poté raggiungere le
Ninfe che gli donarono la bisaccia, i calzari
alati e l'elmo di Ade.
Così equipaggiato volò nell'isola dove dimoravano
le tre Gorgoni (Steno, Euriale e Medusa) che
trovò addormentate. Forte dei consigli di Ermes
e d'Atena si avvicinò a Medusa, nel paesaggio
desolato di uomini e animali che il suo sguardo
aveva pietrificato, camminando all'indietro
e guardandola riflessa nello scudo lucente.
Non appena le fu vicino vibrò il colpo mortale
che tagliò di netto la testa mentre i serpenti
tentavano in tutti i modi di avvolgerlo nelle
loro spire.
Presa la testa la ripose immediatamente nella
bisaccia mentre dal sangue che sgorgava copioso
nacque Pegaso il magico cavallo alato che divenne
il suo fedele compagno.
Le sorelle della vittima cercarono in tutti
i modi di inseguirlo ma grazie all'elmo di Ade
che lo rendeva invisibile e al magico Pegaso,
riuscì a sfuggire, volando via veloce come il
pensiero da quell'isola tetra e nefasta.
Disse Ovidio di Pegaso: "Fu terra il ciel e
furono piedi le ali".
Approdò per riposare nella regione dell'Esperia,
dove regnava il titano Atlante. Era questo molto
sospettoso e diffidente nei confronti degli
estranei in conseguenza di una profezia secondo
la quale il suo regno sarebbe stato distrutto
da uno dei figli di Zeus. Inavvertitamente Perseo
(che non sapeva della profezia) gli rivelò la
sua origine divina e all'apprenderla, Atlante
cercò di ucciderlo. Il giovane, sorpreso dalla
sua reazione fu costretto a difendersi in una
lotta impari contro il Titano fino a che, aperta
la bisaccia dove teneva la testa di Medusa,
pose fine al combattimento in quanto Atlante
iniziò a pietrificarsi trasformandosi in un'alta
montagna.
Racconta Ovidio nelle Metamorfosi (IV 650-662):
"Gli mostrò l'orribile testa della Gorgone.
Altlante si mutò quasi all'istante in un'alta
montagna: boschi diventarono la sua barba e
le sue chiome, cime le spalle e le braccia;
quello che prima era la testa, divenne la vetta
del monte; rocce divennero le ossa; cresciuto
in tutte le sue parti, si ingigantì in una immensa
mole …."
Narra pertanto la leggenda che da Atlante prese
origine il sistema montuoso omonimo e poiché
era molto alto, si affermò che Atlante reggesse
sulle sue spalle la volta celeste.
Perseo, ancora sorpreso da quanto era accaduto
riprese il suo volo verso casa, percorrendo
una terra arida e desolata, senza accorgersi
che alcune gocce di sangue fuoriuscivano dalla
bisaccia che conteneva la testa di Medusa che
cadendo nel terreno davano origine a tanti serpenti
velenosi i quali in seguito avrebbero popolato
per sempre il deserto.
Volava ora Perseo sopra le terre degli Etiopi
quando intravide una bellissima giovane fanciulla
nuda incatenata ad uno scoglio. La fanciulla
era Andromeda figlia del re d'Etiopia Cefeo
e della sua sposa Cassiopea. La giovane donna
scontava una colpa commessa dalla madre che
stimolata dalla vanità si era dichiarata più
bella delle Nereidi (ninfe del mare). Quest'ultime,
capricciose e maligne, offese da tanta presunzione,
avevano chiesto vendetta al loro protettore
Poseidone che aveva inviato in quelle terre,
dalle oscure profondità marine, un mostro che
devastava tutto ciò in cui si imbatteva. Consultato
l'oracolo di Ammone per sapere che cosa si potesse
fare per placare l'ira delle dee, il responso
fu che Cassiopea offrisse sua figlia Andromeda
all'orribile creatura marina. Perseo, sdegnato
da una simile sorte, si offrì di mutare il destino
della fanciulla, combattendo il mostro e mettendo
quindi fine alla maledizione in cambio della
mano d'Andromeda. Il re Cefeo, accettò l'offerta
e così Perseo, salito in groppa a Pegaso, si
portò alle spalle del mostro calando dal cielo
come un'ombra per tentare di trafiggerlo. Più
volte era sul punto di essere sopraffatto fino
a quando, aperta la sacca, prese la testa di
Medusa che rivolta verso il mostro lo pietrificò
all'istante.
Finita la lotta, mentre Perseo liberava Andromeda,
delle Ninfe del mare incuriosite, rubarono un
po' del sangue che fuoriusciva dalla testa di
Medusa che a contatto dell'acqua marina si trasformava
in coralli. Da quel momento i fondali marini
furono deliziati dalla presenza di questi straordinari
echinodermi.
Perseo, prima di lasciare il luogo della lotta
innalzò tre altari uno ad Ermes, uno ad Atena
ed uno a Zeus e dopo aver fatto ciò con Andromeda,
il re Cefeo, Cassiopea e tutto il popolo che
aveva assistito alla lotta, si incamminò verso
la reggia dove si diede subito inizio al banchetto
nuziale tra Perseo e Andromeda, in un clima
di grande allegria. Ma le disavventure non erano
ancora finite. Infatti, fece ingresso nella
sala del banchetto Fineo, fratello del re Cefeo,
promesso sposo d'Andromeda. Questi, reclamava
Andromeda pur avendone perso il diritto nel
momento in cui aveva lasciato che la stessa
andasse in sacrificio al mostro. Nella sala
nuziale si scatenò una cruenta lotta. Fineo,
con l'aiuto di molti alleati iniziò a combattere
contro Perseo che stava per essere sopraffatto
dalla moltitudine dei nemici quando, aperta
la sacca magica, mostrò la testa di Medusa che
ancora una volta portò la morte ai suoi nemici,
pietrificandoli uno dopo l'altro.
Stanco e sconfortato da tanti lutti che aveva
arrecato, Perseo e Andromeda decisero di lasciare
la terra degli Etiopi per ritornare a Serifo,
dalla madre Danae dove arrivarono appena in
tempo per salvarla dalla morte alla quale il
re Polidette l'aveva condannata perché continuava
a non ricambiare il suo amore. Il re, messo
di fronte alla testa di Medusa, fu pietrificato
all'istante.
Ora che Polidette era morto, madre e figlio
potevano finalmente fare ritorno alla loro terra
natale, Argo, per riconciliarsi con re Acriso,
verso il quale gli anni avevano oramai cancellato
il risentimento. Perseo, messo a capo della
città di Serifo Ditti, riconsegnati i calzari
e l'elmo alle Ninfe e la spada ad Ermes e dopo
aver donato la testa di Medusa ad Atena che
la poneva come trofeo in mezzo al suo petto,
con la madre e Andromeda salpava alla volta
di Argo mentre il magico Pegaso volava via verso
l'Olimpo.
Re Acriso, padre di Danae, saputo dell'arrivo
del nipote e di sua figlia, per paura dell'antica
profezia fuggì via dal suo regno e riparò a
Larissa in Tessaglia.
Sembrava che finalmente il triste destino di
Perseo di portare morte e distruzione fosse
finito ma così non era.
Oramai famoso in tutte le terre conosciute,
fu invitato a partecipare in Tessaglia a Larissa
a delle gare sportive e mentre lanciava il disco,
la potenza impressa allo stesso fece si che
questo andasse oltre gli spalti, per colpire
uno sfortunato spettatore che altri non era
che re Acriso che si era mischiato tra la folla.
Scoperta la triste fine toccata al nonno al
quale Perseo, nonostante tutto voleva bene,
triste e sfiduciato fece rientro ad Argo ma
non accettò di diventare re anche se gli spettava
di diritto ma cambiò il suo trono con quello
di Tirinto che apparteneva al cugino Megapente
che fu lieto dello scambio in quanto molto più
vantaggioso per lui.
Negli anni che seguirono Perseo regnò in pace
e con saggezza fino alla fine dei suoi giorni,
fondando tra l'altro il regno di Micene così
chiamato perchè un giorno potè dissetarsi presso
un ruscello che era sgorgato miracolosamente
da un fungo (mycos = fungo).
Perseo ed Andromeda ebbero molti figli tra cui
i più famosi furono Alceo che ebbe come figlio
Anfitrione la cui moglie Alcmena ebbe da Zeus,
il mitico Eracle; Elettrione, Stenelo e Gorgofone.
Alla morte di Perseo, la dea Atena, per onorare
la sua gloria, lo trasformò in una costellazione
cui pose affianco la sua amata Andromeda e la
madre Cassiopea la cui vanità aveva fatto si
che i due giovani si incontrassero. Ancor oggi,
alzando lo sguardo verso il cielo, possiamo
ammirare le tre costellazioni a ricordo della
loro vita e soprattutto del grande amore dei
due giovani.
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Zeus/CIRCE
Circe ("falco"): figlia di Elios e di Perse l'oceanide;
sorella di Eeta, il feroce re della Colchide. Maga con
molti e straordinari poteri viveva sull'isola di Eea,
più tardi identificata con capo Circeo. Trasformava
i nemici e chi la offendeva in animali. Pico, che aveva
respinto le sue offerte fu trasformato in un picchio;
quando il dio del mare Glauco le chiese una pozione
per far innamorare di sé Scilla, Circe si innamorò di
lui e trasformò Scilla in un mostro che insieme a Cariddi
infestava lo stretto di Messina. Quando Giasone e Medea,
fuggendo da Eeta, giunsero per ordine di Zeus a Eea
per essere purificati per l'assassinio di Aspirto, fratello
di Medea, Circe li scacciò inorridita.
Circe ,signora del monte Circeo, è la maga più nota
dell'antichità mediterranea ; il più famoso episodio
del suo mito è certamente l'incontro con Odisseo, cantato
da Omero nel X canto dell'Odissea.
Il poeta racconta che , nel loro viaggio verso casa,
Odisseo e suoi compagni approdarono sull'isola di Eea,
dove sarebbero stati tutti trasformati in animali se
Odisseo con l'aiuto di Hermes non avesse sconfitto le
arti magiche della maga. Dopo il ritorno alla normalità,
i greci rimangono per un anno ospiti del palazzo di
Circe e la dea darà dei figli ad Ulisse, le fonti infatti
ci tramandano i nomi di Telegono, Agrio, Rhomos, Antias,
Ardeas.
Anche da queste poche notizie il mito e il culto di
Circe appare molto antico. Il suo regno , immaginato
come un'isola coperta da folte ed impervie foreste ,
abitate da animali selvatici di ogni tipo, ricca di
erbe e piante dai poteri misteriosi, era collocato sia
ad oriente nella Colchide, regione posta sul mar Nero,
sia in occidente sul promontorio laziale del Circeo,
dove le era tributato un culto ancora in età storica.
Ma perché questa opposta localizzazione geografica?
L'origine della maga Circe affonda le radici nei tempi
più antichi, quando il paesaggio era concepito dall'uomo
permeato di sacralità. In esso erano immanenti forze
soprannaturali considerate signore e abitatrici del
luogo a loro consacrato. Questo archetipo diede vita
all'idea della Grande Madre, complessa divinità generatrice
dalle molteplici prerogative: era signora delle erbe
e dei fiori, delle belve e degli armenti degli agricoltori
e dei marinai , delle fanciulle e delle spose, poteva
agire per la vita e per la morte. Per questo la Grande
Madre ha avuto nel Mediterraneo e nel tempo innumerevoli
volti: fu Astarte per i Fenici, Iside per gli Egizi,
Demetra per i Greci, Cibele per i Frigi. Come signora
della natura possedeva la conoscenza delle proprietà
curative o letali delle piante, proprietà legate alla
magia.
Dagli elementi che troviamo nel mito di Circe ( la parentela
con il Sole, corrispettivo maschile della Grande Madre,
la sua conoscenza del potere delle piante da cui ricavava
farmaci per sostenere la sua magia, il suo potere sugli
animali) ci fanno capire che nella Colchide era una
personificazione della Grande Madre, e il suo culto
doveva essere importante e profondo . In seguito il
suo culto è decaduto rispetto alle religioni classiche
e la sua figura di maga è rimasta cristallizzata nel
mito.
Il culto si deve essere trasferito da oriente ad Occidente
attraverso il Mediterraneo al seguito di navigatori
pre – greci che nelle loro migrazioni ebbero contatti
con le comunità italiche sin dal periodo miceneo. Ciò
è testimoniato dalle tracce rimaste del suo culto a
Creta ( la leggenda dice che fosse sorella di Pasifae
regina di Creta), a Corinto e poi più ad ovest.
In Italia giunse nel Lazio in un'età in cui dovette
molto facilmente imporsi alle popolazioni indigene:
la parte del mito che la dice moglie di Pico, antenato
di Latino, sembra ricordare questa fase. Il Lazio a
quei tempi aveva un paesaggio primitivo di tipo silvo
– palustre, ricco di boschi ( i nemora), di paludi inospitali
e di acque. Questa immagine del territorio era radicata
profondamente nell'opinione degli antichi e il Circeo
con i suoi boschi , i suoi fianchi scoscesi, le sue
paludi era la perfetta immagine occidentale della selvaggia
Colchide.
Ma perché questo luogo, che non fu l'unico in Occidente
ove risiedette la dea, è rimasto nel tempo la sua principale
dimora? La ragione di questa imperitura fama è da ricercare
nella poesia immortale di Omero.
Fauno
Il Fauno, figlio di Giove e della maga Circe, è
una delle più antiche divinità italiche, una divinità
della natura, in particolare della campagna e dei
boschi. Il suo aspetto è dalle forme umane, ma con
i piedi di capra e con le corna sulla fronte. Più
tardi fu fatto corrispondere al Satiro della mitologia
greca, benché quest'ultimo fosse legato al culto
del dio Dioniso. In versioni tarde fu associato
al dio greco Pan, oltre che al Satiro. Secondo dei
miti romani, ripresi poi nell'Eneide da Virglio,
Fauno era lo sposo di Marica, divinità delle acque,
dalle quale ebbe Latino.
Nelle comunità rurali, la sua festa (Faunàlia),
ricorreva il 5 dicembre tra danze e processioni.
L'unico tempio a lui dedicato in Roma, il Tempio
di Fauno, si trovava sull'Isola Tiberina. Nei pressi
di un bosco situato nelle vicinanze della fontana
Albunea, esisteva un celebre oracolo, dedicato al
dio Fauno.
Nei primi secoli dell'era cristiana, molte divinità
pagane vennero demonizzate e i Fauni furono associati
ai Satiri e ai Silvani. La figura del Fauno diverrà
in seguito quella del diavolo-tipo. Nello stesso
periodo, però, i Fauni vennero anche convertiti
in esseri non malvagi, simili ai folletti.
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Zeus/EUROPA
Europa era figlia di Agenore (re di Tzur una antica
città sarda, Tharros per i fenici in area mediterraneo-occidentale)
. Zeus se ne innamorò, vedendola insieme ad altre coetanee
raccogliere dei fiori nei pressi della spiaggia. Zeus
allora inventò uno dei suoi molteplici travestimenti:
ordinò a Ermes di guidare i buoi del padre di Europa
verso quella spiaggia. Zeus quindi prese le sembianze
di un candido toro bianco, le si avvicinò e si stese
ai suoi piedi. Europa salì sul dorso del toro, e questi
la portò attraverso il mare fino all'isola di Creta.
Zeus rivelò quindi la sua vera identità e tentò di usarle
violenza ma, Europa resistette. Zeus si trasformò quindi
in aquila e riuscì a sopraffare Europa in un boschetto
di salici o, secondo altri, sotto un platano sempre
verde.
E' così, che i Greci narrano che Europa, nell'innocenza
del suo gioco con Zeus, subì la sua violenza. Questo
mito testimonia le radici culturali dei popoli europei,
poichè essi impararono dai Greci il gusto del bello,l'ideale
dello sport,il principio della democrazia.
Agenore mandò i suoi figli in cerca della sorella. Il
fratello Fenice, dopo varie peregrinazioni, divenne
il capostipite dei fenici. Un altro fratello, Cilice,
si instaurò in un'area sulla costa sudorientale dell'Asia
Minore a nord di Cipro e divenne il capostipite dei
cilici. Cadmo, il fratello più famoso, arrivò fino in
Grecia dove fondò la città di Tebe.
Europa divenne la prima regina di Creta. Ebbe da Zeus
tre figli: Minosse, Radamanto, e Sarpedonte, che vennero
in seguito adottati da suo marito Asterione re di Creta.
Zeus donò a Europa tre regali: Talo, l'uomo di bronzo
che sorvegliava le coste cretesi, Laelaps, un cane molto
addestrato, e un giavellotto che non sbagliava mai il
bersaglio. Il padre degli dei successivamente ricreò
la forma del toro bianco nelle stelle che compongono
la Costellazione del Toro.
Dopo la morte di Asterione, Minosse diventa re di Creta.
In onore di Minosse e di sua madre, i Greci diedero
il nome "Europa" al continente che si trova a nord di
Creta.
Minosse
Minosse fu re giusto e saggio di Creta. Per questo
motivo, dopo la sua morte, divenne uno dei giudici
degli inferi, insieme a Eaco e Radamanto.
Si racconta che, in seguito alla morte del re Asterione,
padre adottivo di Minosse, egli costruì un altare
a Poseidone in riva al mare, per dimostrare il suo
diritto alla successione al trono. Minosse pregò
Poseidone di inviargli un toro per il sacrificio
ed il dio lo esaudì. Ma Minosse non sacrificò l'animale,
poiché era molto bello. Poseidone, adirato, fece
innamorare del toro Pasifae, la moglie di Minosse.
Da questa unione nacque il minotauro, mezzo uomo
e mezzo toro. Minosse incaricò dunque Dedalo di
costruire un labirinto in cui nascondere il mostro.
Minosse ebbe 8 figli da Pasifae: Catreo, Deucalione,
Glauco, Androgeo, Acalla, Senodice, Arianna, Fedra.
Ebbe inoltre Eussantio da Dessitea, mentre dalla
ninfa Paria ebbe Filolao, Crise, Eurimedonte e Nefalione.
Il regno di Minosse fu caratterizzato da ampi scontri
con i popoli vicini, che egli riuscì ad assoggettare.
Minosse fu il più antico di quanti conosciamo per
tradizione ad avere una flotta e dominare per la
maggior estensione il mare ora greco, a signoreggiare
sulle isole Cicladi e colonizzarne le terre dopo
aver scacciato da esse i Cari ed avervi stabilito
i suoi figli come signori. Eliminò per quanto poté
la pirateria del mare, perché meglio gli giungessero
i tributi.
I Pirati erano soprattutto Cari e Fenici, ma al
crearsi della flotta di Minosse, la navigazione
tra un popolo e l'altro si sviluppò ei pirati furono
scacciati dalle isole, tutte le volte che le colonizzava.
Combatté anche contro Niso, re di Megara, che aveva
un capello d'oro a cui era legata la sorte della
sua vita e della sua potenza. La figlia di Niso,
Scilla, si innamorò al primo istante di Minosse
e non indugiò ad introdursi nottetempo nella camera
del padre per tagliargli il capello d'oro. Andò
in seguito da Minosse offrendogli le chiavi di Megara
e chiedendogli di sposarla. Minosse conquistò Megara
ma rifiutò di portare con sé a Creta la parricida
che, presa dallo sconforto, si gettò in mare ed
annegò.
Minosse attaccò anche Atene, in seguito all'assassinio
del figlio Androgeo causato dal re Egeo. Sconfitti
gli ateniesi, Minosse chiese ad essi in tributo
la consegna annua di sette fanciulli e sette fanciulle,
che venivano date in pasto al Minotauro. Tale sacrificio
cessò solo in seguito all'intervento di Teseo, che
aiutato da Arianna, riuscì ad uccidere il minotauro.
Secondo il mito Minosse fu ucciso in una vasca da
bagno in Sicilia mentre era ospite nella rocca del
re sicano Cocalo. Il racconto è stato ripreso da
Diodoro Siculo nella Biblioteca storica che narra
come la sua leggendaria tomba si trovasse al di
sotto di un tempio di Afrodite e come Terone di
Akragas avesse occupato quest'area sacra con il
proposito ufficiale di vendicare l'uccisione del
re cretese.
Il Minotauro
il Minotauro era un mostro possente, mezzo uomo
e mezzo toro che si cibava di carne umana. Minosse
chiamò un abile architetto, Dedalo, e gli ordinò
di costruire un palazzo sotterraneo: doveva essere
un inestricabile susseguirsi di camere, corridoi,
sale, finti ingressi e finte porte, un luogo dove
perdersi e da cui fosse impossibile uscire.
Lì il re avrebbe rinchiuso il Minotauro, suo figlio.
Per nutrire il mostro che si cibava di carne umana,
Minosse si faceva inviare ogni anno dalla città
di Atene, come tributo di sottomissione per aver
perso la guerra, 7 fanciulli e 7 fanciulle.
Teseo
Il re di Atene, Egeo, era preoccupato, perché non
aveva nessun eroe: aveva un figlio che si chiamava
Teseo, però non lo aveva mai visto. Tanti anni prima,
poiché desiderava avere un figlio, andò a chiedere
la soluzione ad un oracolo di Delfi a quel sapientone
del re di Trezene, Pitteo, che ne approfittò, e
lo sposò , la notte stessa, alla figlia Etra, ormai
zitella.
La mattina seguente Egeo se ne andò dicendo alla
moglie: "Se nascerà un figlio, mandamelo solo quando
avrà la forza di spostare il sasso, sotto cui ho
messo la mia spada e i miei sandali."
Teseo nacque e venne educato dal nonno: quando diventò
grande e robusto, riuscì a spostare il masso e partì
subito per Atene.
Quando arrivò ad Atene tutti lo trattavano bene,
perché avevano saputo che aveva ucciso molti mostri
lungo la strada e il padre lo mandò a Creta a uccidere
Minotauro.
Se l'impresa fosse riuscita, al ritorno la nave
su cui viaggiava avrebbe innalzato le vele bianche,
altrimenti sarebbero state lasciate le vele nere
issate alla partenza, in segno di lutto per le giovani
vittime sacrificate.
Giunto a Creta con le4 vittime sacrificali, Teseo
ottenne l'aiuto della bella Arianna , figlia di
Minosse, che si era innamorata dell'eroe ateniese.
Arianna introdusse Teseo nel labirinto e per ritrovare
la strada da percorrere, legò il capo di un gomitolo
di lana all'ingresso del palazzo, svolgendolo poi
via via lungo il cammino. Guidato da Arianna, Teseo
riuscì a raggiungere il Minotauro, a schivare un
attacco, staccargli una delle corna e conficcarla
nella fronte come un giavellotto.
Questo infatti, come rivelato da Dedalo ad Arianna,
era il solo modo per uccidere il mostro. I due riuscirono
a ritrovare la via d'uscita e tornarono insieme
ad Atene.
Ma sulla via del ritorno dimenticarono di sostituire
le vele nere così Egeo, che attendeva il ritorno
del figlio dall'alto delle mura, scorgendo quel
segno di sventura, disperato, si uccise gettandosi
in quel mare che da lui prese il nome.
Minosse incise notevolmente sulla cultura cretese
che si chiamò minoica e popolò diverse zone del
Mediterraneo. Tra queste ricordiamo Eraclea Minoa
in Sicilia ove si dice che ebbe sepoltura il re,
recatosi in quel luogo per catturare Dedalo.
Dedalo e Icaro
Arianna sapeva che Teseo era cugino di Dedalo e
riuscì non senza fatica a farsi rivelare da quest'ultimo
come affrontare il Minotauro ed uscire poi dal labirinto.
Così il giorno stabilito per il sacrificio Arianna
andò con i giovani all'ingresso del labirinto con
un gomitolo di filo di seta che consegnò a Teseo
legandone un capo all'architrave della porta.
Minosse infuriato, intuendo che solo Dedalo poteva
aver favorito questa impresa, lo fece rinchiudere
nel labirinto con il figlio Icaro. Dedalo, da uomo
d'ingegno qual'era, uccise un'aquila usando un arco
rudimentale e con penne e cera si costruì delle
ali con cui lui ed il figlio lasciarono il palazzo
alle prime luci dell'alba. "Non avvicinarti troppo
al sole" aveva detto Dedalo al figlio, ma dopo qualche
ora questi, rapito dall'ebbrezza del volo e attirato
dalla luce dorata salì alto come un'aquila. Il calore
del sole fece sciogliere la cera delle ali e Icaro
precipitò in mare. Dedalo proseguì tristemente il
suo volo e raggiunta Napoli dedicò le sue ali ad
Apollo per recarsi poi in Sicilia dove si guadagnò
nuova fama erigendo bellissimi templi.
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Zeus/LEDA
Nella mitologia greca Leda era figlia di Testio e moglie
di Tindaro, re di Sparta.
La leggenda narra che Zeus, innamoratosi di lei, desideroso
e impaziente di prenderla, maestro nei travestimenti,
si mutò in uno splendido cigno, ma neppure così riuscì
ad avvicinarsi a quella selvaggia (nonché prudentissima)
creatura dei boschi. Allora fece apparire un'aquila
così enorme nel cielo, finse di essere inseguito, di
essere in pericolo e volò tutto tremante ai piedi dell'amata.
Solo a quel punto, mossa a compassione per lo splendido
animale che credeva in pericolo, Leda aprì le gambe
per nascondere il cigno fra le sue ginocchia, e lì lo
tenne tutta la notte.L'aquila nel cielo inanellò cerchi
concentrici fino alle prime luci dell'alba, quando la
luce la fece scomparire. Ed anche Zeus scomparve insieme
a lei. Leda depose un uovo bianco e rotondo che, schiudendosi,
diede alla luce ed alla vita la creatura più bella e
perfetta che si potesse immaginare. Elena, colei che
tanti lutti portò ai troiani ed agli achei.
Da un uovo sarebbero usciti i Dioscuri, Castore e Polluce,
mentre dall'altro Elena e Clitennestra.
La tradizione mitica è discordante riguardo a quale
fosse la progenie divina; secondo alcune versioni i
figli immortali di Zeus sarebbero stati Polluce ed Elena,
mentre gli altri due sarebbero figli di Tindaro.
Castore e Polluce, conosciuti come Diòscuri, ossia "figli
di Zeus", furono due degli Argonauti, gli eroi che parteciparono
alla ricerca del Vello d'oro: Polluce - già celebrato
come grande pugile - sconfisse in un gara di questa
disciplina il re dei Bebrici, Amico.
Inoltre presero parte alla lotta contro Teseo, che aveva
rapito la loro sorella Elena nascondendola ad Afidne;
dopo quest'ultimo combattimento Zeus concesse loro l'immortalità.
Si narra inoltre che abbiano preso parte alla Battaglia
della Sagra tra le file dei locresi (Locri Epizephiri)
in battaglia contro i crotonesi (Crotone).
Il fratello di re Tindaro, Afareo, era a sua volta padre
di due gemelli: Ida e Linceo. Castore e Polluce rapirono
le promesse spose dei cugini e nell'imboscata che ne
seguì, Castore fu ferito a morte. Polluce, volendo seguire
il destino del fratello, ottenne di vivere come Castore
un giorno sull'Olimpo e uno nell'Ade. Un altro mito,
riportato da Euripide nella sua opera Elena , ricorda
invece che Zeus concesse - visto il loro profondo legame
- di vivere per sempre nel cielo, sotto forma di costellazione.
Il loro culto, nato a Sparta (erano infatti figli del
re eponimo di questa città), si diffuse rapidamente
in tutta la Magna Grecia, soprattutto in considerazione
del fatto che venivano creduti protettori dei naviganti:
il mito infatti racconta che Poseidone affidò loro il
potere di dominare il vento insieme al mare.
A Roma i Diòscuri (con il nome di Càstori) venivano
ricordati nel loro tempio collocato all'interno del
Foro Romano, nelle vicinanze del Tempio di Vesta, costruito
per un voto offerto dal dittatore Aulo Postumio durante
la battaglia del Lago Regillo. Il risultato della battaglia,
inizialmente sfavorevole ai guerrieri dell'Urbe, si
dice sia stato deciso dall'apparizione dei mitologici
Dioscuri Castore e Polluce.
Il5 luglio era tradizione che gli equites svolgessero
una processione fastosa a cavallo verso il tempio, dato
che ne venivano considerati i propri protettori.
ELENA
Figlia di Zeus e di Leda, sposa di Menelao re di
Sparta e poi di Paride figlio di Priamo, re di Troia.
Il nome non è greco e forse in origine fu quello
di una dea, associata agli uccelli e agli alberi.
Nei poemi omerici viene descritta come una donna
mortale dotata di una bellezza straordinaria e di
un grande fascino donatole da Afrodite perché avesse
il potere di sedurre qualsiasi uomo.
All'età di dodici anni venne rapita da Teseo che
la portò a Efidne in Attica da sua madre Etra, mentre
aiutava l'amico Piritoo a cercarsi un'altra figlia
di Zeus. Sfortunatamente Piritoo scelse Persefone
e quando scese nel Tartaro per rapirla vennero imprigionanti
da Ade sulle sedie del Oblio. Nel frattempo Elena
era stata liberata dai Dioscuri e riportata a Sparta
insieme alla madre di Teseo.
Quando Elena raggiunse l'età da marito, si presentarono
tutti i più nobili principi della Grecia ad affollare
la corte di Tindareo, il quale cominciava a temere
che qualunque scelta avesse fatto, ne sarebbero
seguiti dei disordini tra i pretendenti. Odisseo,
presente tra i pretendenti, gli consigliò di farli
giurare solennemente che avrebbero protetto la vita
e i diritti di chiunque fosse diventato lo sposo
di Elena. I nobili principi greci acconsentirono
e giurarono solennemente davanti a un cavallo sacrificale.
Elena scelse Menelao, forse a causa dei ricchi doni
che aveva portato, mentre la sorella di Elena, Clitemnestra
, era già andata in sposa a suo fratello, Agamennone,
re di Micene.
Elena diede alla luce Ermione, figlia di Menelao,
e forse anche Nicostrato, se Menelao non giacque
con una schiava. Stesicoro sostiene che Elena diede
alla luce anche Ifigenia e la affidò alla sorella
Clitemnestra perché la allevasse. Ma la maggior
parte degli autori ritiene che Clitemnestra fosse
la legittima madre di Ifigenia.
Il giudizio di Paride è un episodio della mitologia
greca, ritenuto uno delle cause della guerra di
Troia e, nella più tarda versione della storia,
della fondazione di Roma.
Si racconta che Zeus allestì un banchetto per la
celebrazione del matrimonio di Peleo e Teti, genitori
di Achille. In ogni modo, Eris, la dea della discordia,
non venne invitata. Irritata per questo oltraggio,
Eris arrivò presso il banchetto, dove gettò una
mela d'oro, con sopra l'iscrizione "alla più bella".
Le tre dee che la pretesero, scatenando litigi furibondi,
furono Era, Atena e Afrodite. Esse parlarono con
Zeus per convincerlo a scegliere la più bella tra
loro, ma il padre degli dèi, forse consapevole di
dover essere in qualche modo imparziale, non sapendo
a chi consegnarla, stabilì che a decidere chi fosse
la più bella non potesse essere che l'uomo più bello
e cioè Paride, mortale frigio, principe di Troia.
Ermes fu incaricato di portare le tre dee dal giovane
troiano, occupato quel giorno di portare al pascolo
le pecore, ed ognuna di loro gli promise una ricompensa
in cambio della mela: Atena, grazie al dono della
sapienza, lo avrebbe reso capace di modificare eventi
e materia a suo piacimento, finanche a superare
le leggi della natura; Era lo avrebbe reso così
ricco che i suoi forzieri non sarebbero bastati
a contenere le sue gemme e il suo oro, così potente
che a un suo gesto interi popoli si sarebbero sottomessi
e così glorioso che il suo nome avrebbe riecheggiato
fino alle stelle; Afrodite avrebbe appagato i suoi
desideri amorosi concedendogli in sposa la donna
più bella del mondo , Elena. Paride favorì di gran
lunga quest'ultima scatenando l'ira delle altre
due. La dea dell'amore aiutò Paride a rapire Elena,
moglie di Menelao, re di Sparta. Questo fatto portò
successivamente alla guerra di Troia ragione per
cui il pomo d'oro fu chiamato anche pomo della discordia.
Elena richiama il tipo della nymphe, della giovane
che ha appena compiuto il percorso formativo coronandolo
con giuste nozze. I Dioscuri svolgono, sul versante
maschile, il ruolo che su quello femminile era proprio
di Elena. Infatti anche in questo culto si richiama
la scena del matrimonio spartano: Elena rappresenta
la vergine rapita, mentre i Dioscuri, che nella
mitologia greca compiono il ratto delle Leucippidi,
impersonano lo sposo.
La bellezza di Elena ha naturalmente un ruolo importante
nella storia:
- Nell'Iliade:
L'abbandono di Elena è,
in questo poema, descritto come volontario.
Ma in alcuni punti sembra "affiorare di tanto
in tanto una seconda versione, mai riferita
chiaramente, che presenta la fuga da Sparta
come un ratto violento". Nestore infatti "descrive
la condizione di Elena a Troia come quella di
una prigioniera". La versione di Nestore, la
stessa di Menelao e di molti altri Achei, viene
però attribuita dal poeta a personaggi che sono
interessati a offrire una propria versione degli
eventi, quindi è molto probabile che la verità
risieda nell'abbandono volontario, piuttosto
che nel ratto. Comunque siano andate le cose,
la responsabilità della guerra non viene addossata
ad Elena, anzi "il primo colpevole è Paride,
lo straniero accolto come ospite nella casa
di Menelao e che ha tradito la sua fiducia seducendone
la sposa". L'azione di Paride infatti era considerata
in Grecia a dir poco vergognosa, innanzi tutto
perché si veniva a tradire il legame di amicizia
reciproca (philotes) e poi perché "Paride non
offendeva Menelao soltanto sul piano personale;
ne offuscava anche l'onore". In poche parole
Elena non ha quasi nessuna colpa della guerra
perché "il contrasto che è alle origini della
guerra di Troia pone quindi uno di fronte all'altro
chi ha subito e chi ha recato l'offesa. In questo
ambito Elena non rappresenta una parte in causa,
ma piuttosto l'oggetto del contendere". Oltretutto
Paride, in quanto seduttore di Elena rivela
un animo ingannevole ed è spesso apostrofato
come "occhieggiatore di donne" piuttosto che
come abile guerriero. I personaggi di Elena
e Paride sembrano tuttavia destinati ad incontrarsi
perché entrambi governati da Afrodite e quindi
"sono mossi da una forza incontrollabile che
dispone anche della loro volontà". Abbiamo appena
detto che Elena non era vista nell'Iliade come
causa primaria della guerra, ma "per il solo
fatto di trovarsi a Troia e di essere contesa
fra le due parti Elena costituisce una sciagura
per Priamo e per i Troiani. Essa rappresenta
emblematicamente, al di là della sua volontà,
la causa della guerra. Nel poema Elena
si autodefinisce odiosa, tessitrice di mali
e agghiacciante, ed è consapevole di evocare
fra i Troiani, per il solo fatto di trovarsi
fra di loro, l'immagine della morte. Il personaggio
di Elena appare quindi nell'Iliade bloccato
nel ruolo che le circostanze le impongono. Il
suo destino è interamente legato alla guerra:
tra questa e il personaggio si stabilisce un
rapporto diretto, per cui la guerra si combatte
per Elena e questa a sua volta evoca la guerra
in tutte le manifestazioni più odiose.
- Nell'Odissea:
La guerra è finita, Elena
si trova a Sparta a fianco del marito e la incontriamo
quando Telemaco va in cerca di notizie del padre
proprio alla reggia del sovrano lacedemone.
Entrambi i consorti decidono di narrare a Telemaco
un episodio della guerra di Troia. Elena sceglie
quindi di narrare a Telemaco un episodio nel
quale emergevano anche le sue qualità di sposa
che solidarizza con Menelao ancor prima della
presa di Troia. Menelao invece narra un episodio
diverso, volto a mettere in luce un personaggio
ben diverso: Elena è delineata mentre chiama
ad uno ad uno i guerrieri dentro il cavallo,
cercando di imitare la voce delle loro mogli
e quindi di trarli ad un passo falso, smascherando
l'inganno di Odisseo. Tratto interessante di
questo passo è che "i guerrieri achei sperimentano
in questa occasione la forza seduttiva di un
personaggio che non si esauriva nell'aspetto
esteriore. L'episodio più vicino a quello narrato
da Menelao andrà individuato in quello delle
Sirene".
- Elena nel ciclo epico:
E' interessante
l'incontro di Menelao ed Elena nella notte della
distruzione di Troia. Il fatto ci viene narrato
nella Piccola Iliade di Lesche: Menelao avanzava
verso la sposa determinato a ucciderla, ma di
fronte al seno scoperto della donna lasciava
cadere la spada e si riconciliava a lei.
Un altro argomento è l'anaideia di Elena. L'aidos
è in primo luogo di tipo emozionale, si richiama
in primo luogo alle inclinazioni naturali della
persona, prima che alla sfera razionale. La
donna appare infatti naturalmente incline all'anaideia,
all'adozione cioè di comportamenti contrari
alle norme sociali condivise, soprattutto per
quanto riguarda la posizione nella casa e i
rapporti con lo sposo. Elena quindi, lasciata
sola dal marito, non seppe resistere alla bellezza,
alle parole e ai doni di Paride e si lascia
quindi guidare dal desiderio, peccando di anaideia.
- L'adultera:
Nel V secolo a.C., quando la riflessione tendeva
a concentrarsi sulle responsabilità personali
di Elena, la colpa maggiore che le era addebitata,
l'adulterio, era esaminata in tutte le sue implicazioni,
a prescindere dal ruolo svolto dalle divinità
e dagli altri personaggi:
- In Saffo e Alceo, la colpa dell'eroina
non è più attenuata dall'influenza divina,
anche se essa rimane, ma si cambia il punto
di vista che diventa la passione amorosa.
L'intervento esterno non toglie nulla alla
forza e all'autenticità con la quale è evocata
la nascita della passione. Ma è con la tragedia
che si arriva ad un radicale ripensamento
di tutti gli avvenimenti della guerra di
Troia e del personaggio di Elena.
- Elena nella tragedia di Sofocle "La
richiesta di Elena" (frammenti), i Greci
decidevano di mandare un'ambasceria alla
città con il fine di ottenere pacificamente
la restituzione della donna. L'ambasceria
era formata da Menelao ed Odisseo, sembra
che Elena avesse l'occasione di incontrare
Menelao, si mostrasse già pentita della
decisione di aver seguito Paride e forse,
dopo la mancata restituzione, giungesse
a minacciare il suicidio.
- Gli eventi di Elena, nella tragedia
Agamennone di Eschilo, sono anche sottoposti
ad una critica severa nel tentativo di trovare
una spiegazione soddisfacente all'intervento
divino e quindi alle esigenze di giustizia
che, secondo un orientamento proprio della
tragedia eschilea, devono trovare rispondenze
nel mondo umano. Come già accadeva in Omero,
Paride è il primo responsabile della guerra;
tuttavia Elena non rappresenta più solo
l'oggetto del contendere, avendo deciso
liberamente di abbandonare la casa di Menelao,
essa è pienamente coinvolta nelle responsabilità
della guerra. è interessante notare come
in Eschilo il nome di Elena (Helene) sia
sottoposto ad un gioco etimologico con le
parole "distruttrice di navi" (Helenaus)
"distruttrice di uomini" (Helandros) e "distruttrice
di città" (Heleptolis). Eschilo fa sì che
essa acquisti dei tratti quasi demoniaci,
che la avvicinano alla sorella Clitemnestra.
Da amata sposa si trasforma in rovinosa
compagna, che si abbatte sulla casa di Priamo
come uno spirito vendicatore inviato da
Zeus; assume allora il volto delle Erinni.
Seguendo l'etica eschilea la figura di Elena
viene quindi a rappresentare un piano delle
divinità superiori dell'Olimpo, una sorta
di punizione per la casa di Priamo e per
Paride, conservando però tutti i tratti
di bellezza e attrazione propri del personaggio.
- Elena in Euripide acquista tutta la
sua umanità, giudicata unicamente in rapporto
alle sue responsabilità personali. Nelle
Troiane, dove tutte le donne sono prigioniere
nel campo acheo e attendono di conoscere
la loro sorte, si assiste ad un confronto
serrato tra Elena ed Ecuba. La prima a prendere
la parola è la nostra eroina, che cerca
di discolparsi dalle accuse di aver provocato
la guerra e di adultera: "Innanzi tutto
– osserva Elena - è cosa nota che, per il
solo fatto di aver generato Paride, sia
Ecuba ad aver dato origine ai mali attuali.
Quanto all'accusa maggiore che le veniva
mossa – quella di aver abbandonato Menelao
– osserva che Paride giunse a Sparta <<portando
con sé una non piccola divinità>> e ciò
proprio nel momento in cui Menelao decideva
di lasciarla sola con lo straniero per recarsi
a Creta". Elena cerca quindi di discolparsi
perché le sue azioni sono dovute ad interventi
divini, e non completamente alla sua volontà.
Da notare come nel discorso, Euripide metta
in bocca alla donna la versione omerica
del mito. La risposta di Ecuba riprende
le argomentazioni maggiori del discorso
precedente rivelandone l'infondatezza. Esso
è tutto orientato a vanificare il ruolo
attribuito alle circostanze esterne e a
far emergere in tutta la loro gravità le
responsabilità personali di Elena. Secondo
Ecuba, Elena seguì Paride non perché indotta
da una forza divina, ma perché non seppe
resistere alla bellezza del giovane. è da
notare la riduzione della divinità a semplice
rappresentazione delle inclinazioni naturali
della persona. La divinità non può essere
addotta a giustificare un comportamento
che ha le cause reali nella mente del soggetto.
Le parole di Ecuba riflettono il pensiero
di Euripide, in opposizione a quello omerico
addotto da Elena. Nel proseguimento della
tragedia, scopriamo un personaggio totalmente
nuovo rispetto a quelli precedenti: l'Elena
delle Troiane non è il personaggio che soggiace
alle proprie passioni; preannuncia piuttosto
il tipo della donna abile a mettere a frutto,
con intenzione e impunemente, il fascino
esercitato dalla propria persona. Pur assecondando
le proprie inclinazioni, con intenzione
è accorta nello schierarsi ogni volta dalla
parte di chi può offrirle quanto desidera.
Nella tragedia "Oreste", l'altra in cui
Euripide inserisce il personaggio di Elena,
la parte più importante per la caratterizzazione
del personaggio è il dialogo con Elettra
alla fine del prologo. A questo punto del
dramma Elena vorrebbe recarsi sulla tomba
della sorella appena uccisa, ma ha paura
di incontrare la vendette dei parenti dei
caduti a Troia. Affida quindi una ciocca
di capelli ad una schiava; Elettra, che
è presente alla scena, nota con quanta cura
la donna abbia reciso la chioma, limitandosi
a tagliarne solo le estremità per non deturpare
la bellezza del viso. All'opportunismo manifestato
nelle Troiane si accompagna qui un naturale
disinteresse per i gravi eventi che coinvolgono
gli altri membri della famiglia. Nel proseguimento
del dramma Oreste ed Elettra decidono di
uccidere Elena, ma proprio quando il figlio
di Agamennone sta per compiere l'omicidio
interviene Apollo a salvare l'eroina. L'inserimento
di questo finale da parte di Euripide è
tuttavia un ossequio puramente formale:
l'intervento della divinità appare incongruo
rispetto alla modalità che governa l'azione
nel resto del dramma. Se vi è un autore
in cui vi è una scelta pienamente umana
dei personaggi in campo amoroso, questo
è proprio Euripide, dove gli umani, nei
loro piani, si affidano unicamente alle
loro forze. Date queste premesse Elena non
poteva certo costituire un modello positivo.
- Ne L'Encomio di Elena, Gorgia cerca
di discolpare totalmente l'eroina dall'accusa
di aver provocato la guerra. Dopo aver esaminato
ogni possibilità, il sofista giunge alla
conclusione che il personaggio è totalmente
innocente. Isocrate, pur ammirando il maestro,
lo contraddice in un punto: egli infatti
non ha scritto un encomio, ma bensì una
difesa; egli si proporrà quindi di scrivere
una vera e propria lode: Elena doveva essere
lodata innanzitutto per la sua bellezza.
La bellezza rappresenta qui un bene obiettivo.
Il suo possesso rappresentava un bene prezioso,
sia per i Greci che per i Troiani e meritava
i lutti di una lunga e sanguinosa guerra.
- Nell'Eneide virgiliana, Elena assume
tratti demoniaci: il primo durante la distruzione
di Troia, il secondo durante la discesa
nell'aldilà da parte di Enea. Il personaggio
di Elena è introdotto in un momento di grande
drammaticità. Troia è ormai caduta, Enea
si trova sul tetto della propria casa. Scorge
quasi casualmente la figura di Elena, seduta
presso l'altare all'interno del tempio di
Vesta. A dominare l'episodio non è però
la figura dell'eroina, ma bensì quella dell'eroe
troiano, che rivolge il proprio risentimento
personale a quella che sembra essere l'unica
causa della morte di parenti e amici e della
caduta della città natale. Notevole è la
rappresentazione di Elena come Erinni, che
già abbiamo incontrato nella tragedia di
Eschilo e di Euripide. Gli aspetti demoniaci
del personaggio sono ben riconoscibili nell'episodio
virgiliano. Elena tuttavia non è qui strumento
della giustizia divina, manca di quella
sinistra grandezza che la distingueva nel
dramma più antico; in Virgilio è solo manifestazione
di una forza malefica, portatrice di distruzione
e di morte. Il secondo episodio che vede
protagonista la nostra eroina è narrato
nel sesto canto, quando Enea incontra Deifobo,
il quale gli racconta la propria fine. Elena,
già d'accordo con gli Achei, disarma il
guerriero troiano e lo lascia al suo triste
destino. L'infedeltà della donna non si
limita all'abbandono del letto coniugale,
giunge fino al tradimento e all'assassinio.
Consegnando lo sposo indifeso nelle mani
dei nemici Elena si comporta come una nuova
Clitemnestra.
- Elena in Seneca: Nella tragedia le "Troiane",
Seneca mette a confronto Elena con altri
personaggi del campo troiano, quali Ecuba,
Andromaca e Polissena. Quest'ultima è stata
scelta dai Greci per essere sacrificata,
Elena ha il compito di farle credere di
andare in sposa a Pirro e di agghindarla
con abiti greci per prepararla all'imminente
matrimonio. Affidando ad Elena il compito
di persuadere Polissena, egli raggiungeva
un secondo risultato: quello di offrire
un'ulteriore versione della duplicità del
personaggio, portatore di disgrazie e di
morte anche quando si presenta come promotore
di nozze. L'eroina però, pur portando a
termine il proprio compito, usa dei doppi
sensi per mettere in guardia Polissena,
che tuttavia verrà comunque sacrificata.
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Zeus/SEMELE
Semele era figlia di Cadmo e di Armonia ed amante di
Zeus. Era, gelosa della relazione del suo sposo divino
con Semele, si trasformò in Beroe, nutrice della giovane,
e la convinse a chiedere a Zeus di apparirle come dio
e non come mortale.
Zeus, conscio del pericolo che Semele correva, tentò
di dissuaderla, ma Semele insistette per vederlo in
tutto il suo splendore. Così il dio, che le aveva promesso
di accontentare ogni sua richiesta, si trasformò e Semele
morì folgorata dal fulmine.
Zeus riuscì a salvare il bambino che Semele aveva in
grembo e nascose il piccolo Dioniso nella sua coscia.
Diventato immortale grazie al fuoco divino, Dioniso
discese negli Inferi e portò la madre sull'Olimpo, dove
fu resa immortale con il nome di Tione.
Il nome di Semele appartiene a una lingua non greca
e si riferisce a una dea-terra madre di un figlio divino.
Anche in epoca tarda Dioniso sarà spesso designato con
l'appellativo di concepito nel fuoco o di nato nel fuoco,
con riferimento alla folgore di Zeus.
Il carattere eccezionale della filiazione sembra rispondere
alla preoccupazione di elevare il nuovo dio nella discendenza
da Zeus, preoccupazione forse dovuta all'antagonismo
tra culti di giovani dei alla ricerca di una legittimazione.
Il racconto è inoltre da riferirsi al periodo dell'introduzione
di una concezione patriarcale nel mondo greco per cui
gli dei nati da dee-madri di stampo asiatico vengono
elevati sull'Olimpo in nome di una parentela più o meno
diretta con il grande dio degli Elleni.
La nascita di Dioniso da una donna mortale rende certamente
più suggestiva la sua figura in quanto lo presenta come
un immortale che pur restando tale partecipa dell'umanità.
Egli frequenta continuamente i mortali ai quali infonde
il sentimento della sua presenza reale e non si abbassa
sino a loro, ma piuttosto li innalza sino a sé; tutto
il racconto costituisce inoltre un motivo atto a suscitare
emozioni nelle donne che vedevano il figlio di una come
loro elevato al grado di divinità.
Bacco
Più popolare è il nome di Bacco (un epiteto di Dionisio).
L'appellativo è comune al dio e ai suoi fedeli,
i baccanti. il termine bacchos è inscindibile dal
verbo baccheuein che designa un comportamento particolare,
una sorta di trance religiosa, anche in riferimento
a culti estranei al dionisismo.
Divenuto adulto, Dioniso percorre il mondo insegnando
agli uomini la viticultura e istituendo ovunque
il suo culto, che viene spesso avversato con l'accusa
di seminare disordine e immoralità. Nella stessa
Tebe, sua patria, Dioniso è perseguitato dal re
Penteo, che ne vieta il culto, praticato soprattutto
in orge notturne nelle quali i seguaci e soprattutto
le donne, dette Menadi (cioè "folli"), svolgono
cerimonie sui monti, agitando fiaccole e tirsi in
preda a una eccitazione collettiva nel corso della
quale cercano la comunione con il dio a contatto
con la natura e divorando carni crude di cerbiatti
dilaniati. Ma la forza del dio è irresistibile e
il suo avversario Penteo viene ucciso dalla madre
stessa.
Dioniso non è una divinità indoeuropea: le vicende
della nascita e le forme del culto lo presentano
come un dio mediterraneo della natura e della vegetazione,
dio della vita e della morte, che impone il suo
culto con una potenza terribile, nella quale trovano
sublimazione gli impulsi segreti della psiche umana,
che chiedono una forma periodica di liberazione
perché l'uomo possa attingere la felicità nella
comunione mistica con il dio della natura.
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Zeus/OLIMPIADE
Olimpiade fu una principessa epirota, moglie di Filippo
II di Macedonia e madre di Alessandro Magno. Secondo
diverse leggende, Olimpiade non avrebbe generato Alessandro
con Filippo, che aveva paura di lei e della sua abitudine
di dormire in compagnia di serpenti, ma lo generò con
Zeus. Lo stesso Alessandro era orgoglioso di queste
leggende e preferiva Zeus come padre anziché Filippo.
Secondo la tradizione, Olimpiade da parte di padre discende
da Eracle, la madre con lo stesso nome, era figlia di
Neottolemo e di Andromaca, nipote quindi di Achille.
Ciò formò la base della pretesa di Alessandro di essere
considerato il nuovo Achille.
Olimpiade nacque nel 375 a.C. e sposò nel 359 a.C. a
16 anni, Filippo II, partorendo nel 356 Alessandro III,
il famoso re macedone. Fu molto legata affettivamente
al figlio e questi andò a vivere con lei, dopo che il
padre Filippo nel 338 a.C. l'aveva ripudiata per prendere
come sposa una nobildonna macedone.
Nel 336 a.C. re Filippo viene assassinato da un ufficiale
della sua guardia durante le nozze della figlia Cleopatra
con il re Alessandro I d'Epiro. Secondo il racconto
tradizionale di Plutarco pare che sia Olimpiade che
il figlio Alessandro fossero a conoscenza della congiura.
Dopo la morte del padre Alessandro viene acclamato re
dall'esercito. All'età di 20 anni si impegna da subito
per consolidare il suo potere. Olimpiade collaborò con
il figlio all'eliminazione dei possibili rivali al trono:
furono uccisi circa5 presunti rivali e Olimpiade costrinse
al suicidio la nuova moglie del marito, Euridice.
Quando le città greche si ribellarono, Olimpiade ebbe
contrasti con il figlio per ragioni non chiare; comunque
dopo che nel 335 a.C. aiutò a reprimere la ribellione,
Alessandro allontanò dal potere la madre.
All'epoca della nascita di Alessandro, sia la Macedonia
che l'Epiro sono ritenuti stati semibarbari, alla periferia
settentrionale del mondo greco. Filippo vuole dare al
figlio un'educazione greca e, dopo Leonida e Lisimaco
di Acarnania, sceglie come suo maestro il filosofo greco
Aristotele (nel 343 a.C.), che lo educa insegnandogli
la scienza e l'arte, gli prepara appositamente un'edizione
annotata dell'Iliade. Aristotele resterà legato a re
Alessandro per tutta la vita, sia come amico che come
confidente.
Tra i numerosi aneddoti che riguardano il mito di Alessandro
Magno vi è quello in cui si narra che da giovane - all'età
di dodici o tredici anni riesce a domare da solo il
cavallo Bucefalo, regalatogli dal padre: il modo in
cui doma il cavallo si basa sull'arguzia di avere colto
la paura dell'animale per la propria ombra; Alessandro
lo mette così con il muso rivolto verso il sole prima
di salire sulla sua schiena.
C'è anche un'altra particolare unicità fisica che è
passata alla storia: Alessandro aveva un occhio di colore
azzurro e uno di colore nero.
Nel 340 a.C., a soli sedici anni, durante una spedizione
del padre contro Bisanzio gli viene affidata la reggenza
in Macedonia. Due anni più tardi Alessandro guida la
cavalleria macedone nella battaglia di Cheronea.
Grazie alle sue imprese passerà alla storia come Alessandro
il Grande (o Magno) e verrà considerato come uno dei
più celebri conquistatori e strateghi della storia.
In soli dodici anni di regno onquista l'Impero Persiano,
l'Egitto ed altri territori, spingendosi fino ai territori
oggi occupati da Pakistan, Afghanistan e India settentrionale.
Le sue vittorie sui campo di battaglia accompagnano
la diffusione universale della cultura greca, non come
imposizione bensì come integrazione con gli elementi
culturali dei popoli conquistati. Storicamente si identifica
questo periodo come l'avvio al periodo ellenistico della
storia greca.
Muore nella città di Babilonia il giorno0 giugno (o
forse l'11) dell'anno 323 a.C., forse avvelenato, oppure
per una recidiva della malaria che aveva contratto in
precedenza.
Dopo la morte, l'impero viene suddiviso tra i generali
che lo avevano accompagnato nelle sue conquiste, costituendo
di fatto i regni ellenistici, tra cui quello tolemaico
in Egitto, quello degli Antigonidi in Macedonia e quello
dei Seleucidi in Siria, Asia Minore, e negli altri territori
orientali.
Dopo la morte di Alessandro fu fatto re Filippo Arrideo
(352 a.C. - 317 a.C.), figlio illegittimo di Filippo
II. Si usurparono così i diritti del figlio postumo
di Alessandro Magno, Alessandro IV (323 a.C. - 309 a.C.).
Olimpiade si alleò con Poliperconte e nel 317 a.C. organizzò
una congiura contro Filippo Arrideo; la congiura riuscì
ma Olimpiade fu perseguitata per regicidio e nel 316
a.C. vista l'impossibilità di salvezza, si suicidò.
Aveva 59 anni.
Lo straordinario successo di Alessandro il Conquistatore,
sia in vita ma ancor più dopo la sua morte, ispira una
tradizione letteraria in cui appare come un eroe mitologico,
assimilabile alla figura dell'Achille omerico.
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Zeus/LAMIA
Lamia era figlia di Belo, il re di Libia, ed ebbe la
disgrazia di essere amata da Zeus al quale generò numerosi
figli. Era, gelosa del marito, fece sì che i figli di
Lamia morissero strangolati. Solo Scilla, il mostro
situato sullo stretto di Messina, riuscì a scampare
alla furia di Era. Lamia si nascose in una caverna e
diventò un mostro orribile, geloso delle madri più felici
di lei delle quali spiava i figli per poi rapirli. Alcune
testimonianze aggiungono che Era avesse privato Lamia
del sonno, ma Zeus le concesse il privilegio di potersi
togliere gli occhi ed appoggiarli dentro un vaso per
poter riposare: quando Lamia era priva degli occhi non
era pericolosa. In Libia era chiamata Neith, dea dell'amore
e della battaglia, e anche Anatha e Atena; il suo culto
fu soppresso dagli achei ed essa finì per diventare
uno spauracchio per i bambini. Il suo nome, Lamia, pare
apparentato con Lamyros (ingordo) da laimos (gola),
cioè, per una donna, lasciva, e il suo orribile volto
è la maschera profilattica della gorgone, usata dalle
sacerdotesse durante la celebrazione dei misteri di
cui l'infanticidio era parte integrante. La leggenda
degli occhi di lamia fu probabilmente tratta da una
raffigurazione della dea nell'atto di conferire a un
eroe capacità divinatorie offrendogli un occhio.
Aristofane conferisce a Lamia caratteri ermafroditi
attribuendole un pene e l'attrezzatura sottostante:
E primo fra tutti io ho combattuto proprio col cinghiale
zannuto, cui dagli occhi fungevano terribili sguardi
di Cinna, mentre intorno cento adulatori scellerati
gli leccavano in giro la testa, e aveva la voce di un
torrente che porta devastazione e fetore di foca e coglioni
di Lamia mai lavati… (Aristofane, La Pace).
Lamia poteva anche trasformarsi in animale e donna bellissima,
inoltre poteva presentarsi in numero maggiore di uno
(solitamente tre).
Le lamie si univano alle Empuse quando esse apparivano
nei trivi e insieme cercavano i giovani per berne il
sangue dopo averli sfiniti con i rapporti sessuali.
Un'antica tradizione dei dintorni del Parnaso comprende
una "Lamia del mare", un demone che catturava i giovani
che suonavano il flauto sulla spiaggia a mezzanotte
e a mezzogiorno. Se questi rifiutavano di unirsi in
matrimonio con lei, erano brutalmente uccisi. Probabilmente
questa creatura è erede delle sirene, che seducevano
i marinai col loro canto per privarli d'ogni bene, anch'esse
erano donne alate, ma avevano il volto e il tronco di
donne umane.
Una scultura ellenica, che attualmente si trova al British
Museum, raffigura le Lamie che corrono con un bambino
stretto fra le braccia, del quale probabilmente poi
berranno il sangue; hanno un paio d'ali spiegate e i
lunghi capelli fermati con un monile a forma di teschio.
Lamia rimase, con le medesime connotazioni di divinità
malevola, anche nella cultura romana. Fu presto associata
alla figura della strega, dalla quale rimase inscindibile
anche nel Medioevo e nel Rinascimento: le cause sono
da ricercarsi nel fatto che i delitti erano compiuti
prevalentemente nottetempo e le vittime preferite erano
i bambini (dei quali le streghe cercavano soprattutto
il grasso, per preparare unguenti, e il sangue, che
per la sua purezza poteva far da tramite col demonio).
Un'altra caratteristica che accomuna queste creature
sia alle streghe che ai vampiri è la capacità di trasformarsi
in uccello notturno, per non essere riconosciute quando
entravano nelle case a cercare le loro vittime.
Sia il popolo greco che quello romano manifestavano
atteggiamenti contradditori nei confronti delle donne,
una sorta d'ammirazione/timore: accanto alle capacità
seduttive convivevano enormi potenzialità distruttive.
In Luciano leggiamo: (La Lamia) Non esita a uccidere
se ha bisogno di sangue caldo che fuoriesca a fiotti
da una gola recisa, e se le funebri mense richiedono
visceri palpitanti; così con uno squarcio nel ventre,
estrae i feti da porre sulle are ardenti e non per la
via che la natura richiede (M. Centini, Il Vampirismo,
Xenia, 2000, p. 37).
La simbologia del sangue, presente nell'antica Roma,
non era molto dissimile da quella della Grecia classica.
Pochi erano quelli che conoscevano i segreti per estrarre
il sangue, conservarlo e usarlo nel modo migliore per
ottenerne benefizi: le custodi di quest'arte erano principalmente
donne, capaci di portare alla vita le creature, ma altrettanto
abili a porvi fine. L'Asino d'Oro o le Metamorfosi di
Apuleio reca il resoconto di un certo Aristomene di
una vicenda accaduta al suo amico Socrate:
E, spinta di fianco la testa di Socrate, gli immerge
traverso la clavicola sinistra la spada fino all'elsa,
poi accosta un piccolo otre e raccoglie diligente il
sangue che spicciava senza versarne in terra neppure
una goccia. Son cose queste che ho visto coi miei occhi.
Inoltre la buona Meroe, per portar io credo, alcuna
innovazione nei riti che regolano i sacrifici, introdusse
la destra traverso la ferita e, dopo molto frugare,
ne trasse il cuore del mio povero compagno, mentre dalla
sua gola, squarciata pel violento colpo di spada, più
che voce usciva un incerto gorgoglio, e il fiato sfuggiva
sotto forma di bolle.
Ne L'Arte Poetica di Orazio le Lamie sono descritte
come esseri mostruosi, in grado di ingoiare i bambini
e di restituirli ancora intatti se si squarcia loro
il ventre (l'integrità dei corpi è, però, solo apparente,
infatti all'interno sono svuotati d'ogni umore).
Vampiri al femminile
La letteratura latina annovera anche altri "protovampiri",
ma difficilmente li fa uscire dall'ambito femminile;
Ovidio nei Fasti parla di Striges:
Vi sono ingordi uccelli, non quelli che rubavano
il cibo
dalla bocca di Fineo, ma da essi deriva la loro
razza:
grossa testa, occhi sbarrati, rostri adatti alla
rapina,
penne grigiastre, unghie munite d'uncino;
volano di notte e cercano infanti che non hanno
accanto la nutrice,
li rapiscono dalle loro culle e ne straziano i corpi;
si dice che coi rostri strappino le viscere dei
lattanti,
e bevano il loro sangue sino a riempirsi il gozzo.
Hanno il nome di Strigi: origine di questo appellativo
è il fatto che di notte sogliono stridere orrendamente.
Sia che nascano dunque uccelli, sia che lo diventino
per incantesimo,
e null'altro che siano vecchie tramutate in volatili
da una nenia della Marsica,
vennero al letto di Proca: Proca nato da cinque
giorni,
sarebbe stato una tenera preda per questi uccelli;
con avide lingue succhiano il petto dell'infante,
ma il povero bambino vagisce e chiede aiuto.
(Ovidio, I Fasti, BUR, p. 449).
La letteratura Latina è piena d'esempi di donne,
dai costumi non proprio integerrimi, dedite alla
magia e al vampirismo. Orazio, nel quinto dei suoi
Epodi (Il Profumo della Strega), descrive Canidia,
Sagana, Veia e Folia nell'atto di sacrificare un
fanciullo, alla luce della Luna, con lo scopo di
preparare un beveraggio con i suoi umori; e Properzio,
nelle Elegie, quando parla delle maghe tessale non
usa certo toni rassicuranti.
Queste Streghe Latine, probabilmente, derivano dalle
furie greche: Aletto, Tisifone e Megera, nate dal
sangue sgorgato dall'evirazione d'Urano, avevano
il compito di punire gli spergiuri irrispettosi
della dea-madre terra, che venivano meno al decoro
richiesto nei costumi familiari. Sono vecchie orribili
con la testa di cane e il corpo di colore nero,
e recano sul dorso grandi ali di pipistrello. Era
costume non nominarle mai, oppure erano chiamate
Eumenidi.
Anche le Baccanti o Menadi, nella tragedia di Euripide,
scatenano indomite la loro forza per uccidere Penteo,
che aveva vietato la celebrazione del culto di Bacco:
Noi ci demmo alla fuga ed evitammo di essere dilaniati
dalle Mènadi; ma quelle a mano armata si avventarono
sopra i vitelli al pascolo sull'erba. Ne potevi
vedere una tenere le braccia aperte, una giovenca
florida; mugghiante; e le altre, intanto, dilaniavano
vitelline. Vedevi fianchi e zoccoli biforcuti scagliati
in alto, in basso, penduli dagli abeti e insozzati
di sangue che gocciolava. (…) Poi, librandosi come
uccelli, vanno di corsa nelle vaste piane (…). Come
nemici piombano su Isia ed Eritra, al di qua del
Cicerone, mettendo tutto a sacco; dalle case rapivano
i bambini, e tutto quello che si mettevano in spalla
aderiva senza legacci e non cadeva al suolo nero.
(…) I villici rapinati da loro s'infuriavano, prendevano
le armi: lo spettacolo fu allora impressionante,
sire. Il ferro di quelle lance non s'imporporava;
loro invece, scagliando dalle mani i tirsi, li ferivano,
volgendoli in fuga, loro, donne, quelli ch'erano
uomini (…) (Euripide, Le Baccanti, in Tutte le Tragedie,
Newton & Compton,991, p. 308).
Nei giorni dedicati a Bacco, chi beveva vino assumeva
il sangue del Dio. Anche se il culto era stato vietato,
le baccanti ebbero comunque modo di ottenere sangue.
Con la caduta dell'Impero Romano, le invasioni barbariche
e il forte potere della religione cattolica, non
si fece quasi più menzione di queste creature nella
letteratura. La ricomparsa di questi vampiri al
femminile, nelle opere letterarie, si ebbe nell'età
romantica, come conseguenza del recupero delle tradizioni
classiche e del gusto delle testimonianze lasciate
dalle antiche civiltà (a loro volta conseguenti
all'opera di razionalizzazione dello scibile attuata
dall'Illuminismo).
Empusa rimane la donna morta che ritorna per essere
amata, mentre Lamia conserva le sue caratteristiche
di divinità nefasta, ma ciò che consente la loro
ricomparsa è un mutamento del senso estetico degli
scrittori che sono attratti da un tipo di bellezza
mortifera, sepolcrale, e l'amore s'appropriò della
componente dolorosa come indispensabile per il raggiungimento
dell'estasi.
In Italia sono gli Scapigliati, poeti melanconici,
tristi e destinati ad una morte prematura, a subire
il fascino delle donne vampiro; Emilio Praga (a
sua volta influenzato dai decadenti francesi), con
le sue tre versioni della Dama Elegante, si fa interprete
della visione della donna dalla bellezza ipnotica
e demoniaca, il cui bacio differisce ben poco da
un morso letale.
In America, invece, la vittima delle Empuse è Edgar
Allan Poe, irrimediabilmente attratto da donne pallide
ad un passo dalla tomba; è il caso di Ligeia, che
non si rassegna a "riposare in pace", ma perseguita
fino a far morire la seconda moglie del protagonista
del racconto.
La donna Vampiro appartiene all'ambito del perturbante
in maniera più palese del suo corrispettivo maschile,
incontrarla rappresenta una pericolosa ed irresistibile
agnizione con quanto è rimosso dal punto di vista
sessuale, e l'apice narrativo lo troviamo con Carmilla
di Le Fanu, Clarimonde di Gautier e Aurelia di Hoffman.
Lo storico rumeno Mircea Eliade, col suo Signorina
Cristina realizza uno splendido connubio tra folclore
vampirico e romanzo; è la storia d'amore di una
giovane donna morta da oltre vent'anni e divenuta
vampiro:
Egor tremava, ma non era più uno spasimo di terrore,
bensì l'impazienza di tutto il suo corpo, il suo
struggersi delirante nell'attesa del piacere supremo.
La sua carne si disfaceva impazzita, perché la voluttà
lo soffocava, lo umiliava. La bocca di Christina
aveva il sapore dei frutti di sogno, il gusto di
ogni ebbrezza proibita, maledetta. Neppure nelle
più diaboliche immaginazioni d'amore stillava tanto
veleno, tanta rugiada. Tra le braccia di Christina
Egor sentiva le gioie più empie, unite ad una celeste
dissipazione, una fusione completa e totale. Incesto,
crimine, follia. Amante, sorella, angelo… Tutto
si raccoglieva e si mescolava vicino a quella carne
infuocata e tuttavia senza vita… (Mircea Eliade,
Signorina Christina, Jaka Book,984, p.75).
Anche il cinema ha "dato alla luce" numerose vampire,
di cui la più famosa è Theda Bara: con lei è nato
l'appellativo Vamp, come sinonimo di Donna Fatale.
Scilla e Cariddi
Scilla, la bellissima ninfa figlia di Lamia, fatta
dono dalla natura, di una incredibile grazia, era
solita recarsi presso gli scogli di Zancle, per
passeggiare a piedi nudi sulla spiaggia e fare il
bagno nelle acque limpide del mar Tirreno. Una sera,
mentre era sdraiata sulla sabbia, sentì un rumore
provenire dal mare e notò un'onda dirigersi verso
di lei. Impietrita dalla paura, vide apparire dai
flutti un essere metà uomo e metà pesce dal corpo
azzurro con il volto incorniciato da una folta barba
verde ed i capelli, lunghi sino alle spalle, pieni
di frammenti di alghe. Era un dio marino che un
tempo era stato un pescatore di nome Glauco che
un prodigio aveva trasformato in un essere di natura
divina.
Scilla, terrorizzata alla sua vista perché non capiva
di che tipo di creatura si trattasse, si rifugiò
sulla vetta di un monte che sorgeva nelle vicinanze.
Il dio marino, vista la reazione della ninfa, iniziò
ad urlarle il suo amore e a raccontarle la sua drammatica
storia. Era infatti un tempo Glauco un pescatore
della Beozia e precisamente di Antedone, un uomo
come tutti gli altri, che trascorreva le sue lunghe
giornate a pescare. Un giorno, dopo una pesca più
fortunata del solito, aveva disteso le reti ad asciugare
su un prato adiacente alla spiaggia, ed aveva allineato
i pesci sull'erba per contarli quando, appena furono
a contatto con l'erba, iniziarono a muoversi,
presero vigore, si allinearono in branco come fossero
in acqua e saltellando, fecero ritorno al mare.
Glauco, esterrefatto da tale prodigio, non sapeva
se pensare ad un miracolo o ad uno strano capriccio
di un dio. Scartando però l'ipotesi che un dio potesse
perdere tempo con un umile pescatore come lui, pensò
che il fenomeno dipendesse dall'erba e provò ad
ingoiarne qualche filo. Come l'ebbe mangiata, sentì
un nuovo essere nascere dentro di lui che combatteva
la sua natura umana fino trasformarlo in un essere
attratto irresistibilmente dall'acqua.
Gli dei del mare lo accolsero benevolmente tanto
che pregarono Oceano e Teti di liberarlo dalle ultime
sembianze di natura umana e terrena e di renderlo
un essere divino. Accolta la loro preghiera, Glauco
fu trasformato in un dio e dalla vita in giù fu
mutato in un pesce.
Scilla, dopo aver ascoltato il racconto di Glauco,
noncurante del suo dolore, andò via lasciandolo
solo e disperato. Allora Glauco pensò di recarsi
all'isola di Eea dove sorgeva il palazzo della maga
Circe sperando che potesse fare un sortilegio per
far innamorare Scilla di lui. Circe, dopo che Glauco
ebbe raccontato il suo amore lo ammonì duramente,
ricordandogli che era un dio e pertanto non aveva
bisogno di implorare una donna mortale per farsi
amare e per dimostrargli quanto lui si sbagliasse
a considerarsi sfortunato, gli propose di unirsi
a lei. Ma Glauco si rifiutò di tradire il suo amore
per Scilla e lo fece in modo così appassionato che
Circe, furiosa per essere stata rifiutata a causa
di una mortale, decise di vendicarsi.
Non appena Glauco se ne fu andato, preparò un filtro
e si recò presso la spiaggia di Zancle, dove Scilla
era solita recarsi. Versò il filtro nel mare e ritornò
quindi alla sua dimora. Quando Scilla arrivò, accaldata
dalla grande afa della giornata, decise di immergersi
nelle acque limpide. Ma, dopo essersi bagnata, vide
intorno a se mostruose teste di cane, rabbiose e
ringhianti. Spaventata cercò di scacciarle ma, una
volta fuori dall'acqua, si accorse che quei musi
erano attaccati alle sue gambe tramite un lungo
collo serpentino. Si rese allora conto che sino
alle anche era ancora una ninfa ma dalle anche in
giù spuntavano sei teste feroci di cane, ognuna
con tre file di denti aguzzi.
Fu tale l'orrore che Scilla ebbe di se stessa che
si gettò in mare e prese dimora nella cavità di
uno scoglio vicino alla grotta dove abitava Cariddi
Cariddi, in principio, era una donna, figlia
di Poseidone e Gea, dedita alle rapine e famosa
per la sua voracità. Un giorno rubò ad Eracle
i buoi di Gerione e ne mangiò alcuni. Allora
Zeus la fulminò facendola cadere in mare, dove
la mutò in un mostro simile ad una lampreda,
che formava un vortice marino con la sua immensa
bocca, capace di inghiottire le navi di passaggio.
Pianse Glauco la sorte toccata a Scilla e per sempre
rimase innamorato dell'immagine di grazia e dolcezza
che la ninfa un tempo rappresentava.
Scilla e Cariddi, entrambe spaventosi mostri marini,
erano quindi l'una vicino all'altra a formare quello
che le genti moderne chiamano "Lo Stretto di Messina"
e mentre Cariddi ingoia e rigetta tre volte al giorno
l'acqua del mare creando dei giganteschi vortici,
Scilla attenta alla vita dei naviganti con le sue
sei teste cercando di ghermire altrettanti marinai.
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Zeus/Io
Un giorno Io, sacerdotessa di Era, figlia di Inaco re
di Argo e della ninfa Melia, mentre rientrava alla casa
paterna, fu fermata da Zeus che le dichiarò il suo amore
e le propose di vivere in una casa nel bosco dove nessuno
l'avrebbe molestata dal momento che sarebbe stata sotto
la sua protezione e dove lui sarebbe potuto andare a
trovarla ogni qual volta lo desiderasse. Io, spaventata
da quelle parole, iniziò a fuggire ma Zeus, non volendo
rinunciare a lei, la inseguì sotto forma di nube.
Per sfortuna di Io in quel momento Era, moglie di Zeus,
accortasi dall'Olimpo della strana nube che correva
veloce e conoscendo il suo sposo, dopo averlo cercato
invano nell'Olimpo, capì subito che il prodigio della
nube altro non era che Zeus ed immediatamente intuì
il tradimento.
Zeus, avendo avvertito la presenza di Era e sapendo
che nulla di buono sarebbe accaduto se l'avesse trovato
in quella situazione, trasformò la dolce Io in una candida
giovenca. Il sotterfugio però non ingannò Era che una
volta giunta al cospetto del suo sposo, gli chiese di
donargli l'animale. Zeus era combattuto: negarle il
dono significava ammettere il suo tradimento ma concedergliela
significava condannare Io ad un triste destino. Alla
fine Zeus preferì evitare l'ira della sua sposa e le
consegnò la giovenca.
Non ancora tranquilla Era preferì affidare la custodia
della giovenca ad Argo, gigante dai cento occhi. Da
quel momento iniziò per Io una vita terribile: sotto
forma di giovenca e in ogni momento controllata da Argo,
sia di giorno che di notte, in quanto i suoi cento occhi
che non erano posti tutti sul capo ma in ogni parte
del suo corpo, si riposavano a turno: mentre cinquanta
erano chiusi, gli altri cinquanta vegliavano.
Il tempo scorreva triste per la povera Io, costretta
di giorno a pascolare e ad abbeverarsi presso fiumi
fangosi e di notte ad essere legata con un collare per
non scappare via.
Intanto Zeus che si sentiva colpevole per aver condannato
Io ad un così crudele destino, chiamò Ermes, incaricandolo
di liberare la fanciulla dalla schiavitù a cui Era l'aveva
condannata.
Il giovane dio, presa la bacchetta d'oro che gli antichi
chiamavano caduceo ed il suo leggendario copricapo,
dall'Olimpo volò sulla terra e si presentò ad Argo sotto
le sembianze di un giovane pastore di capre. Ermes iniziò
a suonare uno strumento formato con le canne e la melodia
era tanto armoniosa che lo stesso Argo pregò il pastore
di pascolare le sue capre presso di lui dicendogli che
quello era il miglior pascolo che si potesse trovare
in quelle zone. Ermes, a quel punto si sedette al suo
fianco ed iniziò a suonare delle dolci melodie che inducevano
al sonno chiunque le ascoltasse.
Ma Argo, che riposava con metà dei suoi occhi, non si
addormentava; anzi, chiese ad Ermes come e da chi fosse
stato inventato un tale strumento che procurava suoni
così soavi ed Ermes, iniziò così a raccontare .....
Viveva un tempo sui monti dell'Arcadia, una ninfa
di nome Siringa, seguace del culto di Artemide che
viveva nei boschi cacciando. Tanta era la sua leggiadria
che molti dei cercavano di possederla e tra questi
anche il dio Pan, che iniziò ad inseguirla. Siringa
mentre tentava la fuga per sfuggire al dio, pregò
suo padre, il dio fluviale Ladone, di sottrarla
a quella caccia. Fu così che fu trasformata in una
canna tra un canneto, sotto gli occhi di Pan. Al
dio altro non rimase che prendere alcune canne,
tagliarle e legarle assieme con un legaccio ricavando
in questo modo uno strumento che emetteva una melodia
dolcissima e che da quel momento prese il nome di
Siringa.
Terminato il racconto Ermes si accorse che finalmente
tutti i cento occhi di Argo si erano chiusi, addormentati.
A quel punto lesto lo uccise gettandolo da una rupe
e liberando così la giovane Io.
Ma le peripezie di Io non erano ancora finite, infatti
Era, non potendo sopportare che la sua rivale fosse
libera, decise di mandarle un tafano a tormentarla con
le sue punture al punto da indurla a gettarsi in mare
per riuscire a sfuggirgli. Io dopo aver attraversato
a nuoto il mare che da lei si chiamò Ionio, vagò per
lunghissimo tratto, in Europa ed in Asia ed alla fine
approdò in Egitto.
Si narra che in Egitto Io, riprese le sembianze umane
e generà Epafo, figlio di Zeus. Era tentò ancora di
rovinarle la vita facendole rapire il figlio dai demoni
Cureti, ma dopo molte peripezie, Io riuscì a ritrovarlo
e a vivere serena il resto dei suoi giorni in Egitto,
accanto a suo figlio.
Epafo successivamente divenne re d'Egitto e sposò Menfi
una ninfa del Nilo, in onore della quale fondò l'omonima
città e dalla quale ebbe una figlia, Libia, dalla quale
prese il nome la regione omonima dell'Africa settentrionale.
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