INDICE

- Prefazione editoriale
- Autore Valmiki
- Spiegazione del testo
- Nota
- Introduzione di Swami Venkatesananda

        SRIMAD RAMAYANA
- Bala Kandam  - L'infanzia di Rama
- Ayodhya Kandam  - La vita ad Ayodhya
- Aranya Kandam  - La vita nella foresta
- Kishkindha Kandam  - Il soggiorno a Kishkindha
- Sundara Kandam  - La magnifica impresa
- Yuddha Kandam  - La grande battaglia
- Uttara Kandam  - Dopo l'incoronazione

- Commento

- Glossario

 

MAHARISHI VALMIKI:   RAMAYANA     Edizioni Vidyananda

Titolo originale dell'opera: Valmiki's Ramayana Daily Readings by Siva Pada Renu Swami Venkatesananda.
Traduzione italiana a cura di Pasquale D'Adamo (un devoto dello Swami).

 

 

 

 

 

F O R U M      E S O T E R I C A

   Da occidentale non mi è facile addentrarmi nei meandri delle religioni dell'India, per cui cerco quello che mi interessa in base alle informazioni avute.
   Non essendo incline al misticismo, e trovando immagini forti che  mi interessano, eccomi qui a leggere nel Ramayana di combattimenti aerei, bombardamenti aerei, armi atomiche, missili telecomandati, e tutto questo nel Ramayana scritto non so quanti millenni fa.

   Certo la storia del re Rama avvince, come anche la storia dei cugini del Maha bharata, dove si va subito però al Dronaparva per sapere delle armi nucleari.
   Cerca nel Maha Bharata: users.libero.it/linos/MahA/index.html  
   Sono immagini descritte millenni fa.


Cordiali saluti.



e-mail:  giro.castiglione@gmail.com

 

 

 


PREFAZIONE


Il Ramayana di Maharishi Valmiki è una delle due grandi epiche che formano l'anima della nazione indiana; esso ha lo scopo dichiarato di glorificare il Dharma e inculcare le verità spirituali che dischiudono all'uomo la via della perfezione suprema. Esso rappresenta il vero spirito Indù di stretta e incondizionata aderenza alla Legge della Giustizia e al fedele svolgimento del proprio dovere. Uno degli scopi del Ramayana è quello di proclamare la grandezza di una vita d'azione basata sui principi di giustizia della legge dell'Essere Divino. La vita dell'uomo perfetto descritta nel Ramayana vuole spronare tutti gli uomini a sforzarsi di diventare incarnazioni del Dharma. Il Dharma è l'anima della vita, e una vita senza Dharma non è degna di questo nome.
Tutte le azioni, gli sforzi, i tentativi e le aspirazioni basati sull'adharma, sull'egoismo e l'arroganza dell'individuo, sono condannati a fallire stritolati dalle mani della Legge Divina. Il Ramayana dipinge magnificamente la vittoria del Dharma e la sconfitta finale dell'adharma. Rama e Ravana simboleggiano rispettivamente queste due forze dell'universo. Sri Rama, l'incarnazione di Dio, rappresenta in sé il figlio ideale, il fratello ideale, il marito ideale, il re ideale e l'emblema della Divinità sulla terra.
Swami Sivananda scrisse: "Lo Srimad Ramayana è l'anima stessa dell'India. Gli ideali supremi di ogni indiano sono racchiusi e dipinti in questa sacra Scrittura, che è una guida completa alla realizzazione di Dio. È un libro pieno di morali, che ispira i giovani a sublimi ideali di comportamento e di carattere. Esso contiene lezioni reali per mogli e mariti, per genitori e figli, per fratelli e sorelle. È un libro meraviglioso che contiene l'essenza di tutti i Veda e di tutte le Scritture".
Da sempre il Ramayana ha esercitato una profonda influenza sulle idee, i sentimenti e la coscienza del popolo indiano, fungendo da fonte inesauribile di ispirazione per saggi, santi, artisti e poeti. Per questo è impossibile comprendere l'India senza conoscere il Ramayana.
A partire dal Ramayana di Valmiki, nel corso dei secoli successivi molti grandi santi e poeti sono stati ispirati a riscrivere la storia di Sita e Rama: così sono nati l'Adhyatma Ramayana, il Vasishtha Ramayana, l'Ananda Ramayana e l'Agastya Ramayana in sanscrito; e le versioni vernacolari del Ramayana curate da Tulsidas in hindi, da Kamba in tamil, da Kirtivasa in bengali, da Ezuthachan in malayalam, ecc.
Malgrado la sua insuperata popolarità, o forse proprio per questo, il Ramayana non ci è giunto nella forma originaria datagli da Valmiki, ma a tratti modificato e sfigurato da aggiunte e interpolazioni successive di vario genere. La maggior parte degli studiosi è dell'opinione che l'intero settimo libro (Uttara Kandam) e parte del primo siano aggiunte posteriori.
Tra i libri sacri dell'India, il Ramayana è considerato un Itihasa, una storia epica permeata di mitologia che facendo uso dell'allegoria magnifica delle realtà oggettive (interne o esterne). Lo studio del testo diventa più affascinante, grazie agli elementi mitologici che contiene. La filosofia o i rituali da soli non sono sufficienti. Non si può separare filosofia e mitologia nella religione. Ricordiamo che sono il Ramayana e il Mahabharata che tengono uniti culturalmente milioni di persone come un popolo, malgrado le numerose differenze che sembrano dividerle.
La bellezza del Ramayana è davvero al di là di ogni descrizione, perché è la rivelazione ricevuta da un Rishi, e non il mero lavoro intellettuale di uno scrittore; perciò il suo significato è 'integrale' e va preso globalmente. Infatti nessuna considerazione parziale o unilaterale potrebbe rendergli giustizia. Nessuna traduzione potrà mai rendere la sua bellezza poetica e la musicalità metrica dei versetti originali.
Il poeta-veggente Valmiki ci descrive la vita nella sua totalità: individuale, sociale e spirituale. Nel Ramayana vengono messi insieme amore ed eroismo, ahimsa e kshatriya-dharma. Bhakti e yoga, karma e jnana sono fusi in un tutt'uno.

 

 

 

 


VALMIKI

La grande epica di Valmiki è chiamata in sanscrito Adikavya (il primo poema), perché è il primo lavoro letterario di genuina poesia, e il suo autore è chiamato Adikavi (il primo dei poeti).
Valmiki era un maharishi, un grande veggente della Verità, uno che attraverso lo sforzo personale nella pratica spirituale aveva ottenuto la grazia di Dio. In lui l'occhio divino dell'intuizione era stato aperto e la conoscenza scaturiva dal di dentro. La sua immortale opera letteraria, semplice e nello stesso tempo sublime, è prova evidente del suo stato di realizzazione.
Il grande saggio, però, non apparteneva a un lignaggio di uomini spirituali. Egli era un uomo del popolo che per mantenere la sua famiglia, non trovando di meglio, era diventato un ladro e un predone di strada. Si dice che un giorno Valmiki attaccasse il grande saggio Narada, che si trovava a passare dalle sue parti. Il saggio lo rimproverò per la vita violenta e disonesta che stava conducendo, ma Valmiki si difese dicendo che in qualche modo doveva mantenere la sua famiglia, e che non riuscendo a guadagnarsi da vivere con mezzi leciti, era stato in un certo senso costretto a ricorrere a mezzi illeciti.
Narada gli rispose che questo non giustificava il suo comportamento e che lui personalmente avrebbe dovuto pagare per i grandi peccati che commetteva, e non i suoi familiari, per i quali diceva di rubare. Fortemente scosso dalle parole del saggio, Valmiki si precipitò a casa e chiese alla moglie, ai figli e agli anziani genitori se erano pronti a rispondere karmicamente per i suoi modi illeciti di sostenere la famiglia, e a condividere quindi le conseguenze dei suoi misfatti. Essi risposero che era suo dovere mantenerli, ma che a loro non interessava quali mezzi usasse allo scopo. Insomma, essi non volevano avere niente a che fare con i suoi peccati e le giuste punizioni che avrebbe dovuto subire a causa delle sue malefatte.
Questo duro scontro con la realtà aprì gli occhi di Valmiki, che tornò subito da Narada e lo supplicò di dargli un mezzo di redenzione. Il saggio celeste ebbe pietà del ladrone, e lo iniziò alla ripetizione della parola sacra 'Rama'; ma quell'uomo rustico riuscì a pronunciare la parola sacra solo nella sua forma inversa di 'Mara'. Tuttavia il saggio lo incoraggiò a continuare la ripetizione, anche in quella forma invertita. Nel corso del tempo, la ripetizione continua 'mara mara mara' divenne 'Rama Rama Rama'.
Questo trasformò la sua mente. Il cambiamento avvenne in lui in maniera spontanea e immediata, come se si fosse svegliato da un brutto sogno. Egli fu assorbito così profondamente nella ripetizione del sacro mantra che presto dimenticò ogni coscienza del corpo. Sintonizzandosi con il mantra, egli entrò dentro e s'immerse nella sorgente dell'eterna beatitudine. Seduto a meditare su quella Realtà, rimase totalmente assorto in sé. Col tempo delle formiche costruirono sopra e intorno a lui un formicaio, e ricoprirono il suo corpo; ma il saggio, completamente assorto in samadhi, non ne fu consapevole. Egli rimase immerso in samadhi dentro il formicaio per moltissimo tempo. Da qui viene il suo nome Valmiki, che significa 'colui che divenne un saggio dentro un formicaio (valmika)'.
Sri Rama è la personificazione del suono mistico 'Rama'. La realizzazione spirituale ottenuta attraverso la ripetizione incessante del mantra 'Rama' fece vedere intuitivamente a Maharishi Valmiki l'intera storia di Sri Rama. E quello che lui vide lo trascrisse in bellissimi versi nel sacro poema che chiamò Ramayana (l'epopea di Rama).

 

 

 

 


ADHYATMA RAMAYANA

Il conflitto tra Rama e Ravana non è tanto tra due razze quanto tra due civiltà e due modi di vivere. Uno degli scopi del poema è quello di mostrare che il vero progresso dell'umanità sta nella sua evoluzione morale e spirituale, e non nel suo sviluppo scientifico e materiale. Il vero progresso dell'uomo è interno, non esterno. Esternamente egli potrebbe condurre una vita semplice ed essenziale, e nello stesso tempo vivere ad altissimi livelli morali e spirituali.
Viceversa l'uomo potrebbe essere molto evoluto scientificamente, ricco e opulento materialmente, e tuttavia rimanere un essere primitivo nel campo morale e spirituale, dedito all'alcool, alla violenza e alla sensualità. I rakshasa o i demoni del Ramayana sono esempi di questo tipo, e Valmiki mostra le differenze tra le civiltà di Lanka, Kishkindha e Ayodhya, sottolineando che
il vero progresso non è materiale, ma morale. La vera civiltà non dev'essere giudicata dalle sue conquiste materiali, ma dalle sue realizzazioni spirituali.
Le due forze del bene e del male sono presenti dappertutto, dentro e fuori di noi. Per questo in molte Scritture sacre (come la Gita e il Chandi) troviamo la nota costante della battaglia cruenta tra le forze opposte del bene e del male, a simboleggiare la battaglia in atto in ogni sadhaka tra le abitudini, le forze, le tendenze e le qualità divine contro quelle demoniache. Il Ramayana dà alle forze benigne il nome di Rishi, sempre devoti alla meditazione, alle austerità e al sacrificio. Le forze maligne sono chiamate rakshasa o demoni, sempre dediti alla violenza e alla sopraffazione. I malvagi sono prepotenti e intraprendenti, e sembrano avere facilmente successo. I virtuosi sono prudenti e diffidenti, e sembrano continuamente in difficoltà. Ma il Ramayana insegna che attraverso un sentiero apparentemente facile e prosperoso i malvagi si avviano verso la distruzione; mentre i virtuosi subiscono continuamente prove e tribolazioni, che hanno lo scopo di mettere alla prova la sincerità del loro carattere. Alla fine essi trionfano sempre.
La storia del Ramayana è una verità eterna in atto nelle menti di tutte le anime che si sforzano di raggiungere l'unione spirituale. In questo modo il Ramayana è rappresentato perennemente da e in tutti i jivatman che anelano alla riunione con l'Amato. La gloria del Ramayana consiste nel proiettare personalità oggettive che incarnano le varie forze al lavoro nell'uomo. Così Rama rappresenta il Paramatman, Dio, l'Assoluto trascendente. Sita rappresenta il jivatman, l'anima individuale, che è una scintilla del Divino. Quello che Sita è per Rama, il jivatman è per il Paramatman. Come Sita è eternamente unita a Rama, così l'anima individuale ha il suo essere in Dio.
Re Dasaratha dev'essere visto come l'uomo comune del mondo posto in un ambiente di ricchezza e di piacere, e che cade vittima delle istigazioni della sua mente maligna (Manthara) affascinata dagli oggetti dei sensi (Kaikeyi).
Il corpo di ogni essere umano è Lanka. Il jivatman che è racchiuso nel corpo, o prigioniero nell'isola di Lanka, ha sempre desiderato vivere unito a Rama, al Paramatman. Ma i demoni vogliono impedirlo. I demoni rappresentano certi aspetti (guna) del carattere. Questi guna impediscono al jivatman, Sita, prigioniero nel corpo, di riunirsi con il Paramatman. Ma l'anima prigioniera che cerca di riunirsi con il suo Signore riceve la visita del Guru, Hanuman, che le mostra l'anello del Signore (cioè, la conoscenza suprema che distrugge ogni illusione). In questo modo Sita trova la strada per riunirsi con Sri Rama, l'anima individuale si riunisce con Dio.
Il Signore s'incarnò come Rama, Bharata, Lakshmana e Satrughna. Sebbene in quattro forme differenti, in realtà essi erano Uno. Similmente la Realtà Cosmica si rivela come Shiva, Vishnu, Shakti, ecc. La conoscenza di uno di questi aspetti equivale alla conoscenza dell'unica Realtà Assoluta.
Nella natura e nell'uomo ci sono tre disposizioni o qualità chiamate guna: sattva, rajas e tamas. Sattva promuove la purezza, rajas risveglia la passione e
la lussuria, mentre tamas favorisce sonno, apatia e inerzia. Dei tre fratelli di Lanka, Vibhishana è fatto di sattva; e infatti si oppone alle malvagità di Ravana. Kumbhakarna è fatto di tamas; e perciò non fa altro che dormire e mangiare in maniera sregolata. Ravana incarna il rajas, e rappresenta l'ego o la mente libidinosa con i cinque organi di percezione e i cinque organi d'azione; questi dieci organi sono allegoricamente rappresentati dalle sue dieci teste.
L'ego, la mente malvagia (Ravana), cerca di separare l'anima individuale (Sita) dalla sua eterna unione con il Paramatman (Rama), e strappandola dal suo Amato fa di tutto per stabilire con lei una relazione impossibile. Mentre l'anima Sita ignora le proposte maligne della mente Ravana, e si angustia anelando alla riunione con Dio (Rama).
Il guru o il maestro spirituale è il più grande devoto di Dio; è lui che agisce da tramite per riunire il jivatman con il Paramatman. Egli è un grandissimo devoto, puro, fedele, leale ed eccezionale da tutti i punti di vista. A lui Dio affida il compito di andare in cerca dell'anima rapita dall'ego e nascosta nei meandri del samsara, a lui è affidato il compito di consolarla e mostrarle l'anello dell'Amato, assicurandole che presto sarà riunita al suo Signore. Hanuman è la personificazione del guru e del più grande devoto di Dio.
Prima di lasciare questo mondo, il Signore Rama si riunì con tutti i suoi devoti perché, come disse a Sugriva, Lui e i suoi devoti sono inseparabilmente Uno. Egli non sarebbe mai entrato nella sua dimora suprema (Parama Padam) lasciando dietro i suoi devoti.
Anche Hanuman era andato per immergersi definitivamente nel suo Signore, ma Rama gli affidò una diversa funzione cosmica. Egli doveva essere un Ciranjivi, un essere immortale sempre presente sulla terra. Come incarnazione del guru, Hanuman non potrà mai lasciare questo mondo. Dovunque c'è Rama e Sita, dovunque si studiano e si vivono gli ideali del Ramayana, la sua benevola presenza è certa, per dare forza e conforto all'aspirante.
Vibhishana pure era andato ad Ayodhya, pronto ad unirsi al suo Ideale, ma anche a lui Rama assegnò un compito diverso. Egli dovrà continuare a regnare sul mondo materiale (Lanka) fino a quando ci saranno aspiranti spirituali in cerca di salvezza. Fino ad allora Sattva-guna continuerà ad assolvere il suo sacro dovere di purificatore.
Editrice Vidyananda

Il Ramayana di Valmiki è diviso in sette libri:
PRIMO - Bala Kandam - L'infanzia di Rama
SECONDO - Ayodhya Kandam - La vita ad Ayodhya
TERZO - Aranya Kandam - La vita nella foresta
QUARTO - Kishkindha Kandam - Il soggiorno a Kishkindha
QUINTO - Sundara Kandam - La magnifica impresa
SESTO - Yuddha Kandam - La grande battaglia
SETTIMO - Uttara Kandam - Dopo l'incoronazione

 

 

 

 


NOTA

Nel presentare questa versione del Ramayana di Valmiki curata in inglese da Swami Venkatesananda, bisogna precisare alcune cose per rendere giustizia all'impostazione originaria del libro, dalla quale ci siamo lievemente distaccati in pochi punti marginali sia per motivi pratici di stampa sia per venire maggiormente incontro al lettore non specializzato. Lo schema elaborato dallo Swami segue lo stile di un diario, con letture quotidiane per un totale di 366 pagine, così da coprire la lettura dell'intero libro nel corso di un anno. Noi abbiamo mantenuto la stessa impostazione della pagina, tralasciando però di citare il giorno e il mese dell'anno. Sulla pagina in alto è riportato da un lato il numero di pagina e dall'altro il numero del libro (kandam) e il numero del capitolo o dei capitoli condensati in quella pagina.
Ogni pagina è la traduzione, necessariamente condensata, di uno o più capitoli di ciascuno dei sette libri che compongono il testo originale sanscrito. Di conseguenza la lunghezza delle pagine non è omogenea.
Pur non essendo sempre letterale, la traduzione dello Swami si sforza di seguire il più possibile l'originale sanscrito, mantenendo molto spesso l'uso delle stesse parole, dello stesso stile e, qualche volta, delle stesse ripetizioni del testo originale.
Dal capitolo tradotto in ogni pagina, lo Swami aveva scelto dei versetti particolarmente significativi, ponendoli all'inizio della pagina in alto, scritti in sanscrito traslitterato. La traduzione dei versetti scelti era poi sottolineata nel testo della pagina. Alcune note incluse dallo Swami sono state omesse.
Alla fine del volume è stato riportato un glossario, il cui scopo è quello di far conoscere chi sono i vari personaggi. Sarebbe bene stabilire con essi una certa familiarità anche prima dello studio del testo.

Per facilitare la lettura dei nomi e dei termini sanscriti al lettore non specializzato, abbiamo usato una traslitterazione che venisse incontro il più possibile alla lingua italiana senza però alterare l'originale.
Abbiamo omesso gli accenti lunghi sulle vocali, e i puntini sotto le consonanti linguali.
La r vocalica è stata a volte tradotta ri.
La s palatale è stata lasciata semplicemente s.
La s cerebrale sibilante è stata sempre trascritta come sh.
Ricordiamo che la lettera c si legge sempre dolce, come l'italiano cena; ad esempio, Marica si legge Maricia. Similmente, la lettera g si legge sempre dura come ghiro; ad esempio, Gita si legge Ghita.

 

 

 

 


INTRODUZIONE
di Swami Venkatesananda

Prima di cominciare la lettura del testo, penso sia opportuno fare alcune considerazioni riguardo la storia e la geografia del Ramayana.
Nel libro 'Towards Acquarius' Vera W. Reid dice quanto segue riguardo le date: "Il Ramayana, che immortalò il nome di Rama, fu scritto nella sua forma attuale nel quarto secolo a.C. Tuttavia non c'è dubbio che si trattava di un'epica indiana insegnata e trasmessa oralmente già centinaia o forse migliaia d'anni prima. Così esso contiene preziose testimonianze di vita sociale e religiosa di periodi di tempo per i quali non esistono testimonianze storiche. Esso indica anche che Rama era un personaggio veramente esistito e non, come si pensava, un personaggio mitologico. Nel poema vengono infatti descritte in maniera dettagliata le posizioni in cui si trovavano i pianeti al momento della nascita di Rama. Questo costituisce il primo oroscopo personale esistente e stabilisce il fatto che la persona per la quale fu fatto nacque prima del 3.102 a.C.- probabilmente intorno al 5.000 a.C.".
Poteva trattarsi di un'epica indiana, ma penso che quasi sicuramente l'India attuale non è il posto in cui visse Rama. Certamente la geografia della terra era molto diversa settemila o diecimila anni fa. Gli stessi scienziati hanno varie teorie riguardo la deriva dei continenti, i flussi delle maree, la grande alluvione, ecc. Io azzardo persino l'ipotesi che tali cataclismi siano stati causati da una grande guerra in cui furono usate, molto liberamente, potentissime armi atomiche. Sono convinto che almeno il territorio chiamato Lanka, sul quale ebbe luogo la grande guerra, fu sommerso dalla grande alluvione che seguì l'abuso di armi nucleari. L'attuale Sri Lanka non è certamente la Lanka del Ramayana.
Il fatto che il Ramayana sia in sanscrito non giustifica l'affermazione che sia indiano. Il sanscrito giunse in India insieme agli Ariani, che emigrarono dal Circolo Polare Artico attraverso l'Asia centrale e occidentale. Il Ramayana potrebbe fare benissimo parte della storia degli Ariani durante il loro periodo di migrazione.
Penso che le armi usate fossero indubbiamente nucleari, se non qualcosa di peggio che la scienza moderna deve ancora scoprire. È interessante notare che le armi erano prodotte da 'saggi', ma non usate da essi; anche oggi lo scienziato accademico progetta le armi che useranno gli uomini delle forze armate.
I 'demoni' non erano particolari esseri sovrumani o subumani. Ritengo che la parola 'demone' non abbia maggiore significato della parola 'nemico' usata in guerra. Ciascun lato chiama l'altro 'nemico'.
Uno studio approfondito del testo originale ci incoraggia a pensare che le forze di Rama, i vanara, non erano costituite da scimmie, orsi e simili creature, ma che tali nomignoli indicassero piuttosto i nomi di certe tribù montanare.
È possibile che alcune storie, da cui sembra che essi fossero di natura subumana, siano interpolazioni fatte da un poeta successivo che, con la sua vena, ha aggiunto umore e giochi di parole al racconto, per renderlo più interessante.
Ho inteso invariabilmente 'volare' per significare prendere un velivolo; come ai nostri giorni diciamo: 'Il Signor.... è volato in Giappone'. Le descrizioni suggeriscono diversi tipi di velivoli allora in uso.
Il Ramayana è indubbiamente preistorico. Allora perché dovremmo studiarlo? Mettere da parte il Ramayana considerandolo un mito o la fantasia di un poeta, significherebbe gettare via un tesoro. D'altra parte considerarlo solo una Scrittura da venerare e leggere con devozione, significherebbe rimanere ciechi al tesoro.
Che il Ramayana - almeno la versione originale di Valmiki - sia un semplice documento storico non può essere messo in dubbio. Possono esserci delle esagerazioni, ma c'è molta esagerazione anche nei giornali. Nonostante la narrazione veli le identità tribali degli eroi, si tende a parteggiare e a identificarsi con l'uno o con l'altro, indulgendo in giudizi - tutte cose che inevitabilmente generano violenza nel nostro cuore.
Come documento storico è una semplice registrazione di eventi. Ma il narratore non sa fare a meno di razionalizzare le azioni dell'eroe e del villano, insinuandovi motivi. Il moderno psicologo fa questo continuamente. Quest'analisi però esiste solo nella mente dell'analista, e potrebbe non avere alcuna base. "Perché Rama ha fatto questo, o Ravana ha fatto quello?". La sola risposta è: "Rama ha fatto questo!".
Letto così, il Ramayana è ancora lontano da voi e state trattando Rama, Ravana e gli altri come oggetti del vostro studio psicanalitico. Invece la saggezza risiede nello studiare il testo in maniera che sia assimilato, in modo che diventi parte di voi, e allora il tesoro sarà vostro.
Studiate il Ramayana senza pregiudizi, e allora sarete capaci d'assimilarlo. Allora il Ramayana stesso agirà, e la sua azione, priva d'interesse e volontà personale, sarà non-violenta. Installate Rama sul trono del vostro cuore, senza giudicarlo (né come Dio né altro). Allora Rama stesso agirà dall'interno di voi stessi.
Quando il Ramayana viene studiato come sacra Scrittura, si fa esperienza di un sentimento diverso: poiché le caratteristiche razziali o regionali dei personaggi sono mascherate, 'vediamo' nella Scrittura uno specchio nel quale si riflettono il nostro cuore e la nostra mente. Rama allora diventa il Divino nel nostro cuore. Sita è il simbolo di ogni grande passione (la nostra fede, ideologia, ecc.), e Ravana è l'aggregato dei (dieci) sensi. Si può trarre da questo tutta la saggezza che siamo pronti a derivarne!
Che Dio vi benedica.
Swami Venkatesananda

 

 

 

 


MAHARISHI VALMIKI

SRIMAD RAMAYANA



Libro primo: BALA KANDAM - L'infanzia di Rama

Valmiki chiese al grande saggio Narada:
"C'è qualcuno in questo mondo che è di natura gentile, potente, giusto, risoluto, istruito, abile nell'azione, veritiero nel parlare, esemplare nella condotta, dedito al benessere di tutte le creature, capace, piacevole nell'aspetto, autocontrollato, che ha vinto la collera, risplendente e libero dalla gelosia, e del quale anche gli dèi hanno paura quand'è adirato?".
Felicissimo, dopo avere magnificato le glorie del Signore Rama, che era la persona che rispondeva alla descrizione implicita nella domanda di Valmiki, il saggio Narada gli narrò brevemente l'intero Ramayana:
"Rama è pari al Signore Vishnu! Nella sua natura egli è come l'oceano, l'Himalaya, la Madre Terra, il dio della prosperità e l'incarnazione del Dharma". Quindi Narada raccontò la storia di Sri Rama.
Dopo la narrazione Narada andò per la sua strada. Mentre Valmiki, accompagnato dal discepolo Bharadvaja, andò verso il fiume Tamasa per fare le abluzioni e il bagno di mezzogiorno. Fu allora che vide un cacciatore uccidere crudelmente una gru maschio che giocava con la sua compagna, e udì il lamento straziante della femmina.
Preso dalla compassione e adirato per la crudeltà del cacciatore, Valmiki pronunciò una maledizione: "Per questo peccato, perderai la tua pace mentale per innumerevoli anni".
Riprendendosi prontamente, Valmiki si pentì della maledizione (che gli era uscita dalle labbra sotto forma di un verso espresso in un metro incantevole), e l'annullò dicendo: "Sarà un verso e non una maledizione". Eppure, il mistero che persino lui era potuto andare in collera, rischiando di perdere i meriti del suo ascetismo, l'affascinava.
Mentre continuava a pensarci ritornò nel suo eremitaggio, dove ebbe la visione del divino Brahma, il Creatore. Valmiki Lo adorò.
Conoscendo lo stato mentale dell'asceta, Brahma gli disse: "Il metro nel quale hai pronunciato quelle parole, o Valmiki, ti porterà grandi benedizioni. Canta con lo stesso metro la gloria e la storia di Sri Rama; sviluppa ciò che Narada ti ha già raccontato. Tutti i dettagli riguardanti la storia di Rama saranno svelati alla tua visione; nulla di ciò che esprimerai sarà falso. La tua composizione sarà cantata finché splenderanno il sole e la luna".
Dopo averlo benedetto, il Signore Brahma ritornò nel proprio regno. Subito dopo Valmiki cominciò a comporre l'epica immortale - il Ramayana - nello stesso stile in cui aveva pronunciato il suo primo verso rivolto al cacciatore.
Valmiki entrò in meditazione profonda, e nello stato di supercoscienza vide realmente tutto ciò che era avvenuto nel passato, così chiaramente come avrebbe visto un frutto nel palmo della sua mano. L'intera storia si palesò alla sua coscienza in ogni dettaglio, compreso ciò che i vari personaggi avevano detto o pensato, e come ridevano o si comportavano.
La narrazione fluì dalle sue labbra sotto forma di un dolce poema, e sebbene il suo tema centrale sia l'esposizione dettagliata del Dharma e del moksha (liberazione), tratta anche della prosperità (artha) e del piacere (kama), e incanta la mente tanto quanto illumina l'anima. La storia che gli si rivelò andava dalla nascita all'incoronazione di Rama, fino al suo regnare come monarca; e consisteva di ventiquattromila versi.
Ora Valmiki si stava chiedendo: "Chi è quell'uomo intelligente, dotato di memoria quasi sovrumana, che imparerà l'intero poema a memoria e lo trasmetterà ai posteri?". In quell'istante entrarono Lava e Kusa, che s'inchinarono davanti a lui. Essi erano i figli di Rama e Sita; ed erano nati nello stesso eremo di Valmiki dopo che Sita, bandita dalla corte di Rama, vi aveva preso rifugio. E a Kusa e Lava, che erano i suoi migliori discepoli, Valmiki affidò il poema epico - l'intero Ramayana, che comprende la grande storia di Sita - chiamandolo Paulastya Vadham, poiché tratta della vittoria su Ravana o Paulastya.
I due giovanetti memorizzarono presto l'intera epica. Avevano delle voci melodiose ed erano esperti di musica. Nel loro aspetto erano come immagini di Sri Rama. Un giorno recitarono l'epica in un'assemblea di saggi e santi, che rimasero incantati dalla musica e rapiti dalla sublimità dell'epica stessa. Essi proclamarono che il racconto di Valmiki aveva immortalato la storia di Rama, che era così vivida che ascoltarla era come riviverla. Inoltre i saggi premiarono i due ragazzi con doni adeguati.
Incoraggiati, i due giovani si misero a viaggiare, narrando la storia divina ovunque andassero. Un giorno giunsero ad Ayodhya, la capitale del Kosala, dove regnava Rama. Anche qui furono accolti calorosamente dalla gente. La loro fama giunse alle orecchie di Rama, che li invitò a palazzo e li ricevette con gli onori dovuti agli asceti e ai saggi. Quindi disse ai suoi fratelli: "Ascoltate attentamente il poema epico che questi due giovani s'apprestano a cantare".
Allora, seguendo l'ordine di Sri Rama, i due ragazzi cominciarono a cantare la storia nello stile che si conviene alla dignità del poema. Lo stesso Rama era tra il pubblico e presto la sua mente fu presa dalla narrazione.
Kusa e Lava dissero:
La storia sublime che stiamo per narrare è quella dei discendenti del grande re Ikshvaku, tra i cui antenati c'era il famoso Sagara. Essa è conosciuta come Ramayana. Ascoltate senza pregiudizio, mentre raccontiamo la storia fin dall'inizio.
Sulle rive del sacro fiume Sarayu c'è un potente regno chiamato Kosala. La sua capitale è Ayodhya, città costruita dallo stesso Vaivasvata Manu, il primo regnante della terra nell'attuale ciclo cosmico. Quest'immensa città si estende per dodici yojana (oltre 150 km) in lunghezza e tre yojana (oltre 38 km) in larghezza. È una città potente e prosperosa, ben progettata e circondata da un fossato invalicabile. Vi sono ambasciate di re che onorano l'imperatore, e mercanti provenienti da molti paesi del mondo.
Le sue strade sono larghe e pulite, e il suo perfetto sistema idrico fornisce acqua dolce e buona a tutti gli abitanti. Ci sono edifici di sette piani decorati con pietre preziose, e la città risplende come un corpo celeste. Inoltre essa è protetta da ogni lato da guerrieri potenti e fedeli che la rendono ancor più inespugnabile.
I cittadini che vivono in questa magnifica città sono felici, devoti alla giustizia, istruiti, saggi, sinceri, contenti dei beni che hanno e perciò liberi dall'avarizia. In questa città nessuno è povero o indigente, nessuno è ignorante o crudele. Tutti conducono una vita ben regolata, fatta di devozione e carità. Ognuno ha fede in Dio e nelle sacre Scritture, e ciascun membro delle comunità dei due-volte-nati (dvija) è ben istruito nelle tradizioni sacre. Ottusaggine e meschinità sono sconosciute in questa città. I brahmana si dedicano devotamente allo studio dei testi sacri, ad una vita autocontrollata libera dal desiderio e dall'odio, e alla promozione della giustizia nel mondo. Mentre coloro che appartengono alle altre tre comunità
(i regnanti e i guerrieri, gli agricoltori e i commercianti, e i servi del popolo) seguono la direzione dei brahmana.
In questo regno e in questa città regnava il famoso re Dasaratha, che era istruito nei Veda, ed era tanto potente quanto saggio. Egli era veramente un saggio reale; un saggio a cui era capitato d'occupare un trono. Conduceva una vita austera, con i sensi e la mente sotto il suo pieno controllo. Dalla capitale Ayodhya (dal nome significativo, che vuol dire invincibile), resa invulnerabile dalle sue porte possenti e risplendente con le sue bellissime case abitate da migliaia di persone, il signore del mondo - Dasaratha - governava il regno come Indra governa il cielo.
Re Dasaratha aveva otto ministri. Vasishtha e Vamadeva erano i suoi precettori; e aveva anche altri consiglieri.
I ministri possedevano nobili qualità di statisti: erano ricchi e modesti, potenti e autocontrollati, maestosi e sinceri. Erano cortesi e avevano sempre il sorriso sulle labbra. Erano severi, ma non andavano mai in collera neanche se venivano provocati. Avevano tatto, ma non deviavano mai dal sentiero della verità. Erano giusti, e non esitavano a punire i colpevoli anche quando si fosse trattato dei propri figli. Mentre non perseguitavano neanche un nemico, se non era colpevole.
Si preoccupavano che i forzieri dello stato fossero pieni, ma per raggiungere tale scopo non usavano mezzi ingiusti. Quando emanavano una sentenza, prendevano sempre in considerazione la debolezza o la forza del colpevole. La loro condotta aveva l'approvazione dei precettori. Erano famosi e potenti, e la reputazione della loro saggezza e della loro abilità di governo giungeva fino in terre straniere.
Sebbene il re fosse giusto e desiderasse tanto avere un figlio ed erede al trono, non aveva ancora avuto questa benedizione. Perciò un giorno disse tra sé: "Perché non dovrei compiere il sacrificio-del-cavallo per ottenere la benedizione di un figlio?". Quindi chiamò immediatamente a consiglio i suoi precettori e i sacerdoti.
Il re disse: "Nonostante goda di tutte le benedizioni di questo mondo, non ho la fortuna di guardare il volto di un figlio, e questo mi rattrista. Per ottenere questa benedizione, penso che dovrei compiere il sacrificio-del-cavallo. Vi prego, disponete affinché ciò sia possibile!".
I precettori approvarono l'idea; e consigliarono di liberare un buon cavallo e di assicurarne l'incolumità. Quindi chiesero che per il rito sacro si preparasse il terreno sulla riva nord del fiume Sarayu.
Il re decretò che tutto questo fosse fatto immediatamente. Dopo avere affidato il cavallo alle cure di un nobile principe, si assicurò che i riti preliminari relativi al sacrificio fossero compiuti a dovere dai sacerdoti, perché non ci fossero pecche nella sua conclusione; altrimenti l'esecutore del rito avrebbe perso la sua prosperità. I ministri e i sacerdoti diedero subito inizio ai compiti che avevano ricevuto.
Infine il re annunciò il suo proposito alle mogli, e concluse dicendo loro: "Sottoponetevi alla necessaria consacrazione insieme a me". Quando udirono questo, i loro volti sbocciarono come i fiori di loto al termine della stagione invernale.
Il ministro Sumantra disse al re:
"La seguente storia fu originariamente attribuita al saggio Sanatkumara, che ti profetizzò la nascita di quattro figli. La sua profezia continuava dicendo:
"Il saggio Kasyapa ha un figlio chiamato Vibhandaka, che avrà un figlio di nome Rshyasringa. Questi vivrà sempre nella foresta, dedito al servizio e alla sacra e sola compagnia di suo padre.
"Perciò Rshyasringa praticherà il brahmacharya (celibato) sia nel suo aspetto di continenza fisica che in quello di trasformazione spirituale di tutto il suo essere. Non avendo mai posto gli occhi su persone del sesso opposto, possiederà l'innocenza dell'ignoranza.
"In quello stesso periodo, il potente Romapada sarà re di Anga, e il suo regno soffrirà gli stenti di una forte siccità causata dal karma del re e dei suoi sudditi.
"Quindi il re chiederà consiglio ai dotti brahmana, che proferiranno l'unica soluzione alla crisi: "Se farai venire il giovane saggio Rshyasringa nel tuo regno e gli darai in sposa tua figlia adottiva Shanta, gli dèi saranno compiaciuti e invieranno una pioggia abbondante".
"Ma chi avrebbe potuto indurre il potente saggio ad allontanarsi da suo padre?
"Il re affiderà il compito ai brahmana. Mentre il sacerdote di famiglia gli suggerirà: "Impiega allo scopo le tue cortigiane più graziose".
"Il re acconsentirà, e un gruppo delle più belle damigelle si recherà nella foresta dove vivrà il saggio. Notandole fuori dell'eremitaggio, Rshyasringa le inviterà ad entrare e tributerà loro gli onori che si riservano agli ospiti.
"Esse a loro volta gli offriranno della frutta, ma si congederanno presto da lui, per paura d'incorrere nel disappunto di suo padre.
"La loro compagnia, il loro contatto e il loro tenero abbraccio, farà sorgere nel giovane innocente il desiderio di stare ancora in loro compagnia. Presto egli lascerà l'eremitaggio e seguirà le tracce delle cortigiane. Ed ecco! Al suo ingresso nel regno di Anga ci sarà l'attesissimo scroscio di pioggia.
"Il re accoglierà il giovane asceta con gli onori dovuti, chiedendogli per prima cosa di concedere un dono: "Possa tuo padre non adirarsi con noi, né maledirci".
"Questo verrà concesso. Quindi il re accompagnerà il giovane saggio negli appartamenti privati e gli darà in sposa la figlia adottiva Shanta. Il glorioso saggio Rshyasringa trascorrerà così il suo tempo in compagnia della moglie Shanta".
Il ministro Sumantra continuò:
"Il saggio Sanatkumara profetizzò ancora quanto segue: "Un discendente di Ikshvaku, chiamato re Dasaratha, coltiverà l'amicizia di re Romapada e un giorno si rivolgerà a lui con questa richiesta: 'O re, poiché non ho figli, permetti che Rshyasringa conduca un rito sacro, affinché possa essere benedetto con un figlio'. Acconsentendo alla richiesta, Romapada darà al saggio l'incarico di condurre il rito sacro attraverso il quale Dasaratha sarà benedetto con dei figli".
"Perciò, mio re, vi esorto a fare subito quanto necessario per convincere il saggio Rshyasringa a venire qui per presiedere il rito sacro che avete intrapreso".
Con il permesso dei precettori e dei sacerdoti, re Dasaratha andò subito in cerca del santo Rshyasringa. Raggiunto l'eremitaggio nella foresta, trovò il re Romapada in compagnia del saggio. Romapada ricevette Dasaratha con grande gioia e rispetto. Dopo avere trascorso alcuni giorni nell'eremitaggio, re Dasaratha pregò Romapada: "Permetti che tua figlia e il suo saggio marito vengano ad Ayodhya, a benedire il sacro rito che sto per cominciare".
Romapada comunicò la richiesta alla coppia benedetta, che acconsentì immediatamente.
Tutti insieme lasciarono l'eremitaggio. Re Dasaratha inviò dei veloci messaggeri ad Ayodhya, per comunicare ai cittadini la buona novella della visita del saggio e chiedere loro di riservargli un'accoglienza regale. Felici i cittadini celebrarono con una festa l'entrata del saggio nella capitale. Il saggio e sua moglie godettero per alcuni giorni dell'ospitalità del re.
All'inizio della primavera re Dasaratha avvicinò Rshyasringa e lo pregò di dar inizio al rito sacro. Il saggio diede le istruzioni necessarie. Il re riunì i precettori e i sacerdoti e disse: "Desidero compiere il sacrificio-del-cavallo per essere benedetto con un figlio. Sono certo che grazie al potere spirituale di Rshyasringa il mio desiderio sarà esaudito". I sacerdoti e i precettori applaudirono le parole del re.
Allora Rshyasringa diede ordini sulla maniera giusta di liberare il cavallo e di preparare il luogo del rituale.
Da parte sua, il re chiese ai sacerdoti d'aver cura che il rito fosse condotto in maniera impeccabile, poiché il minimo errore nella conduzione avrebbe potuto causare un risultato contrario. I sacerdoti risposero positivamente e diedero inizio ai preparativi della cerimonia sacra. Dopo essersi accertato personalmente della giusta esecuzione del rito, re Dasaratha si ritirò nei suoi appartamenti.
Un anno era trascorso. Secondo le ingiunzioni delle Scritture ora il re era pronto a dare inizio al sacrificio-del-cavallo. Con umiltà egli andò dal suo precettore Vasishtha e gli disse: "Tu sei per me un caro amico e il precettore supremo: tu solo puoi assumerti la responsabilità del giusto compimento di questo rito". Il saggio Vasishtha si assunse immediatamente l'incarico.
Secondo gli ordini di Vasishtha, una nuova cittadina sorse sulla riva nord del sacro fiume Sarayu, con buche per i sacrifici, palazzi per le famiglie reali, residenze per i sacerdoti officianti, e stalle per i cavalli, gli elefanti e le altre bestie, e pozzi e mercati. Tutto era stato ben fatto per sopperire alle necessità dei numerosi ospiti che sarebbero venuti ad onorare l'occasione. Vasishtha ordinò di persona: "Ogni casa dev'essere fornita di viveri e ogni altra necessità. Accertatevi che le persone di tutte le comunità siano ben nutrite e servite con riguardo, senza mai mancare di rispetto e riverenza. Che nessuno mostri la minima mancanza di rispetto o intolleranza - per non parlare d'ira - verso gli ospiti".
Tutti gli incaricati accettarono umilmente il loro compito. Vasishtha chiese a Sumantra d'invitare a partecipare alla cerimonia sacra i principi e i re dei paesi vicini e di quelli lontani. Ben presto essi cominciarono ad arrivare, portando ricchi doni per re Dasaratha. Ogni incaricato riferì a Vasishtha di aver portato a termine il compito che gli era stato affidato. Di nuovo Vasishtha li ammonì: "Servite i nostri ospiti, dando loro tutto il necessario, ma date con rispetto. Non servite con disprezzo o scherzosamente; il servizio irriverente distrugge chi serve".
Al termine dell'anno di consacrazione anche il cavallo sacro era tornato. Sotto la guida di Rshyasringa i sacerdoti iniziarono il sacrificio-del-cavallo, i mantra furono recitati correttamente e tutto si svolse secondo le ingiunzioni delle Scritture. Vasishtha aveva detto: "Date, date cibo e vestiti a tutti", e gli incaricati eseguirono alla lettera il suo ordine. Tutti gli ospiti furono pienamente soddisfatti e invocarono benedizioni per il re. I vari animali con i quali si dovevano adorare le diverse divinità furono portati nel salone. Lo stesso cavallo fu riccamente adornato e venerato dalle regine. Felice dell'ottima riuscita del sacrificio-del-cavallo, il re diede quella terra in dono ai sacerdoti, che a loro volta gliela restituirono accettando da lui più utili doni in denaro. Tutti erano estremamente compiaciuti.
Il re cadde ai piedi di Rshyasringa, e il saggio gli assicurò che il suo desiderio sarebbe stato esaudito.
Il saggio Rshyasringa si raccolse profondamente per alcuni-minuti e poi disse a re Dasaratha: "Celebrerò un rito sacro prescritto nell'Atharva Veda, adottando il metodo degli esseri celesti che hanno raggiunto la perfezione, per assicurarti la grazia della progenie".
Quando il saggio diede inizio al rito sacro, gli dèi e i siddha (semidèi) discesero nella sala del culto nelle loro forme eteree, e così pregarono Brahma, il Creatore: "Signore, approfittando del dono che tu gli hai concesso, il demone Ravana ci sta opprimendo tutti. Secondo quel dono, egli non può venire ucciso da dèi, semidèi e demoni: perciò siamo impotenti nei suoi confronti. Persino gli elementi naturali gli obbediscono. Ti preghiamo: trova un modo per distruggere il nostro tormentatore".
Sentendo questo, il Creatore fu molto dispiaciuto e rispose: "Nel suo orgoglio Ravana pregò soltanto che dèi, semidèi e demoni non potessero ucciderlo: egli teneva l'uomo in così poco conto che non si curò d'includerlo nella lista! Perciò potrà essere ucciso solo da un essere umano".
Non appena Brahma terminò di parlare, apparve il Signore Vishnu. Ora gli dèi si rivolsero a Lui con un'accorata preghiera: "Signore, rimettiamo su di Te il peso della nostra afflizione. Ti preghiamo, incarnaTi come essere umano e distruggi questo Ravana, che è un nemico del mondo, e non può essere vinto dagli dèi. Tutti noi - dèi, semidèi, demoni, saggi ed eremiti - prendiamo rifugio sotto le ali della Tua protezione. Tu sei invero il nostro supremo rifugio". Il Signore Vishnu assicurò che avrebbe fatto il necessario.
In quello stesso istante il Signore Vishnu decise che si sarebbe incarnato come figlio di Dasaratha, esaudendo nel contempo anche il desiderio degli dèi. Subito il Signore divenne invisibile a tutti.
Nello stesso tempo, un essere divino emerse dal fuoco sacro, tenendo in mano una coppa d'oro contenente payasam (un preparato di riso e latte). Egli disse a re Dasaratha: "Io sono un messaggero di Vishnu. Con questo rito sacro hai propiziato il Signore. Questo payasam preparato dagli dèi è capace di concederti il dono della progenie; prendilo e dallo alle tue mogli". Detto questo il messaggero scomparve nel fuoco sacro.
Re Dasaratha diede subito il payasam alle sue mogli. Metà lo diede a Kausalya, metà del rimanente lo diede a Sumitra, metà del resto a Kaikeyi, e ciò che rimase lo diede nuovamente a Sumitra.
Era tale la potenza del payasam celeste che tutte le quattro mogli risplendettero immediatamente con la luce che proveniva dalla presenza dell'essere divino nei loro grembi.
Brahma, il Creatore, ordinò agli dèi: "Proiettate parte delle vostre energie nel mondo mortale, affinché da voi nascano degli esseri potenti che aiutino il Signore".
Seguendo il comando del Creatore, per mezzo di donne-vanara gli dèi generarono figli maestosi, potenti e forti, che avevano l'apparenza e la forma esterna dei loro padri celesti. Hanuman, il figlio del dio del vento, era il più intelligente e capace di tutti.
Poi trascorse un anno. Alla fine del dodicesimo mese da quando avevano ingerito il payasam celeste, nel nono giorno della quindicina ascendente del mese di Caitra (aprile-maggio) Kausalya diede alla luce il risplendente Rama - il Signore dell'universo adorato da tutti - che di fatto era la manifestazione di metà del Signore Vishnu. Quindi Kaikeyi diede alla luce Bharata, che era la manifestazione di un quarto del Signore Vishnu. Mentre Sumitra diede alla luce i gemelli Lakshmana e Satrughna, che insieme costituivano l'altro quarto del Signore Vishnu.
Queste nascite furono occasione di grande gioia non solo ad Ayodhya e nel regno di Kosala, ma anche nel regno dei cieli, poiché il Signore incarnato come figlio dell'uomo avrebbe posto fine al regno di terrore del demone Ravana. Per festeggiare l'evento i cittadini manifestarono in pieno tutta la loro gioia.
Come precettore del re, il saggio Vasishtha battezzò i quattro bambini Rama, Lakshmana, Bharata e Satrughna, e distribuì profusamente doni a tutti da parte del re. Lakshmana divenne il compagno inseparabile di Rama; essi erano una sola vita in due corpi, e senza Lakshmana Rama non sarebbe andato neppure a dormire. Allo stesso modo, Bharata e Satrughna erano cari l'uno all'altro. Con il passare degli anni essi divennero dei giovani saggi e intelligenti, eruditi nelle sacre Scritture, esemplari nella condotta e devoti al benessere di tutti. Il re era immensamente felice di vederli crescere e diventare uomini.
Un giorno il saggio Visvamitra andò ad Ayodhya, e con le guardie che stavano all'ingresso del palazzo mandò a dire al re che desiderava incontrarlo. Dasaratha corse incontro al saggio, che era un Rajarishi (perché di discendenza regale) che in seguito, per mezzo di grandi austerità, era diventato un Brahmarishi (pari a un saggio-brahmana). Il re venerò il saggio, che a sua volta abbracciò calorosamente tutti gli uomini santi presenti nella corte reale. Quindi il re offrì di fare tutto ciò che era in suo potere per servire Visvamitra; e questa offerta fece molto piacere al saggio.

[NOTA: Ho preferito mantenere il termine 'vanara' invece di adottare la traduzione 'scimmia'; il termine potrebbe indicare un membro di una tribù della foresta, specialmente se ricordiamo che i figli avevano la forma e il valore dei propri padri divini.]

Udendo le nobili parole del re, Visvamitra si commosse e, per incoraggiare maggiormente le sue nobili intenzioni, disse: "Al mondo non c'è nessuno che ti sia pari, o grande re! Tu appartieni a una stirpe gloriosa, e per di più hai come tuo precettore e guida spirituale lo stesso saggio Vasishtha".
Il saggio continuò: "Ho preso dei voti per compiere un rito sacro, che però viene ostacolato da una coppia di demoni. Potrei affrontarli facilmente io stesso, ma i voti mi trattengono dal soccombere all'ira. Perciò, ti prego, manda con me tuo figlio Rama per proteggere questo rito sacro. Sotto la mia guida e con le sue doti egli saprà fare quanto è necessario. Ti assicuro che i due demoni possono già considerarsi morti, poiché conosco il potere ineguagliabile di Rama, così come lo conoscono Vasishstha e gli altri saggi. Ho bisogno di lui solo per dieci giorni e dieci notti, perché è imperativo che il rito sacro si concluda entro questo periodo e non venga prolungato dalle interruzioni".
Udendo queste parole re Dasaratha svenne. E dopo alcuni minuti, riprendendo coscienza, disse con voce tremante a Visvamitra: "Rama ha appena sedici anni! Non credo che sia pronto a combattere, soprattutto contro i demoni. Dimmi cosa devo fare. Manderò con te il mio grande esercito. Verrò io stesso con te e combatterò i demoni, ma senza Rama non posso vivere neanche per pochi minuti. Egli è solo un bambino e non è capace di valutare la forza dei nemici. Dopo moltissimo tempo mi è stato dato questo figlio prezioso come dono degli dèi; come potrei mai pensare di separarmi da lui? No, verrò io con il mio esercito a combattere i demoni".
Visvamitra reiterò la sua domanda con queste parole: "C'è un potente demone chiamato Ravana, un discendente di Pulastya. Non viene lui personalmente a ostacolare i riti sacri, ma manda due altri demoni, Marica e Sabahu, perché li disturbino; questi infatti gettano immondizie, sangue e carne nel fuoco sacro. È contro tali nemici che chiedo l'aiuto di Rama, perché solo lui può distruggere questi demoni".
Fortemente turbato da queste parole, il re replicò: "Oh no, neanch'io posso affrontare in battaglia il potente Ravana. Ma se si tratta solo d'affrontare Marica e Sabahu, verrò io di persona con il mio esercito; in nessun caso però potrò mandare il mio amato figlio Rama. Invero tu sei un saggio famoso e conosci il Dharma: perciò sii benevolo e abbi misericordia di noi. Non mi chiedere di mandare Rama con te. Se vuoi verrò io con te. E se questo ti è inaccettabile, ti prego di perdonare la mia incapacità di aiutarti".
Colmo d'ira il saggio Visvamitra disse a re Dasaratha: "Quant'è ignobile e indegno di un re, che dopo avere promesso ritratti la tua parola! Questo disonora la stirpe gloriosa alla quale appartieni. Ma, se questa è la tua decisione, me ne andrò. Goditi la vita nell'ignominia!".
Vedendo questo, il saggio Vasishtha intervenne e disse a re Dasaratha: "O re, tu discendi da un lignaggio ininterrotto di monarchi famosi per la loro giustizia. Non si conviene che tu abbandoni il sentiero della verità. Se non manterrai la promessa fatta al saggio Visvamitra, perderai tutti i meriti che hai guadagnato compiendo grandi riti religiosi. Il saggio Visvamitra è un grande maestro nelle arti militari. Egli è padrone di tutti i missili (astra) più micidiali, che ha ottenuto direttamente dal Signore Shiva. Inoltre può anche inventare nuovi missili ancora più mortali. Perciò non è che lui abbia paura dei demoni, di cui potrebbe facilmente sbarazzarsi da solo, ma sta chiedendo l'aiuto di Rama per il bene dello stesso principe! Perciò non esitare ad acconsentire alla richiesta di Visvamitra, mantenendo nel contempo la tua promessa".
Queste parole rassicurarono il re, che riacquistò immediatamente la sua compostezza e sicurezza e decise di mandare Rama con il saggio per proteggere il suo rito. Quindi mandò a chiamare Rama, l'abbracciò di cuore, lo baciò sul sommo della testa e lo benedì.
Anche il precettore familiare, Vasishtha, benedì Rama con sacre invocazioni vediche. La stessa Natura benedì Rama. E mentre Rama e l'inseparabile Lakshmana si avviavano al seguito del saggio, soffiò una brezza soave e ci fu una pioggia di fiori dall'alto.
Era una visione divina vedere Rama e Lakshmana, con le armi da guerra a tracolla, camminare con l'austero asceta Visvamitra. Mentre stavano ancora camminando lungo la riva meridionale del sacro fiume Sarayu, rivolgendosi a loro il saggio disse: "Rama, senza perdere altro tempo, t'inizierò ai misteri di Bala e Atibala (forza e forza suprema); quando ne sarai padrone, non sarai più soggetto alla fatica o alla febbre, né la tua bella forma sarà soggetta ad alcun cambiamento avverso. Né i demoni potranno avere la meglio su di te, neanche nel sonno, se conoscerai questi misteri".
Dopo la necessaria purificazione preliminare, Rama fu iniziato dal saggio nei misteri divini; e immediatamente rifulse di un nuovo splendore. I tre passarono la notte sulla riva del sacro fiume Sarayu, mentre Rama e Lakshmana rendevano al saggio tutti i servigi personali che un discepolo deve al precettore.

[NOTA: Le armi: 'bana' solitamente tradotto come 'freccia' sembra essere più una 'bomba' o un missile. Ancor'oggi la parola 'bana' è usata nell'India del sud per indicare i fuochi pirotecnici che vengono proiettati nello spazio e ivi esplodono. 'Dhanus', che è solitamente inteso come 'arco', poteva essere qualcosa di simile a un cannone. Vi erano due tipi di armi: sastra e astra. Sastra era un congegno meccanico; astra era un congegno astrale.]

All'alba del giorno dopo, il saggio svegliò amorevolmente i principi e insieme fecero le loro preghiere mattutine. I due principi salutarono devotamente il precettore, pronti a ubbidirgli. Sotto la sua guida continuarono il viaggio e presto raggiunsero la confluenza del Sarayu e del sacro Gange. Qui essi videro diversi eremitaggi. I principi erano curiosi e il saggio disse loro:
"Nei tempi antichi Cupido aveva una forma fisica. Una volta che il Signore Shiva era impegnato in austerità incredibili proprio in questo luogo, Cupido cercò di distrarre il Signore. Con il semplice suono 'hum' e con il fuoco che emanò dal suo occhio, il Signore distrusse il corpo di Cupido, che da allora non ha più una forma fisica. E il territorio dove egli lasciò le membra (anga) del suo corpo fu chiamato Anga. Questi eremiti dediti qui alle loro austerità sono seguaci del Signore Shiva".
Mentre guadavano il fiume sacro vicino alla confluenza, Rama udì un rombo provenire dall'acqua. Visvamitra appagò nuovamente la sua curiosità con questa storia: "Vicino al monte Kailash c'è un lago chiamato Manasa Sarovar, perché nacque dalla mente di Brahma. Il fiume Sarayu è così chiamato perché nasce da quel Sarovar. Il rombo che hai udito è causato dalla forza con la quale il fiume si precipita per unirsi al sacro Gange. O Rama, offri i tuoi saluti ai fiumi sacri, alla loro confluenza.
Presto raggiunsero una spaventosa foresta, che metteva paura ad entrarci. Ancora una volta Visvamitra spiegò:
"Una volta quest'area era un paese prosperoso. Quando anticamente Indra uccise il demone Vritra, che di nascita era un brahmana, dovette espiare la colpa di avere ucciso un brahmana. I saggi e i brahmana celebrarono il rituale d'espiazione con le acque dei fiumi sacri. Quando le impurità furono rimosse, Indra rifulse col suo splendore originario. Le impurità rimosse da Indra si depositarono qui. Felice d'esserne libero, Indra volle mostrare la sua gratitudine al luogo in cui caddero. Perciò donò a questo paese la prosperità e gli diede i nomi di Malada e Karusha.
"Da allora i principati di Malada e Karusha furono ricchi e prosperosi, finché non comparve la demonessa Tataka, moglie del demone Sunda: essi hanno un figlio terribile chiamato Marica. Tataka infonde il terrore nei cuori degli abitanti di Malada e Karusha e ha trasformato questa terra fertile e prosperosa in un luogo desolato e in una foresta. Rama! Ora tocca a te distruggere questa famiglia demoniaca e ridare a questo paese la gloria e la prosperità che aveva una volta".
Rama manifestò il suo stupore: "Come può una fragile donna possedere tanta energia e tanta forza?". Allora il saggio Visvamitra gli raccontò tutta la storia di Tataka, che è questa:
"C'era una volta un potente semidio chiamato Suketu, che non aveva figli. Desiderando avere un figlio, si mise a praticare austerità. Il Creatore, Brahma, altamente compiaciuto, gli diede in dono una figlia, che benedì con la forza di mille elefanti. E una fortuna che il Creatore non gli diede un figlio maschio! La ragazza era tanto bella quant'era forte. Suketu la diede in sposa al demone Sunda, e dalla loro unione nacque il terribile Marica.
"Sunda era stato maledetto a morte dal saggio Agastya. Tataka volle vendicare la morte del marito e si scagliò contro il saggio. Agastya pronunciò una maledizione anche contro Tataka: "D'ora in poi perderai l'aspetto di semidea e diventerai una terribile demonessa".
"Non farti bloccare dal pensiero che si tratta di una donna. Per il bene della società, devi distruggerla. Può capitare che per la protezione dei suoi sudditi un sovrano debba compiere sia azioni lodevoli che biasimevoli, e anche delle azioni che sembrano ingiuste e peccaminose. Questo è invero l'eterno dovere di coloro ai quali è affidato l'oneroso compito d'amministrare lo stato. Perciò distruggi questa donna malvagia, che non sa che significa Dharma!".
Rama rispose prontamente: "Quando m'affidò alla tua protezione, mio padre mi comandò di obbedirti in ogni cosa. Perciò, ubbidendo a te, farò il mio dovere sia verso di te che verso mio padre!". Così dicendo, preparò la sua arma; e il suono che essa produsse terrificò gli abitanti della foresta e insospettì Tataka.
Ella si precipitò verso la fonte di quel suono e, quando fu in vista, Rama scherzando indicò a Lakshmana quella forma terribile. "Guarda questa demonessa, o Lakshmana, la renderemo immobile amputandole le gambe e le braccia: non mi sento incline a uccidere questa donna. Visvamitra tuonò 'hum' e spronò i principi.
Tataka lanciò delle enormi rocce contro Rama, che le rispose lanciandole dei missili con la sua arma. Tataka scomparve alla vista, e Visvamitra ammonì Rama: "Non scherzare più con questa demonessa. Esse diventano più potenti al calare della notte. Uccidila rapidamente". Benché fosse invisibile, Rama la colpì, facendosi guidare soltanto dal suono. Tataka cadde a terra esanime.
In quello stesso istante la foresta rifulse del suo antico splendore.
All'alba del giorno dopo, il saggio Visvamitra parlò amorevolmente a Rama: "Sono molto contento di te. Perciò ti darò un armamentario dei missili più potenti, con l'aiuto dei quali potrai sottomettere tutti i tuoi nemici, siano essi esseri terreni o celesti. Ecco, prendi possesso dei migliori missili esistenti:
"Il Dharma cakram, il Kala cakram, il Vishnu cakram e anche il terribile cakram di Indra. Ti do il Danda cakram e anche il missile che ha il potere del tuono (Vajra), il Shulam (di Shiva), il Brahma-shiras e un altro ancora conosciuto come aisikam, che è come un filo d'erba. Ti do il potentissimo Brahma-astram, che distrugge tutto, e anche i missili a forma di clave. Ed ecco il missile dei gandharva che confonde e stupisce il nemico. Questi altri missili sono capaci di fare addormentare il nemico e di cambiare il suo stato d'animo da malvagio a pacifico.
"Ti do ancora questi altri missili che possono produrre la pioggia o fare inaridire il terreno, o generare un calore insopportabile e bruciare il nemico. E ancora, un altro missile che produce nel nemico una specie d intossicazione e un altro che fa insorgere in lui la passione. Quest'altro missile possiede lo splendore del sole e abbaglierà il nemico. Ti do tutte queste e molte altre armi che sono potenti e preziose in guerra, persino contro gli esseri celesti".
Rama vide tutte quelle armi davanti a sé. Soddisfatto, prese la risoluzione che le avrebbe usate solo quando il loro uso sarebbe stato necessario. Inchinandosi al saggio Visvamitra, Rama disse: "Signore ti prego, istruiscimi nell'arte di neutralizzare l'effetto di questi missili"
Allora, il saggio istruì Rama e Lakshmana sul sistema anti-missile. A tal fine, il saggio diede loro molti altri missili, chiamati con nomi che indicavano il loro modo di funzionare: alcuni visibili e altri invisibili, alcuni che si muovevano in avanti e altri che si muovevano all'indietro alcuni con dieci 'teste', altri con cento 'addomi', alcuni che sembravano carbone ardente, altri che si manifestavano come fumo denso.
Tutti questi missili e missili anti-missili furono messi di fronte a Rama, in attesa del suo ordine; stavano ai suoi piedi, per così dire, per offrirgli il loro servizio. Egli li annotò nella sua mente e decise che li avrebbe usati solo quando sarebbe stato assolutamente necessario.
Ormai erano giunti al termine della densa foresta. Appena fuori videro un bellissimo e sacro eremitaggio. Rama chiese di esso e il saggio Visvamitra narrò la seguente storia riguardo al Siddhashrama.

[NOTA: Questo capitolo, che menziona moltissimi tipi di quelli che ovviamente erano missili nucleari e non, dovrebbe essere studiato alla luce della moderna conoscenza degli armamenti.]

Visvamitra disse: "Tanto tempo fa, lo stesso Vishnu dimorò qui per migliaia d'anni, praticando austerità. Qui c'è anche l'eremitaggio del Signore Vamana noto col nome di Siddhashrama. Quello che ti racconto accadde durante il periodo in cui re Bali regnava su cielo e terra. Bali, che era il re dei demoni, stava celebrando un potentissimo rito, al termine del quale sarebbe diventato come Indra. Tutti gli dèi, con a capo Indra, chiesero aiuto al Signore Vishnu.
"Nello stesso tempo il saggio Kasyapa aveva concluso con successo una sacra osservanza durata mille anni. Quando il Signore apparve davanti a lui e gli offrì di concedergli un dono, il saggio pregò: "Se, compiaciuto da me, vuoi concedermi un dono, allora Ti prego, diventa mio figlio".
"Volentieri il Signore S'incarnò come figlio del saggio e di sua moglie Aditi. Il Suo aspetto fisico era quello di un nano. Immediatamente andò nel luogo di culto di Bali e chiese al re di concedergli tre passi di terra. Quando questo gli fu concesso, il Signore misurò il cielo e la terra con due passi (recuperandoli così per Indra) e con il terzo benedì il re, ponendogli il piede sulla testa. Questo ashrama (eremo), così chiamato perché elimina shrama (la fatica fisica e mentale), era abitato dal Signore stesso, ed ora vi abito io che sono Suo devoto. Venite, entriamo nell'eremo, perché è tanto vostro quanto mio. Adesso comincerò il rito sacro. Vi prego, proteggetelo dalle interferenze dei demoni".
I principi risposero con gioia: "Signore benedetto, inizia il rito sacro; noi eseguiremo il tuo ordine". La mattina seguente il rito ebbe inizio. Il saggio Visvamitra aveva preso il voto del silenzio; perciò altri istruirono Rama e Lakshmana: "Sorvegliate la casa della preghiera per sei giorni e sei notti". E così fecero, senza un attimo d'assopimento, sempre vigili durante il giorno e la notte.
Era l'ultima notte. Il fuoco rituale divampava con insolito splendore. Ci fu un forte boato nel cielo. Come le nuvole dei monsoni, scure e turbolente, i due demoni apparvero nel cielo. Ci fu una pioggia di carne e sangue e d'ogni sorta di cose terribili.
"Lakshmana, guarda come li disperdo in tutte le direzioni", disse Rama, lanciando il missile chiamato Siteshu (il missile freddo), che come il vento disperde le nuvole scagliò il demone Marica in mezzo all'oceano, a una distanza di ottocento miglia. Marica non venne ucciso. Poi, con un missile di fuoco, Rama distrusse l'altro demone Subahu. Infine, con il missile del vento, Rama disperse i demoni inferiori. Il rito continuò fino alla sua conclusione senza incontrare altri ostacoli.
Compiuta la loro missione, i principi dormirono nell'eremo e la mattina seguente si svegliarono di buon'ora. Dopo avere terminato le preghiere mattutine, avvicinarono il saggio Visvamitra a mani giunte e gli chiesero: "Siamo i tuoi umili servi, o saggio; comandaci, che cosa dobbiamo fare?".
Visvamitra li benedì e rispose: "Re Janaka di Mithila sta per celebrare un rito sacro, e vorrei che vi partecipaste insieme a me. A Mithila vedrete anche un'arma straordinaria che ha sconcertato uomini potenti, demoni e dèi. A dire il vero è stata donata dagli dèi molti anni fa; ma siccome nessuno finora è riuscito a maneggiarla, è stata religiosamente messa da parte".
Immediatamente il saggio si preparò alla partenza. S'inchinò per salutare la foresta e chiese il permesso agli alberi: "Dio vi benedica, adesso me ne sto andando nell'Imalaya". Molti saggi, bestie e uccelli accompagnarono Visvamitra! Tuttavia dopo un po' il saggio li convinse tutti a tornare nella foresta. Gli eremiti che accompagnavano Visvamitra fecero ancora un tratto con lui prima di ritirarsi per la notte sulle rive del fiume Sone.
Visvamitra disse: "C'era una volta un re chiamato Kusa, che era figlio di Brahma, il Creatore. Egli aveva quattro figli: Kusamba, Kusanabha, Asurtarajasa e Vasu, ai quali affidò il compito di proteggere gli abitanti del regno. I quattro figli costruirono quattro città: e cioè, rispettivamente, Kaushambi, Mahodaya (Kanauj), Dharmaranya e Girivraja (Rajgir). Queste città erano circondate da colline. Allora il fiume Sone, che scorreva tra queste colline, era anche chiamato Magadhi, perché attraversa il territorio Magadha.
"Kusanabha aveva cento figlie, nate dalla ninfa celeste Ghrtaci. Quando crebbero e diventarono delle belle ragazze, il dio del vento andò da loro e disse: "Desidero sposarvi tutte. Abbandonate l'idea che siete esseri umani e ottenete la longevità. La giovinezza è evanescente; specialmente tra gli esseri umani. Diventate eternamente giovani e immortali, accettando la mia proposta". Udendo questo le ragazze si rattristarono: "Come possiamo accettarti come nostro marito - tu che entri in tutti gli esseri? Inoltre nostro padre è il nostro signore e maestro, anzi il nostro dio; solo colui al quale egli ci darà, sarà nostro marito". Offeso da questo rifiuto il dio del vento entrò in tutte loro causando nei loro arti delle deformità (come l'artrosi).
"Così deformate e con gli occhi pieni di lacrime esse andarono da loro padre Kusanabha. Disperato il re loro padre chiese: "Ditemi, chi ha causato queste terribili deformità nelle vostre belle forme"?".
"Le ragazze narrarono al padre quanto era accaduto. Re Kusanabha lodò molto la condotta delle figlie e disse: "La pazienza è il più grande ornamento di uomini e donne - il tipo di pazienza che avete mostrato nel vostro comportamento con il dio del vento. La pazienza è il dono più grande, la verità, la forma migliore d'adorazione, è la gloria, la giustizia e il sostegno del mondo".
"Presto il re cominciò a pensare di darle in matrimonio a un uomo degno. In quello stesso periodo c'era un grande asceta chiamato Chuli, che aveva intrapreso austerità senza precedenti. Durante la pratica egli fu servito da una ragazza chiamata Somada. Estremamente compiaciuto del suo devoto servizio, l'asceta le disse: "Sono contento del tuo servizio, chiedimi un dono". Subito ella rispose: "Non sono sposata, né mi sposerò. Concedimi perciò la grazia di un figlio attraverso il potere del tuo ascetismo".
"Felice di questa preghiera, l'asceta espresse la volontà che ella concepisse e desse alla luce un bambino: e l'energia cosmica (Brahmica) realizzò tutto questo. Il figlio così concepito e dato alla luce fu chiamato Brahmadatta (dono di Brahma), e in seguito diventò re di Kampilya. E fu a Brahmadatta che re Kusanabha diede in matrimonio le sue cento figlie. Quando, durante la cerimonia, Brahmadatta toccò la mano di ogni ragazza, tutte le deformità scomparvero ed esse riacquistarono la loro bellezza e il loro fascino.
"Quindi re Kusanabha pregò perché gli nascesse un figlio. Suo padre Kusa lo benedì dicendo: 'Certamente ti nascerà un figlio pio'; e detto ciò ascese in cielo. Presto Kusanabha fu benedetto con un figlio, che chiamò Gadhi, secondo il desiderio del suo nobile padre. O Rama, quel Gadhi è mio padre; ed io sono anche chiamato Kausika, perché sono un discendente di Kusa.
"Ho avuto anche una sorella maggiore chiamata Satyavati, che fu data in matrimonio al saggio Ricika. Ella era molto devota a suo marito. Di conseguenza, quando il saggio se ne andò da questo mondo, lei ascese in cielo con tutto il corpo, e in seguito per la magnanimità del suo cuore ridiscese sulla terra come un fiume, il Kosi. E come tale, o Rama, ella continua ad esistere fino ad oggi. Poiché amavo molto mia sorella, ho vissuto per qualche tempo sulle rive del fiume Kosi. In seguito lasciai quel posto e mi trasferii al Siddhashrama, dove - grazie a te - ho portato a compimento il rito più sacro.
"Così, o Rama, ti ho narrato la storia di questo luogo. La notte è fonda; è ora che tutti voi andiate a dormire".
La mattina presto, il saggio annunciò di nuovo l'alba ed esortò i principi ad alzarsi e a prepararsi a partire. Attraversato il fiume Sone, il gruppo continuò fino a raggiungere il sacro Gange.
Come al solito, Rama pose una domanda, a beneficio di tutto il gruppo: stavolta voleva sapere la storia del Gange. Il saggio Visvamitra disse:
"Himavan (l'Himalaya) sposò la figlia di Meru (la calotta polare) chiamata Mena. Essi ebbero due figlie: la maggiore è Ganga e la minore è Uma. Per il bene di tutti gli esseri dei tre mondi (il cielo, la terra e lo spazio intermedio), gli dèi chiesero a Himavan di dare a loro Ganga. Il magnanimo Himavan acconsentì
"Fu così che la sacra Ganga ascese in cielo e divenne un fiume celeste. In seguito ridiscese sulla terra sotto forma di un corso d'acqua purificatore. L'altra figlia - Uma - Himavan la diede in sposa allo stesso Signore Shiva".
Con la curiosità stimolata da questo breve racconto, Rama chiese al saggio di narrare la storia sublime entrando maggiormente nei particolari. Il saggio acconsentì e raccontò dettagliatamente la storia di Uma, consorte del Signore Shiva, e anche la storia della discesa di Ganga sulla terra:
"Il Signore Shiva aveva sposato Uma, figlia di Himavan. Per molto tempo la coppia rimase a godere dei piaceri coniugali. L'energia creativa del Signore cresceva sempre più d'intensità; e persino gli dèi temevano che la terra non sarebbe stata capace di sostenere la sua progenie.
"Perciò, facendosi coraggio, essi osarono interrompere l'unione della coppia divina per offrire una preghiera: "Signore, ti preghiamo di fermare la tua energia creativa con il tuo autocontrollo. I mondi non saranno in grado di sopportare il pieno impatto della tua energia creativa. Soltanto grazie all'autocontrollo praticato da te e dalla tua consorte i mondi sopravviveranno".
"Il Signore acconsentì subito alla loro preghiera, e chiese: "Che possiamo fare con l'energia già creata?". L'energia infatti aveva già coperto la terra.
"Gli dèi chiesero l'aiuto del fuoco e del vento. Il fuoco concentrò l'energia, che ora prese la forma di una montagna che, spinta a sua volta dal vento, divenne un canneto - che alla fine avrebbe assunto la forma di Kartikeya (il figlio del Signore Shiva).
"Tuttavia la consorte del Signore, Uma, fu infastidita dall'interferenza degli dèi durante la sua unione con il marito. Perciò lanciò su di essi la maledizione che non avrebbero mai avuto figli".
"Mentre Uma e il Signore Shiva ritornarono alle loro austerità, gli dèi capeggiati da Indra andarono da Brahma, il Creatore, e gli chiesero umilmente: 'Signore, il divino Shiva ci ha concesso il dono che gli abbiamo chiesto, e cioè di benedirci con un condottiero. Questo comandante può nascere solo dalla sua energia. Dopo avere liberato quest'energia, il Signore Shiva è ritornato alle sue austerità, insieme alla sua consorte Uma. Ti preghiamo, dicci che cosa dobbiamo fare'.
"Brahma rispose: 'Le parole di Uma sono sacrosante. Nessun dio può ricevere l'energia di Shiva per dargli un corpo. Ecco la celestiale Ganga: che il dio del fuoco porti l'energia del Signore a Ganga, che allora darà alla luce il bambino. Certamente Ganga considererà suo il bambino e anche Uma gli darà il suo affetto; in questo modo sarà amato da tutti'.
"Allora gli dèi si rivolsero al dio del fuoco perché adempisse gli ordini del Creatore. A sua volta il dio del fuoco si rivolse alla celeste Ganga, pregandola di ricevere l'energia creativa del Signore. Ganga assunse la forma di una bellezza eterea; e vedendola, l'energia si fuse in lei. Così il dio del fuoco la riempì con l'energia divina.
"Incapace di sostenere a lungo l'energia divina, su consiglio del dio del fuoco la sacra Ganga la lasciò cadere su di un fianco dell'Himalaya. Ovunque scorreva l'energia, tutto diventava oro. Qualsiasi cosa l'energia toccava si trasformava in oro e argento di splendore incomparabile; il semplice calore dell'energia trasformava gli oggetti più lontani in rame e ferro. Persino le sue 'impurità' divennero stagno e piombo. Così apparvero i minerali sulla terra.
"Come ho già detto, l'energia si sparse tra i canneti sulle rive del fiume Ganga. Gli dèi raccolsero quell'energia, che poi diventò un bambino. Quindi gli dèi ordinarono alle divinità che presiedevano alla costellazione Krittika di nutrire il bimbo con il loro latte; per questo gli venne dato il nome di Kartikeya. Inoltre egli è chiamato anche Skanda, perché è 'sceso' con il fiume Gange.
"In pochi giorni questo bimbo divino divenne potentissimo e distrusse le schiere di demoni che tormentavano gli dèi. Così egli divenne il comandante delle armate divine.
Questa è la storia della nascita del figlio del Signore Shiva conosciuto anche col nome di Kumara. Chi è devoto a Kartikeya godrà di una lunga vita, sarà benedetto con figli e nipoti, e un giorno diventerà una sola cosa con il signore Skanda".
O Rama, adesso ti racconterò la storia della discesa di Ganga sulla terra.
Uno dei tuoi antenati era il potente re Sagara. Egli però non aveva un erede al trono, nonostante avesse due mogli: Kesini, la figlia di re Vidarbha, e Sumati, figlia del saggio Aristanemi e sorella dell'uccello divino Garuda.
Re Sagara praticò grandi austerità; e compiaciuto di lui, il saggio Bhrigu concesse al re una strana grazia: "Una delle tue mogli darà alla luce un figlio per la perpetuazione della tua stirpe; mentre l'altra darà alla luce sessantamila figli".
A suo tempo, Kesini diede alla luce un figlio, che fu chiamato Asamanja. Sumati invece partorì un uovo (a forma di zucca) dal quale uscirono sessantamila figli. Sumati li conservò in recipienti di burro chiarificato (ghì), e ben presto crebbero e diventarono dei bei giovani. Fedele al suo nome, Asamanja si dimostrò un giovane malvagio con pericolose tendenze sadiche, che si divertiva a torturare e ad affogare anche i bambini. Al contrario, suo figlio Amsuman era pio e nobile e immensamente amato dal popolo.
Re Sagara decise di compiere il sacro rito-del-cavallo. Perciò scelse il terreno più sacro tra l'Himalaya e i Vindhya, che dai saggi è considerato particolarmente adatto alla celebrazione dei riti sacri, e diede inizio al sacrificio. Il cavallo sacro fu affidato alla custodia del valoroso Amsuman, il nipote del re.
Tuttavia, in un momento critico del rito, Indra - il capo degli dèi - sotto le guise di un fantasma riuscì a rubare il cavallo. I sacerdoti esclamarono: "O re, cattura il ladro e uccidilo; fa' che il rito sia portato a termine con successo, altrimenti ne conseguirà una grande disgrazia".
Il re mandò a chiamare i suoi sessantamila figli e comandò loro di setacciare la terra e ritrovare il cavallo. Essi ricevettero persino il permesso di scavare la terra.
I sessantamila non riuscirono nel compito che era stato assegnato loro. Non trovando il cavallo in superficie, cominciarono a scavare sotto terra.
Assistendo all'inutile e spietata distruzione della vita in superficie e nel sottosuolo, gli dèi e i demoni pregarono Brahma, il Creatore: "Signore, la vita sulla terra sta per essere distrutta dai figli di Sagara. Anche le creature acquatiche e quelle del sottosuolo sono tormentate. Sospettando che questo o quell'altro possa essere il nemico del rito, e che il cavallo possa essere nascosto qui o là, essi stanno arrecando un grande danno agli esseri viventi".
Il Creatore Brahma rispose: "La Madre Terra è per così dire la consorte del Signore Vishnu, il protettore dell'universo. I figli di Sagara, che stanno devastando lei e le sue creature andranno sicuramente incontro al loro destino per mano del Signore Stesso, che ora è incarnato sulla terra nelle sembianze del saggio divino Kapila. La stessa devastazione della terra avviene in ogni epoca; non è una cosa insolita. Coloro che sono dotati di visione interiore vedono che le persone sconsiderate colpevoli di crimini contro la benevola terra saranno punite giustamente". Le trentatré divinità che presiedono sugli elementi naturali tornarono soddisfatte alle loro dimore.
I figli di Sagara non riuscirono a trovare il cavallo, malgrado avessero cercato dappertutto e scavato persino la terra. Ma il re li spronò: "Scavate in profondità, facendo a pezzi la stessa terra". E così fecero. Mentre perlustravano la terra incontrarono quattro elefanti che sembravano montagne (o forse il contrario?): Virupaksha a est, Mahapadma a sud, Saumanasa ad ovest e Bhadra a nord. Offrirono ad essi i loro rispettosi saluti e continuarono le ricerche, procedendo infine in direzione nord-est. Erano delusi e adirati. Alla fine del tunnel attraverso la terra, quando emersero all'aperto, videro Kapila seduto in meditazione. E poiché videro anche il cavallo sacro che pascolava pacificamente vicino all'eremitaggio, scambiarono il saggio per il ladro del cavallo. Gridando di collera essi si precipitarono contro il saggio. Ma intonando semplicemente 'hum', il saggio Kapila dalla gloria incomparabile li ridusse tutti in cenere.
Stanco di aspettare il ritorno di figli e cavallo nel luogo del sacrificio, il re mandò suo nipote Amsuman per scoprire cos'era successo. Amsuman seguì gli stessi percorsi e incontrò e s'inchinò agli stessi 'elefanti', che lo rassicurarono che avrebbe trovato il cavallo. Quando infine raggiunse l'eremitaggio di Kapila, vide il cavallo e le ceneri degli zii. Mentre stava pensando al modo più appropriato di fare le esequie ai defunti, vide l'uccello divino Garuda, che lo consigliò: "Non angustiarti, o valoroso, la distruzione dei tuoi zii da parte del Signore Kapila è giusta. Non è giusto usare l'acqua terrestre per propiziare le loro anime. Quando la divina Ganga scenderà su questa terra, e quando le loro ceneri saranno toccate dalle acque del Gange, anch'essi ascenderanno in cielo".
Amsuman tornò nel luogo del sacrificio con il cavallo, e il re portò a termine il rito. Sagara regnò per molto tempo ma morì senza riuscire a trovare un metodo per far discendere il divino fiume Gange sulla terra e realizzare il suo desiderio di purificare le ceneri dei suoi figli con il fiume sacro.
Alla morte di re Sagara, il popolo chiamò amabilmente Amsuman ad occupare il trono. Egli s'impegnò in continue austerità per molti anni, allo scopo di far discendere Ganga; ma morì prima che le austerità dessero frutto. Dopo la sua morte divenne re suo figlio Dilipa, che era talmente addolorato per la morte dei suoi prozii che non riuscì a fare nulla per loro. Alla sua morte, salì al trono suo figlio Bhagiratha.
Bhagiratha si ritirò sul monte Gokarna (forse Gomukh), nell'Himalaya, per praticare intense austerità col duplice scopo di far discendere Ganga e avere un figlio. Praticò austerità incredibili, e un giorno, compiaciuto dalla sua devozione, gli apparve il Signore Brahma e gli concesse la grazia che voleva. Bhagiratha scelse le due cose che aveva in mente. "Ecco Ganga - disse Brahma - ma solo il Signore Shiva può sostenere l'impatto della sua discesa sulla terra".
Allora Bhagiratha rivolse la sua devozione al Signore Shiva. Restando in piedi sulla punta dell'alluce per un anno intero, Bhagiratha invocò la grazia del Signore Shiva. Compiaciuto dalla sua devozione il Signore gli apparve e gli disse: "Soddisferò il tuo nobile desiderio e sosterrò il Gange sulla mia testa".
Subito dopo il fiume celeste Ganga discese con tutta la sua potenza e maestà sulla testa del Signore Shiva. I capelli intrecciati del Signore sembravano le cime imalayane, e imbrigliato nelle crocchie dei suoi capelli il fiume si precipitò nel suo corso terreno. Il Signore lo fece cadere nel lago celeste Bindusara: da lì il Gange fuoriuscì in tre direzioni diverse, come sette ruscelli.
Col suo cocchio Bhagiratha fece strada al ruscello principale. Il corso del fiume, come il corso delle nostre vite, era tranquillo in alcuni posti e tortuoso in altri, calmo qui e tumultuoso là, serpeggiante, curvo e diritto, e a volte tornava persino indietro. Le acque del Gange, toccate dalla testa del Signore Shiva, sono estremamente pure. Anche coloro che a causa di una maledizione sono caduti dal cielo vengono purificati bagnandosi nel Gange.
Mentre Bhagiratha conduceva il Gange sulla terra, passarono vicino al luogo d'adorazione del saggio Jahnu, che allora era impegnato in un rito sacro. Le acque del Gange inondarono il luogo sacro. Irritato, il saggio bevve l'intero fiume, che così scomparve dentro di lui. Poi, per intercessione degli dèi, il saggio permise al Gange di uscire dal suo orecchio! Di nuovo il Gange seguì il cocchio di Bhagiratha, e finalmente essi raggiunsero il tunnel scavato dai figli di Sagara. Bhagiratha realizzò lo scopo dei suoi sforzi sovrumani: il sacro Gange passò sulle ceneri dei figli di Sagara, che furono istantaneamente purificati e liberati.
Il Creatore Brahma si congratulò con Bhagiratha per aver raggiunto il suo scopo superando tutti gli ostacoli con uno sforzo sovrumano, e decretò che d'allora in poi il fiume sacro che Bhagiratha aveva portato sulla terra sarebbe stato chiamato Bhagirathi (figlia di Bhagiratha). Inoltre decretò che chiunque ascolterà il racconto glorioso dell'impresa sovrumana, risoluta, vittoriosa e senza precedenti di Bhagiratha (di riportare il Gange sulla terra), vedrà realizzati tutti i suoi desideri, gli saranno rimessi tutti i peccati, e godrà di fama e lunga vita.
Così il saggio Visvamitra concluse la storia di Ganga. La mattina seguente di buon'ora essi attraversarono il Gange e raggiunsero la città di Vishala. Ancora una volta Rama chiese a Visvamitra di narrare le storie relative a Vishala. Il saggio rispose:
"Nell'era conosciuta come Satya Yuga c'erano due sorelle, Diti e Aditi, che diedero alla luce rispettivamente molti figli potenti e molti figli pii. Quando crebbero, in loro crebbe anche il desiderio di liberarsi della vecchiaia e della malattia, e diventare quindi immortali. Guardando l'oceano di latte (la via lattea) nello spazio esterno, pensarono che se avessero potuto trovare un bastone e una corda adatti avrebbero potuto zangolare l'oceano e ricavare certamente il nettare che avrebbe conferito loro l'immortalità. Allora usarono il monte Mandara come bastone, e il serpente Vasuki come corda, e cominciarono a zangolare l'oceano.
"Ma il primo dono dell'oceano fu deludente e doloroso, poiché venne fuori il terribile veleno Halahala. Gli dèi atterriti cercarono rifugio nel Signore Shiva. E per salvare gli dèi e tutta la creazione, Shiva bevve subito quel terribile veleno, come fosse stato nettare.
"La zangolatura continuò. Ma il bastone, il monte Mandara, cominciò a sprofondare. Gli dèi pregarono il Signore Vishnu, che prendendo la forma di una tartaruga sostenne il monte sul suo dorso. Dopo molto tempo apparve il medico divino: Dhanvantari. Poi venne un gruppo di ninfe celesti: e poiché erano la panna (rasa) stessa dell'oceano (ap), furono chiamate apsara. Poi venne fuori un liquore inebriante chiamato Varuni. I demoni rifiutarono di berlo, ma gli dèi lo bevvero. Perciò i demoni sono chiamati asura (perché non presero il liquore o sura) e gli dei sono chiamati sura. Quindi venne fuori un cavallo divino, una gemma divina, e infine il nettare, che sia gli dei che i demoni volevano e per il quale cominciarono a lottare. Ma il Signore Vishnu, nelle sembianze di una bella donna, portò via il nettare. I demoni che si opposero al Signore furono sconfitti e gli dèi, con Indra a capo, ottennero la sovranità!".
"Afflitta di dolore per la morte dei suoi figli (i demoni) per mano dei figliastri (gli dèi), Diti volle vendicare la loro distruzione. Con gli occhi pieni di lacrime implorò suo marito, il saggio Kasyapa: "Ti prego, benedicimi, affinché possa dare alla luce un figlio che ucciderà Indra, il capo dei figli che hai avuto da Aditi".
"Messo sulle spine, il saggio espresse astutamente la sua benedizione: "Così sia. Se praticherai intense austerità per mille anni, e se riuscirai a completarle senza la minima negligenza, darai alla luce un figlio capace di uccidere Indra".
"Diti intraprese subito intense austerità. E Indra stesso (il figliastro) la serviva, portandole la legna, l'acqua, la frutta e tutte le altre cose che le servivano, e lavandole devotamente i piedi mentre dormiva. I mille anni passarono. Molto contenta di Indra, Diti disse: "Sto praticando queste austerità per avere un figlio che ti ucciderà! Però tu mi hai servito devotamente per tutti questi anni; farò quindi in modo che il tuo nuovo fratello ti sia amico, e che insieme conquistiate il mondo".
"Poco dopo, a mezzogiorno, Diti sprofondò nel sonno. Sfortunatamente, proprio quel giorno, la posizione nella quale s'addormentò era impura e immorale: aveva la testa tra i piedi. Approfittando subito di questa impurità, grazie al suo potere magico Indra entrò nel corpo di lei e, con la sua potente arma (il fulmine), cominciò a tagliare il feto: il suo nemico non ancora nato. L'aveva tagliato in sette pezzi, quando cominciarono a piangere; ma egli continuò a tagliarli, dicendo: 'Non piangete, non piangete'. E intanto li aveva tagliati ancora, ciascuno in sette pezzi (quarantanove in tutto).
"Diti si svegliò e gridò: "Non ucciderli, non ucciderli". Udendola gridare, Indra uscì dal suo corpo e la pregò di perdonarlo: "Tu hai commesso un atto di negligenza e hai quindi perso la grazia che mio padre ti aveva concesso; perciò ho cercato di distruggere il mio nemico ancora prima che nascesse. Ti prego di perdonarmi".
"Sebbene fosse nuovamente addolorata per la perdita, Diti si rese conto che era stata colpa sua, e quindi perdonò Indra e gli disse: "Questi quarantanove pezzi nasceranno come divinità del vento, in gruppi di sette. Tu stesso li hai chiamati Matura (gridando loro ma-ruda, non piangete). Questi sette gruppi di divinità del vento riempiranno il cielo, la terra e lo spazio intermedio e si muoveranno al tuo comando".
"Così Indra e la sua matrigna raggiunsero un accordo. O Rama, questo è il luogo sacro dove Diti praticò le sue austerità e Indra stesso la servì".
Visvamitra e i principi, accompagnati da altri saggi, passarono la notte a Vishala; e la mattina seguente partirono per Mithila.
In prossimità di Mithila, Rama vide un eremo abbandonato e chiese a Visvamitra: "Ti prego, dimmi di chi era quest'eremo - che non ha più eremiti e sembra desolato?".
Con il cuore colmo di gioia il saggio Visvamitra rispose: "Anticamente questo meraviglioso eremitaggio apparteneva al famosissimo saggio Gautama, che viveva qui con la sua fedele, devota e bellissima moglie Ahalya.
"Un giorno Indra, il capo degli dèi, approfittando dell'assenza del saggio entrò nell'eremitaggio nelle sembianze dello stesso Gautama, e desiderò unirsi con Ahalya. La pia e devota Ahalya riconobbe subito che sotto il travestimento c'era lo stesso Indra; tuttavia cedette al suo desiderio, poiché la compiaceva molto il fatto che il capo degli dèi l'avesse avvicinata.
"Mentre Indra s'apprestava a lasciare l'eremitaggio, ella lo mise in guardia contro l'ira di Gautama e lo pregò di stare attento. Ma Gautama rientrò proprio mentre Indra stava uscendo. Pieno di collera Gautama maledì Indra: "Assumendo la mia forma, hai commesso un grande peccato: perciò perderai la tua virilità". E rivolgendosi alla moglie infedele, il saggio maledì anche lei: "Vivendo d'aria, giacendo sulla cenere, invisibile a tutti, vivrai qui per lunghissimo tempo; ma quando Rama visiterà quest'eremitaggio, riacquisterai la tua purezza". Così, dopo averli maledetti entrambi, il saggio se ne andò nell'Himalaya.
"Avendo perso la sua virilità, Indra supplicò gli dèi e gli altri esseri celesti: "In ciò che ho fatto volevo solo servire gli dèi: ho provocato la collera del saggio Gautama, che mi ha maledetto con la perdita della virilità e così facendo ha perso l'energia guadagnata con le sue austerità. Vi prego, fate qualcosa per restituirmi la virilità". Gli dèi andarono quindi dal capo dei Mani e lo pregarono: "Trasferite i genitali di questo ariete su Indra; l'ariete castrato sarà una delizia anche per voi". Il capo dei Mani acconsentì e restituì la virilità a Indra trapiantandogli i genitali dell'ariete.
"Ora che sei qui, o Rama, la fine, della maledizione di Ahalya è vicina. Entra nell'eremo". Appena Rama mise piede nell'eremo, Ahalya gli venne incontro. Tutte le sue impurità furono rimosse alla vista di Rama ed ella risplendette della sua bellezza e radiosità eteree. Ella adorò devotamente gli ospiti divini. Nel frattempo era tornato anche Gautama. Ambedue offrirono la loro devozione e ospitalità a Rama e poi ripresero le loro austerità. Rama procedette verso Mithila.
Ben presto il gruppo raggiunse la sala di culto di Janaka, dove il rito sacro era già cominciato. Era sorta una nuova cittadina, e Rama ammirò le eccellenti preparazioni predisposte da Janaka. Migliaia di brahmana eruditi nei Veda erano giunti da diverse parti del paese ed erano stati comodamente alloggiati.
Quando Janaka seppe dell'arrivo di Visvamitra, corse ad incontrarlo. Da parte sua il saggio s'informò sulla salute del re e su come procedeva il rito sacro; quindi salutò anche gli altri saggi presenti nella sala. Re Janaka disse: "Ora, con la tua presenza, la mia devozione e il rito sacro che sto celebrando hanno dato frutto. Oggi sono stato molto fortunato, sono stato davvero benedetto". Poi informò il saggio che il rito sacro sarebbe durato dodici giorni, e nell'ultimo giorno gli stessi dèi sarebbero apparsi per ricevere personalmente le offerte.
Guardando i principi, il re chiese umilmente a Visvamitra: "Chi sono questi giovani? Sembrano dèi. Il loro portamento è maestoso come quello degli elefanti. Questi giovani eroici hanno la forza della tigre e del toro. I loro occhi ricordano i petali del loto. Essi sono belli come gli Asvini Kumara (i medici celesti)". Poi Janaka s'informò anche sullo scopo della loro visita a Mithila.
Il saggio Visvamitra spiegò al re chi erano Rama e Lakshmana e ciò che avevano compiuto fino ad allora. Venendo a sapere della loro visita all'eremo di Gautama e della redenzione di Ahalya, Satananda - che era il sacerdote di famiglia di re Janaka, e figlio di Gautama e Ahalya - s'informò amorevolmente sulla salute dei suoi genitori. Visvamitra rispose: "Tutto ciò che era necessario fare per loro l'abbiamo fatto. Gautama e Ahalya sono stati riuniti".
Felice di questo, Satananda si rivolse a Rama e disse: "Benvenuto, o principe tra gli uomini! È davvero una grande fortuna per te essere venuto qui, sotto la guida del saggio Visvamitra. Egli è un saggio che ha fatto cose incredibili; è un Brahmarishi, pieno d'effulgenza spirituale e del potere delle austerità. Io lo reputo il migliore rifugio. Ascolta, ti racconterò tutto quello che so di lui:
Questo saggio era un grande e nobile re, devoto alla giustizia, ma che teneva sotto controllo i suoi nemici. Egli è figlio di Gadhi, e nipote di Kusha. Una volta re Visvamitra andò in giro per il mondo con un grande esercito. Durante il suo giro giunse all'eremo del saggio Vasishtha. Quell'eremo meraviglioso era dimora di dèi ed esseri celesti, come pure di fiori e animali selvatici. Nel suo splendore era uguale al paradiso di Brahma.
Il saggio Vasishtha diede il benvenuto a re Visvamitra e gli offrì l'ospitalità dell'eremitaggio. Com'era d'uso, il re s'informò se le attività religiose dell'eremo si svolgevano come dovuto. Rispondendo, il saggio informò il re che tutto andava bene per l'eremo e per gli eremiti che vi abitavano. Da parte sua Vasishtha chiese al re: "Va tutto bene per te? Stai proteggendo il tuo popolo, aderendo strettamente al Dharma? Sono fedeli i tuoi servi? I tuoi nemici sono sotto controllo? Va tutto bene con l'esercito, le finanze, gli amici e la famiglia?". E re Visvamitra rispose che anche per lui tutto andava bene.
Il saggio Vasishtha continuò: "Posso offrire a te e al tuo vasto esercito l'ospitalità dell'eremo? Vi prego d'accettare e di essere miei ospiti oggi". Il re rimase perplesso: cosa potevano offrire quest'asceta e quest'eremitaggio a lui e al suo vasto esercito! Forse l'offerta era più d'intenzione che di fatto. Prendendola per tale, il re rifiutò gentilmente l'offerta. Ovviamente il saggio conosceva il pensiero del re e ripeté più volte l'offerta. Infine, incuriosito dal suo comportamento, il re accettò.
"Sabala - chiamò Vasishtha, e davanti a lui apparve una vacca - Oggi desidero intrattenere questo re e il suo grande esercito; ti prego di fare il necessario. Rendi disponibile qualsiasi tipo di vivanda ciascuno dei nostri ospiti desideri". E cosi la vacca fece! Cibo e bevande di ogni tipo, secondo il desiderio di ognuno, compresi i piatti e le posate - in breve, un banchetto reale di un lusso e una prodigalità mai visti prima - furono messi davanti a re Visvamitra e al suo numeroso esercito.
Davanti a questo miracolo inaudito il re rimase stupefatto, e dopo il pranzo andò da Vasishtha e gli disse: "Devo farti una richiesta. La vacca Sabala è davvero un gioiello di vacca; e i gioielli appartengono al re. Perciò dammi Sabala, e io ti darò in cambio centomila vacche".
Gentilmente, ma con fermezza, Vasishtha declinò l'offerta e rifiutò di separarsi da Sabala: "Tutte le mie attività religiose e i miei riti sacri dipendono da lei. Non mi separerò da lei neanche per un miliardo di vacche!". Il re non s'arrese, e offrì molto di più! Migliaia d'elefanti e cavalli, milioni di vacche, enormi quantità di gemme e gioielli... il re era pronto a dare a Vasishtha ricchezze illimitate, ma voleva Sabala.
Parimenti adamantino fu il saggio nel rifiutare tutte le offerte del re, spiegando ripetutamente che la vacca gli era indispensabile per i riti sacri e le elemosine quotidiane; e infine egli chiuse l'argomento dicendo: "A che servono tante parole: non ti darò Sabala".
Quando Vasishtha rifiutò di separarsi da Sabala, la vacca che appaga i desideri, re Visvamitra la portò via con la forza. Ma ben presto la vacca si liberò dei rapitori, tornò da Vasishtha e si lamentò: "O saggio, perché mi hai abbandonato?". Il saggio rispose amorevolmente: "Io non ti ho abbandonato, Sabala; ma il re ha un grande esercito e perciò è più potente di me. Che cosa posso fare?".
Sabala rispose prontamente: "Si dice che in questo mondo i veri potenti non sono i regnanti. Sono i saggi ad essere potenti: perché il potere dei forti è limitato alle loro armi, mentre il potere dei saggi è divino e infinitamente superiore. Se è tuo desiderio, metterò fine al re e al suo esercito". Accettando il consiglio, Vasishtha le ordinò: "Produci un potente esercito per distruggere l'armata del re".
Sabala creò immediatamente centinaia di guerrieri Pahlava; e quando furono uccisi dall'armata del re produsse centinaia di altri guerrieri di razza mista Shaka-Yavana, belli e di carnagione chiara. Essi combatterono furiosamente, ma il re usò tutte le armi che aveva, e gli Yavana, i Kamboja e i Barvara (tutti stranieri) furono decimati. Allora Vasishtha ordinò a Sabala di produrre più guerrieri. Dalla sua bocca uscirono Kamboja, dalle mammelle Barvara, dalle parti posteriori Yavana e Shaka, dagli stessi pori della sua pelle Harita, Kirata e altri stranieri. In brevissimo tempo tutti insieme distrussero l'intero esercito di Visvamitra, e perfino i suoi figli.
Solo un figlio sopravvisse alla carneficina. Affidandogli il regno, Visvamitra andò nell'Himalaya a pregare, adorare e meditare. Compiaciuto dalle sue austerità, il Signore Shiva gli apparve e gli concesse un dono. Visvamitra pregò: "Voglio conoscere i segreti di tutti i missili posseduti da dèi, demoni ed esseri celesti". Shiva esaudì la sua preghiera e gli svelò i segreti vitali riguardanti i missili.
Armatosi di questi, il re pensava fieramente che Vasishtha sarebbe stato facilmente sconfitto. Recatosi immediatamente all'eremo di Vasishtha, mise a sacco il luogo sacro con i missili. Scoppiò un terribile incendio, e gli eremiti fuggirono per la paura, anche se Vasishtha cercava di far loro coraggio promettendo di trattare il re a dovere. Anche gli uccelli e le bestie lasciarono l'eremitaggio.
Fortemente adirato dal corso degli eventi, il saggio Vasishtha disse a re Visvamitra: "Che tu sia maledetto: hai profanato questo sacro eremitaggio, rendendolo un luogo desolato". Il saggio stava lì dritto con il bastone alzato. E il suo bastone sembrava il bastone del giudizio di Yama, come il fuoco senza fumo che presagisce la dissoluzione cosmica.
La fiducia che il re aveva nelle armi e nella forza non fu scossa dal bastone da mendicante che Vasishtha impugnava. "Aspetta un momento", disse Visvamitra, e lanciò al saggio il mortale missile di fuoco. "Sto qui - disse Vasishtha - fai del tuo peggio, vile guerriero! Può la stupida forza di un guerriero affrontare il potere spirituale di un conoscitore dell'infinito Brahman?". Con stupore di Visvamitra, il missile di fuoco fu neutralizzato dal bastone di Vasishtha!
Uno dopo l'altro, Visvamitra usò tutti i missili i cui segreti gli erano stati rivelati dal Signore Shiva: il missile soporifico, il missile inebriante, i missili che producono un calore insopportabile, il missile che secca tutto, il missile che disintegra ogni cosa, il missile che infrange tutto come il fulmine, e un altro missile ancora fatale come la morte. Ma l'energia sprigionata da tutti questi missili fu assorbita facilmente dal bastone magico del saggio Vasishtha!
Sconfitto nel suo scopo, Visvamitra decise di usare il più potente di tutti i missili, il Brahma-astra, che poteva distruggere ogni cosa creata. Persino gli dèi e gli esseri celesti guardavano ansiosi e col fiato sospeso. Ma il bastone impugnato dal saggio rese impotente anche il Brahma-astra. Tuttavia l'impudenza del re provocò l'ira del saggio: da ogni poro della sua pelle emanò un'energia soprannaturale. Allora gli dèi e gli esseri celesti supplicarono Vasishtha: "Ti preghiamo, arresta questo flusso d'energia divina". Il saggio si calmò; ma Visvamitra fu umiliato completamente: "Nulla è la potenza di un re! La vera forza è quella che possiede un brahmana (conoscitore dell'Assoluto). Con il suo solo bastone, questo saggio ha neutralizzato tutti i miei missili mortali! Tornerò a praticare austerità: poiché è con le austerità che si ottiene lo stato di brahmana". Dicendo questo s'avviò verso sud e cominciò le sue austerità.
Dopo anni d'intense austerità, lo stesso Brahma, il Creatore, apparve davanti a lui e gli disse: "Ti do il riconoscimento di saggio reale", ma Visvamitra non fu soddisfatto. Egli voleva essere un brahmana! Perciò continuò le sue austerità.
In quello stesso periodo viveva un re chiamato Trisanku, che desiderava ascendere in cielo con tutto il corpo! Egli andò da Vasishtha con questa richiesta: "Desidero ascendere in cielo con tutto il corpo; e a tal fine praticherò cento riti sacri. Ti prego di condurre questi riti". Ma Vasishtha rifiutò. Trisanku però non era disposto ad arrendersi, perciò andò dai figli di Vasishtha e chiese loro di fargli il favore di condurre i cento riti sacri, affinché potesse ascendere in cielo con tutto il corpo.

[NOTA: 'Brahmana' non si riferisce solo a uno nato nella casta brahmana. Altri saggi anch'essi brahmana di nascita) fuggirono, ma non Vasishtha. Brahmana perciò è colui che conosce l'Assoluto. I missili qui nominati sono quelli che in seguito Visvamitra darà a Rama.]

Seccati dalla richiesta di Trisanku, i figli di Vasishtha risposero: "Il santo guru Vasishtha è devoto alla verità. Egli ha respinto la tua proposta: come puoi quindi rivolgerti ad altri con la stessa proposta? Se egli ha detto che non può essere o che non dev'essere fatto, bisogna lasciar perdere! Fare ciò che lui ha proibito equivarrebbe a insultarlo" Ma orgoglioso e avido, pur essendo un sovrano pio e nobile, re Trisanku non rinunciò al suo scopo. Così disse ai figli di Vasishtha: "Bene, allora cercherò aiuto altrove!". Questo fu per loro intollerabile; e lo maledirono: "Ti sei allontanato dalla luce della verità (il guru) e hai abbracciato le tenebre dell'egoismo. Perciò diventerai un essere scuro (candala), tanto impuro e sporco all'esterno come lo sei all'interno".
La mattina seguente re Trisanku si svegliò e s'accorse che anche il suo aspetto era cambiato, e che qualsiasi cosa toccava o veniva a contatto con lui diventava inquinata e sporca. Vedendo questa trasformazione, i suoi ministri e seguaci lo abbandonarono e tornarono in città. Il re, che era diventato un intoccabile, cercò rifugio da Visvamitra.
Pieno di compassione, Visvamitra chiese a Trisanku qual era la causa della terribile trasformazione; e questi narrò tutto ciò che era accaduto. Di com'era andato da Vasishtha e dai suoi figli con le migliori intenzioni, ma che non era servito a niente. E invece d'ascendere in cielo con tutto il corpo, aveva perso anche l'aspetto fisico di re ed era diventato un essere disprezzabile. "Sono sempre stato un re giusto e onesto. Volevo compiere cento riti religiosi che mi avrebbero permesso di ascendere in cielo con tutto il corpo. Guarda il mio stato attuale! Solo l'invisibile volontà del divino è suprema; lo sforzo personale sembra futile. La volontà divina domina tutto; soltanto la volontà divina è la nostra ultima risorsa. Oggi prendo rifugio in te. Non ho altro rifugio. Ti prego dì trovare il modo di vincere il mio fato attraverso lo sforzo personale".
Commosso dalla preghiera del re, Visvamitra mandò i suoi discepoli in tutte le direzioni per invitare uomini santi e sacerdoti al rito sacro che aveva deciso di condurre per realizzare il desiderio di Trisanku: "Invitate tutti da parte mia, anche i figli di Vasishtha". Tutti accettarono l'invito e andarono subito all'eremo di Visvamitra, tranne i figli di Vasishtha, che rifiutarono sprezzanti. Saputo questo, Visvamitra li maledì: "Nonostante si supponga che siano uomini santi dediti alla pratica di austerità, in questo modo essi mi insultano! Perciò moriranno e per settecento volte rinasceranno come intoccabili, dediti a lavori spregevoli".
Prima di cominciare il rito sacro che avrebbe permesso a Trisanku d'ascendere in cielo con tutto il corpo, Visvamitra si rivolse ai grandi saggi e ai sacerdoti riuniti là con lui e disse: "Impegnatevi a celebrare insieme a me il rito sacro che permetterà a Trisanku d'ascendere in cielo col suo corpo fisico".
Visvamitra stesso condusse il rito sacro, che tutti celebrarono seguendo fedelmente le ingiunzioni delle Scritture relative a quel rito. Quindi invocarono la presenza degli dèi affinché ricevessero le offerte: ma gli dèi non arrivarono. L'ira di Visvamitra fu terribile. Versando un'oblazione sul fuoco sacro, egli dichiarò: "Come sola ricompensa per le austerità che ho praticato esercitando il mio libero arbitrio, io reclamo l'ascensione fisica di Trisanku in cielo. O re, guarda il potere della mia volontà e del mio sforzo personale: tramite essi io ti mando in cielo con tutta la tua forma fisica".
Immediatamente, tra lo stupore di tutti, Trisanku cominciò ad ascendere in cielo nella sua forma fisica. Ma Indra, sovrano degli dèi e delle sfere celesti, lo scacciò dalle porte del cielo, dicendo: "Poiché sei stato maledetto dal tuo guru, qui non c'è posto per te! Ritorna sulla terra". Con queste parole Indra lo buttò fuori, e Trisanku cominciò a precipitare. Ma mentre stava per cadere sulla terra, egli riuscì a gridare a Visvamitra: "Salvami, proteggimi!".
Fuori di sé dalla collera, Visvamitra gridò: "Fermati!". E Trisanku s'arrestò, rimanendo sospeso nello spazio. Coi meriti guadagnati con le sue austerità e col proprio sforzo personale, e sfidando la volontà degli dèi, Visvamitra cominciò a creare un altro cielo, un altro gruppo di stelle e pianeti, un altro insieme di 'sette costellazioni' (come l'Orsa Maggiore) che dovevano ruotare intorno a Trisanku (come le altre ruotano intorno alla stella polare). Di fatto egli creò una nuova galassia nell'emisfero meridionale dello spazio. Pensava anche di creare un altro Indra, o forse voleva lasciare il nuovo cielo senza un capo.
Sconfitti, gli dèi e i demoni andarono umilmente da Visvamitra e affermarono: "O santo, Trisanku aveva perso tutti i suoi meriti facendosi maledire dal suo guru, e ignorando il consiglio del suo guru. Perciò non può ascendere fisicamente in cielo". Visvamitra rispose: "Ho dato la mia parola che ci andrà, e non posso infrangere la mia promessa. Perciò lasciategli godere la beatitudine celeste là dove si trova, e lasciate anche che i corpi celesti che ho creato continuino ad esistere per questo ciclo cosmico". Gli dèi acconsentirono, e concessero anche che Trisanku rimanesse sospeso nello spazio, ma felice come un dio.
Tutto ciò fu però d'ostacolo alle pratiche spirituali di Visvamitra, che con questo incidente perse tutti i meriti che aveva guadagnato con le sue austerità precedenti. Perciò lasciò la sua dimora nel sud e andò a Pushkar, ad ovest, dove ricominciò le sue pratiche.
In quel periodo regnava ad Ayodhya re Ambarisha, che era allora impegnato a celebrare il sacrificio-del-cavallo. Come al solito, Indra rubò il cavallo. Pieno d'amarezza il sacerdote ufficiante disse al re: "Il cavallo è stato rubato a causa della vostra negligenza; il peccato di negligenza distrugge un monarca. Se egli non riesce a trovare il cavallo, l'espiazione prescritta è l'offerta di un sacrificio umano".
Turbato da queste frasi solenni, il re cercò di trovare il cavallo, ma non riuscì a trovarlo da nessuna parte. Nel corso dei suoi viaggi arrivò all'eremitaggio del saggio Ricika, al quale chiese di offrire uno dei suoi figli per l'espiazione. Il saggio rifiutò di separarsi dal suo primogenito, mentre sua moglie rifiutò di separarsi dall'ultimo figlio. Allora il figlio mezzano, chiamato Sunahsepa, osservò: "Il figlio maggiore è indispensabile al padre; il minore è indispensabile alla madre; credo che io, che sono il mezzano, sia l'unico non necessario". Sunahsepa si offrì di andare con il re. Questi diede abbondanti doni ai genitori del ragazzo e partì con lui.
Lungo la strada, Sunahsepa notò Visvamitra intento nelle sue austerità, e cercando rifugio in lui lo pregò: "Signore, non ho nessuno che si prenda cura di me in questo mondo; perciò cerco rifugio in voi. Per carità, fate qualcosa perché il sacrificio del re si possa concludere con successo, e io possa godere di una lunga vita per praticare austerità e andare in cielo". Mosso a compassione, il saggio reale si rivolse ai suoi figli e chiese chi di loro avrebbe preso il posto di Sunahsepa per salvarlo. Uno dei figli rimproverò aspramente il padre: "Com'è strano, padre, che desideri gettare via i tuoi figli, per salvare il figlio di un altro!".
Visvamitra s'adirò per l'impudenza del figlio. E tale impudenza doveva essere punita, sia che si trattasse dei figli di un altro o dei propri. Perciò il saggio pronunciò questa maledizione: "Subirai lo stesso fato dei figli di Vasishtha".
Rivolto a Sunahsepa, Visvamitra disse: "Durante il rito sacro, recita i due inni che ora t'insegnerò, e conseguirai il tuo scopo". Ambarisha riprese il rito interrotto e lo portò a compimento. Al momento giusto Sunahsepa recitò gli inni, e lo stesso Indra - compiaciuto nell'udirli - apparve sul posto. Egli benedì Ambarisha e benedì Sunahsepa con una lunga vita.
Visvamitra continuò le sue austerità a Pushkar.
Dopo mille anni di austerità, gli dèi - capeggiati da Brahma, il Creatore - andarono dall'asceta Visvamitra e gli dissero: "Ora sei diventato un rishi, non semplicemente un saggio reale". Ma Visvamitra continuò le sue austerità con rinnovato zelo.
Un giorno la ninfa celeste Menaka andò a fare il bagno nel lago di Pushkar. Il rishi la vide e perse il suo cuore per lei. Anche lei rispose al suo invito; ed essi cominciarono a vivere insieme nell'eremitaggio del rishi. Per dieci anni vissero insieme, godendo di tutti i piaceri. Un giorno però egli realizzò che anche questo era un altro ostacolo alle sue pratiche spirituali! Percependo il cambiamento che era avvenuto in lui, Menaka cominciò a tremare di paura: ma congedandosi da lei con parole affettuose, il rishi se ne andò al nord.
Ancora una volta riprese le austerità. Persino gli dèi erano stupefatti. Insieme a Brahma, essi andarono di nuovo da Visvamitra e gli dissero: "Siamo compiaciuti delle tue austerità, ora tu sei il più grande dei rishi, perciò sei un maharishi". Visvamitra rispose umilmente: "Se m'aveste chiamato brahmarishi, avrei pensato che voi ritenevate che io avessi conquistato i sensi". "Non ancora - rispose Brahma, che aggiunse: Continua!". Visvamitra intensificò le sue austerità. Con le braccia alzate, stando in piedi senza alcun sostegno, senza mangiare, circondandosi con i cinque fuochi d'estate, rimanendo solo col cielo sulla testa nella stagione delle piogge, e giacendo sulla nuda terra d'inverno - egli intraprese austerità inaudite.
Gli dèi s'inquietarono, perché le austerità di Visvamitra minacciavano la loro posizione e il loro potere. Allora Indra disse a un'altra ninfa celeste, chiamata Rambha: "Va' e distrai la sua mente". Ma siccome lei temeva la maledizione del saggio, Indra la rassicurò: "Non temere, anch'io sarò con te; ti starò vicino sotto forma di uccello".
Convinta, Rambha andò all'eremitaggio. Ma non appena Visvamitra la vide, capì il tranello e la maledì: "Tu sei venuta a rovinare le mie austerità! Bene, resta lì pietrificata. Dopo tanto tempo il saggio Vasishtha ti farà riacquistare la tua forma celeste". Rambha fu mutata in pietra. Indra e Cupido volarono subito via!
Visvamitra però non si rallegrò. Aveva vinto la battaglia contro la lussuria; ma era caduto vittima dell'ira, e di conseguenza aveva perso quanto aveva acquisito con le sue austerità. "Conquisterò la collera - disse a sé stesso - non parlerò, non respirerò nemmeno. Finché non raggiungerò lo stato di brahmana, rimarrò qui in piedi, senza cibo né bevanda, senza neanche respirare". Un tale voto non era stato preso da nessuno prima di Visvamitra.
Per l'ultimo periodo delle sue pratiche spirituali Visvamitra scelse l'oriente. Questa volta esse furono più dure che mai. Per quanto venisse fortemente provocato, non s'adirava mai. Dopo mille anni, concluso con successo il voto di silenzio e digiuno, mentre stava per rompere il digiuno e s'accingeva a mangiare, Indra stesso gli apparve sotto le sembianze di un mendicante e gli chiese del cibo. Con calma, senza perdere la pazienza, Visvamitra gli diede il cibo che aveva preparato per sé, e poiché non ne rimase altro, continuò il digiuno e il silenzio per altri mille anni.
Il 'fuoco' delle sue austerità, l'energia psichica prodotta dalle sue pratiche, divenne enorme. Sembrava che la sua energia avrebbe consumato il mondo intero.
Allora gli dèi andarono da Brahma e lo pregarono "L'energia generata dalle austerità di Visvamitra sta bruciando il mondo. Noi tutti abbiamo cercato di distrarlo in maniere diverse: ma la sua pratica continua indisturbata. Ora non c'è altra alternativa che concedergli quello che vuole, anche se fosse il governo degli dèi".
Brahma e gli dèi si recarono da Visvamitra, e il Creatore gli disse "Sono estremamente compiaciuto delle tue austerità, o Brahmarishi! Con la forza delle tue austerità hai veramente raggiunto lo stato di brahmana". Felicissimo di udire le benedizioni del Creatore, Visvamitra affermò: "Se tale è la tua volontà, Signore, fa' che 'Om' e Vashat e i Veda entrino nel mio cuore e diventino parte del mio essere. Inoltre vorrei che il riconoscimento d'essere un Brahmarishi mi venisse dal supremo saggio Vasishtha".
Allora Brahma e gli altri dèi andarono dal saggio Vasishtha con quella proposta. Vasishtha acconsentì immediatamente, e andato da Visvamitra, lo salutò amichevolmente e gli disse: "Tu sei davvero un Brahmarishi, pienamente realizzato". Così le straordinarie austerità di Visvamitra avevano portato frutto.
"O Rama, questa è la storia della vita gloriosa del potente saggio Visvamitra; e invero tu sei tre volte benedetto a godere della sua guida e compagnia" - concluse Satananda.
Re Janaka, che aveva ascoltato questa storia esaltante, cadde ai piedi di Visvamitra ed esclamò: "Sono davvero fortunato che, in compagnia di Rama, tu hai benedetto il rito sacro che sto conducendo. Sono stato molto ispirato dalla storia della tua vita narrata da Satananda Desidererei ascoltare ancora, ma adesso devo scusarmi, perché s'avvicina l'ora della preghiera serale. Ti prego di benedirmi di nuovo con la tua presenza domani".
La mattina seguente, di buon'ora, re Janaka invitò nel suo palazzo Visvamitra e i principi Rama e Lakshmana. Al loro arrivo li onorò debitamente, e quindi si rivolse a Visvamitra: "O santo, attendo i tuoi ordini: cosa posso fare per te?". In risposta, Visvamitra disse: "I due figli di Dasaratha qui presenti desiderano vedere il famoso dhanus in tuo possesso".
Il re mandò a prendere il dhanus, e nel frattempo raccontò la storia dell'arma, dicendo:
"Voi sapete come il Signore Rudra distrusse anticamente il rito sacro di Daksha. Irritato perché gli dèi non gli avevano lasciato nemmeno una parte delle offerte rituali, egli minacciò di distruggerli tutti con la sua arma. Allora gli dèi caddero ai suoi piedi e appagarono il Signore. Subito soddisfatto, il Signore lasciò loro l'arma come ricordo. E a loro volta gli dèi la diedero a un mio antenato, chiamato re Devarata.
"Alcuni anni fa, mentre aravano una parte del mio terreno, trovai in un solco una bambina divina. Perciò la chiamai Sita, e l'adottai come figlia. Crescendo diventò una bellissima ragazza, e molti principi la chiesero in sposa. Ma io non volevo dare Sita, che ha avuto una nascita immacolata, a una persona indegna. Fu deciso che solo quell'eroe che fosse riuscito a far funzionare quest'arma avrebbe ottenuto la mano di Sita. Tutti questi principi ed altri ancora hanno provato, ma essi non hanno saputo neppure cosa farci; non hanno saputo né toccarla né tenerla in mano. Se Rama riuscirà a usare quest'arma, gli darò in sposa Sita che è d'origine divina".
Intanto cinquemila uomini eccezionalmente robusti avevano portato l'arma nella sua pesante custodia montata su ruote.
Il saggio Visvamitra disse a Rama: "Giovanotto, ti prego, osserva quest'arma". Rama aprì la custodia ed esclamò: "So che cos'è: penso che riuscirò a maneggiarla e anche a farla funzionare". E mentre migliaia di persone guardavano, Rama la prese, la caricò e quindi tirò: con un rumore assordante l'arma si spezzò nel mezzo.
Re Janaka disse: "Sant'uomo, ora ho visto la forza di Rama, e ho visto con i miei occhi quest'avvenimento supremamente meraviglioso, incredibile e vero. Sita ha trovato il suo sposo, e darà alla famiglia dei Janaka grande fama e gloria".
Quindi re Janaka e il saggio Visvamitra inviarono veloci messaggeri ad Ayodhya per informare re Dasaratha e per invitare tutti a Mithila per il fausto matrimonio di Rama e Sita.
Gli ambasciatori di re Janaka giunsero presto ad Ayodhya e chiesero un'udienza con re Dasaratha. Con le mani giunte e con voce dolce, essi dissero: "Maestà, re Janaka vi manda i suoi saluti tramite noi, suoi umili servi, e s'informa sulla vostra salute. Tramite noi egli vi manda il seguente messaggio di gioia: "Tu saprai già che avevo promesso che chi fosse riuscito a usare la potente arma degli dèi, che è in mio possesso, avrebbe conquistato la mano di mia figlia Sita. Questa condizione è stata realizzata dal tuo grande e degno figlio Rama. Perciò prego umilmente che tu ci benedica presto con la tua presenza, affinché possa adempiere la mia promessa e dare Sita in sposa a Rama". Questo messaggio ha la viva approvazione sia di Visvamitra che di Satananda".
Dasaratha fu felicissimo di udire questo messaggio. Subito egli fece chiamare i suoi consiglieri e precettori, diede loro la bella notizia e chiese il loro consiglio: "Se le credenziali di re Janaka sono per voi accettabili, allora procederemo verso la sua capitale senza perdere tempo". I consiglieri e tutti gli altri acclamarono la proposta, e il re compiaciuto decise che sarebbero partiti il giorno dopo.
Secondo le sue istruzioni, re Dasaratha era preceduto dai suoi tesorieri, che portavano ingenti ricchezze e gemme preziose; da un potente esercito; quindi dai saggi e dai precettori, e infine dai sacerdoti di famiglia.
Nel frattempo gli ambasciatori di re Janaka gli portarono la notizia, ed egli organizzò a Mithila un grande ricevimento in onore di re Dasaratha. L'incontro di questi due monarchi fu commovente e ispirante.
Nel suo discorso di benvenuto, re Janaka disse: "Mi sento onorato e benedetto dalla tua visita a Mithila, o migliore tra gli uomini! Presto vedrai i tuoi eroici figli. Il mio casato viene elevato da questa alleanza di matrimonio con il casato di Raghu. Domattina, dopo le debite cerimonie, e con le benedizioni dei saggi, assisterai allo sposalizio".
Nella sua risposta, re Dasaratha disse: "Così ho sentito dire: chi riceve un dono è nelle mani del donatore! Tu sei il donatore, in quanto desideri dare tua figlia in sposa a mio figlio. E certamente io farò tutto quello che dici".
Quest'espressione di benignità e dolcezza da parte dell'anziano re Dasaratha commosse re Janaka.
Poco dopo il ricevimento regale, Dasaratha vide e abbracciò Rama e Lakshmana, che toccarono umilmente i piedi del padre. Poi ognuno di loro si ritirò nel proprio appartamento.
La mattina seguente re Janaka mandò a chiamare suo fratello Kusadvaja, re di Sankasya, dopo averlo informato delle imminenti celebrazioni. Poi invitò gentilmente re Dasaratha alla corte reale, insieme al suo precettore e ai sacerdoti.
Dopo aver preso posto nella corte, Dasaratha disse: "Il saggio Vasishtha è il nostro portavoce, a lui chiedo di portarvi a conoscenza della nostra discendenza". Vasishtha elencò i nomi degli antenati di Dasaratha, tra i quali c'erano Marici, Kasyapa, Vivasvan, Manu, Ikshvaku, Mandhata e Asita.
Quest'ultimo era morto nell'Himalaya, lasciando due mogli che aspettavano ognuna un bambino. Una di loro diede del veleno all'altra, per distruggerne il feto. Ma Kalindi incontrò il saggio Chyavana, per grazia del quale il feto che era stato avvelenato rimase illeso. Il bambino che era stato avvelenato prima di nascere fu chiamato Sagara, poiché era 'sa' (con) 'garena' (veleno). Dopo Sagara vennero Amsuman, Bhagiratha, Kakutstha, Raghu, e così via fino ad Aja, il cui figlio è Dasaratha, i cui figli sono Rama e Lakshmana.
E Vasishtha concluse: "Immacolato è il lignaggio di re Dasaratha, fin dalle origini. Poiché tutti i re sono stati pii, eroici e veritieri. Io chiedo le mani delle vostre due figlie per Rama e Lakshmana. A spose tanto meritevoli devono essere dati sposi degni di loro".
A sua volta, lo stesso re Janaka elencò la sua discendenza, poiché come disse: "In occasione del matrimonio della propria figlia con un degno sposo, chi appartiene ad una dinastia rispettabile deve fare conoscere i propri antenati". Tra i suoi antenati c'erano Nimi, Mithi, il primo Janaka, Suketu, Devarata, Maharoma, Swarnaroma e Hriaswaroma.
Janaka continuò: "Quest'ultimo ebbe due figli: mio fratello Kusadvaja e me medesimo. Dopo avermi insediato sul trono, nostro padre si ritirò nella foresta. In seguito, il potente re di Sankasya - di nome Sudhanva - invase Mithila; ma fu sconfitto e ucciso da me. Quindi io installai Kusadvaja sul trono di Sankasya.
"Questa è la mia discendenza. Io dico, e lo ripeto tre volte al di là di ogni dubbio, che ti do le mie due figlie: Sita - che è d'origine divina - e anche la mia seconda figlia Urmila, perché siano tue nuore; Sita come moglie di Rama e Urmila come moglie di Lakshmana. Perciò si dia subito inizio alle cerimonie auspicali che precedono le nozze. E il terzo giorno a partire da oggi si celebreranno le nozze. Che si diano abbondantemente doni per auspicare il benessere di Rama e Lakshmana".
I due potenti saggi Vasishtha e Visvamitra avvicinarono re Janaka e gli dissero: "O re, la dinastia di re Dasaratha e la tua sono grandissime e senza pari. E perciò naturale che le tue figlie sposino i figli di re Dasaratha. Ma c'è di più! Noi suggeriamo che le due figlie di tuo fratello Kusadvaja siano date in matrimonio agli altri due figli di re Dasaratha".
Felice, re Janaka rispose con grande umiltà: "Considero un'incomparabile benedizione che questa proposta venga da due saggi come voi. Perciò così sia: che le figlie di Kusadvaja diventino le mogli di Bharata e Satrughna".
Alzandosi dal suo seggio, re Janaka indicò due posti elevati riservati ai due saggi nel padiglione delle nozze, e chiese loro umilmente: "Voi avete conferito il più grande dharma (benedizione o merito) su di me. Io sono il vostro umile discepolo! O migliori tra i saggi, accettate benignamente questi seggi elevati. Vi prego di condurre le cerimonie auspicali".
Nello stesso tempo re Dasaratha si congedò da re Janaka e da re Kusadvaja e si ritirò nel suo accampamento, per condurre la parte delle cerimonie che riguardava gli sposi. Là, per il bene dei suoi figli, egli diede in carità migliaia di vacche adornate d'oro alle persone religiose.
Nello stesso giorno arrivò Yudhajit, cognato di re Dasaratha e fratello della regina Kaikeyi, con il messaggio che il padre della regina desiderava vedere suo nipote Bharata e anche Satrughna.
La vera e propria cerimonia nuziale ebbe inizio nel padiglione. Dasaratha s'avvicinò all'entrata e si fece annunciare a Janaka, che gli rispose: "Questa è la casa dell'imperatore Dasaratha! Ha forse bisogno di chiedere il permesso a qualcuno per entrare? Vieni! Tutti noi aspettavamo con ansia il tuo arrivo".
Come preliminare alla cerimonia delle nozze, cominciò l'adorazione del fuoco sacro. I più santi tra i saggi recitarono i mantra. Al culmine della cerimonia re Janaka condusse Sita da Rama e, ponendo la mano di lei in quella di lui, gli disse: "O Rama, questa è Sita, mia figlia, che da oggi è la tua compagna nella vita. Accettala. Tieni la sua mano nella tua. Lei ti seguirà sempre come la tua ombra". Il mondo intero e gli esseri celesti gioirono. Poi Janaka diede Urmila a Lakshmana; e quindi, a nome di suo fratello, diede Mandavi a Bharata e Srutakirti a Satrughna.
Ora le quattro coppie benedette adorarono il fuoco sacro e s'inchinarono umilmente ai saggi e ai genitori per ricevere le loro benedizioni. Quindi si ritirarono nei loro appartamenti. Dopo averli accompagnati, anche i re e tutti gli altri si ritirarono nei propri alloggi.
La mattina seguente, tutti i re, i saggi e gli ospiti erano pronti a partire. Il saggio Visvamitra si congedò dai re e partì immediatamente per l'Himalaya. Anche re Dasaratha si stava preparando a partire, quando re Janaka gli consegnò un'ingente e ricca dote: migliaia di vacche, tappeti, carri, serve, ecc. Quindi re Janaka tornò a Mithila.
Mentre re Dasaratha tornava ad Ayodhya con i suoi figli, le nuore e tutti gli altri, lungo la strada ci furono sia buoni che cattivi presagi!
Ben presto essi videro a distanza una terribile tempesta di polvere. Quindi apparve davanti ai loro occhi il terribile Parasurama, il nemico giurato degli kshatriya, con la sua ascia e i capelli intrecciati sulla testa. I saggi e i sacerdoti intorno al re rimasero perplessi, ma ricevettero Parasurama con grande rispetto e devozione.
Tuttavia, inflessibile nella sua determinazione, Parasurama si rivolse a Rama dicendo: "Ho sentito parlare della tua meravigliosa impresa nell'usare l'arma che possedeva re Janaka. Ne ho portata un'altra con me! Caricala e usala, o Rama; mostrami il tuo valore e la tua forza. Se ci riuscirai, ti sfiderò a duello".
Scosso da quanto aveva udito, re Dasaratha disse: "O brahmana, avevi promesso che non avresti più ucciso i condottieri e i sovrani (gli kshatriya), dopo averne ammazzati tanti. Perché ora vieni meno alla tua parola d'onore? Certamente sei venuto qui per annientarmi del tutto; perché senza di Rama nessuno di noi qui continuerà a vivere.
Ignorando queste parole, Parasurama continuò a rivolgersi a Rama: "L'arma che hai rotto a Mithila e quella che ho qui con me furono entrambe forgiate da Visvakarma. Il Signore Shiva usò quell'altra, mentre questa fu data al Signore Vishnu. Una volta gli dèi vollero determinare quale delle due divinità fosse più potente. Istigati da Brahma, i due cominciarono a combattersi in duello. Ma il Signore Vishnu fece tacere l'arma di Shiva. E quindi fecero pace. Sconfitto, il Signore Shiva diede la sua arma (quella che tu hai rotto di recente) a Devarata. Mentre l'arma in mio possesso il Signore Vishnu la diede al saggio Ricika, che a sua volta la diede a mio padre. Ma siccome egli rifiutò di usarla, approfittando di questo Sahasrabahu lo uccise. Per vendicare la sua morte, io uccisi tutti gli kshatriya, conquistai il mondo e lo offrii al saggio Kasyapa.
"Dopo questi fatti mi sono ritirato dal combattimento attivo e ora vivo sul monte Mahendra. Ma avendo saputo della tua impresa a Mithila, sono venuto qui a sfidarti. Carica anche quest'arma, e usala se puoi. Poi ti sfiderò a duello".
Dopo un rispettoso silenzio, in omaggio agli anziani presenti nell'assemblea, Rama rispose: "Sant'uomo, ho sentito parlare di te e del modo in cui hai vendicato l'assassinio di tuo padre: e l'approvo. Adesso guarda il mio valore!". Prendendo l'arma, Rama la caricò e la preparò; quindi disse con ira a Parasurama: "Non posso ucciderti con questa, perché sei un adorabile brahmana. Ma una volta preparata essa dev'essere usata. Dimmi: a che cosa devo puntarla? O ti renderò impossibile muoverti, oppure ti priverò dei mondi che hai guadagnato".
Parasurama disse: "Vinsi tutta la terra e la offrii al saggio Kasyapa. Poi egli mi disse: "Non devi vivere nel mio regno", e quindi mi ritirai sul monte Mahendra. Ma ti prego, non privarmi del movimento. Ritornerò subito sul monte Mahendra. Puoi privarmi dei mondi che ho guadagnato. Non mi vergogno d'essere stato sconfitto da te: perché so che tu sei il Signore Vishnu in persona, e per questo conoscevi bene l'arma! Usa l'arma, Rama, e io partirò".
Rama lanciò il missile. E dopo aver salutato umilmente Rama, Parasurama andò sul monte Mahendra.
Vedendo che re Dasaratha era ancora esterrefatto, Rama lo informò rispettosamente della partenza di Parasurama. Tutto il gruppo continuò il viaggio, e presto raggiunse Ayodhya, la capitale.
I cittadini, che erano stati già informati e delle imprese di Rama e del suo matrimonio, si raccolsero lungo il percorso del corteo regale per potere vedere, salutare e benedire Rama.
Arrivati al palazzo, i giovani e le loro spose furono amorevolmente ricevuti dalle regine. Da allora le quattro coppie divine vissero felicemente, adempiendo tutti i loro doveri familiari, sociali e religiosi.
Un giorno re Dasaratha ricordò a Bharata e a Satrughna che lo zio di Bharata era in attesa di condurli a far visita al nonno. Quindi, dopo aver salutato i genitori e anche Rama, Bharata partì insieme a Satrughna per andare a trovare suo nonno.
Rama e Lakshmana continuarono a servire i genitori e i precettori, rendendo in particolare a questi ultimi tutto il servizio che doveva essere fatto. In questo modo essi deliziavano i cuori di re Dasaratha, dei saggi e di tutti gli altri. Il popolo era molto contento della nobile indole di Rama. Sita e Rama erano immensamente devoti l'un l'altro. Sita conosceva anche le intenzioni e i desideri inespressi di Rama, e li esaudiva con amore.

FINE DEL BALA KANDAM

 

 

 

 


Libro secondo: AYODHYA KANDAM - La vita ad Ayodhya

Vedendo l'amato figlio Rama crescere e diventare un giovane principe pieno di qualità insuperabili, la regina Kausalya era piena di gioia suprema; come lo era stata Aditi nel vedere crescere Indra. Rama era un giovane perfetto, che possedeva tutte le nobili qualità: era dotato di perfetto autocontrollo ed era paziente con gli errori degli altri, ma lui stesso non agiva mai male. Cercava la compagnia degli anziani e dei saggi. Era molto colto e raffinato, e anche il suo comportamento era molto educato. Le sue azioni erano governate dal più alto codice di giustizia; e non era interessato ad una condotta indegna. Nell'arte della guerra era più che un maestro. Sapeva quando usare la violenza e quando controllarsi. Anche il suo corpo era perfetto, sano, forte e bello. Era svelto di mente, e capace di leggere il pensiero e le intenzioni di chiunque andasse da lui. Era molto preparato nelle sacre Scritture, e perciò conosceva bene le ingiunzioni e le proibizioni riguardanti i tre scopi della vita (il Dharma, il benessere materiale, e anche la ricerca del piacere). Egli non dimostrava simpatie o antipatie verso gli altri, e quindi conquistava l'amicizia di tutti. Era veramente l'incarnazione di tutte le buone qualità, ed era - per così dire - la vita stessa delle persone che si muoveva all'esterno dei loro corpi.
Re Dasaratha era felicissimo di tutto ciò: era molto fiero di Rama e l'amava molto. Ma in questo periodo avvertì dei presagi di terribili mali. E poi stava pure invecchiando; perciò gli fu naturale pensare che la sua fine era prossima. E si chiese: "Come posso fare per assicurarmi che Rama ascenda al trono mentre sono ancora in vita? Invero egli è più che degno d'essere re. Io sono vecchio e ho vissuto abbastanza. Sarebbe per me la più grande benedizione vedere Rama, l'amato di tutti, governare la terra prima che io vada in cielo".
Il re non perse molto tempo prima d'informare i ministri, i precettori ed altri del suo desiderio. E poiché Rama era assai benvoluto da tutti i sudditi, dai ministri e dai precettori, non ci fu di fatto alcun problema né impedimento alla sua ascesa al trono. Allora il re invitò a corte i capi delle comunità di tutte le città e i paesi del suo regno, per conoscere la loro opinione. Inoltre invitò i re e i governanti di tutti i regni e gli stati confinanti, per avere anche la loro approvazione, affinché Rama fosse sicuro non solo della lealtà dei suoi sudditi, ma anche dell'amicizia di tutti i vicini. Tuttavia, per una svista, re Dasaratha aveva dimenticato d'invitare suo suocero, il re dei Kekaya, e il suocero di suo figlio, re Janaka.
Quando tutti gli invitati arrivarono, furono riuniti a corte.
Ora re Dasaratha si rivolse all'assemblea con queste parole: "Ho vissuto a lungo e per molto tempo ho portato sulle spalle gli onerosi doveri di un re. Questo corpo è vecchio e stanco. Desidero nominare mio figlio per proteggere il mio popolo, e dare a questo corpo il necessario e meritato riposo, ritirandomi. Sono convinto che egli sarà superiore a me e a tutti i miei antenati, e che il suo regno sarà una grandissima fortuna per la terra. È questo accettabile per voi?". L'assemblea applaudì di cuore la proposta del re, e il suo portavoce disse: "Maestà, davvero ci avete governato bene e a lungo. È ora che Rama, il nostro prediletto, salga al trono".
Il re si rivolse nuovamente a loro: "Sono contento della vostra spontanea risposta. Ma vi prego, ditemi, perché volete che Rama sia incoronato mentre io sono ancora in vita?".
La risposta fu di nuovo spontanea e immediata. L'assemblea assicurò il re di non essere dispiaciuta con lui, ma che adorava Rama. Il portavoce disse ancora: "Rama è un sat-purusha, l'uomo ideale devoto alla verità, la fonte della giustizia e del benessere. Egli è dotato di grande conoscenza, saggezza, valore, compassione, autocontrollo e ogni altra buona qualità che l'uomo ideale deve possedere; inoltre egli s'identifica totalmente con le gioie e i dolori del popolo e, come tale, è il regnante ideale. Egli è degno di governare i tre mondi, non solo questo: e né la sua ira né il suo piacere sono senza motivo. Noi sentiamo che il regno è impaziente di vedere Rama installato sul trono. Sappiamo che tutto il popolo, e specialmente le donne, pregano ogni giorno perché egli diventi il loro re. Dasaratha fu felicissimo e li ringraziò tutti per il consenso dato alla sua proposta.
Dopo che l'assemblea s'era sciolta, re Dasaratha disse umilmente al saggio Vasishtha: "Signore santo, fa' che si prepari presto tutto quanto è necessario per installare Rama sul trono". Vasishstha a sua volta diede istruzioni ai ministri, che in seguito riferirono al re che tutto era stato preparato. Allora il re mandò a chiamare Rama, che non appena giunse si prostrò ai piedi del padre. Dopo averlo abbracciato, il re gli comunicò le sue intenzioni: "Tu sei il maggiore e il più amato dei miei figli; e anche il prediletto del nostro popolo. Perciò sali al trono come yuvaraja (principe ereditario). Tu eccelli in tutto: ma prima dell'incoronazione ti darò questo consiglio: "Scaccia i vizi e abbraccia la virtù. Fa' ciò che piace ai tuoi amici e al popolo, ed essi ti saranno devoti". Nel frattempo alcuni amici di Rama andarono da sua madre Kausalya e le comunicarono la bella notizia. La regina e tutti quelli che ne vennero a conoscenza pregarono Dio per il successo dell'incoronazione.
Ripensandoci, re Dasaratha decise di far chiamare nuovamente Rama! Vedendo di nuovo Sumantra fuori dei suoi appartamenti e chiedendosi perché fosse tornato, Rama lo sollecitò: Dimmi senza riserve cos'hai in mente". Sumantra disse soltanto: "Il re vuole rivederti immediatamente".
Rama andò, e il re gli parlò di nuovo: "Ho vissuto molto e ho goduto di tutti i piaceri reali, ho dato tanto in carità e ho praticato molti riti religiosi. Dopo tante preghiere, mi sei nato tu. Ho pagato tutti i debiti che un uomo deve ai saggi, agli dèi e ai Mani. L'unica cosa che mi resta da fare è vederti sul trono di Ayodhya. E ho visto molti cattivi presagi, molti sogni terribili, che presagiscono calamità. Anche gli astrologi dicono che, secondo le mie stelle, una calamità è imminente. Perciò, desidero incoronarti immediatamente: domani! Devo farlo prima che la mente volubile cambi; perché la mente degli esseri umani è volubile. Ti ho fatto richiamare per dirti questo: domani ci sarà la tua incoronazione. Perciò stasera devi digiunare, insieme a Sita, e osservare una rigida disciplina. Penso sia meglio che tu salga al trono mentre Bharata è lontano da Ayodhya. Egli è certamente un giovane nobile; ma nessuno può dire cos'è capace di fare la mente".
Rama lasciò il re e tornò nel suo appartamento, ma riuscì subito per andare in cerca di sua madre. Kausalya, insieme a Sumitra e a suo figlio Lakshmana, era andata nel tempio a offrire preghiere al Signore per il successo dell'incoronazione. Rama stesso annunciò loro le intenzioni del re e chiese le loro benedizioni. Felice, Kausalya lo benedì: "Rama, figlio mio, possa tu vivere a lungo, senza nemici. Possa tu portare gioia ai miei parenti e a quelli di Sumitra. Ti ho avuto dopo anni d'infelicità e di austerità, che però ora rimangono solo come vaghe memorie. Le mie preghiere non sono state invano!". Poi Rama si rivolse a Lakshmana: "Io vivo per te, fratello, e anche questa corona l'accetto per amor tuo. Gioisci e godi della sovranità!". Quindi Rama si ritirò per la notte.
Ma il re non riposava ancora! Mandò a chiamare Vasishtha e gli comunicò la sua decisione: "Ti prego, va' da Rama e digli tutto ciò che deve fare stanotte". Vasishtha si recò al palazzo di Rama, anche se non fu facile. S'era sparsa infatti la voce dell'incoronazione, e le strade erano piene di gente; e se era difficile muoversi, lo era ancor più guidare un veicolo! Le strade di Ayodhya furono pulite e spruzzate con acqua profumata. C'erano bandiere e festoni dappertutto. In qualche modo Vasishtha arrivò da Rama e gli ingiunse di digiunare, ecc. Poi tornò dal re e l'informò che tutto il necessario era stato fatto. Quindi il re si ritirò nel suo appartamento.
Non appena Vasishtha lasciò il suo palazzo, Rama fece il bagno e andò nel tempio del Signore Narayana. Dopo aver adorato il Signore, lui e Sita s'adagiarono su una stuoia di paglia, con i sensi sotto controllo e la mente rivolta ai piedi del Signore Narayana. Poi egli si svegliò tre ore prima del sorgere del sole e si mise ad adorare il Signore e a compiere i vari riti religiosi che precedono la cerimonia dell'incoronazione.
In ogni parte della città la gente si riuniva e discuteva il glorioso evento del giorno. Numerose compagnie di artisti recitavano, e alcune di esse mettevano in scena opere che parlavano di Rama e dei suoi antenati. Dappertutto il popolo aveva eretto dei 'dipa-vriksha' (alberi con lampade decorative). Tutti cantavano le glorie di Rama.
Non si sa come, ma Kaikeyi (l'ultima moglie di Dasaratha) non era stata informata di tutto ciò. La sua serva Manthara aveva visto per caso i festeggiamenti e le celebrazioni che si svolgevano in città, e aveva anche notato che le serve di Kausalya erano vestite lussuosamente. Informandosi, era venuta a sapere la causa di tutto questo.
Allora si precipitò da Kaikeyi, che era già andata a dormire, e scuotendola violentemente le disse con grande agitazione: "Alzati! Come puoi riposare? T'aspetta una grande disgrazia. La persona che tu ami di più, la persona che finge d'amarti teneramente e di cui ti fidi ciecamente, sta per tradirti e gettarti nella miseria".
Tutta calma, Kaikeyi le chiese: "Stai male? Che cosa stai dicendo?". Ma agitandosi ancora di più, Manthara rispose: "La tua rovina è vicina. Domani re Dasaratha incoronerà Rama".
Manthara continuò: "Tu sei figlia di un re. Tu sei la sposa prediletta di un grande re. Eppure non capisci le complessità degli intrighi di palazzo. Io sono solo la tua serva, devota al tuo benessere. Perciò prevedo chiaramente la tua rovina quando Rama, e quindi sua madre Kausalya, diventeranno potenti; allora la tua buona fortuna finirà, e di conseguenza anche la mia. Oh, quale tragedia: tu ti sei fidata del re e lo hai amato, senza renderti conto che tenevi un rettile velenoso vicino al tuo seno. Tu e tuo figlio Bharata siete stati ingannati dal re. Svegliati, Kaikeyi, e agisci prontamente per salvarti".
Felice delle buone notizie ricevute e senza corrispondere al panico che aveva invaso Manthara, Kaikeyi diede alla serva dei ricchi doni di valore, e disse: "Io non vedo alcuna differenza tra Rama e Bharata. Perciò sono felice di sentire che il re sta per incoronare Rama".
Gettando sprezzante i preziosi doni reali, Manthara continuò: "Com'è sciocco da parte tua gioire del successo del tuo nemico! Beata Kausalya! Presto ti avrà a capo delle sue serve. E il tuo amato figlio Bharata, che potrebbe essere re, che avrebbe il diritto di essere re, perché è degno di diventarlo quanto Rama, potrebbe anche essere cacciato dal regno, se non da questa terra!". Disgustata da queste parole, Kaikeyi disse con fermezza: "Che ti prende, Manthara? Rama mi è tanto caro quanto Bharata. Anche Rama mi tratta con immensa devozione e mi serve ancor più di quanto non serva Kausalya. Se viene incoronato Rama, è come se venisse incoronato Bharata, perché Rama stima Bharata più di se stesso".
Tuttavia non fu possibile azzittire Manthara, che continuò con i suoi consigli malvagi finché la sua insistenza non ebbe successo. Infatti alla fine riuscì a suscitare l'ira di Kaikeyi, che le disse: "Escogita dunque un piano: cosa posso fare?". Esultante per la vittoria, Manthara rispose lesta: "Naturalmente ho già un piano. Tu stessa mi hai detto che durante una battaglia tra Indra e i demoni, re Dasaratha rimase ferito e privo di sensi, e tu gli salvasti la vita. Allora egli ti offri due doni, che però in quel momento non hai scelto. Probabilmente avrai dimenticato: ma siccome ti voglio bene, ti ricordo questa storia. Prima di tutto fatti promettere dal re che adesso egli onorerà la sua promessa e ti concederà i due doni che sceglierai. E che saranno: primo, Bharata dovrà salire al trono; secondo, Rama sarà bandito dal regno per quattordici anni. Se Rama andrà via per quattordici anni, Bharata - che ha tutte le qualità di un sovrano - potrà conquistare la fiducia del popolo e consolidare la sua posizione. Il re ti ama molto e non ti negherà questi due doni. Tuttavia potrebbe offrirti in cambio oro e gioielli: rifiutali. Che nulla ti faccia deviare dal tuo duplice scopo. Non accontentarti dell'incoronazione di Bharata: insisti sull'esilio di Rama".
La forza di persuasione di Manthara fece apparire il male come bene! Non solo Kaikeyi si fece convincere dalla serva, ma addirittura la lodò: "Dicono che le persone deformi siano malvagie e corrotte, mentre la tua gobba è piena d'espedienti meravigliosi. Dovrei adorare questa gobba, che aumenta il tuo fascino". Manthara tornò al punto: "Nessuno costruisce una diga quando l'acqua è già defluita! Agisci ora". Entrando nella 'stanza del pianto', Kaikeyi si spogliò dei gioielli che l'adornavano e s'accasciò al suolo. Poi disse a Manthara: "Rama andrà nella foresta e Bharata sarà re, oppure informerai il re che sono morta". Ancora una volta Manthara ricordò a Kaikeyi il pericolo imminente e le consigliò di decidere presto.
Concluse tutte le preparazioni per l'incoronazione, il re volle comunicare la felice notizia all'amata moglie Kaikeyi. Perciò entrò nel suo palazzo, che risplendeva come una dimora celestiale. Tuttavia non la trovò nella stanza da letto, e preso dall'intenso desiderio di stare con lei s'informò dove fosse. Mai prima d'allora la regina era mancata dal salutarlo amorevolmente a quell'ora! Una serva informò il re: "Molto adirata, la regina giace nella stanza del pianto".
Profondamente turbato da questa notizia, il re si precipitò nella stanza e vide la sua regina più amata stesa a terra, con i gioielli sparsi tutt'intorno. Sedutosi accanto a lei e prendendole la mano, il re le rivolse queste parole consolanti: "Mia amata, non stai bene? Dimmelo: chiamerò per te i dottori più bravi e qualificati. Forse qualcuno ti ha insultata? O desideri che venga ucciso qualcuno che non lo merita, o desideri che sia liberato un condannato? Desideri che arricchisca un povero o che privi della sua ricchezza un ricco? Me stesso e tutto ciò che m'appartiene è tuo, ed io non posso andare contro i tuoi desideri. Ti prego, alzati e dimmi qual è il problema".
Così confortata, Kaikeyi decise di tormentare ulteriormente il marito, e disse: "Prima promettimi che farai ciò che ti chiederò; e poi ti dirò cosa voglio". Felice all'idea della riconciliazione, il re disse: "Nel nome di Rama, che amo più di ogni cosa e senza il quale non posso vivere neanche un istante, prometto di fare tutto ciò che desideri". Questo il re lo promise tre volte, pregandola ancora una volta di esprimere il suo desiderio.
Approfittando immediatamente della situazione, con queste parole Kaikeyi chiamò gli stessi dèi come testimoni: "Tu sei un monarca giusto: lascia che gli dèi siano testimoni del tuo voto solenne". E continuò: "Ricordi che quando ti salvai la vita sul campo di battaglia, tu mi offristi due doni? Allora ti dissi che te li avrei chiesti in un altro momento. Ecco, li voglio adesso". Legato dal suo voto, il re attese pazientemente che nominasse quali erano i doni.
Kaikeyi continuò: "Tu hai fatto dettagliate preparazioni per insediare Rama sul trono. Usando le stesse preparazioni, mio figlio Bharata deve salire al trono. Questo è il mio primo desiderio. E il secondo è: che Rama vada immediatamente nella foresta Dandaka e vi rimanga come eremita per quattordici anni. Vestito di corteccia d'alberi e pelle di daino, che Rama diventi un eremita, mentre Bharata godrà della sovranità del regno. Tu sei devoto alla verità, e i saggi dicono che l'osservanza della verità è la chiave del paradiso. Perciò mantieni la tua promessa".
Colpito dagli strali crudeli delle parole di Kaikeyi, per alcuni momenti il re rimase ammutolito. E si chiese: "Sto sognando o sono pazzo, o forse la mia mente sta rivivendo un evento passato, o forse sono malato?". Ma uno sguardo a Kaikeyi lo convinse che non era niente di tutto ciò. Era vero; e subito svenne. Quando si riprese, si rivolse a Kaikeyi con grande ira e dolore: "Donna malvagia, cosa ti ha fatto Rama per essere tanto crudele con lui? Egli è più devoto a te che a sua madre: e tu stessa lo elogiavi a me. Il mondo intero canta la sua gloria. Per quale colpa lo esilierò? Oh no! Abbandonerò Kausalya, Sumitra, tutte le mie ricchezze e anche la mia vita: ma non abbandonerò il mio amato Rama. Se lo desideri, incoronerò Bharata".
Kaikeyi però era ostinata, e continuò: "Ah, bene, se desideri ritrattare la tua parola, se desideri disonorare la fama della tua dinastia, se vuoi essere deriso dai saggi e dai nobili, fallo! Abbandonando la giustizia, vorresti goderti la vita con Rama e Kausalya? Vergogna. Se non mi concederai i miei doni, prenderò del veleno e morirò!". Dasaratha cominciò a gemere e a delirare: ma Kaikeyi non sembrava neanche ascoltare. Vedendo la determinazione della regina e la terribile promessa fatta da lui, Dasaratha pensò a Rama e cadde come un albero reciso.
Ancora una volta Dasaratha implorò: "Se acconsentissi alle tue richieste il popolo direbbe di me: "Per una donna, il re ha bandito il nobile e giusto Rama; come ha potuto un tale folle regnare su Ayodhya per tanto tempo?". Per amor tuo ho ignorato l'amabile servizio che mi ha reso Kausalya, anche se per me lei era nello stesso tempo una serva, un'amica, una moglie, una sorella e una madre, e soprattutto la madre del mio figlio più caro. Ah, non m'ero reso conto che nelle tue sembianze nutrivo un cobra velenoso! Se mando via Rama, anche Lakshmana andrà con lui. E incapace di sopportarne la separazione, io morirò. Tu regnerai da vedova: e quanto crudelmente governerai il mio amato popolo! Se dicessi a Rama "Vai nella foresta", egli mi ubbidirebbe prontamente. Egli è il Dharma incarnato. Come puoi mai concepire che questo giovane e glorioso principe vada nella foresta e viva di frutta e radici, vesta rozzamente e vada in giro a piedi? Se Bharata approva la tua proposta di bandire Rama, non deve neppure farmi i funerali. Donna crudele, quando hai pronunciato quelle terribili parole i tuoi denti dovevano frantumarsi e caderti dalla bocca. Non m'importa se svieni, ti dai fuoco, muori o sprofondi nelle viscere della terra: non farò ciò che mi chiedi. M'inchino a te, tocco anche i tuoi piedi. Fammi questa grazia e salvami". Dasaratha si prostrò a terra, ma le sue mani non riuscirono a raggiungere i piedi di Kaikeyi.
Kaikeyi però rimase imperturbabile e ripeté: "Sto solo chiedendo i doni che ho guadagnato e che mi spettano. Tu prometti, rompi la promessa, e pretendi anche d'essere giusto!". Dasaratha svenne di nuovo. Poi, tornato in sé, implorò: "Di certo morirò quando Rama lascerà Ayodhya. E se nell'altro mondo rispondessi agli dèi: 'Rama è andato nella foresta a causa del mio amore per Kaikeyi', anche questo sarebbe falso. Come posso chiedere al mio amato Rama di andare nella foresta Dandaka? Se morissi prima di dare a Rama questo dolore immeritato, sarebbe per me la cosa migliore". Kaikeyi restava impassibile, ma il tempo passava.
S'avvicinava l'alba. I musici di palazzo cominciarono a suonare il motivo con il quale erano soliti svegliare il re; ma quella mattina il re li fermò. Era sveglio, angosciato e irrequieto. Vedendo ciò, Kaikeyi disse: "Tu mi hai promesso i doni; perché resti steso così? Dovresti darti da fare e adempiere la tua promessa. Coloro che sanno qual è il giusto modo d'agire dichiarano che la verità è il solo Dharma supremo; aderendo fermamente alla verità, io ti incito a fare ciò che è giusto. Re Shibi raggiunse lo stato supremo aderendo alla verità e sacrificando il suo stesso corpo. Privandosi dei suoi occhi e dandoli a un brahmana, re Alarka ottenne fama. Aderendo alla verità e adempiendo la sua promessa, l'oceano non oltrepassa i suoi confini. Attieniti alla verità. Manda tuo figlio nella foresta. Se non lo farai, morirò qui davanti a te".
Dasaratha vide chiaramente che era legato dalla sua parola. E piangendo disse: "Io rinnego te e tuo figlio. Quando morirò, che sia Rama ad offrire le libagioni; e non tu o tuo figlio. Ho visto la gioia nei volti dei miei sudditi; come farò a vedere i loro volti addolorati quando Rama partirà per la foresta?". Ma Kaikeyi lo incalzò: "Il tempo sta passando. Invece di lamentarti, chiama Rama; quando l'avrai mandato nella foresta e avrai installato sul trono Bharata, avrai fatto il tuo dovere". Dasaratha acconsentì: "Sono incatenato dal Dharma; ho perso il senno. Voglio vedere Rama".
Pronti ad iniziare le cerimonie auspicali, Vasishtha e il suo seguito arrivarono al palazzo. Il saggio mandò Sumantra ad annunciare il suo arrivo al re, comunicandogli che tutto era pronto per la cerimonia dell'incoronazione. Entrando nella stanza dov'era il re, Sumantra lo svegliò con sublimi parole; ma queste furono strazianti per l'angosciato re, che lo interruppe. Visto che il re non riusciva a parlare, Kaikeyi disse a nome suo: "Il re è stato sveglio tutta la notte ed è stanco; ora desidera vedere Rama". Perplesso, Sumantra guardò il re, che confermò: "Vai a chiamare Rama". Ed egli partì.
I brahmana avevano preparato tutto per le cerimonie dell'incoronazione. I vasi d'oro contenenti le acque dei fiumi sacri, raccolte per la maggior parte alle loro sorgenti, erano pronti. E tutti gli accessori, come il parasole, i ventagli, l'elefante ed il cavallo bianco, erano ugualmente pronti.
Però il re non si presentava, malgrado il sole fosse già sorto e l'ora fausta s'avvicinasse rapidamente. Il popolo e i sacerdoti si chiedevano: "Chi può svegliare il re, e dirgli di far presto?". In quel momento Sumantra uscì dal palazzo e, vedendoli, disse: "Su ordine del re, sto andando a chiamare Rama". Ma ripensandoci, sapendo che i precettori e i sacerdoti suscitavano anche il rispetto del re, egli tornò indietro per comunicare al re che lo stavano aspettando. In piedi vicino al re, Sumantra cantò: "Alzati, o re! La notte è volata. Alzati e fa' ciò che dev'essere fatto". Ma il re esausto chiese: "Ti ho ordinato di fare venire qui Rama; non sto dormendo. Perché non fai quello che ti dico?". Questa volta Sumantra uscì di corsa e s'affrettò verso il palazzo di Rama.
Giunto al palazzo e attraversando liberamente i cancelli e le porte, Sumantra vide il divino Rama e gli disse: "Il re, che si trova in compagnia della regina Kaikeyi, desidera vederti immediatamente".
Allora, rivolgendosi a Sita, Rama le disse: "Sono certo che il re e madre Kaikeyi vogliono discutere con me dei dettagli importanti relativi alla cerimonia. Vado e torno subito". Da parte sua, Sita offrì dal profondo del suo cuore questa preghiera agli dèi: "Possa io avere la benedizione di servirti umilmente durante la fausta cerimonia dell'incoronazione!".
Quando Rama uscì dal suo palazzo ci fu grande gioia tra la gente, che lo salutò e l'applaudì. Montando sul suo agile cocchio egli s'avviò verso il palazzo del re, seguito dalla scorta reale. Dalle finestre delle loro case, e vestite a festa per esprimere tutta la loro gioia, le donne fecero piovere fiori su di lui. Esse lodavano Kausalya, sua madre; e Sita, la sua sposa: "Di certo deve aver fatto molte austerità per averlo come marito".
I cittadini gioivano come se loro stessi dovevano salire al trono, e parlando tra loro dicevano: "L'incoronazione di Rama è una vera benedizione per tutti. Durante il suo regno, e egli regnerà per lunghissimo tempo, nessuno avrà mai esperienze spiacevoli né sofferenze". Anche Rama era felice di vedere la grande folla di persone, gli elefanti e i cavalli; tutte cose che indicavano come molti erano venuti ad Ayodhya da lontano per assistere all'incoronazione.
Mentre Rama procedeva sul suo cocchio radioso verso il palazzo di suo padre, i cittadini dicevano tra loro: "Quando Rama sarà re saremo molto felici. Ma perché pensare a quella felicità? Quando vedremo Rama sul trono, raggiungeremo la beatitudine eterna!".
Mentre avanzava lungo la strada regale, Rama ascoltava tutte queste lodi e gli omaggi devoti del popolo con estrema indifferenza. Il cocchio attraversò il primo cancello del palazzo. Da lì Rama continuò a piedi ed entrò rispettosamente negli appartamenti del re. Le persone che l'avevano accompagnato aspettarono fuori impazienti.
Con ardore e rispetto, Rama andò subito dal padre e s'inchinò ai suoi piedi, quindi toccò devotamente anche i piedi di sua madre Kaikeyi. "O Rama!", disse il re. Ma non riuscì a dire altro, perché fu soffocato dalle lacrime e dal dolore. Egli non riusciva né a guardare né a parlare al figlio. Rama percepì un grande pericolo: come se avesse messo il piede su un serpente velenosissimo.
Rivolgendosi a Kaikeyi, Rama le chiese: "Perché oggi il re non mi parla benevolmente? Forse l'ho offeso in qualche modo? O non si sente bene? Oppure ho offeso il principe Bharata o una delle mie madri? Oh, com'è straziante! Se gli avessi arrecato dispiacere, non potrei vivere nemmeno un'ora. Ti prego, dimmi la verità".
Con tono calmo, misurato e severo, Kaikeyi disse a Rama: "Il re non è malato e neppure è arrabbiato con te. Ciò che deve dirti non vuole dirlo, per paura di dispiacerti. In passato egli mi concesse due doni; ma quando ora glieli ho chiesti si è tirato indietro. Come può un uomo di verità, un re giusto, ritrattare la sua parola? Eppure è questa la sua condizione adesso. Ti dirò la verità se tu mi assicuri che rispetterai la promessa di tuo padre".
Per la prima volta Rama fu addolorato: "Ah, vergogna! Ti prego, non dirmi queste cose! Per amore di mio padre posso gettarmi nel fuoco. E t'assicuro che Rama non dice menzogne. Perciò dimmi cosa vuole il re che si faccia".
Senza perdere tempo, Kaikeyi disse: "Molto tempo fa resi un grande servigio al re, ed egli mi concesse due doni. Adesso glieli ho richiesti, ed egli ha promesso. Queste sono le due cose che ho chiesto: che Bharata sia incoronato, e che tu vada via subito nella foresta Dandaka. Se vuoi che si sappia che tu e tuo padre siete entrambi devoti alla verità, lascia che Bharata sia incoronato con gli stessi preparativi fatti per te; e tu vattene nella foresta per quattordici anni. Fallo, Rama, perché questa è la parola di tuo padre; e così salverai il re".
Prontamente e senza mostrare il minimo segno di dispiacere, Rama disse: "Così sia! Andrò immediatamente nella foresta, e là vivrò coperto di cortecce e pelli d'animali. Ma perché il re non mi parla né si sente felice in mia presenza? Vi prego di non fraintendermi: partirò, e io stesso darò con gioia a mio fratello Bharata il regno, le ricchezze, Sita e anche la mia vita, ma tutto questo mi sarà più facile se lo farò in obbedienza al comando di mio padre. Mi si spezza il cuore vedendo che mio padre non mi dice neanche una parola direttamente".
Kaikeyi rispose con durezza: "Penserò io a tutto quanto, e manderò a chiamare Bharata. Penso tuttavia che tu non debba ritardare di un attimo la tua partenza da Ayodhya. Neppure la considerazione che tuo padre non ti parla di persona deve fermarti. Finché non lascerai la città, egli non farà il bagno né mangerà". Sentendo queste parole, il re gemette a voce alta: "Ahimè, ahimè!", e perse di nuovo i sensi. Ora Rama decise di partire subito, e disse a Kaikeyi: "Non amo le ricchezze e i piaceri: ma sono devoto alla verità, come lo sono i saggi. Anche se mio padre non m'avesse comandato, e tu m'avessi chiesto d'andare nella foresta, l'avrei fatto lo stesso! Adesso informerò mia madre, e anche Sita, e subito dopo partirò per la foresta".
Rama non fu affatto turbato dall'improvviso cambiamento degli eventi. Uscendo dal palazzo con Lakshmana, gli attendenti cercarono di porre su di lui il parasole regale: ma egli li allontanò. Continuando a parlare con amore e dolcezza alla gente, egli entrò nella residenza di sua madre. Felice di vederlo, Kausalya si mise a glorificarlo e a benedirlo, e gli chiese di sedere sul seggio regale. Ma senza sedersi, Rama le disse con calma: "Madre, il re ha deciso d'incoronare Bharata come principe ereditario, mentre io devo andare nella foresta e viverci come eremita per quattordici anni".
Udendo ciò, la regina svenne, abbattuta dal dolore. E quando si riprese disse con voce soffocata: "Se fossi stata sterile, sarei stata infelice, ma non avrei dovuto sopportare questa terribile agonia. In tutta la mia vita non ho avuto un giorno felice. Ho dovuto sopportare gli scherni e gli insulti delle altre mogli del re. Da lui stesso sono stata sempre trattata con meno affetto e rispetto delle serve di Kaikeyi. Pensavo che dopo la tua nascita e la tua incoronazione la mia sorte sarebbe cambiata. Ma le mie speranze sono state infrante, e anche la morte mi disdegna. Devo certo avere un cuore duro, se non si spezza neanche in questo momento di grande disgrazia e dolore. Senza di te non vale la pena vivere. Perciò se devi andare nella foresta, io ti seguirò".
Lakshmana prese la parola e disse: "Penso che Rama non debba andare nella foresta. Il re ha perso la testa, sopraffatto dalla vecchiaia e dalla lussuria. Rama è innocente; e nessun uomo giusto nelle sue piene facoltà mentali tradirebbe il figlio innocente. Inoltre anche un principe con una minima conoscenza di governo ignorerebbe il comando puerile di un re che ha perso la testa". E rivolto al fratello disse: "Sono qui, Rama, devoto a te, dedito alla tua causa. Sono pronto a uccidere chiunque interferisca con la tua incoronazione - anche se si trattasse dello stesso re! Lascia che la cerimonia dell'incoronazione prosegua senza ritardo".
Kausalya disse: "Hai sentito l'opinione di Lakshmana. Non puoi andare nella foresta solo perché lo vuole Kaikeyi. Se, come dici, sei devoto al Dharma, allora il tuo dovere è quello di restare qui e servire me, tua madre. Come madre, io sono tanto degna della tua devozione e del tuo servizio quanto lo è tuo padre. Ma io non ti do il permesso d'andare nella foresta. E se mi disubbidirai, la tua sofferenza nell'inferno sarà terribile. Io non potrò vivere qui senza di te. Se partirai, digiunerò fino alla morte".
Allora Rama, devoto com'era al Dharma, rispose: "Tra i nostri antenati ci furono re che ottennero la fama e il paradiso eseguendo gli ordini dei loro padri. Madre, io sto solo seguendo il loro nobile esempio". E rivolto a Lakshmana disse: "Conosco la tua devozione e il tuo amore per me; il tuo coraggio e la tua forza. L'universo è basato sulla verità: e io sono devoto alla verità. La madre non ha compreso la mia visione della verità, e quindi soffre. Ma io non posso abbandonare la mia risoluzione. Abbandona la tua risoluzione basata sul principio della forza. Segui il Dharma. Non lasciare che il tuo intelletto diventi aggressivo. Il Dharma, la prosperità e il piacere sono gli scopi dell'umanità; e la prosperità e il piacere seguono sicuramente il Dharma: come il piacere e la nascita di un figlio derivano dalla dedizione di una moglie devota al marito. Bisogna evitare quell'azione o modo di vita che non assicura il conseguimento di tutti e tre gli scopi della vita, e del Dharma in particolare; poiché dalla ricchezza nasce l'odio, e la ricerca del piacere non è lodevole. Chi non è di carattere spregevole, per amore del Dharma deve obbedire agli ordini del guru, del re e del padre anziano, anche quando venissero pronunciati in un momento d'ira, d'allegria o di lussuria. Perciò io non posso deviare dal sentiero del Dharma, che vuole che ubbidisca senza riserve a nostro padre. Inoltre non è giusto per te, madre, abbandonare tuo marito e seguire me nella foresta, come se fossi una vedova. Perciò, madre, benedicimi perché nella foresta possa avere un periodo prospero e piacevole".

[NOTA: Qui comincia il Vangelo di Rama.]

Rivolgendosi di nuovo al fratello, Rama disse: "Non perdiamo tempo. Liberiamoci delle cose approntate per l'incoronazione e con uguale rapidità prepariamoci perché io lasci immediatamente il regno. Solo così possiamo esser certi che madre Kaikeyi riavrà pace. Altrimenti potrebbe pensare che i suoi desideri non vengano esauditi. Adempiamo la promessa di nostro padre. Perché fin quando non si realizzeranno i due desideri di Kaikeyi, ci sarà confusione nella mente di tutti. Io devo partire immediatamente per la foresta; poi Kaikeyi manderà a chiamare Bharata e lo farà installare sul trono. Di certo questo è il volere divino, e io devo rispettarlo senza indugio. Il mio esilio dal regno, come pure il mio ritorno, è tutto frutto delle mie azioni (kritanta). Altrimenti, come avrebbe potuto la nobile Kaikeyi concepire un pensiero tanto indegno? Io non ho mai fatto alcuna distinzione tra lei e mia madre; né lei aveva mai mostrato finora il minimo disamore verso di me.
Il risultato delle proprie azioni non può essere previsto: e quello che chiamiamo 'daiva' (provvidenza o volontà divina) non può essere conosciuto ed evitato da nessuno. Piacere, dolore, paura, collera, guadagno, perdita, vita e morte: sono causati dal 'daiva'. Persino saggi e grandi asceti sono indotti dal volere divino ad abbandonare il loro autocontrollo e sono soggetti alla lussuria e all'ira. Il volere divino è sacro e imprevedibile. Perciò non ci dev'essere astio verso Kaikeyi; ella non ha colpa. Tutto questo non è cosa sua, ma è volontà del divino".
Lakshmana ascoltò tutto questo con sentimenti contrastanti: rabbia alla svolta che avevano preso gli eventi, e ammirazione per l'attitudine di Rama. Tuttavia non poteva accettare la situazione come aveva fatto Rama, ed esplose furibondo: "Il tuo senso del dovere è maldiretto, come lo è la tua stima del volere divino. Com'è possibile che pur essendo un astuto governante tu non vedi che ci sono persone false che fingono d'essere buone solo per conseguire i loro scopi egoistici e disonesti? Se tutti questi doni e promesse fossero veri, potevano essere chiesti e dati molto tempo fa! Perché hanno dovuto aspettare la vigilia dell'incoronazione per mettere in atto questa farsa? Tu ignori quest'aspetto e parli di volere divino! Solo i codardi e i deboli credono in un invisibile volere divino: gli eroi e i forti di mente non ci credono. Oggi il popolo vedrà come la mia determinazione e il mio impeto spazzerà via qualsiasi decreto della volontà divina possa essere implicato in quest'ingiusto complotto. Chi ha progettato il tuo esilio andrà in esilio! E oggi tu sarai incoronato! Queste braccia, Rama, non sono graziose membra, né porto queste armi per ornamento: esse sono al tuo servizio".

[NOTA: Le parole 'kritanta' e 'daiva' significano molto di più che fato, provvidenza, frutti delle azioni passate, ecc. 'Kritanta' significa lo sviluppo logico della propria azione. 'Daiva' vuol dire 'gioco divino'. In questo caso Kaikeyi dovette fare ciò che fece perché era quello che volevano gli dèi.]

A questo punto Kausalya disse: "Come farà Rama, nato dà me e dal potente imperatore Dasaratha, a vivere raccogliendo i cereali, i vegetali e i frutti che sono d'avanzo? Lui, i cui servi mangiano leccornie e cibi prelibati, come farà a sostentarsi di frutti e radici? Senza di te, Rama, il fuoco della tua separazione mi brucerà a morte. No, se devi andare, portami con te".
Rama rispose: "Madre, questo sarebbe estremamente crudele verso mio padre. Finché mio padre vive, ti prego di servirlo: questo è il Dharma eterno. Per una donna il proprio marito è invero Dio stesso. Sono certo che il nobile Bharata sarà molto gentile con te e ti servirà come ti ho servito io. Vorrei tanto che alla mia partenza tu consolassi il re, affinché egli non avverta per niente la mia separazione. Anche una donna pia e altrimenti giusta, sarebbe condannata come peccatrice se non servisse il marito. Mentre colei che serve il proprio marito viene benedetta, quantunque potrebbe non adorare gli dèi, non praticare i rituali o non onorare i santi".
Vedendo che Rama era inflessibile nella sua risoluzione, Kausalya riacquistò la sua compostezza e lo benedì. Infine disse: "Aspetterò ansiosamente il tuo ritorno ad Ayodhya, dopo i tuoi quattordici anni nella foresta".
Raccogliendo rapidamente quant'era necessario, Kausalya fece un rito sacro per propiziare le divinità, assicurando così la salute, la sicurezza, il felice soggiorno e il rapido ritorno di Rama. Infine concluse dicendo a Rama:
"Possa il Dharma, che tu hai protetto con tanto zelo, proteggerti sempre. Possano coloro ai quali t'inchinerai lungo le strade e nei templi proteggerti! Possano le armi che ti ha dato il saggio Visvamitra assicurare la tua incolumità. Possano tutti gli uccelli e le bestie della foresta, gli dèi e gli esseri celesti, le montagne e gli oceani, e tutte le divinità che presiedono le fasi della luna, i fenomeni naturali e le stagioni essere a te propizi. Possa tu godere della stessa benedizione che ebbe Indra quando distrusse il suo nemico Vritra, quella stessa che Vinata elargì a suo figlio Garuda e che Aditi pronunciò per suo figlio Indra, quando questi combatteva contro i demoni; quella stessa della quale godeva Vishnu mentre misurava il Cielo e la terra. Possano i saggi, gli oceani, i continenti, i Veda e i piani celesti esserti propizi".
Quando Rama si prosternò per toccarle i piedi, Kausalya l'abbracciò amorevolmente e gli baciò la fronte; e infine, prima di congedarlo, girò rispettosamente intorno a lui.

[NOTA: Rama (e Valmiki) amano usare le parole 'dharma sanatana' per definire una questione etica. In India l'Induismo è chiamato Sanatana Dharma.]

Dopo essersi congedato dalla madre, Rama andò in cerca dell'amata consorte. Da parte sua, Sita - che aveva rispettato tutte le ingiunzioni e le proibizioni relative alla vigilia dell'incoronazione, e si stava preparando a partecipare al fausto evento - vedendo entrare nel palazzo il suo sposo divino, andò ad accoglierlo col cuore pieno di gioia e d'orgoglio. Tuttavia il suo contegno la rese perplessa: il suo volto rifletteva ansia e dolore. E intuendo che c'era qualcosa che non andava, chiese a Rama: "L'ora propizia è vicina: e tuttavia, cosa vedo! Signore, perché non sei accompagnato dalla scorta regale, dagli uomini con il parasole cerimoniale, dai cavalli e dall'elefante reale, dai sacerdoti che cantano i Veda, e dai bardi che cantano le tue glorie? Perché il tuo volto è offuscato dalla tristezza?".
Senza perdere tempo e parlando con naturalezza, Rama le disse: "Sita, il re ha deciso d'installare sul trono Bharata e d'inviare me nella foresta per quattordici anni. Sto per partire e sono venuto a salutarti. Ora che Bharata è il principe ereditario, anzi il re, ti prego di comportarti con lui di conseguenza. Ricorda: le persone al potere non sopportano quelli che decantano gli altri davanti a loro. Perciò non lodarmi in presenza di Bharata. Ed è meglio che non mi lodi neanche in presenza delle tue compagne. Sii devota alle tue pratiche religiose e servi mio padre, le mie tre madri e i miei fratelli. Bharata e Satrughna devono essere trattati come tuoi fratelli o figli. Stai ben attenta a non arrecare la minima offesa a Bharata, il re. I re ripudiano anche i loro figli, se gli sono ostili; mentre sono benigni perfino con gli stranieri, purché gli siano amici. Questo è il mio consiglio".
Fingendosi adirata - mentre in realtà era divertita - Sita rispose a Rama: "Il tuo consiglio che io debba restare qui al palazzo è indegno di un principe eroico come te. Mentre padre, madre, fratello, figlio e nipote vivono la propria buona o cattiva sorte, solo la moglie condivide la vita di suo marito. L'unico rifugio per una donna, sia in questo mondo che nell'altro, è soltanto il marito, e non certamente il padre, né la madre, né il figlio, né gli amici. Perciò verrò con te nella foresta. Andrò davanti a te, aprendoti il sentiero nella foresta. La vita con il marito è incomparabilmente superiore alla vita in un palazzo, o in una dimora celeste, o a un viaggio in paradiso! Non resterò qui. T'assicuro che non ti sarò di peso o d'impedimento nella foresta; né considererò la vita nella foresta come un esilio o una sofferenza. Stando al tuo fianco essa sarà per me più che un paradiso, non sarà affatto una vita dura; mentre senza di te, anche il paradiso è un inferno".
Pensando alle dure prove che avrebbero dovuto affrontare nella foresta, Rama cercò di dissuadere Sita con queste parole: "Tu provieni da una ricchissima famiglia devota alla giustizia. Perciò è giusto che tu rimanga qui e serva i miei. Così, evitando le avversità della foresta e servendo amorevolmente i miei cari, farai felice il mio cuore. La foresta non è luogo per una principessa come te. Essa è piena di grandi pericoli: nelle caverne ci sono dei leoni, e il loro ruggito è terrificante. Le bestie feroci non sono abituate a vedere gli esseri umani, e il modo in cui attaccano gli uomini fa orrore anche solo a pensarci. I sentieri sono pieni di spine ed è difficile camminarvi. Il cibo è costituito da pochi frutti caduti spontaneamente dagli alberi: e nutrendosi di questi bisogna contentarsi per tutto il giorno. I nostri indumenti saranno fatti di pelli e cortecce; mentre i capelli dovranno essere intrecciati e legati sulla testa. Si dovrà rinunciare alla collera e alla cupidigia, la mente dovrà concentrarsi sulle austerità, e bisognerà vincere la paura anche laddove essa viene naturale. Totalmente esposti alle inclemenze della natura, circondati da animali selvatici, serpenti, e così via, la foresta è piena d'indicibili difficoltà. Non è un posto per te, mia cara".
La continua insistenza di Rama commosse Sita fino alle lacrime: "La tua benevola sollecitudine per la mia felicità rende solo più ardente il mio amore per te, e più forte la mia determinazione a seguirti. Hai parlato d'animali: essi non s'avvicineranno mai a me mentre ci sarai tu. Hai parlato del dovere di servire i tuoi: ma l'ordine di tuo padre che tu vada nella foresta esige che ci vada anch'io. Io sono la tua metà: e per questo non posso vivere senza di te. Tu hai spesso dichiarato che una vera moglie non potrà vivere separata dal marito. Inoltre, ascolta! Tutto ciò non mi è nuovo: perché quando vivevo in casa di mio padre, molto prima di sposarci, dei saggi astrologi predissero giustamente che avrei passato qualche tempo nella foresta. Se ben ricordi, ho desiderato vivere per un pò nella foresta, poiché mi sono addestrata per tale eventualità. Signore, sono davvero felice al solo pensiero che finalmente andrò nella foresta, per servirti costantemente. Servendo te, non incorrerò nel peccato di lasciare i tuoi genitori. Questo ho sentito dire da coloro che ben conoscono i Veda e le altre Scritture, che una moglie devota resta unita al proprio marito anche dopo aver lasciato questa terra. Perciò non c'è un motivo valido per cui tu debba volermi lasciare qui e andar via da solo. Se rifiuti ancora di portarmi con te, non ho altra scelta che togliermi la vita".

[NOTA: Rama ripete le parole 'duhkham ato vanam - la spaventosa foresta' quasi in ogni verso. Un'efficace tecnica persuasiva.]

All'ennesimo discorso persuasivo di Rama, Sita rispose seccata, mostrando coraggio e fermezza. E rimproverò perfino Rama, dicendo: "Quando ti ha scelto come genero, non si è reso conto mio padre Janaka che avevi un cuore di donna in un corpo di uomo? Altrimenti perché tu, che sei tanto valoroso e coraggioso, dovresti temere per me? Se non mi porterai con te, morirò sicuramente; ma invece d'aspettare la morte, preferisco morire davanti a te. Se non cambi subito parere, prenderò del veleno e morirò". Presa dall'angoscia, il timbro della sua voce divenne sempre più acuto, e un torrente di lacrime ardenti sgorgò dai suoi occhi.
Rama la prese tra le braccia e le parlò amorevolmente, con grande gioia: "Sita, non potevo leggere nella tua mente e perciò ho cercato di dissuaderti dal venire con me. Ora vieni, seguimi. Non posso abbandonare l'idea d'andare nella foresta, neanche per amor tuo. Non potrei vivere se disubbidissi il comando dei miei genitori. Invero mi chiedo come si potrebbe adorare il Dio invisibile, se uno fosse contrario ad ubbidire ai comandi dei genitori e del guru che si possono vedere. Nessuna attività religiosa, neanche l'eccellenza morale, può uguagliare il servizio dei propri genitori per ottenere la felicità suprema. Qualunque cosa uno desideri e in qualunque regione uno desiderasse ascendere dopo aver lasciato questa terra, tutto si ottiene servendo i genitori. Perciò farò come mi è stato comandato da mio padre; questo è il Dharma eterno. E tu hai deciso giustamente di seguirmi nella foresta. Vieni, prepariamoci. Offri doni generosi ai brahmana e distribuisci il resto dei tuoi averi ai servi e agli altri".
Ora Lakshmana disse a Rama: "Se sei determinato a partire, allora andrò innanzi a te". Rama però cercò di dissuaderlo: "So bene che sei il mio compagno più prezioso, ma penso che dovresti rimanere qui e aver cura delle nostre madri. Kaikeyi potrebbe non trattarle bene. E con questo servizio mi proverai la tua devozione". Ma Lakshmana rispose prontamente: "Sono sicuro che Bharata si prenderà cura delle madri, ispirato dal tuo spirito di rinuncia e dalla tua aderenza al Dharma. Se così non fosse, potrei sterminarli tutti in un attimo. Inoltre Kausalya è abbastanza grande e potente da badare a se stessa: per questo ha dato alla luce te! Rama, il mio posto è vicino a te; il mio dovere è servirti".
Felice di udire questo, Rama rispose: "Allora andiamo! Ma prima di partire desidero dare in elemosina ai santi brahmana tutto ciò che possiedo. Ti prego di riunirli. Congedati dai tuoi amici e prepara anche le nostre armi".
Il primo a beneficiare dei doni di Rama fu Suyajna, un figlio di Vasishtha, il sacerdote di famiglia. Poi vennero un figlio del saggio Agastya e un figlio di Visvamitra. Poi il brahmana che si occupava dei riti religiosi che Kausalya faceva ogni giorno: a lui furono dati un veicolo, dei servi, degli abiti di seta e molte ricchezze. A Citraratha, l'auriga-ministro, donarono gioielli, indumenti e bestiame. Poi si rivolsero ai casti studenti che s'erano dedicati completamente allo studio delle Scritture e che, perciò, non avevano alcuna entrata economica: ad essi donarono cammelli carichi di gioielli e carri pieni di cibo. Rama distribuì le sue ricchezze ai brahmana, ai giovani, agli anziani e ai poveri; e chiese loro di custodire i Suoi palazzi e quelli di Lakshmana durante il periodo della loro assenza.
Ci fu un particolare commovente in questa grande cerimonia. In un sobborgo di Ayodhya viveva un brahmana chiamato Trijata, che era povero e aveva molti figli. Quel giorno la moglie gli disse: "Benché come moglie non dovrei istruirti, ma servirti come mio dio, ti suggerisco di buttare l'accetta che porti sempre con te - e con la quale vai scavando radici da mangiare - e andare da Rama. Egli ti darà certamente del denaro con il quale alleviare la nostra povertà". Trijata arrivò al palazzo proprio mentre Rama stava distribuendo le sue ricchezze, e lo pregò d'aiutarlo. Indicando le vacche che stavano sull'altra riva del fiume Sarayu, Rama disse al brahmana: "Lancia il tuo bastone con tutta la tua forza. Tutte le vacche che si troveranno da questa parte del bastone saranno tue". L'emaciato e debole brahmana lanciò il bastone con tale forza che raggiunse l'altra riva del fiume e cadde vicino a un toro. Rama gli disse sorridendo: "Ho scherzato con te, per vedere la tua forza Queste migliaia di vacche sono tue. Se desideri di più, chiedi! Ho acquisito tutte le mie ricchezze solo per la protezione delle persone spirituali. Donandole a te sarò benedetto". Il brahmana andò via felice con le vacche. Non ci fu ad Ayodhya un solo brahmana, parente, servo o povero che non ricevette parte delle ricchezze di Rama.
Quindi Rama s'avviò verso il palazzo di Kaikeyi per congedarsi dal re. Le persone che avevano saputo della svolta degli eventi si accalcavano per vedere Rama, Lakshmana e anche Sita (che fino ad allora non era mai stata vista camminare per strada), e tra loro dicevano: "Sicuramente il re è posseduto da uno spirito maligno, per mandare Rama nella foresta. Anche noi andremo nella foresta, come Lakshmana. Allora la foresta diventerà una città, e questa città diventerà una foresta. Che Kaikeyi regni pure su una città in rovina abitata solo da ratti e serpenti".
Vedendo l'addolorato Sumantra fuori del palazzo, Rama gli chiese d'informare il re del suo arrivo. Il re disse a Sumantra: "Prima fai venire qui velocemente tutte le mie mogli; voglio vedere Rama solo in loro presenza". Sumantra corse negli altri appartamenti ed esortò le mogli del re ad andare da lui. Trecentocinquanta di esse si strinsero intorno a Kausalya, la regina principale, e con lei s'affrettarono verso il palazzo di Kaikeyi. Quando arrivarono, il re disse a Sumantra: "Fai entrare Rama".
Non appena Rama fu in sua presenza - seguito da Lakshmana e da Sita - il re si alzò e gli corse incontro a braccia aperte, ma perse coscienza e cadde. Colpiti da questa scena commovente, tutti i presenti emisero un gemito. Quando il re si riprese, Rama gli disse: "Padre, sono pronto a congedarmi da te e andare nella foresta: ti prego di benedirmi. Anche Sita e Lakshmana insistono per accompagnarmi, benché abbia fatto del mio meglio per dissuaderli. Dacci il permesso di partire". Il re gridò forte: "Ahimè, io non ero cosciente quando ho concesso quel dono a Kaikeyi. Perciò è giusto che tu non tenga conto del mio ordine; fammi prigioniero e incoronati re".
Rama rispose umilmente: "Non ho ambizioni per il trono, padre. Possa tu regnare per moltissimo tempo, affinché al mio ritorno, tra quattordici anni, io possa inchinarmi ai tuoi piedi". Nello stesso tempo Kaikeyi ammonì il re a non fare alcun compromesso. Il re disse a Rama: "Figlio amatissimo, va' nella foresta; possa il tuo viaggio essere felice e piacevole. Tu sei devoto alla verità e la tua decisione non può essere cambiata; ma ti prego, resta ancora oggi e parti domani. Ti assicuro che quanto è successo non mi piace affatto; è tutta opera di questa donna, che si è comportata come brace ardente nascosta da ceneri fredde. Malgrado ciò, tu - verità incarnata - hai mantenuto la mia promessa e hai tenuto alto il prestigio della nostra dinastia".
Rama rispose gentilmente: "Chi mi darà domani le cose buone che posso avere oggi? Preferisco andare via ora. Padre, metà della tua promessa a Kaikeyi viene così esaudita; esaudisci anche l'altra metà. Che la corona passi a Bharata. Io non desidero né il regno né la felicità né questa terra; né i piaceri né il paradiso e neppure la vita: io desidero onorare la tua parola. Sapendo questo, ti prego di non angosciarti, padre. Madre Kaikeyi ha detto: "Va' subito nella foresta", e così sarà. Per noi non sarà cosa dura. Sono certo che saremo felici tra le miti gazzelle, gli animali e gli uccelli. Tu devi consolare gli altri e asciugare le loro lacrime: non devi piangere. Fa' subito il necessario per installare Bharata sul trono". Il re abbracciò Rama, e subito perse coscienza.
A questo punto il nobile ministro Sumantra, che aveva osservato tutto questo con la mente profondamente agitata, pensando che insultando Kaikeyi avrebbe potuto farle cambiare idea, esplose dicendo: "Io ti considero l'assassina di tuo marito e di tutta la famiglia; sembra che non ci sia limite alla tua cattiveria. Con l'inganno hai infranto l'antichissima tradizione di questa dinastia; e cioè, che il figlio maggiore erediti il trono. Vuoi che il tuo Bharata regni su Ayodhya? Allora noi tutti lasceremo il paese insieme a Rama. Abbandonata dai brahmana, dai parenti e dai saggi, che cosa otterrai installando tuo figlio sul trono? Ahimè, perché la terra non si apre sotto i tuoi piedi e non t'inghiotte? Mi meraviglio inoltre come il dolore provato dai saggi come Vasishtha non si trasformi in una lingua di fuoco che ti consumi.
"Somigli proprio a tua madre. Tuo padre aveva ottenuto da un saggio la facoltà di comprendere la lingua degli uccelli. Una notte udì due uccelli che comunicavano tra loro e si mise a ridere. Tua madre volle sapere il motivo di quella risata, e non cedette neanche quando tuo padre le disse che rivelare la causa avrebbe significato la sua morte! Infine, su consiglio del saggio, il re esiliò tua madre e ritrovò la pace. Davvero hai preso di tua madre e non dai valore alla vita di tuo marito. Se non rinunci immediatamente a questo piano malvagio, otterrai l'ignominia eterna". Ma Kaikeyi non prestò attenzione a queste parole!
Allora Dasaratha disse a Sumantra: "Lascia stare. Sotto il mio comando, che un vasto esercito, un gran numero di serve, di guardie e anche tutto il mio tesoro accompagni Rama nella foresta, affinché egli non senta privazioni durante il suo lungo soggiorno là".
Udendo questo, Kaikeyi esplose infuriata: "Oh no! Questo non puoi farlo. Bharata non sarà sovrano di un regno fantasma, con le casse del tesoro vuote!". Dasaratha si adirò e gridò: "Questo non l'hai pattuito prima come condizione! Perché ora contraddici i miei ordini?". Ma l'inflessibile Kaikeyi continuò: "Il tuo antenato Sagara esiliò suo figlio Asamanja, ma non gli diede un esercito, servi e ricchezze. Rama andrà via senza niente".
Il primo ministro Siddhartha intervenne dicendo: "Asamanja era sadico e malvagio, e uccideva anche i neonati; perciò Sagara lo bandì.
Rama non solo è innocente, ma è dotato di tutte le qualità divine. Bandire una persona tanto perfetta depriverebbe anche Indra dei suoi meriti. Basta, regina, con questa storia. Lascia che Rama governi il regno".
Il re fece eco al primo ministro e disse: "Se il tuo cuore non è cambiato, anch'io andrò nella foresta con Rama; regna sul paese insieme a Bharata".
Rama disse: "Padre, ho rinunciato al regno e a tutti i suoi piaceri; che ne farò dell'esercito e del tesoro? Chi, se non un folle, dopo aver abbandonato un elefante si tiene la catena? L'esercito e il tesoro saranno utili a Bharata. Io sarò contento se le serve di madre Kaikeyi mi faranno dono dei ruvidi indumenti che portano gli asceti che vivono nella foresta". Udendo questo, e senza perdere tempo, la stessa Kaikeyi portò dei rozzi vestiti fatti di corteccia d'albero per Rama, Sita e Lakshmana.
Rama prese umilmente i suoi e li indossò lì stesso, spogliandosi degli abiti principeschi. Lakshmana fece altrettanto. Ma Sita rimase perplessa e impacciata dal ruvido vestito di fibre che Kaikeyi le aveva dato: lo provò in diversi modi, ma non sapeva come indossarlo. Allora chiese aiuto a Rama, che immediatamente glielo avvolse intorno. Nel contempo, le donne lì presenti si lamentavano in preda a un dolore irrefrenabile; ma Rama non se ne curò.
Commosso fino alle lacrime dalla scena che gli stava davanti, il saggio Vasishtha disse: "Malvagia Kaikeyi, il calice del tuo peccato trabocca. Non ti basta aver ingannato il re, carpito da lui i due doni più ingiusti e portato disgrazia a tutta la dinastia? La principessa Sita non è obbligata e non deve andare nella foresta. Ella è lo stesso sé di Rama; poiché la moglie è davvero l'alter ego del marito. Se ambedue andranno via, noi tutti li seguiremo. Sono sicuro che anche Bharata e Satrughna partiranno. E tu sarai l'unica sovrana di questo regno abbandonato. Tu non conosci Bharata: egli non acconsentirà a governare il regno abbandonato da Rama. Perciò hai agito contro l'interesse di tuo figlio. Tu hai solo chiesto che Rama sia esiliato. Lascia dunque che Sita parta con gli abiti e i gioielli principeschi". Ma Kaikeyi ignorò tutto questo e Sita finì d'indossare gli abiti ascetici.
Tutti i presenti gridarono: "Vergogna, vergogna". Mentre Dasaratha, in preda alla più terribile angoscia, implorò Kaikeyi: "Risparmia almeno a Sita questa crudeltà. Che cosa ti ha fatto? Mi hai ingannato per farti concedere i due terribili doni, per i quali merito certamente la morte, ma essi non richiedono questo crudele trattamento di Sita. Hai davvero superato ogni limite di decenza e giustizia; hai deciso d'andare all'inferno". Ma non vi fu risposta a questa supplica!
A questo punto Rama si fece avanti e disse a Dasaratha: "Padre, dacci il permesso d'andare. Ma prima di partire devo farti una preghiera: tratta mia madre con maggiore considerazione, poiché è anziana e sopraffatta dal dolore. Fa' che la separazione da me non le causi maggiore sofferenza. Fa' che non lasci questo mondo per la disperazione".
Dasaratha gemette ancora nell'agonia: "Devo aver separato molti vitelli dalle loro madri, perciò sto soffrendo così tanto. Vedendo il mio amato figlio vestito da asceta, perché la vita non mi lascia?". Poi gridò: "Rama", e perse coscienza. Quando riprese i sensi disse a Sumantra: "Porta il cocchio più bello, con i migliori cavalli". E rivolto al tesoriere ordinò: "Ricorda che Sita passerà quattordici anni nella foresta. Porta abbastanza vestiti e gioielli per tutto quel tempo". Gli ordini furono subito eseguiti. Sita rispettò i desideri del suocero e indossò abiti e gioielli reali.
Abbracciandola amorevolmente, Kausalya disse: "Le donne malvagie abbandonano anche il caro marito quando questi è sopraffatto dalla cattiva sorte. Il loro cuore è incostante. Né il loro stato familiare né quanto è stato fatto per loro, né l'istruzione né i doni ricevuti e neppure i voti nuziali le trattengono. Ti prego, sii come le donne rette, e tratta sempre Rama come il tuo dio". Sita rispose immediatamente: "Certamente osserverò il tuo consiglio, madre. Una vina senza corde non è una vina, un carro senza ruote non è un carro, e una donna senza marito - anche se avesse cento figli - non può avere felicità in questo mondo. Poiché il padre, il fratello e il figlio danno alla donna solo una piccola felicità; mentre il marito le dà una felicità immensa. Come potrebbe dunque non adorarlo?".
Quindi Rama pregò sua madre di continuare similmente ad adorare suo padre. Poi, inchinandosi a Kaikeyi, disse: "Ti prego di perdonarmi se negli anni trascorsi insieme ti ho offesa in qualche modo". Udendo questo, le donne gemettero forte. Infine Rama, Sita e Lakshmana fecero un giro intorno al re e si congedarono da lui. Si congedarono poi da Kausalya, e quindi andarono da Sumitra (la madre di Lakshmana). Ella era felice che suo figlio accompagnasse Rama, e lo benedì e lo istruì: "Considera Rama come lo stesso Dasaratha (tuo padre); tratta Sita come fosse tua madre; considera la foresta come Ayodhya, e va' con gioia, amato figlio mio".
Il cocchio era pronto. Appena Rama vi salì, Sumantra disse: "Il periodo dell'esilio, che è di quattordici anni, comincia da questo momento". Il cocchio si mosse, e commosse i cuori dei cittadini di Ayodhya che lo rincorrevano gridando: "Va' piano". Anche Dasaratha e Kausalya lo inseguirono gridando: "Va' piano". Ma Rama esortò Sumantra: "Va' veloce. E se dopo ti chiederanno, potrai dire: 'Non ho sentito'. Non bisogna prolungare il dolore della separazione!". Il cocchio prese velocità. I ministri pregarono il re di tornare al palazzo: "Non dovete andare troppo lontano per vedere partire uno di cui desiderate il ritorno".
Le persone che fino all'ultimo videro Rama seduto sul cocchio, che in silenzio e con le mani giunte salutava tutti i cittadini di Ayodhya, gridarono angosciate: "Dove va il nostro Signore, il solo rifugio e protettore dei poveri, dei deboli e degli asceti; colui che non s'adirava neanche quando gli si mancava di rispetto, che cercava di compiacere anche quelli che erano in collera con lui, e per il quale piacere e dolore erano uguali? Quel Rama che trattava noi, suo popolo, con lo stesso amore, devozione e riverenza con cui trattava sua madre - dove sta andando? Il re ha sicuramente perso la testa, per bandire un tale principe". Anche il re udì ciò che diceva la gente, e questo lo rese ancora più triste.
Sopraffatta dal dolore, la gente non voleva occuparsi delle faccende quotidiane, mondane o religiose. Anche gli animali erano riluttanti a pascolare o a mangiare. Gli stessi esseri celesti erano ulteriormente confusi. La partenza di Rama fu contrassegnata da minacciose nuvole nere, da tempeste di sabbia e da un terremoto ad Ayodhya. Avvilita al solo pensiero che tale ingiustizia avesse potuto prevalere ad Ayodhya, la gente sembrava aver perso ogni interesse nei confronti della vita e del prossimo. Le menti e i cuori di tutti erano totalmente assorti nel solo pensiero di Rama.
Dasaratha rimase sulla strada a guardare il cocchio che scompariva nella nuvola di polvere che sollevava. Con il collo proteso e gli occhi spalancati, egli si sforzava d'intravedere il figlio amato. Quando non riuscì più a vedere, cadde a terra svenuto. Kausalya e Kaikeyi s'inginocchiarono subito per sollevarlo. Rinvenendo, il re ammonì Kaikeyi: "Non toccare il mio corpo, peccatrice! Non ti considero più mia moglie. Non sopporto più neanche la tua vista". Mentre camminava aiutato da Kausalya, il re si voltò indietro, guardò a terra e vide le impronte lasciate dalle ruote del cocchio e dagli zoccoli dei cavalli: "Vedo queste impronte - gemette - ma non vedo Rama". Poi aggiunse: "Presto si stenderà per dormire sulla dura e nuda terra, e il suo corpo si coprirà di polvere. Anche Sita, che non è abituata alla vita della foresta, dovrà sostenere privazioni indicibili. Sono certo che gli abitanti della foresta vedranno Rama come gli indifesi percepiscono il Signore del mondo". E rivolto a Kaikeyi disse: "Non sono capace di vivere senza Rama! Presto morirò, e tu governerai da vedova!".
Sempre più irrequieto, il re ordinò ai suoi attendenti: "Qui non trovo pace. Portatemi nel palazzo della regina Kausalya". Giunto là, giacendo su un sofà, il re disse alla regina: "Kausalya, ti prego, toccami con la mano. Io non ti vedo: la mia vista ha seguito Rama e non è più tornata".
Kausalya disse al re: "Avrei preferito che Rama fosse rimasto ad Ayodhya, anche come servo di Kaikeyi, se lei l'avesse voluto. Ora che Rama è andato nella foresta, lontano da noi, non so neanche che cosa gli stia succedendo e che cosa lei gli farà ancora. La fortuna di Kaikeyi è in ascesa, è sulla cresta dell'onda: mi chiedo cos'altro farà. Verrà mai quel giorno in cui Rama e Lakshmana torneranno ad Ayodhya, portando gioia e felicità al loro popolo? Come desidero vedere i volti dei tre giovani! Di certo in una vita passata devo aver mutilato le mammelle di una vacca e privato i vitelli del loro sostentamento. Come un leone abbatte un vitello e priva la vacca del suo piccolo, così Kaikeyi mi ha privato di mio figlio".
Allora la saggia Sumitra, la madre di Lakshmana, che era rimasta molto più calma, disse a Kausalya: "Colui che consideri tuo figlio è nobile e forte: non c'è bisogno che piangi per lui. Con la sua rinuncia suprema al regno ha guadagnato molto merito sia in questo mondo che nell'altro. Anche Lakshmana ha acquisito molto merito, andando con Rama per servirlo. E pensa all'eroica principessa Sita, che con coraggio e consapevolezza ha rifiutato gli agi del palazzo e ha scelto di stare col marito per servirlo costantemente!
"Sono certa che l'intera natura risponderà generosamente allo splendore e alla gloria spirituale di Rama. Anche la dolce brezza e la piacevole freschezza della luna lo serviranno. I missili e le armi che il saggio Visvamitra gli ha dato, e che egli ha portato con sé, gli daranno la massima sicurezza. Nessun nemico può affrontare lo splendore della devozione di Rama al Dharma. E poi tornerà presto, dopo aver completato il periodo di vita ascetica.
"Devoto al Dharma com'è, egli è la luce nel sole, il calore del fuoco, la prosperità della ricchezza, e l'essenza stessa della gloria e della pazienza. Non solo: io credo che egli sia il Dio degli dèi, l'essere più eccelso. Che egli viva nella foresta o nella città, cosa può capitargli di male? Sita - che è la stessa dea Lakshmi - l'accompagna, e il potente Lakshmana lo protegge giorno e notte: come può essere colpito da qualche male! Non aver paura. Non angustiarti. Presto egli tornerà ad Ayodhya. Presto i tuoi occhi potranno rivederlo. E quando lo accoglierai di nuovo ad Ayodhya verserai lacrime; non come queste, ma lacrime d'amore. Asciugati queste lacrime nate dal dolore, o regina benedetta. Presto, quando Rama tornerà e s'inchinerà davanti a te e a tutte le tue amiche, allora sarà il momento di versare lacrime, lacrime d'amore".
Le sagge parole di Sumitra, madre di Lakshmana, diedero grande conforto alla regina Kausalya.
I cittadini di Ayodhya che avevano seguito Rama non volevano tornare in città. Quando vide che il sole stava per tramontare, Rama si rivolse loro con affetto: "Amati cittadini di Ayodhya! L'amore e l'adorazione che nutrite per me, mostrateli anche a Bharata, per amor mio. Bharata è nobile nel carattere e nelle azioni, e farà tutto ciò che sarà necessario per il vostro bene e la vostra felicità. Inoltre vi prego, per amor mio, di comportarvi in maniera tale da non causare la minima preoccupazione al cuore del re, mio padre".
Qualunque cosa facesse per dissuaderli sembrava piuttosto persuaderli che solo lui era degno di governarli. I brahmana si fecero avanti e parlarono a nome di tutti: "Cari cavalli, non tirate il cocchio verso la foresta, ma riportate il vostro padrone Rama ad Ayodhya. Questa è la preghiera di tutti gli esseri". Quando Rama vide i santi brahmana, scese dal cocchio e camminò umilmente con loro, pur non tenendo conto dei loro argomenti. Vedendo che Rama procedeva ancora verso la foresta, i brahmana lo pregarono: "Finora le nostre menti sono state devote ai Veda; ma ora, Rama, stanno seguendo te nella foresta. Una volta che i nostri cuori sono entrati nel tuo essere, non c'è ritorno. Se tu non tornerai ad Ayodhya, come potrà regnarvi il Dharma? Non odi: gli alberi che non possono seguirti perché trattenuti dalle loro radici ti pregano, ti supplicano (con il suono stridente che producono) di tornare! Guarda quegli uccelli: accovacciati, immobili, ti sollecitano a tornare. O tu compassionevole, abbi misericordia di tutte queste creature e ritorna". Mentre dicevano queste cose, raggiunsero la riva del fiume Tamasa. E anche il fiume sembrava dire "Ritorna", perché sbarrava e ostruiva il cammino di Rama.
Sumantra sciolse i cavalli e li lasciò a pascolare. Rama disse a Lakshmana: "Passeremo la notte qui. Non dobbiamo stare in ansia per i nostri genitori. Bharata, che è il Dharma incarnato, si prenderà cura di loro. Sono contento che sei venuto, mi sarai di grande aiuto per proteggere Sita". Dopo le preghiere, Sumantra preparò il letto di Rama. E su un giaciglio fatto di foglie d'alberi Rama e Sita si coricarono e ben presto s'addormentarono profondamente. Lakshmana restò sveglio, raccontando a Sumantra le glorie di Rama. Quando Rama si svegliò vide i cittadini ancora addormentati e disse a Sumantra: "Porta subito il cocchio e partiamo prima che si sveglino. E dovere dei principi salvaguardare il popolo dall'infelicità causata dagli stessi principi". Appena il cocchio fu pronto, Rama chiese a Sumantra d'andare prima verso nord e poi di tornare velocemente verso la foresta. Tutto questo per confondere i cittadini, perché smettessero di seguirli e tornassero in città.
I cittadini di Ayodhya che avevano accompagnato Rama si erano addormentati sulla riva del fiume Tamasa. Quando si svegliarono si accorsero che Rama era andato via. E sinceramente addolorati maledirono il sonno: "Maledetto il sonno dal quale siamo stati privati della nostra consapevolezza, senza la quale adesso non vediamo Rama. Pur essendo tanto premuroso con i suoi devoti, come mai Rama ci ha abbandonati ed è fuggito di nascosto? Egli trattava noi di Ayodhya come fossimo suoi figli; eppure è andato via nella foresta. Dovremmo seguirlo tutti oppure morire qui stesso. Come possiamo tornare dalla gente di Ayodhya e dire: "Siamo andati con Rama, ma siamo tornati senza di lui".
Poi videro per terra le impronte delle ruote del cocchio e, gioendo alla prospettiva d'incontrare di nuovo Rama, le seguirono. Ma quando d'un tratto queste s'interruppero bruscamente senza lasciare altre tracce, i cittadini rimasero addolorati e perplessi. Delusi, dovettero tornare ad Ayodhya, consolati dal pensiero che tutto questo era opera degli dèi. Eppure rientrando nelle loro case non vi trovarono alcuna gioia; il dolore accecava i loro occhi ed essi si muovevano come ciechi, come se fossero stati privati della vita stessa.
Da allora nulla poteva far gioire la gente di Ayodhya. Le donne erano letteralmente possedute dall'angoscia e dicevano ai mariti: "A che servono le mogli, le ricchezze, i figli, i piaceri e le case a coloro che non possono vedere Rama? Lakshmana è certamente la sola persona buona del mondo, in quanto ha accompagnato Rama. Le colline, gli alberi e i fiumi della foresta sono più fortunati di noi, perché servono Rama. Andiamo dov'è lui: perché egli è la nostra sola mèta e rifugio. Dov'è Rama non c'è paura né sconfitta". E inoltre decisero: "Non ci assoggetteremo mai al governo di Kaikeyi. Incapace di sopportare la separazione da Rama, il re forse morirà presto. E allora forse Kaikeyi dominerà il regno. In tal caso dovremmo o bere del veleno e morire, o seguire Rama, o almeno andare lontano. Oh, quale crudeltà che Rama, Lakshmana e Sita siano stati esiliati nella foresta. Certamente ora Rama illumina la foresta... Rama il cui volto è come la luna piena, che ha un torace possente e delle lunghe braccia, che sottomette i suoi nemici, e che ha gli occhi simili al loto; che è il primo a parlare a tutti, con dolcezza e sincerità; che è forte e buono, che dà gioia a tutto il mondo come la luna; il migliore tra gli uomini, con il coraggio di un elefante".
Così il popolo di Ayodhya si lamentava e dava sfogo al proprio dolore. Ayodhya sembrava una città morta.
Continuando il viaggio verso la foresta, Rama disse a Sumantra: "Penso al giorno in cui tornerò ad Ayodhya e vagherò nelle vicine foreste col pretesto d'andare a caccia. Io non amo cacciare. La caccia agli animali selvatici fu praticata nei tempi antichi per amore dei saggi e degli asceti che vivevano nelle foreste. Col passare del tempo divenne un passatempo per le persone che maneggiavano armi".
Quando il territorio Kosala stava per scomparire all'orizzonte, Rama si volse verso di esso e con le mani giunte si congedò da Ayodhya. Rivolgendosi alla gente dei villaggi che si era radunata intorno a lui, la invitò a tornarsene a casa con queste parole: "E peccato prolungare la sofferenza; andate e applicatevi ognuno ai vostri compiti".
A un'andatura più lenta, perché non era più seguito, Rama guidò il cocchio fino a raggiungere la riva del sacro Gange. Il fiume sacro era fiancheggiato da molti eremi di saggi. Dèi e devoti di dèi, demoni ed esseri celesti (gandharva = artisti), ninfe e mogli di gandharva, tutti adoravano il Gange e si bagnavano nelle sue acque. Turbolento e 'furioso' in alcuni posti, placido e allegro in altri; quasi immobile e calmo in certi luoghi, rapido e fragoroso in altri, il fiume dava gioia continua a tutti. Prendendo origine dai piedi di loto del Signore Vishnu, il fiume immacolato distruggeva ogni peccato.
Rama giunse nella città chiamata Sringaverapura, sulle rive del Gange, e decise di passarvi la notte. Da lontano vide un grande albero d'ingudi e decise d'accamparsi sotto la sua ombra. Il capo di Sringaverapura era Guha, un amico di Rama; e quando seppe dai suoi uomini che Rama era giunto fin là, si precipitò ad accoglierlo. Al loro incontro i due amici s'abbracciarono affettuosamente. Guha fu confuso nel vedere Rama vestito da asceta. Fece portare subito dei cibi prelibati e poi disse a Rama: "Benvenuto, o potente! Tutta la terra è tua. Tu sei il Signore: noi siamo i tuoi umili servi. Dacci la tua protezione e la tua guida. Qui ci sono quattro tipi di cibo: cibo che dev'essere masticato, cibo soffice, bevande e cibi prelibati ridotti in pasta. Ecco del cibo per i cavalli; ed ecco dei magnifici letti per il vostro riposo".
Rama abbracciò nuovamente Guha e gli disse: "Sono felice di vederti, e constatare che stai bene. Grazie per la tua ospitalità, amico: ma ora non mi occorre. Ho preso il voto di condurre vita ascetica. Ti chiedo comunque del cibo per i cavalli, che sono i prediletti di re Dasaratha, mio padre". Guha fornì il cibo per i cavalli. Rama prese solo l'acqua del Gange. Rama e Sita dormirono sotto l'albero, mentre Lakshmana e Guha restarono svegli sotto un altro albero.
Guha disse a Lakshmana: "Noi, fratello, siamo abituati alla vita nella foresta, ma tu no. Ecco un letto per te, stenditi e dormi. Resterò io di guardia". Ma Lakshmana rifiutò dicendo: "E proprio come dici. Però non mi coricherò in presenza di mio fratello". E mentre sedevano entrambi a vigile guardia, Lakshmana espresse a Guha la sua angoscia: "Forse questa è la notte del castigo di Ayodhya. Forse nostro padre è morto; e forse anche le nostre madri. Il popolo è affranto dal dolore. La nostra sola preghiera è che i quattordici anni passino presto, così che Rama torni ad Ayodhya".
All'alba, Rama si svegliò e fece le sue preghiere. Poi disse a Guha: "Ti prego, disponi per farci attraversare il Gange". Quando la barca fu pronta, Rama disse a Sumantra: "Penso che ci hai accompagnati abbastanza lontano; ora devi tornare con il cocchio ad Ayodhya". Sumantra non poté sopportare quel pensiero neanche per un momento; e pianse amaramente: "Come posso tornare senza di te? La vita di brahmacharya e lo studio dei Veda, la coltivazione di virtù come la bontà e la sincerità... tutto mi sembra infruttuoso, quando penso che devi subire quest'esilio. No, permettimi di restare con te. Se rifiuti di farmi venire, mi darò fuoco insieme al cocchio e al resto".
Rama però parlò dolcemente all'angosciato Sumantra: "Tu sei l'unico vero amico della nostra famiglia. Tu sei il nostro saggio consigliere. Perciò devi tornare ad Ayodhya e consolare il re con questo messaggio da parte mia: 'Né io né Lakshmana siamo dispiaciuti per aver dovuto lasciare Ayodhya e vivere nella foresta'. Ti prego di comportarti col re in maniera tale da non causargli alcun dispiacere. Ti prego di portare un messaggio a Bharata: 'Tratta tutte le nostre madri con uguale amore e riverenza'. E importante che tu torni ad Ayodhya, Sumantra. Solo quando madre Kaikeyi vedrà che sei tornato in città senza di me sarà convinta che sono andato nella foresta. E quando Bharata sarà incoronato, i suoi desideri saranno esauditi. Per amor mio, Sumantra, ti prego di tornare ad Ayodhya".
A Guha, Rama disse: "Sotto il voto dell'ascetismo, non posso restare in foreste abitate. Permettimi di partire". Ma prima di separarsi ottenne da lui il lattice che trasuda dal banyan e con esso s'intrecciò i capelli alla maniera degli asceti. Congedatosi da Guha, Rama chiese a Lakshmana di salire per primo sulla barca e quindi d'aiutare Sita; infine vi montò anche lui. D'allora in poi questo fu l'ordine nel quale camminarono. Sita offrì una preghiera al Gange per la loro incolumità nella foresta e per un sicuro ritorno ad Ayodhya. Giunti sull'altra riva, nel territorio Vatsa, Rama e Lakshmana uccisero quattro animali, che insieme ad alcune erbe costituirono il loro pasto.
Passarono quella notte senza Sumantra: la prima notte del loro esilio trascorsa da soli. Il pensiero di Ayodhya tornò nella mente di Rama, che disse a Lakshmana: "Chissà cosa sta succedendo ad Ayodhya. Sicuramente nostro padre è tormentato dal dolore. Forse Kaikeyi dorme tranquillamente. Se Bharata è tornato in città, lei potrebbe anche togliere la vita al re. Considerando gli eventi degli ultimi giorni, comincio a pensare che il piacere dei sensi sia più potente della ricchezza e del Dharma. Altrimenti, come avrebbe potuto il re bandire il figlio che non ha dato alcun motivo di scandalo? Eppure chi ignora il Dharma e la propria prosperità, e si dedica ai piaceri dei sensi, va presto incontro al dolore, come ha fatto re Dasaratha. Stasera sto pensando al fato delle nostre madri, che sono di certo le più duramente colpite dalla svolta degli eventi, e il loro dolore è il peggiore. Nelle sue vite passate mia madre deve aver privato altre madri dei loro figli; per questo ora deve subire questa sofferenza. Il dolore di Kausalya è grande e intollerabile. Sono davvero in ansia per lei. Ti prego, torna ad Ayodhya ed abbi cura delle nostre madri; io riuscirò sicuramente a proteggere Sita nella foresta". La risposta di Lakshmana fu enfatica e definitiva: "Ayodhya è già stata privata della sua luce, in quanto tu sei andato via. Ma ora è inutile preoccuparsene. Per nessun motivo, però, io ti lascerò e tornerò ad Ayodhya". Rama accettò questa decisione, e dal quel momento in poi furono in tre!
Dopo aver trascorso la notte su un letto di paglia preparato da Lakshmana sotto un grande albero, Rama, Sita e Lakshmana proseguirono e raggiunsero presto la confluenza dei fiumi Gange e Yamuna. Rama notò del fumo in lontananza e con gioia esclamò: "Guarda, Lakshmana, quello è un chiaro segno che il saggio Bharadvaja è nel suo eremitaggio e custodisce il fuoco sacro".
Bharadvaja riservò loro una calda accoglienza. "Aspettavo la vostra venuta; ho saputo degli avvenimenti ad Ayodhya. Questo è un bel posto. Potete trascorrere qui tutto il periodo dell'esilio". Ma Rama rispose: "Certo questo luogo è bello e sacro, però è troppo vicino alle grandi città; e la gente di Ayodhya, del Kosala e di altri paesi potrebbe venire spesso a vedere Sita o me. Perciò sento che non dobbiamo fermarci qui. Vi prego di suggerirci qualche altro posto".
Accettando questa considerazione, Bharadvaja continuò: "A una certa distanza da qui c'è la collina sacra di Citrakuta. Chi guarda le cime di quelle montagne gode di prosperità e non cade mai in errore. Essa è dimora di molti saggi. Stabilitevi là". Rama fu d'accordo con questa proposta.
Il saggio Bharadvaja, che frequentava la collina di Citrakuta, indicò dettagliatamente a Rama la strada per arrivarci. Inoltre offrì delle preghiere particolari per la loro incolumità e il successo della loro missione. Rama si prostrò davanti al saggio e disse: "Seguirò le tue indicazioni". Poi si rivolse a Lakshmana dicendo: "Di certo in passato dobbiamo avere acquisito molti meriti per ricevere tutto questo affetto dal saggio".
Per prima cosa si accinsero ad attraversare il fiume Yamuna; e per questo dovettero costruirsi una zattera con le loro mani. Quando fu pronta, aiutarono Sita a salirvi e poi vi montarono anche loro. Arrivati in mezzo al fiume, Sita offrì delle preghiere alla dea Yamuna perché potessero concludere senza pericoli il loro esilio di quattordici anni e tornare salvi ad Ayodhya. Raggiunta l'altra sponda lasciarono la zattera e trovarono il segno indicato dal saggio: un albero di banyan. Secondo le istruzioni del saggio, Sita offri delle preghiere anche al banyan.
Si misero in marcia: Lakshmana faceva strada, Sita lo seguiva, e Rama seguiva Sita. Ogni volta che Sita vedeva dei bei fiori selvaggi chiedeva a Rama cos'erano; e spesso Lakshmana raccoglieva e le donava un mazzetto di fiori di campo. Dopo aver camminato così per un certo tempo, scelsero un altro grande albero sotto il quale passare la notte.
All'alba Rama si svegliò e quindi svegliò Lakshmana: "Ascolta la dolce musica degli uccelli; la notte è passata ed è ora di muovessi". Dopo aver fatto il bagno nel fiume Yamuna e aver pregato, essi proseguirono verso Citrakuta.
Lungo tutto il cammino, Rama indicava a Sita le bellezze della flora e della fauna della foresta. Quando s'avvicinarono a Citrakuta, egli la indicò con gioia a Sita e a Lakshmana e disse che là avrebbero trascorso il periodo del loro esilio, vivendo felicemente nella foresta. Rama disse al fratello: "E una collina deliziosa, con una grande varietà di alberi e piante rampicanti, e frutti e radici in abbondanza. Essa fa vibrare il mio animo. E poi qui vivono molti saggi e santi. Penso che dovremmo stabilirci qui".
Quindi entrarono nell'eremo del saggio Valmiki, che li accolse affettuosamente. Su ordine di Rama, Lakshmana costruì rapidamente una capanna di legno col tetto di paglia. Subito dopo celebrarono la cerimonia di consacrazione del loro eremitaggio, per impedire che gli spiriti maligni occupassero la nuova dimora e per far sì che l'abitazione avesse un'atmosfera più sublime e spirituale. Quando infine Rama entrò nella capanna, si sentì completamente liberato dell'infelicità causata dagli eventi dei giorni precedenti.
Mentre Sumantra attraversava le vie della città con il cocchio vuoto, tutti gemettero di nuovo a voce alta, realizzando che Rama era veramente andato via. Disperando di poterlo rivedere ancora, dicevano: "Il solo pensiero costante di Rama era: 'Che cosa vuole il popolo, che cosa gli piace, e che cosa lo renderà felice', e ci trattava come suoi figli".
Quando Sumantra entrò nel palazzo, le consorti del re espressero ancora una volta il loro dolore: "Ritornando senza Rama, in che modo Sumantra può consolare la regina Kausalya? Vedendo il fato di Kausalya, pensiamo che sia tanto penoso rinunciare alla propria vita quanto lo sia viverla quando si è colpiti dalle disgrazie".
Quando fu in presenza del re, Sumantra gli portò il saluto di Rama, e il re svenne di nuovo. Quindi la regina Kausalya invitò il fedele ministro a non avere riserve, perché Kaikeyi non era presente. Riprendendo coscienza, il re disse a Sumantra di esporre dettagliatamente tutti gli eventi e i messaggi di Rama.
Con la voce strozzata dal pianto, il re chiese a Sumantra: "Come è stato possibile per Rama, Sita e Lakshmana, di discendenza reale, abituati alla vita regale del palazzo e ad essere accuditi da servi e ancelle adattarsi alla dura vita degli asceti? Ti prego, dimmi come ora Rama siede, caccia, mangia e dorme".
Dopo aver narrato del viaggio verso la foresta, Sumantra riferì i messaggi di Rama. Innanzitutto Rama desiderava che i piedi del venerabile re fossero adorati. Secondo, Rama inviava questo messaggio alla regina Kausalya: "Sii devota al Dharma. Mantieni il fuoco sacro. Adora i piedi del nostro signore, il re, considerandolo come dio. Nei rapporti con le altre mie madri non farti prendere né dall'orgoglio né da un falso senso di dignità; e questo ancor più nel caso di Kaikeyi, particolarmente amata dal re. Considera Bharata come re: perché anche se giovani, i re devono essere rispettati. Questo è il Dharma politico".
Il messaggio di Rama per Bharata riguardava soprattutto il suo atteggiamento verso le madri: "Ti prego, considera la regina Kausalya come tua madre: ella mi ama profondamente e soffre molto per la mia assenza". Sumantra aggiunse: "Mentre pronunciava queste parole, gli occhi di Rama erano inondati da lacrime di dolore".
Sumantra continuò: "Lakshmana però era adirato. Era ancora aspramente contrario all'esilio di Rama e diceva: "Come può essere considerato padre chi bandisce Rama? Come si può considerare re chi ha esiliato Rama contro il volere del popolo?". Sita, invece, stava zitta e il suo viso piangente era sempre rivolto a Rama, quando questi e Lakshmana mi parlavano".
Sumantra continuò: "Dopo essermi congedato da Rama, tornai verso Ayodhya; ma i miei cavalli non volevano tornare senza Rama. Perciò passai un paio di giorni con Guha. Speravo che Rama mi mandasse a chiamare per raggiungerlo: ma non lo fece. Col cuore oppresso dal dolore, mi diressi verso Ayodhya. Ma Ayodhya senza Rama è un corpo senz'anima. M'accorgevo che i fiumi, gli alberi, le foreste, e tutti gli esseri viventi sulla terra, in cielo e nell'acqua, si comportavano come fossero senza vita. Mentre attraversavo Ayodhya, nessuno mi salutava o mi sorrideva. Quando vedevano il cocchio vuoto, le persone si coprivano viso e occhi e piangevano. In questo c'era totale unanimità: sia che essi fossero stati amichevoli, ostili o indifferenti verso Rama, erano tutti affranti dal dolore".
Dasaratha si lamentò di nuovo: "Ahimè, ho commesso l'errore più grande della mia vita e del mio regno. Ho agito impulsivamente per compiacere mia moglie, mentre avrei dovuto ascoltare il consiglio dei miei precettori e dei miei ministri. Se avessi chiesto il loro consiglio, questa calamità si sarebbe potuta evitare. Forse questa è la volontà degli dèi. O Rama, o Lakshmana, o Sita! Voi non sapete che sto morendo d'intenso dolore, come un destituto e un orfano. O Sumantra, non mi porteresti dov'è il mio amato Rama?".
Guardando Kausalya, il re descrisse vividamente l'oceano di dolore in cui era sprofondato. E mentre lo faceva, incapace di sopportare l'angoscia, svenne di nuovo.
Vedendo questo, Kausalya fu presa dal terrore e s'accasciò al suolo; poi, guardando Sumantra, disse: "Ti prego, portami subito da Rama e Lakshmana. Non posso vivere qui senza di loro neanche per un momento".
Allora il saggio Sumantra si rivolse con calma alla regina: "Vi prego, mettete fine al vostro dolore, alla delusione e alla confusione causata dalla vostra infelicità. Rama ha abbandonato l'angoscia mentale, e sicuramente vivrà nella foresta senza la minima tristezza. Anche Lakshmana, devoto com'è a Rama e al suo servizio, sta acquisendo molto merito religioso. Il cuore di Sita è totalmente assorto in Rama. Anzi, in compagnia di Rama, ella ha l'impressione di essere in un bosco appena fuori Ayodhya, e non sente affatto il dolore dell'esilio. Perciò neanche il suo corpo mostra segni di fatica o le conseguenze del rigido clima e dei disagi della vita nella foresta. Ella sembra proprio la stessa persona celestiale che vedevamo qui. Oh no, non dobbiamo rattristarci per loro, e neanche tu e il re dovete rattristarvi. Tutto ciò che sta succedendo ora sarà ricordato dall'umanità per tutto il tempo a venire".
Affranta dal dolore, la regina Kausalya disse al marito: "Tu sei certamente un re glorioso e giusto, pieno d'amore e generosità. Eppure non hai pensato per un attimo a come i tuoi figli e tua nuora Sita avrebbero potuto vivere nella foresta. Cresciuti nei palazzi, ora devono vivere in una capanna. Abituati a cibi ricchi, ora devono vivere col vitto degli asceti. Le loro orecchie, abituate ad ascoltare dolce musica, ora devono udire gli ululati e i ruggiti degli animali selvaggi della foresta. Come puoi pensare che Rama, abituato a riposare su morbidi letti, possa dormire su giacigli di stuoie, usando il suo braccio come cuscino? Ahimè, mi vergogno del mio cuore di granito che non scoppia in mille pezzi al solo pensiero dell'esilio di Rama nella foresta. Ahimè, tu sei colpevole di una grande crudeltà verso Rama, in quanto l'hai bandito dal regno.
"Mi chiedo anche se dopo i quattordici anni d'esilio Rama ascenderà al trono. Tutti sanno che i brahmana non mangiano le rimanenze del cibo già dato ad altri. Le persone pie considerano le cose già usate come indegne d'essere adoperate di nuovo in un rito sacro. Come pensi, dunque, che Rama accetterà il trono che gli è stato usurpato, e che un altro ha usato e poi gli ha restituito? Questo figlio della verità tu l'hai ingiustamente bandito nella foresta; è difficile credere che tu conosca il significato di Dharma. Ahimè, sono stata privata di ogni sostegno. Si dice che il marito sia il primo sostegno di una donna, il figlio il secondo, e il terzo i parenti; ma non ce n'è un quarto. Sì, con questa azione ingiusta tu hai distrutto il regno, il popolo e i ministri, me e mio figlio".
Udendo queste dure parole, Dasaratha perse di nuovo coscienza, pronunciando: "Rama".
Quando riprese coscienza, sconvolto dal dolore e con le mani giunte il re disse alla moglie: "Kausalya, abbi pietà di me, ti prego, non dirmi queste dure parole".
Piena di rimorso, Kausalya prese le mani giunte del marito, le pose sulla sua testa e gli disse: "Perdonami, signore. Ho sbagliato, e la mia colpa è imperdonabile. La donna che con le sue azioni costringe il marito ad inchinarsi a lei, non è degna di lode né in questo mondo né nell'aldilà. Pur conoscendo il corso del Dharma, il grande dolore mi ha temporaneamente privato della ragione, perciò ho detto cose che non avrei dovuto dire. Il dolore distrugge il coraggio, la saggezza appresa e ogni altra cosa; perciò non c'è nemico più grande del dolore. Questi cinque giorni senza Rama sono stati come cinque anni per me, e perciò l'angoscia ha raggiunto il culmine. Com'è terribile quest'angoscia!.
Era la sesta notte dopo la partenza di Rama per la foresta. Dopo la conversazione con Kausalya, il re dormì un pò; ma a mezzanotte si svegliò, ricordandosi una sua cattiva azione passata. Allora narrò questa storia a Kausalya:
"Qualunque cosa un uomo faccia, sia essa buona o cattiva, riceve i frutti di quell'azione. Chi non si rende conto delle gravi o leggere conseguenze delle sue azioni sin dall'inizio, è davvero immaturo e infantile. Ciò che sto per raccontarti accadde prima che ci sposassimo, quand'ero un giovane principe. Avevo imparato l'arte di tirare ad un bersaglio senza vederlo, aiutandomi col suono che emana dal bersaglio stesso.
"Ero andato a caccia nella foresta. Il sole era tramontato ed era scesa la notte. Mi diressi verso la riva del fiume Sarayu. Quella notte volevo catturare un grande bufalo o un elefante. Era buio; e nel silenzio della foresta udii ciò che pensai fosse il suono fatto da un elefante. Non potevo vedere l'elefante, ma il suono mi era sufficiente. Mirai e tirai.
"All'alba, dalla stessa direzione dalla quale era venuto il suono, udii una voce umana che gemeva in terribile agonia: "A chi poteva interessare togliere la vita ad un innocente asceta? A chi ho causato la minima offesa? Ero venuto in questo posto solitario sulla riva del fiume, a prendere l'acqua per placare la sete dei miei genitori; ma, ahimè, sono stato colpito e ferito a morte. L'assassino non potrà guadagnare nulla da quest'azione malvagia; ma raccoglierà solo cattivi frutti. Non mi preoccupo tanto della mia vita quanto del futuro dei miei genitori ciechi, che dipendono completamente da me e sono sempre stati accuditi da me. Di certo, quando sapranno che sono morto vorranno morire anche loro. Solo un folle con questa stolta azione poteva causare questo triplice omicidio.
"Udendo questo lamento, corsi sul posto. Avevo colpito un giovane asceta. Questi stava riempiendo la sua brocca d'acqua, e io avevo scambiato il suono fatto dall'acqua che entrava nella brocca per quello fatto dagli elefanti. M'inginocchiai pentito ai suoi piedi. Egli mi fissò con gli occhi resi ardenti dalle austerità e disse: 'Vai subito da mio padre e chiedi il suo perdono; altrimenti la sua collera potrebbe distruggerti. Quel sentiero ti condurrà dove vivono i miei genitori. Ma prima d'andare liberami dal dolore, tirando fuori la freccia ficcata nel mio corpo e che mi causa grande dolore. Non temere con questo di causare la morte di un brahmana, perché io sono nato da padre vaishya e da madre sudra'. Per liberarlo dall'atroce dolore tirai fuori la freccia, e in un attimo morì".
Re Dasaratha continuò:
"Dopo aver commesso quella terribile azione, ponderai sul modo migliore per espiarla. Presi il sentiero indicato dal giovane morente e ben presto raggiunsi l'eremitaggio dove viveva l'anziana coppia cieca. Quando il padre udì i miei passi, disse: 'Amato figliolo, perché hai impiegato tanto tempo per andare a prendere l'acqua? Tu sei soccorso per gli impotenti e vista per i ciechi, tutte le nostre forze vitali sono concentrate in te. Ma perché non mi parli? figlio mio, se io o tua madre ti abbiamo offeso, non prendertela; non sei forse un asceta?'. L'ansia, la paura e il rimorso riempivano il mio cuore. Sforzandomi d'esprimere ciò che sentivo in quel momento, dissi: "Sant'uomo, io non sono vostro figlio. Sono un principe chiamato Dasaratha. Per colpa di una mia malvagia e ignorante azione, tuo figlio è stato gravemente ferito da me. Io sono responsabile della morte di tuo figlio. Adesso ti prego, dimmi che cosa devo fare".
"Inebetito dal dolore, il vecchio asceta rispose: "Se tu non fossi venuto di persona a confessarmi la tua azione malvagia, la tua testa sarebbe scoppiata in un milione di pezzi. Inoltre, come hai detto, hai commesso il peccato nell'ignoranza, senza saperlo. Altrimenti tutta la tua famiglia sarebbe stata distrutta. Ora, guidaci dove il nostro amato figliolo giace esanime".
"Condussi l'anziana coppia cieca nel posto in cui giaceva il corpo del giovane asceta. Il vecchio toccò il corpo del figlio, e nella terribile e straziante agonia si lamentava: "Chi si occuperà di noi come facevi tu, amato figlio?". Ed enumerò tutte le cose che il giovane faceva per loro. Poi continuò: "Aspetta, figliolo, perché presto anche noi ti seguiremo nel regno dei morti, e là pregheremo il dio della morte di concederci che tu possa continuare a stare con noi e a servirci. Possa tu fonderti nell'Essere Supremo, che è la mèta dei santi". Quindi il vecchio celebrò i riti funebri del figlio, il cui spirito salì in cielo. Infine il padre si rivolse a me: "Prima che io vada, devo pronunciare questa maledizione su di te: Poiché hai causato questo dolore nato dalla separazione da mio figlio, anche tu morirai per il dolore causato dalla separazione da tuo figlio". Subito dopo lui e l'anziana moglie si consegnarono al rogo funebre, per godere in cielo della compagnia del figlio".
E Dasaratha concluse: "Ora sto subendo le conseguenze di quel peccato, o Kausalya".
Ben presto il re perse ogni sensazione, e disse: "Il dolore causato dalla separazione da mio figlio sta prosciugando tutte le mie forze vitali. O Rama, sei davvero andato via? O Kausalya, o Sumitra, non vedo più nessuno". E gemendo il re perse coscienza.
La mattina seguente, gli attendenti del re si riunirono nel palazzo per andarlo a svegliare con la consueta musica, coi panegirici e i versi di benedizione delle sacre Scritture. Era poco prima del levar del sole. Udendoli gli uccelli si svegliarono, ma non il re, e neanche le due regine Kausalya e Sumitra, che dormivano sullo stesso letto.
Allora le altre consorti del re entrarono nella camera reale e scossero dolcemente il letto, nel tentativo di svegliare il re e le regine; ma anche questo non sortì lo scopo. Esaminandolo più da vicino, esse si accorsero che il re non respirava. Prese dal terrore, cominciarono a lamentarsi a voce alta; e udendo quei lamenti, Kausalya e Sumitra si svegliarono. Per lo stesso fatto che le regine avevano dormito nello stesso letto con il re, esse giunsero alla conclusione che il re fosse morto nel sonno. Il lamento delle regine fu straziante. Kausalya e Sumitra gridarono forte: "O Signore", e caddero a terra.
Le splendide regine avevano perso tutto il loro lustro, ora che avevano perso il marito. In tutto il palazzo ci furono pianti e lamenti incontrollabili.
Presa da un'angoscia e da un dolore inconsolabile e incontrollabile, Kausalya diede sfogo a tutta la sua amarezza, rivolgendo lo sguardo a Kaikeyi, che pure era addolorata: "Sei soddisfatta ora, Kaikeyi! Tu sei la causa della morte del re. Ora non hai più nemici: goditi la sovranità del regno. Come può una donna casta sopravvivere alla morte del marito? Eppure nella tua bramosia tu hai causato la sua morte, come pure la distruzione di tutta la nostra dinastia. Tu hai portato dolore e tristezza a re Janaka, a Sita e a tutta la famiglia. Affranto dal dolore per il male che è stato fatto alle sue figlie, re Janaka sicuramente morirà. E né Sumitra né io stessa potremo sopravvivere alla morte di nostro marito".
Quando gli ufficiali della casa reale scoprirono il decesso del re, prepararono tutto ciò che si doveva fare. Imbalsamarono il corpo del re in una vasca d'olio e fecero le dovute preparazioni per il rito funebre. Ma il funerale stesso non si poteva fare senza la presenza del figlio del re; perciò si fece ricorso all'imbalsamazione.
Guardando il corpo imbalsamato di re Dasaratha, le sue consorti - ora vedove - si lamentavano continuamente per la crudeltà del loro fato: sia per il dolore della morte del marito, sia per la paura di mali peggiori che Kaikeyi poteva serbare ancora per loro.
Tutte le regine e il popolo di Ayodhya erano unanimi nella condanna di Kaikeyi, la cui azione crudele era stata l'unica causa della morte del re.
La mattina seguente, i ministri di stato, come pure i consiglieri e i saggi, si riunirono sotto la presidenza del saggio Vasishtha per decidere sull'immediato da farsi. I ministri dissero all'assemblea: "Incapace di sopportare la separazione dai suoi figli Rama e Lakshmana, re Dasaratha è asceso in cielo. Dei suoi figli, Rama e Lakshmana sono nella foresta; e Bharata e Satrughna sono presso il loro zio nel regno dei Kekaya. Bisogna nominare subito un re, poiché senza un re il regno andrebbe in rovina. I mali dell'anarchia sono ben noti a tutti: i cittadini non potrebbero fare tranquillamente le loro cose sacre e mondane, e non sarebbero possibili né la giustizia né le normali occupazioni né i giusti divertimenti. I ladri e i furfanti prospererebbero; e prima o poi i malvagi prenderebbero il potere e assumerebbero l'autorità di governanti. Ogni forma di progresso sarebbe arrestata, e non s'intraprenderebbe alcuna attività costruttiva. La legge e l'ordine finirebbero. La giustizia non potrebbe prevalere. La moralità sarebbe ignorata. Non ci sarebbero né riti religiosi né pubblici spettacoli. Ci sarebbe ansia e paura nel cuore di ognuno. E invero anche gli asceti e i saggi sarebbero riluttanti a muoversi liberamente.
"Quando regna l'anarchia, nessuno può considerare sua qualcosa; come il pesce grande mangia quelli piccoli, così il forte ha il sopravvento sui deboli. Quello che gli occhi sono per il corpo, questo è il re per il paese. Incarnando in sé virtù e nobiltà, il re è veramente il padre e la madre di un regno. O saggio Vasishtha, ti preghiamo, decidi cosa bisogna fare adesso".
Vasishtha disse: "Bharata è già stato nominato re. Ora egli si trova in casa di suo zio. Che dei veloci messaggeri siano inviati immediatamente per riportarlo qui". I ministri e i consiglieri acconsentirono di cuore con questa proposta. Vasishtha chiamò dunque alcuni messaggeri scelti perché si recassero subito nel territorio Kekaya, per trasmettere il seguente messaggio a Bharata: "Tanti saluti a te, o Bharata; i saggi di Ayodhya ti chiedono di tornare subito in città, poiché t'aspetta un compito importante". Vasishtha però li avvertì: "Non dite a Bharata né dell'esilio di Rama né della morte del re, e neanche della cattiva sorte subita dalla grande dinastia".
I messaggeri partirono quasi subito da Ayodhya. Attraversando il fiume Gange ad Hastinapura, continuarono verso ovest. Passarono i territori Kurujangala e Pancala, attraversarono il fiume Ikshumati e oltrepassarono il monte Sudana, fino al regno Bahlika; poi attraversarono il fiume Vipasa e altri fiumi ancora, e quindi raggiunsero la città di Girivraja, la capitale del regno Kekaya.
Da un'altra parte, nelle ultime ore di quella stessa notte Bharata ebbe un incubo. Di conseguenza il giorno dopo non si sentiva di divertirsi. Vedendolo depresso, i suoi compagni si sforzarono come meglio poterono di distrarlo, circondandolo di musiche, danze, scenette, giochi e scherzi. Ma Bharata non prestò molta attenzione a queste cose, assorto com'era a rimuginare sul suo sogno.
Quando i suoi amici l'interrogarono, egli raccontò loro le parti essenziali del sogno:
"La scorsa notte ho fatto un sogno terribile. Ho visto mio padre cadere dalla cima di una montagna in uno stagno di sterco di vacca. L'ho visto bere olio dai suoi palmi uniti. Ho visto anche che gli oceani si erano prosciugati; la luna era caduta sulla terra; e dappertutto regnavano i demoni. Ho visto le zanne dell'elefante reale rotte. Ho visto dei grandi fuochi estinti in un attimo. Delle ragazze scure colpivano il re, che era seduto su un seggio di ferro. Il re, con addosso dei fiori cremisi, era portato verso sud in un cocchio tirato da asini. Un'orribile demonessa rideva del re. Questo è il sogno che ho fatto nell'ultimo quarto della notte. Qualcuno morirà: o il re, o io, o Rama o Lakshmana. Si dice infatti che chi sogna un cocchio tirato da asini vedrà il fumo alzarsi da un rogo funebre. Dopo aver fatto questo brutto sogno, mi sento in ansia. Benché non veda cause immediate da temere, c'è molta paura nel mio cuore. Perciò non riesco a godere di ciò che altrimenti mi avrebbe reso felice".
Più o meno in quel momento arrivarono i messaggeri da Ayodhya. Essi cercarono rapidamente Bharata e gli comunicarono il messaggio che era stato affidato loro. Da parte sua Bharata volle sapere dettagliatamente del re, di Rama, Lakshmana, le sue madri, ecc. Ma i messaggeri diedero una risposta ambigua e diplomatica alle sue domande: "Tutti coloro sulla cui salute t'informi stanno bene. La dea della fortuna è in tuo favore. Non ritardare la tua partenza".
Quindi Bharata chiese il permesso del nonno materno, che non solo glielo diede, ma lo caricò di doni (in cambio dei doni preziosi che i messaggeri da Ayodhya avevano portato per il vecchio e suo figlio, cioè lo zio di Bharata). Tuttavia Bharata non fu reso per nulla più felice dall'amore, l'affetto e i doni preziosi che gli erano stati dati. Nel suo cuore c'era una paura irrazionale, causata dal sogno della notte precedente e dalla misteriosa fretta mostrata dai messaggeri.
Quando tutto fu pronto, Bharata entrò negli appartamenti interni e si congedò dal nonno e dallo zio. Quindi, accompagnato da Satrughna, il nobile Bharata salì sul cocchio che a gran galoppo si diresse verso Ayodhya, scortato da un contingente dell'esercito Kekaya.
Da Girivraja (o Rajagriha) Bharata si diresse verso Ayodhya, attraversando i fiumi Sudama, Hradini, Satadru e Ailadhana; attraversò il territorio Aparaparvata e i monti Salyakarshana e Mahasaila. Poi attraversò i fiumi Sarasvati e Gange, il territorio Viramatsya, e quindi lo Yamuna e poi di nuovo il Gange a Pragvata. Infine la settima sera giunse ad Ayodhya.
Entrando ad Ayodhya, Bharata fu sconvolto nel vedere il grande cambiamento. La città era in lutto. Nulla sembrava normale: non c'era gioia né allegria né alcun segno fausto. Ed egli chiese all'auriga: "Perché è così? Ho sentito dire come appare una città quando muore il re, e tali sono le scene che vedo ad Ayodhya!".
Subito si diresse nell'appartamento del padre. Ma non trovandolo là, con la mente turbata si precipitò in quello di sua madre. Ella l'aspettava con ansia, gli corse incontro e con grande gioia l'abbracciò e gli diede il benvenuto. Poi gli chiese del viaggio, ed egli le raccontò tutto nei dettagli. Gli chiese anche notizie di suo padre e suo fratello, ed egli le rispose che stavano bene. Infine Bharata le chiese: "Dov'è mio padre? Stava quasi sempre nel tuo appartamento, disteso su quel divano dorato. Desidero inchinarmi a lui e toccare i suoi piedi. Dov'è?".
Ora Kaikeyi, che era stata mentalmente squilibrata dall'avidità, disse con calma al figlio (che non sapeva nulla) ciò che sapeva lei, come se fosse stato qualcosa di molto bello: "Tuo padre è andato laddove infine vanno tutti: all'altro mondo". Bharata fu come trafitto da un fulmine e cadde a terra piangendo. Ella cercò di consolarlo dicendo: "Alzati, tirati su, o re! Perché stai a terra in quel modo? Le persone come te riverite dall'alta società non piangono così!".
"Sono venuto in fretta, pensando che l'invito significasse o l'incoronazione di Rama o la celebrazione di un rito sacro. Ma ahimè! Non trovo mio padre! Dimmi madre: quali sono state le ultime parole di mio padre?", chiese Bharata. Kaikeyi rispose: "Egli ha lasciato il corpo sospirando forte i nomi di Rama, Lakshmana e Sita, e ha detto: "Solo coloro che potranno vederli al loro ritorno dalla foresta saranno beati'". Ancora più scosso, Bharata chiese: "Dov'è Rama?". E Kaikeyi rispose: "Rama, con Sita e Lakshmana, è andato nella foresta". Profondamente agitato, Bharata chiese ancora: "Per quale crimine Rama è stato esiliato?". In risposta a questa domanda vitale Kaikeyi narrò l'intera storia, e concluse: "Figlio mio, tu conosci il Dharma, ora devi prendere le redini del regno nelle tue mani. E stato per amor tuo che ho fatto tutto questo. Non essere triste, non preoccuparti, questo regno ora dipende da te. Esegui senza indugio il rito funebre di tuo padre e sali al trono".
La terribile rivelazione della verità da parte di Kaikeyi provocò in Bharata un attacco incontrollabile di collera, nata da un'angoscia inesprimibile. Egli disse: "Che cosa ho a che fare io con il regno, addolorato come sono, privato di mio padre e di mio fratello, che per me è come un padre? Tu mi hai dato un dolore dopo l'altro, causando la morte di mio padre e facendo esiliare mio fratello nella foresta. Tu hai sterminato la nostra dinastia; e dici che hai fatto tutto questo per amor mio.
"Certamente, accecata dalla brama di potere non ti sei accorta di quanto amore e riverenza nutro per Rama. Come posso prendere le redini di un governo che lui e solo lui può tenere? Ricordati, anche se per mezzo di qualche potere psichico o intellettuale acquisissi l'abilità di governare il paese, non salirei mai al trono; perché non esaudirò mai il tuo malvagio desiderio. Nella nostra dinastia è sempre stato il primogenito a salire al trono. Ora tu hai distrutto questa nobile tradizione; ma io non permetterò che ciò accada. Andrò nella foresta, e convincerò Rama a tornare ad Ayodhya, e poi o vivrò nella foresta al suo posto o verrò qui a servirlo.
"Per questo peccato imperdonabile, tu meriti l'inferno. D'ora in poi non hai più il diritto di parlarmi; tu che sembreresti mia madre, sei in realtà mia nemica. La tua condotta è riprovevole; sei piena d'ambizione politica e hai assassinato tuo marito. Tu non sei degna di considerarti figlia del nobile re Ashvapati, mio nonno. Ti sei guadagnata una cattiva reputazione per sempre. Quali terribili sofferenze hai causato a madre Kausalya! Non sai che un figlio nasce da ogni parte di sé e dal proprio cuore, ed è perciò l'essere più amato della madre? Eppure, crudeltà incarnata come sei, hai privato madre Kausalya di suo figlio.
"Ho udito questa leggenda: Una volta Indra vide la vacca divina Surabhi che piangeva. Interrogata dal dio, Surabhi indicò due vitelli che si erano accasciati esausti per la fatica, e disse: "Indra, soffro nel vedere i miei due figli che giacciono esausti, perché un agricoltore insensato e malvagio che li aveva aggiogati al suo aratro li ha trattati con crudeltà e spietata avidità. Vedendo i miei figli così maltrattati, esausti e sofferenti, sono molto addolorata: non c'è nessuno tanto caro quanto un figlio".
"Quale dolore incommensurabile hai causato nel cuore di madre Kausalya! Non posso sopportare neanche il pensiero del grande peccato che hai commesso. Puoi gettarti nel fuoco o andare nella foresta o impiccarti: puoi fare quello che ti pare. Io ho deciso d'andare nella foresta e riportare Rama ad Ayodhya". Terribilmente scosso dal dolore, Bharata cadde privo di sensi.
Nel frattempo i ministri s'erano raccolti intorno a Bharata, che dopo aver ripreso i sensi disse: "Non ho mai desiderato il trono; né ho consigliato mia madre al riguardo".
Udendo la voce di Bharata, Kausalya andò ad incontrarlo; mentre, nello stesso tempo, anche Bharata la cercava. Vedendo che era svenuta per il dolore, Bharata e Satrughna le massaggiarono i piedi. Quando riprese coscienza, ella disse: "Il regno è tuo, Bharata, vinto per te da tua madre. Per me c'è solo un grande dolore. Sarebbe meglio che andassi nella foresta, dov'è Rama". Con le mani giunte, Bharata le rispose umilmente, con il viso grondante di lacrime: "Madre, non conosci me e il mio amore per Rama? Allora perché dici queste dure parole? No, l'esilio di Rama non è cosa mia; davvero, non lo sapevo neanche! Lo giuro: se sono responsabile di questo delitto, possa io subire le conseguenze di tutti i peccati menzionati nelle Scritture.
"Possa il responsabile dell'esilio di Rama attirare a sé i peccati di maltrattare una vacca, di un padrone che deruba il servo, di tradimento, di tirannia, di crimini di guerra, di mostrare disprezzo agli anziani, d'ingannare un amico, di ricattarlo, di mangiare del cibo senza condividerlo con la famiglia e i servi, di dormire all'alba e al tramonto, d'incendio doloso, di adulterio, di trascurare il servizio dei genitori, d'inquinare le acque, d'avvelenare qualcuno, e di mostrare parzialità testimoniando in una disputa. Che egli diventi indolente, inattivo, ingrato, respinto e odiato da tutti. Che diventi la dimora di tutti i vizi condannati nelle nostre Scritture: che ogni sorta di disgrazia e sfortuna s'abbatta su di lui".
Kausalya fu profondamente commossa dalle parole di Bharata, e con affetto gli disse: "Basta così, figliolo: tu aggiungi la tua angoscia a chi è già angosciata dalla perdita del figlio. Per fortuna il tuo cuore non ha deviato dal sentiero del Dharma; figlio mio, tu sei devoto alla verità e ascenderai ai reami divini". E così dicendo Kausalya prese in grembo Bharata e lo consolò.
La mattina seguente, il saggio Vasishtha disse: "Basta con il dolore, Bharata: che si proceda con il rito funebre". Il corpo del re fu tirato fuori dalla vasca con l'olio. E vicino al cadavere Bharata si lamentò ed espresse ancora una volta il suo dolore. Vasishtha gli disse: "Il funerale del re dev'essere fatto con mente serena, senza alcuna agitazione". Allora i sacerdoti portarono il fuoco sacro che lo stesso re aveva diligentemente mantenuto a casa sua e con il quale sarebbe stata accesa la propria pira funeraria. Quando il rogo fu acceso, ci furono grida strazianti da parte delle donne del palazzo.
L'undicesimo giorno Bharata fece il necessario rito di purificazione; e il dodicesimo compì la cerimonia specifica per la pace dell'anima dipartita, durante la quale distribuì abbondanti doni ai brahmana e ai poveri. La mattina del tredicesimo giorno, Bharata pianse ancora una volta il re, quando andò a raccogliere le ceneri nel luogo della cremazione. Piangendo incontrollabilmente, Bharata cadde privo di sensi.
Anche Satrughna svenne; e quando riprese coscienza si lamentò a voce alta: "L'oceano di dolore generato dalla malvagia Manthara - che ha preso la forma dei due doni concessi da mio padre - infestato dai coccodrilli dell'avidità di Kaikeyi, ci ha inghiottiti. Il nostro caro padre ci accudiva con tanto amore e affetto, e soddisfaceva tutti i nostri bisogni. Ora chi si prenderà cura di noi?". Udendo i due fratelli che si lamentavano, tutta la gente del palazzo espresse il proprio dolore.
Vedendo ciò, il saggio Vasishtha disse a Bharata: "Questo è il tredicesimo giorno; le cerimonie connesse al funerale devono essere fatte oggi. Queste tre coppie di opposti: nascita e morte, gioia e dolore, guadagno e perdita, sono inevitabili nella vita di tutti gli esseri; perciò non dovete comportarvi così". Udendo l'ammonimento del saggio, i due principi si alzarono e continuarono i riti del tredicesimo giorno di lutto.
Più tardi Satrughna disse a Bharata: "Rama è veramente il rifugio di tutti gli esseri che soffrono, ma quel Rama dotato di tutte le nobili qualità è stato esiliato nella foresta da una donna! Ciò che è ancora più strano è che il potente Lakshmana abbia tollerato tutto l'accaduto senza impedire a nostro padre di commettere questa terribile ingiustizia".
Mentre Satrughna diceva queste parole, entrò la gobba Manthara. "Questa peccatrice è responsabile di tutta la tragedia", disse Bharata. E consegnandola a Satrughna continuò: "Dalle la punizione che merita". Quando Satrughna afferrò Manthara, tutte le sue amiche fuggirono e andarono a chiedere aiuto nell'appartamento di Kausalya! Incapace d'affrontare l'ira e il rimprovero di Satrughna, Kaikeyi chiese aiuto a suo figlio!
Allora Bharata disse a Satrughna: "Non uccidiamo queste donne, fratello. Io stesso avrei ucciso questa malvagia Kaikeyi, ma non l'ho fatto per paura d'offendere il giusto e nobile Rama, che potrebbe non approvare quest'azione. Anche se uccidessimo questa gobba, egli sarebbe dispiaciuto con noi. Perciò lasciala andare"
Libera dalla presa di Satrughna, Manthara si dileguò in compagnia di Kaikeyi, che cercava di consolarla.
Il quattordicesimo giorno dopo la morte di re Dasaratha i consiglieri personali del re si riunirono e dissero a Bharata: "Dasaratha è morto, dopo aver mandato Rama e Lakshmana nella foresta. Ti preghiamo, sii nostro re. Non c'è alcun male in questo, poiché sei stato nominato al trono. Il nostro regno è senza un sovrano, e ciò non è desiderabile".
Le cose necessarie per l'incoronazione erano già state preparate; e Bharata vide le persone che avevano portato tutto il necessario. Con il capo chino e le mani giunte, egli fece un giro intorno a quegli articoli in segno di venerazione, e poi parlò ai consiglieri: "Voi che siete uomini di cultura e di saggezza non dovreste darmi tale suggerimento. Di certo Rama, che è il nostro fratello maggiore, sarà il re. Io andrò al suo posto nella foresta e vi dimorerò per quattordici anni. Vi prego di preparare un contingente del nostro esercito con tutto il necessario. Andrò nella foresta, cercherò Rama ovunque sia, e là stesso celebrerò la cerimonia d'insediamento e lo farò tornare ad Ayodhya. In nessun caso permetterò che si realizzi il desiderio malvagio di colei che si ritiene mia madre. Io vivrò nella foresta, e Rama sarà re. Perciò mandate i nostri architetti, ingegneri e operai ad aprire una strada adeguata che permetta a tutti noi di andare nella foresta".
I consiglieri e tutti gli altri che udirono questa lodevole decisione di Bharata l'approvarono di cuore e lo benedirono. Questo, a sua volta, fece piacere a Bharata. Architetti, ingegneri, artigiani, operai, e altri, furono inviati immediatamente a preparare la strada affinché l'esercito e tutti gli altri che godevano di prerogative regie potessero andare nella foresta.
Il gruppo era composto di geologi, genieri, macchinisti, architetti, ingegneri meccanici, ingegneri civili, falegnami, rabdomanti, costruttori di ponti e gallerie, oltre a cuochi, ciabattini e domestici. Tutti questi, insieme al contingente delle forze armate, apparivano come un oceano d'umanità in movimento. Con la rapidità del fulmine, essi costruirono strade, livellarono dossi, riempirono fossati e burroni, piantarono alberi dov'era necessario e li tagliarono quando ostruivano il passaggio, scavarono pozzi e costruirono dighe, creando così anche dei laghi. In pochissimo tempo essi costruirono un'ottima superstrada. Man mano che avanzavano piantavano le loro tende, che erano numerose quanto le stelle del firmamento. Questi accampamenti avevano i loro templi per le preghiere e le celebrazioni dei riti sacri anche durante la marcia.
Costruita da esperti, la superstrada appariva molto bella e fu presto pronta per l'uso.
La mattina seguente, gli ufficiali di corte che non erano al corrente della decisione di Bharata si stavano preparando per le cerimonie relative alla sua incoronazione. I musicisti e i panegiristi di corte s'avvicinarono al palazzo di Bharata e cominciarono a cantare le sue lodi e la gloria della sua dinastia. Essi fecero il loro dovere mattutino; e come l'avevano fatto prima per re Dasaratha, ora lo facevano per Bharata.
Svegliato dal loro frastuono, Bharata si sentì doppiamente triste. Ordinò loro di fermarsi, e rivolto a Satrughna espresse così la sua tristezza: "Ahimè, che terribile errore ha commesso mia madre! Dasaratha è andato all'altro mondo; e Rama, che è il Dharma incarnato, è andato nella foresta. Mi sento affogare in un oceano di dolore. E anche lo stato è senza un sovrano".
Il potente saggio Vasishtha s'era seduto sul suo seggio dorato nella corte reale, circondato dai suoi degni discepoli. E ordinò ai messaggeri di corte: "Vi prego, sollecitate i capi della nostra comunità, e anche Bharata e Satrughna, insieme ai loro amici, a venire presto a corte. Ci sono cose urgenti". I santi brahmana, i sacerdoti, i comandanti dell'esercito, i consiglieri ed altri ancora arrivarono prontamente. Quando entrò Bharata lo applaudirono, com'erano soliti fare con Dasaratha.
Il saggio Vasishtha si fece portavoce dei sentimenti dell'assemblea e così si rivolse a Bharata: "Figliolo, re Dasaratha ha lasciato a te questo regno, insieme a tutti i suoi tesori e ai suoi sudditi leali. Rama, che aveva ricevuto dal re l'ordine di andare nella foresta, ha ubbidito prontamente al comando di suo padre. Allo stesso modo, è giusto che tu ascenda al trono. Sali al trono che ti è stato donato sia da tuo padre che da tuo fratello, e incoronati re".
Queste parole furono molto penose per Bharata, che con la voce tremante, che esprimeva profondo dolore, disse: "Come può un figlio di re Dasaratha usurpare il trono che appartiene giustamente a un altro? Rama è il primogenito ed è in ogni cosa superiore a me. Usurpando il trono guadagnerò solo infamia e castigo eterno per me stesso e disgrazia per la dinastia. Questa malvagità è stata commessa da mia madre, ma a me non piace. Stando qui io saluto Rama. Io seguirò lui e solo lui, perché solo lui è degno d'essere re. Reverendi saggi, ho già dato ordini perché un contingente dell'esercito e tutti i nostri capi vengano con me nella foresta dove si trova Rama. Convincerò o forzerò Rama a ritornare. Se, però, egli rifiutasse, io resterò con lui nella foresta come Lakshmana. Una magnifica strada è già in preparazione per il gioioso ritorno di Rama ad Ayodhya".
Ben presto un maestoso fiume d'umanità devota cominciò a fluire da Ayodhya verso la foresta. I capi della comunità, i membri della corte reale, i consiglieri personali, i rappresentanti di ogni tipo di artigiani, i membri delle varie corporazioni - falegnami, muratori, calzolai, ingegneri, architetti, artisti, vasai, tessitori, orefici e gioiellieri, medici, sarti e lavandai, musicisti e ballerini - facevano parte di quest'imponente spedizione, condotta da novemila elefanti riccamente bardati, sessantamila carri e uomini muniti di varie armi e una cavalleria forte di centomila unità.
Tutti si chiedevano: "Quando vedremo Rama, colui che scaccia il dolore del mondo intero, che ha il colore delle nuvole cariche di pioggia, che ha braccia possenti, che è fermamente stabilito nella divinità, ed è saldo nelle sue risoluzioni? Nel momento in cui lo vedremo le nostre angosce svaniranno, come svaniscono le tenebre del mondo quando sorge il sole". Dei brahmana d'eccelsa sapienza, splendenti del lustro della meditazione profonda e delle realizzazioni spirituali, seguivano Bharata nei loro carri trainati da buoi.
Presto raggiunsero la riva del sacro Gange. Bharata ordinò di piantare le tende e d'accamparsi sulla riva per la notte. Quel mare di persone attirò l'attenzione di Guha. Mentre rifletteva per capire chi fossero, egli vide Bharata che in piedi in mezzo alle acque del Gange offriva libagioni per la pace del defunto re. Guha si chiese per quale motivo Bharata stava conducendo un esercito così potente nella foresta: "Forse Bharata vuole uccidere Rama, ed assicurarsi l'occupazione continua del trono? Rama è il mio Signore e anche mio amico". Infine disse ai suoi compagni: "Dobbiamo fare diligentemente ciò che è nell'interesse di Rama. Se Bharata sta andando nella foresta per fare del male a Rama, non gli lasceremo attraversare il Gange; se invece Bharata è disposto favorevolmente verso Rama, allora saremo felici d'aiutarlo ad attraversare il fiume".
Prendendo del miele e dei frutti selvatici, Guha s'avviò verso la tenda di Bharata. Vedendolo arrivare, Sumantra - che già conosceva Guha - lo annunciò subito a Bharata: "Guha è davvero un tuo caro amico e fratello, perché tale è considerato da Rama. E bene che tu lo riceva e sia amichevole con lui; perché sicuramente egli sa dov'è Rama". Con grande gioia, Bharata fece subito entrare Guha nella sua tenda. Con naturale e spontanea umiltà Guha offrì i frutti e il miele a Bharata, e disse cordialmente: "Benché indipendente, noi consideriamo il nostro principato come un sobborgo di Ayodhya. Che tu sia benvenuto, Bharata. Noi ti auguriamo un soggiorno piacevole in questa regione".
Il nobile Bharata accettò l'ospitalità di Guha con sincera gratitudine. Quindi gli chiese: "Ti prego, dimmi quale sentiero il mio amato fratello ha seguito per raggiungere l'eremo di Bharadvaja?". Guha rispose subito: "Stai certo, Bharata, che i miei uomini ti guideranno attraverso la foresta. Ma prima vorrei porti una domanda; e vorrei una risposta sincera. Stai forse cercando Rama con cattive intenzioni? L'esercito che ti circonda fa sorgere questo dubbio nella mia mente".
Bharata si sentì scosso da questa domanda e rispose gentilmente: "Fratello, ti prego, sii clemente con me e metti da parte quel pensiero. Rama è il mio stimatissimo fratello maggiore che io considero come un padre. Ti dico la verità: sto andando da Rama per implorarlo di tornare ad Ayodhya".
Guha fu molto colpito da questa rivelazione, e con gioia e amore disse a Bharata: "Beato davvero sei tu, o Bharata: io non vedo alcuno uguale a te sulla terra, poiché tu desideri rinunciare al regno che ti si è presentato senza cercarlo. La tua gloria sarà cantata eternamente in tutti i mondi, in quanto desideri far tornare Rama e quindi rovesciare la sua cattiva sorte".
Mentre parlavano, il sole calò dietro l'orizzonte d'occidente e le tenebre avvilupparono la terra. Ma col cuore incendiato dal dolore, Bharata non riusciva a dormire. Oppresso dal fardello del suo dolore, si girava e si rigirava, senza trovare pace. Vedendo questo, però, Guha si convinse pienamente delle nobili intenzioni di Bharata.
Per alleviare in qualche modo la sua angoscia, Guha gli narrò gli eventi della notte in cui aveva dormito sullo stesso terreno insieme a Rama, Lakshmana e Sita, e disse: "Cercai di persuadere Lakshmana a dormire, assicurandolo che conoscevo molto bene la foresta e che li avrei protetti da qualsiasi pericolo. Ma egli non volle. 'Come possiamo dormire, Guha - mi disse il nobile Lakshmana - quando vediamo questa coppia reale, Rama e Sita, che dorme sulla nuda terra con dell'erba come giaciglio?'. Poi egli cominciò a rimuginare sul fato di Ayodhya e della famiglia reale, e mi disse: 'Incapace di sopportare la separazione da Rama, sicuramente il re morirà. Io credo che né madre Kausalya né mia madre sopravviveranno a questa notte: anche se mia madre vivesse in attesa di Satrughna, madre Kausalya morirà. Dopo aver completato i quattordici anni d'esilio, Rama ed io torneremo ad Ayodhya insieme a Sita'. E così passammo la notte parlando del glorioso Rama. Il giorno dopo i due eroi partirono con Sita, con il portamento d'elefanti reali, con i capelli intrecciati sulla testa, vestiti di cortecce d'alberi e pelli d'animali, e con le armi in spalla".
La vivida descrizione della maniera in cui Rama, Lakshmana e Sita erano partiti per la foresta, portò Bharata a contemplare i piedi di Rama. Con calma si concentrò per un pò, ed essi divennero vivi nella sua coscienza. Visualizzò la famiglia reale nel ruvido abbigliamento ascetico, e subito svenne! Allora Satrughna gemette a voce alta; e udendolo, le regine si precipitarono nella tenda di Bharata. Madre Kausalya lo sollevò amorevolmente, con molta tenerezza. Al suo dolce tocco, egli riprese i sensi. E Kausalya gli chiese: "Stai bene figliolo? Da te ora dipende la vita di tutti noi e dei cittadini di Ayodhya".
Dopo aver rassicurato Kausalya, Bharata chiese a Guha: "Mostrami dove mio fratello ha dormito con Sita. Su che cosa s'è adagiato, e cosa ha mangiato la notte che ha trascorso qui?". Guha rispose: "Posi davanti al nobile Rama frutti e diversi altri piatti deliziosi, che egli gentilmente rifiutò dicendo: 'Amico, noi non accettiamo doni; sappiamo solo come donare'. Lui e Lakshmana presero solo dell'acqua del sacro Gange. Poi Lakshmana preparò un giaciglio d'erba, sotto quell'albero d'ingudi, e là dormirono Rama e Sita, senza mostrare il benché minimo disagio".
In un'estasi mista a intenso dolore, Bharata disse: "Qui, sotto quest'albero d'ingudi, il nobile Rama ha trascorso la notte con la principessa Sita. Questi sono i fili d'erba benedetta che hanno toccato il corpo di Rama. Abituati a dormire su morbidi letti, a camminare su pavimenti lastricati d'oro e pietre preziose, come hanno potuto il nobile principe e la sua principessa dormire sull'erba? Lui che era abituato ad essere svegliato da bardi e musicisti - come ha potuto passare la notte in questa densa foresta, ascoltando gli ululati e i ruggiti degli animali selvatici? E incredibile, non mi sembra vero; tutto mi fa pensare che è solo un sogno. Di certo anche gli dèi sono soggetti alla sorte avversa che ha fatto dormire Rama, figlio di re Dasaratha, sulla nuda terra, e ha permesso che Sita - figlia di re Janaka e nuora di re Dasaratha - dormisse sulla nuda terra! Qui ha dormito chiaramente la beata Sita; alcuni fili d'oro del suo vestito sono rimasti imbrigliati nell'erba. Ah, la moglie devota ha trovato molto confortevole questo giaciglio d'erba condiviso col marito. Beato Lakshmana, che è andato con Rama per servirlo. Ayodhya è desolata ora che il re e Rama l'hanno lasciata. Adesso neppure i nemici desiderano invaderla, nonostante sia stata lasciata indifesa! D'ora innanzi anch'io porterò i capelli intrecciati sulla testa e mi vestirò di cortecce d'alberi. Rama tornerà ad Ayodhya e io prenderò il suo posto nella foresta. E se egli non tornasse, anch'io rimarrò con lui come asceta e come suo servo".
Bharata, Satrughna, le regine, i sacerdoti e tutto il seguito passarono la notte nello stesso luogo dove Rama, Lakshmana e Sita avevano trascorso la notte prima di partire per Citrakuta. La mattina dopo molto presto Bharata vide Satrughna ancora a letto e gli disse: "Svegliati! E già ora d'attraversare il Gange. Vai subito a chiamare Guha, perché ci faccia attraversare il fiume". Satrughna rispose: "Non dormivo, fratello, anch'io contemplavo il glorioso Rama". In quel momento arrivò Guha, che s'informò se i principi avevano trascorso una nottata riposante. Dopo aver dato la risposta appropriata, Bharata concluse: "Amico, siamo impazienti d'attraversare il Gange al più presto".
In pochi minuti Guha raccolse una flottiglia di parecchie centinaia di barche grandi e piccole, per fare attraversare il sacro Gange a tutto il seguito reale. Lui stesso condusse un magnifico battello coperto di tappeti per i principi e le regine. Tutti entrarono nelle barche, che ora cominciarono ad attraversare il fiume. Gli elefanti passarono a nuoto con i loro guidatori. Molti furono i cittadini zelanti che attraversarono il fiume a nuoto, alcuni usando giare vuote che li aiutavano a tenersi a galla e altri dipendendo solo dalla forza delle proprie braccia. Raggiunta l'altra riva del Gange, la comitiva arrivò presto nella foresta vicino Prayaga (Allahabad).
Bharata lasciò il seguito accampato nella foresta e continuò fino all'eremitaggio di Bharadvaja, accompagnato soltanto dai saggi e dai sacerdoti. Bharadvaja li accolse come si conviene. Vasishtha e Bharadvaja si salutarono con grande riverenza, informandosi reciprocamente del loro benessere.
Bharadvaja conosceva intuitivamente l'identità di Bharata, e l'apostrofò: "Tu dovresti essere ad Ayodhya, a governare; cosa fai qui? A causa di un complotto macchinato da una donna, il nobile Rama è andato nella foresta con suo fratello e sua moglie. Spero che tu non voglia perseguitarlo per fargli del male". Bharata fu molto scosso dalle parole del saggio. E in tono supplichevole e con la voce strozzata dal pianto rispose: "Signore, che un tale pensiero non trovi posto nella tua mente santa. Tutto quello che è successo ad Ayodhya durante la mia assenza è totalmente contrario ai desideri del mio cuore. Invero sto andando ad incontrare Rama per supplicarlo di tornare ad Avodhya. Sono venuto qui per sapere dove si trova il nobile principe". Estremamente compiaciuto, Bharadvaja rassicurò Bharata: "Conoscevo bene le tue intenzioni, ma ho espresso il dubbio per rafforzare la tua determinazione e manifestare la tua gloria. So anche dov'è Rama: sulla collina di Citrakuta. Ma stanotte passala qui e parti domattina".
Bharata fu d'accordo con il saggio Bharadvaja, ma all'offerta dell'ospitalità dell'eremitaggio il principe rispose cortesemente: "La gioia con cui ci avete ricevuto è di per sé un'ospitalità più che sufficiente".
Realizzando pienamente la riluttanza del principe ad approfittare dell'ospitalità dell'eremita, il saggio rise di cuore e disse: "Sei davvero nobile, Bharata, poiché non desideri approfittare indebitamente della nostra ospitalità. Ma mi farebbe davvero molto piacere ospitare e servire te e anche il tuo seguito. Perché hai lasciato l'esercito e tutti i cittadini così lontano nella foresta?".
Bharata rispose di nuovo umilmente: "O santo, li ho lasciati indietro e sono venuto da solo di proposito! I re e i principi devono sempre cercare di non invadere gli eremi degli asceti. C'è un grande esercito e un numero ancora più grande di cittadini di tutti gli strati sociali che m'accompagnano in questo pellegrinaggio. Non volevo che s'avvicinassero a questo pacifico eremitaggio, inquinandone le acque e la terra, e danneggiando gli alberi e le capanne".
Felice della premura di Bharata, il saggio chiese comunque al principe di fare entrare l'esercito e tutto il seguito nel terreno dell'eremo per godere della sua ospitalità. Mentre Bharata dava gli ordini necessari, il saggio si ritirò nella sua capanna e dopo i dovuti riti preliminari entrò in profonda meditazione e comunione con gli dèi (le forze) che controllano tutti i fenomeni naturali.
In quello stato di santa comunione (samyama), il saggio pregò: "Possa Visvakarma (il Signore di ogni azione) concedermi d'intrattenere i miei ospiti oggi. Possano Indra e le tre divinità guardiane della terra manifestarsi qui e permettermi di servire adeguatamente gli ospiti. Possano tutti i fiumi che scorrono sulla terra e nelle regioni celesti essere presenti qui nelle loro forme sottili. Possano ruscelli d'acqua pura e di bevande alcooliche e non alcooliche scorrere in questo eremitaggio per il piacere dei miei ospiti. Possano i musicisti e le ninfe celesti manifestarsi in questo eremitaggio per servire e intrattenere i miei ospiti reali. Desidero anche che appaiano 'alberi' carichi di abiti, gioielli e frutti deliziosi. Possano apparire subito in questo eremitaggio ghirlande profumate, e bibite, carni e vivande prelibate".
Il saggio, che si trovava in un profondo stato supercosciente di samadhi, pronunciò gli inni idonei ad invocare la presenza delle divinità desiderate. Mentre pregava mentalmente, con le mani giunte, tutte le divinità si manifestarono là ad una ad una. In quell'istante spirò sul luogo una dolce e fresca brezza che liberò tutti da ogni fatica.
Gli esseri celesti si manifestarono presto. Ci furono musiche e danze dappertutto. Bharata e il suo seguito guardavano tutto con occhi stupefatti. Mentre guardavano, proprio dinanzi a loro chilometri e chilometri di terreno divennero istantaneamente pianeggianti e si coprirono d'un soffice prato. Dappertutto apparvero alberi da frutta. Bellissime dimore si materializzarono ovunque, comprese le stalle per gli animali della comitiva reale. Nel mezzo si materializzò un palazzo reale ornato di ghirlande, drappi e bandiere a tutti gli ingressi. Bharata entrò nel palazzo. E visualizzando Rama seduto sul trono, vi girò intorno umilmente e s'inchinò a Rama che vi era assiso; quindi sedette sul seggio del primo ministro.
Dopo un pò apparvero ruscelli di latte e altre bevande. In quella città istantanea si materializzarono centinaia di uomini e donne celesti; e musicisti divini che cominciarono a cantare davanti a Bharata, mentre altri lo intrattenevano con le loro danze. Di fatto, mentre tutta quell'umanità guardava, gli alberi dell'eremitaggio si trasformarono in musicisti, tamburini e ballerini. Altri alberi ancora divennero subito servi reali, uomini e donne. Questi servi dissero ai membri delle forze armate: "Quelli di voi che sono abituati alle bevande alcoliche, si servano pure; quelli che hanno fame, prendano pure latte e vivande; e quelli che lo desiderano, mangino le carni e gli altri cibi prelibati. Mangiate e bevete a volontà secondo il vostro desiderio". Le donne materializzate all'istante aiutarono i soldati a lavarsi e a vestirsi. E li aiutarono anche a lavare e a nutrire gli animali. Disorientati da tutto ciò, gli animali non riconoscevano più i padroni e viceversa!
Abbagliati da quanto avevano visto quella sera, i soldati dicevano: "Non vogliamo andare nella foresta Dandaka, né vogliamo tornare ad Ayodhya! Possano Rama e Bharata essere benedetti e felici!". Contenti d'aver visto i poteri del saggio Bharadvaja, dicevano tra loro: "Questo è proprio il paradiso". Tutti presero nuovi e costosi indumenti dagli alberi. Davanti a loro c'erano vassoi d'oro e d'argento pieni di dolci prelibati e di ogni tipo di vivande. C'erano pozzi pieni di vino e bevande. E per ognuno c'era un gran numero di piatti d'oro da cui mangiare. Era stato fornito ogni articolo di lusso, fino a migliaia di stuzzicadenti, specchi, pettini e spazzole per i capelli, scarpe e sandali di legno, sedie e letti.
Così trascorse la notte. La mattina presto gli dèi e gli esseri celesti si congedarono dal saggio Bharadvaja, e l'eremitaggio riprese l'aspetto consueto. Gli uomini di Bharata rimasero stupefatti dalla meravigliosa dimostrazione dei poteri divini del saggio.
Con grande umiltà mista a gioia e gratitudine, Bharata andò da Bharadvaja; e il saggio gli chiese: "Avete trascorso una notte riposante, tu, il tuo esercito e tutto il seguito; vi è stato dato tutto il necessario?".
Bharata rispose umilmente: "Sì, signore. Ora sono ansioso di raggiungere mio fratello. Vi prego di benedirmi e d'indicarmi la sua dimora". Il saggio gli diede istruzioni complete e dettagliate.
Manifestando la sua gratitudine, Bharata s'inchinò di nuovo davanti al saggio. Anche le nobili regine s'inchinarono a lui, mentre Bharata gliele presentava: "Questa, signore, è Kausalya, la regina più anziana, la madre di Rama, il più eccelso tra gli uomini. Questa è Sumitra, la seconda regina, madre di Lakshmana e Satrughna. Questa terza è la malvagia e crudele regina Kaikeyi, mia madre, che ha dato a tutti noi quest'immensa infelicità; è a causa del suo terribile complotto che il re è morto e Rama è andato nella foresta".
Ma il saggio Bharadvaja, che era dotato d'onniscienza, lo interruppe prontamente e disse: "Non accusare Kaikeyi, Bharata: perché l'esilio di Rama sarà certamente fonte d'immensa felicità per tutti. È per il bene degli dèi, dei demoni e dei saggi che Rama è andato nella foresta".
Bharata s'inchinò nuovamente davanti al saggio, e subito dopo partì con tutto il seguito verso la collina Citrakuta. Dopo che avevano viaggiato per un certo tempo, Bharata disse al saggio Vasishtha: "O santo, penso che ormai siamo molto vicini al luogo che ci ha indicato il saggio Bharadvaja. Ecco la collina Citrakuta, ed ecco anche il fiume Mandakini. E là c'è la foresta dove sicuramente vive Rama".
Dal promontorio sul quale si trovava, Bharata indicò a Satrughna: "Guarda quest'esercito e quest'enorme carovana che s'avvicinano alla foresta. Guarda la polvere che sollevano e che vela temporaneamente il cielo. La foresta che era disabitata e quindi silenziosa, ora risuona del fragore prodotto da queste persone e da questi animali: a me sembra come la stessa Ayodhya".
Bharata ordinò all'esercito di fermarsi e mandò alcuni soldati in esplorazione, per cercare di rintracciare dove si trovava la capanna di Rama. Essi videro del fumo che s'alzava in lontananza e, tornati da Bharata, dissero: "Guardate quel fumo che si solleva laggiù: in questa foresta disabitata, è certamente un segno d'abitazione. Di certo ci vive Rama o qualche altro asceta".
D'accordo con loro, Bharata ordinò all'esercito d'accamparsi là e decise di procedere facendosi accompagnare solo da Sumantra e da Dhrti.
Rama, Lakshmana e Sita si erano stabiliti nell'eremitaggio sulla collina Citrakuta, ed avevano cominciato ad amare la semplice e austera vita della foresta.
Spesso Rama vagava per la foresta insieme a Sita, mostrandole i tanti scenari meravigliosi che costituivano la ricchezza e la gloria di Citrakuta, e diceva: "Un semplice sguardo a questa piacevole e deliziosa montagna mi fa dimenticare la perdita del trono e perfino la separazione dai nostri cari amici di Ayodhya. Penso che le ricchezze minerarie di queste montagne siano incalcolabili. Alcuni picchi luccicano come l'argento, alcuni sono rossi, altri giallastri; e qui e là si possono vedere anche gemme preziose, come topazi e cristalli, che splendono del colore del fiore ketaka. Guarda quegli uccelli dalle piume graziose; e anche questi daini bellissimi. E che cosa straordinaria che questi leopardi, tigri e orsi siano completamente inoffensivi. Si potrebbero passare ore, giorni e anni ad ammirare l'infinita varietà di alberi che si trovano sulle colline e nella foresta.
"E guarda questi uomini e queste donne dall'aspetto celestiale che si divertono felici nella foresta. Non sono meravigliose queste cascate? Non ti fanno sentire che questa montagna è un essere vivente? Non conoscerò mai il dolore se vivrò molto a lungo in questa foresta, naturalmente con te e Lakshmana. Venendo in questa foresta, sono felice d'aver potuto esaudire la promessa di mio padre e sono anche felice che Bharata è stato installato sul trono. Inoltre ho sentito dire che, secondo i miei antenati, la vita nella foresta aiuta molto a ottenere la libertà dal ciclo di nascite e morti. Per di più questa collina supera la capitale del regno celeste per la sua bellezza e la sua ricchezza.
"Sita, guarda il sacro fiume Mandakini. Guarda quei graziosi cigni Guarda gli alberi sulle due rive del fiume che fanno cadere una pioggia di fiori sulle acque. Ogni mattina in questo fiume si bagnano saggi ed asceti coi capelli intrecciati sulla testa e vestiti di pelli di daino e cortecce. Ce ne sono altri che pregano il sole, stando in piedi nell'acqua. Le acque del fiume sacro sono pure e anche purificatrici; sono splendenti chiare, pulite e sante. Vieni, vieni nel fiume insieme a me, e bagnati in queste sacre acque in cui si bagnano anche i saggi e gli asceti che hanno bruciato tutte le loro impurità nel fuoco delle austerità.
"Sita, riverisci coloro che dimorano nella foresta come faresti con gli uomini spirituali di Ayodhya; considera questo fiume come il Sarayu. Come sono felice d'avere te e Lakshmana, che mi siete entrambi devoti e vi prestate gioiosamente ai miei comandi".
Mentre si trovava seduto fuori dell'eremitaggio con Sita e Lakshmana, e stava mostrando a Sita dei frutti selvatici, spiegando le loro proprietà e il loro uso, improvvisamente Rama si fermò e disse: "Lakshmana, sento un rumore tumultuoso e laggiù vedo una nuvola di polvere. Ti prego, sali su quell'albero e guarda che cosa sta succedendo. Forse una comitiva reale è venuta a caccia nella foresta". Lakshmana s'arrampicò sull'albero, guardò, e rimase esterrefatto: "C'è un grande esercito che circonda la collina. Sembra minaccioso. Fa' rifugiare Sita in quella grotta; ed è meglio che tu prenda le armi".
Rama gli chiese. "Non puoi vedere di quale esercito si tratta?".
Lakshmana riuscì a vedere di quale esercito si trattava, e disse con ira: "Ah, è Bharata. Ora che s'è seduto sul trono, non vede l'ora d'ucciderci entrambi e assicurarselo per sempre. Vedo chiaramente la sua insegna personale sul cocchio. Vedo anche cavalieri giubilanti ed elefanti in marcia verso questo eremitaggio. Vieni, presto, prepariamoci a combattere. Sono felice che oggi vedrò quel traditore di Bharata, che è la causa di tutte le nostre pene e l'usurpatore del trono di Ayodhya. Oggi egli andrà incontro al suo fato, per mano mia. Non è peccato uccidere chi ha commesso un atto così deplorevole, come quello che ha fatto Bharata. O Rama, non è saggio lasciare impunito un criminale. E se è venuta Kaikeyi, ucciderò anche lei. Libererò questa terra da quella terribile fonte di peccato. Distruggerò l'intero esercito, propiziando così le mie armi!".
Dopo avere ascoltato freddamente tutto questo, Rama rispose: "Ho fatto voto d'esaudire la promessa di nostro padre; e il mio proposito fallirebbe se uccidessimo Bharata! Una grande ignominia s'abbatterebbe su di noi. Che ne faremo di un trono così disonorato? Qualunque cosa io cerchi in questo mondo (ricchezza, piacere, Dharma, ecc.) è solo per amore del vostro bene; ma non cercherò il regno dei cieli con mezzi ingiusti. Sono pienamente convinto che Bharata non intende farci del male. Sicuramente ha saputo del nostro esilio ed è talmente addolorato dalla svolta degli eventi che è venuto per riportarci ad Ayodhya, forse anche col consenso di nostro padre. Che cosa ti fa dubitare di lui, Lakshmana? Se è per amore del trono che dici questo, chiederò a Bharata di farti regnare per sempre! E so che egli non rifiuterà".
Appena Rama disse questo, Lakshmana fu sopraffatto dalla vergogna. Guardando di nuovo, vide l'elefante reale che s'avvicinava e disse: "Sta venendo anche il re". Ma quando Rama vide che mancava il bianco parasole reale, si preoccupò e chiese a Lakshmana di scendere.
Dopo avere ordinato all'esercito e al gruppo reale d'accamparsi ai margini della foresta, Bharata inviò dei soldati in tutte le direzioni alla ricerca dell'eremitaggio di Rama. Se fosse stato necessario, decise che avrebbe cercato lui stesso per tutta la foresta: "Finché non vedrò i nobili Rama, Lakshmana e Sita, la mia mente non avrà pace. Come potrò avere pace finché non avrò posato il capo ai piedi del mio amato fratello Rama, i cui piedi portano impresso il segno della regalità. No, non potrò avere pace finché quel nobile principe non sarà installato sul trono che gli appartiene per nascita". Dopo un pò salì su un albero per guardare intorno, e dall'alto vide poco distante del fumo che s'alzava da un eremitaggio. Il solo pensiero che poteva trattarsi dell'eremo di Rama fece sussultare di gioia tutto il suo essere.
Rivolgendosi a uno dei suoi attendenti, gli disse: "Fai venire qui le mie madri: abbiamo localizzato l'eremitaggio di Rama". Mentre avanzavano nella direzione dalla quale proveniva il fumo, Bharata vide diversi segni che confermavano la sua supposizione: vide la capanna in lontananza, vide dei sentieri battuti, della legna tagliata, dei petali di fiori per terra (petali che ovviamente erano caduti mentre li portavano per l'adorazione), e qui e là vide delle striscette di tessuto legate agli alberi per servire da guida.
Pieno di gioia, Bharata esclamò: "Molto presto vedrò il viso di loto di Rama"; ma questo durò solo un attimo, perché dopo un momento egli fu tormentato dal pensiero che il nobile principe nato per governare il mondo, per godere della sovranità, per gioire dei piaceri regali, stava seduto per terra in una capanna in mezzo alla densa foresta, assoggettando le sue membra delicate a severe privazioni - e tutto questo per colpa sua (di Bharata). Descrivendo questo più volte ai suoi compagni, Bharata scoppiò in lacrime.
Avevano raggiunto l'eremitaggio. Da lontano Bharata vide le armi dorate di Rama appese fuori della capanna. Vide l'altare rituale presso il quale Rama offriva ogni giorno le sue preghiere.
Ben presto vide lo stesso Rama, seduto per terra nella veranda esterna della capanna, insieme a Sita e a Lakshmana. Vedendo l'amato fratello vestito da asceta, il cuore di Bharata si spezzò. Vide che Rama aveva i capelli intrecciati e raccolti sulla testa ed era vestito con pelli e cortecce. Allora si precipitò ai suoi piedi, e disse piangendo: "O nobile fratello", ma non riuscì a dire altro. La sua gola era strozzata dal pianto. Le lacrime scendevano anche sulle guance di Satrughna. Rama si alzò e li abbracciò entrambi, mentre le lacrime scendevano profusamente anche dai suoi occhi.
Vedendo Bharata dopo molto tempo, Rama fu pieno di gioia, e dopo averlo abbracciato più volte e baciato sulla fronte con tenero affetto, lo fece sedere sulle sue ginocchia e gli chiese come stava lui e tutti quelli di Ayodhya.
"Sono felice di vederti dopo tanto tempo, Bharata: ma perché sei venuto in questa foresta disabitata e pericolosa? Perché hai lasciato nostro padre da solo nel palazzo e sei venuto qui? Come farà il vecchio re a sopportare la tua assenza? Spero che il re sia sopravvissuto alla grande tragedia che lo ha colpito. Spero anche che non abbia lasciato questo mondo. E tu stai bene, Bharata? Spero che non ti abbiano sottratto il regno con l'inganno, puro e semplice di cuore come sei. Ti prego, dimmi anche come sta il venerabile saggio Vasishtha? Lo onori e lo adori come dovresti, mio amato fratello? Come sta mia madre Kausalya, e come sta Sumitra; come sta la nostra gloriosa madre Kaikeyi, spero che adesso sia felice.
"Come stanno i sacerdoti della casa reale? Li tratti con il dovuto rispetto, ed essi compiono correttamente i loro doveri religiosi? Onori gli dèi, i nostri antenati, i servi reali, i precettori - che sono degni d'adorazione quanto il proprio padre - gli anziani, i medici e i santi brahmana? Ti prendi cura del tuo maestro personale Sudhanva, che è un esperto nell'arte della guerra e conosce i segreti delle armi? Hai scelto i giusti consiglieri che sappiano aiutarti? Questo è essenziale; perché è importante avere dei ministri che sappiano mantenere il più stretto riserbo; questo è infatti il segreto della vittoria. Spero che tu non agisca senza consigliarti con i ministri; e nello stesso tempo spero che tu non chieda consiglio a troppe persone. Spero ancora che non proclami le tue decisioni prima che diventino effettive. E inoltre t'assicuri che i segreti di stato non siano rivelati da ufficiali poco degni di fiducia?
"Comprendi che un solo saggio è più utile al paese che migliaia di stolti? Hai affidato i ministeri più importanti ad ufficiali di prima qualità, i ministeri secondari ad ufficiali mediocri, e così via? Il popolo ha fiducia nei ministri che hai nominato? Hai messo una persona coraggiosa, saggia e capace a capo dell'esercito? Perché è importante liberarsi: di un medico le cui cure aumentano le sofferenze del malato, di un servo ribelle e di un eroe desideroso di potere politico - chi non si libera di queste persone verrà distrutto. Spero che i servitori dello stato ricevano puntualmente la loro paga, al momento stabilito; altrimenti la macchina amministrativa diventa inefficiente".
Rama continuò: "Spero che tu stia attento, come deve un saggio governante, e che tu abbia un servizio segreto che osservi costantemente i principali funzionari dello stato, quelli che ti sono favorevoli e quelli che potrebbero non essere ben disposti verso di te. Soprattutto quelli che ti sono stati ostili e che poi sono ritornati nel tuo gruppo devono essere osservati attentamente. Spero, Bharata, che non incoraggi quei brahmana mondani che si considerano sapienti, ma che in realtà sono esperti in opere distruttive.
"Dimmi, Bharata, è Ayodhya inespugnabile com'è sempre stata, e come implica il suo nome? I cittadini dei diversi gruppi e delle diverse classi continuano a impegnarsi diligentemente nelle loro rispettive professioni? Il nostro regno è sempre stato libero dal crimine e dalla violenza, dalla povertà e dalla siccità, e pieno di ricchezze di ogni tipo, abitato da donne e uomini istruiti, con uno spiccato senso del bene comune; stai mantenendo questa tradizione, caro fratello? Gli agricoltori e gli imprenditori godono della tua protezione particolare, in modo che l'economia dello stato sia prospera? E le donne del regno sono ben assistite e protette da ogni privazione e sfruttamento? E, cosa ugualmente importante, spero che non si faccia eccessivo affidamento su di loro né che ricevano le tue confidenze sulle questioni della sicurezza nazionale.
"Ora dimmi: sono ben tenute le foreste nel nostro paese? Sono ben curate le vacche e gli altri animali? Controlli che la tua fortezza e le altre fortificazioni abbiano un adeguato rifornimento di cibo e munizioni? Spero che malgrado tutto tu riesca a pareggiare il bilancio e a non andare in perdita. E ora una cosa molto importante: hai fatto in modo che la legge e l'ordine siano rigorosamente rispettati nello stato, che un ladro non rimanga impunito per colpa dell'avidità di ufficiali corrotti, che le corti di giustizia siano assolutamente imparziali e che nessun innocente sia mai punito? Perché le lacrime versate dall'innocente punito per errore distruggono la prosperità del re.
"E tu, Bharata, segui personalmente il codice del giusto vivere? Sei regolare nelle preghiere e nelle pratiche religiose? Ti prego, non lasciare che il Dharma, la prosperità materiale e il godimento dei giusti piaceri si sovrappongano l'un l'altro. Ogni cosa a suo tempo, è una buona regola. Ricorda che lo stesso re dev'essere un esempio di tutte le virtù che ci s'aspetta dal popolo. Inoltre devi sapere come comportarti con gli altri re e come conquistarti l'amicizia degli uomini, delle donne e dei bambini del paese. E stato governando secondo il Dharma che i nostri antenati si sono goduti la vita qui e hanno ottenuto il cielo nell'aldilà".
Infine Rama chiese a Bharata: "Ora ti prego, dimmi, perché sei venuto nella foresta, abbandonando il tuo giusto posto ad Ayodhya?".
In lacrime e con le mani giunte, Bharata rispose: "Nostro padre, il re, fu spinto da sua moglie, mia madre, a commettere il più terribile dei peccati. Ma tormentato dall'angoscia causatagli dalla tua separazione, è salito in cielo. Mia madre, invece, responsabile di quest'atto riprovevole, scenderà presto all'inferno. O Rama, io sono il tuo umile servo. Ti prego, concedimi questa grazia... torna ad Ayodhya e sii il nostro re. Questa è la preghiera di tutti i nostri amici e parenti, e di tutto il popolo". Bharata si prostrò ai piedi di Rama e li toccò con la testa.
Rama lo sollevò e, abbracciandolo amorevolmente, gli disse con espressione serena: "Il mio cuore rifugge l'ingiustizia, Bharata. Metterò da parte il Dharma per amore di un regno? Non turbarti, Bharata. Io non vedo alcuna colpa in te, assolutamente. Non ti ritengo responsabile dell'accaduto. E ti prego, non accusare neanche tua madre. Gli anziani hanno la libertà di fare ciò che desiderano con la moglie, i figli e i discepoli. Perciò anche nostro padre era motivato per quello che ha fatto. Che m'avesse installato sul trono o mandato nella foresta, egli aveva il diritto di fare ciò che voleva. Lo stesso vale per le nostre madri. Noi siamo tenuti a obbedire ai loro ordini. Una volta che nostra madre mi ha comandato di vivere nella foresta, come posso andare contro il suo ordine? Similmente, a te è stato ordinato di governare Ayodhya; e anche tu dovresti obbedire)".
Bharata rispose: "Poiché il figlio minore non è eleggibile al trono, io non sono legato da questa regola di condotta! Nella nostra dinastia il trono è sempre stato trasmesso dal padre al figlio primogenito. Come posso violare questa regola? Il popolo considera il re come fosse un uomo; colui che governa con giustizia portando lo stato alla prosperità, lo considerano un superuomo; ma io penso che il re sia davvero una divinità. E questo sarà provato se tu salirai al trono)".
Ricordando re Dasaratha, Bharata disse a Rama: "Nostro padre è morto poco dopo che tu hai lasciato Ayodhya, mentre io ero ancora nel regno Kekaya. Vieni fratello, offrigli delle libagioni. Poiché dicono che le libagioni offerte dalle persone care si dimostrano di un bene inestimabile per l'anima dipartita: e tu eri molto caro a nostro padre, che ha lasciato questo mondo pensando a te e desiderando la tua compagnia".
Quando gli fu ricordato che suo padre era morto, Rama svenne. Sita e i tre fratelli gli spruzzarono subito dell'acqua sul viso e su tutto il corpo, e l'aiutarono a riprendersi rapidamente.
Una volta ripresa coscienza, Rama espresse il suo dolore: "Il re è morto, e tu vuoi che io torni ad Ayodhya! Che cosa dovrei fare ad Ayodhya ora che il re non c'è più; chi governerà Ayodhya ora che il migliore dei re ci ha lasciati? Bharata, tu e Satrughna siete davvero fortunati in quanto avete potuto servire il re e celebrare i riti del suo funerale. Neanche dopo la scadenza dei quattordici anni nella foresta mi sentirò di tornare ad Ayodhya, ora che nostro padre non c'è più. Chi mi guiderà, chi mi chiamerà con affetto, chi mi sussurrerà tenere parole all'orecchio quando farò qualcosa di buono?".
Poi andarono tutti quanti al fiume Mandakini. Stando in piedi nel fiume, Rama offrì libagioni d'acqua per la pace dell'anima dipartita: "Possa quest'acqua da me offerta esserti utile, o re, adesso che ti sei riunito con i nostri antenati". Quindi egli offrì la pasta dell'albero ingudi insieme a dei frutti: "Ti prego, accetta quest'offerta, o re, perché questo è il nostro cibo: infatti il cibo che un uomo mangia, quello stesso egli offre agli dèi".
Dopo il rituale Rama tornò nella capanna insieme ai suoi fratelli e a Sita. L'intera foresta e la collina riecheggiavano dei lamenti dei principi.
Gli uomini dell'esercito e tutti i membri della comitiva reale che s'erano accampati ad una certa distanza dall'eremitaggio, udirono quelle grida strazianti e furono presi dall'angoscia. Nello stesso tempo dedussero che Bharata aveva scoperto l'eremitaggio di Rama. Allora si precipitarono verso l'eremitaggio, verso il posto dal quale provenivano i suoni. Alcuni scesero dai mezzi e dalle cavalcature e cominciarono a correre a piedi. Mentre altri, i più anziani, andarono là sui mezzi o a cavallo o su altri animali.
Anche da lontano potevano vedere Rama seduto fuori della sua capanna insieme a Sita e agli altri fratelli. Essi avevano perduto perfino la speranza di posare nuovamente gli occhi su di lui. Per questo, tutti avevano maledetto mentalmente la malvagia Kaikeyi, ritenendola responsabile dell'esilio di Rama. In un'estasi di totale oblio di se stessi essi videro Rama; i loro occhi bagnati dalle lacrime si rallegrarono alla vista di Rama. Anche Rama corrispose il loro amore, e salutò ciascuno nella maniera appropriata. Era uno scenario molto commovente, e le lacrime scorrevano profusamente.
Infine le regine e il saggio Vasishtha s'avvicinarono all'eremo di Rama. Kausalya indicò a Sumitra il sentiero fatto da Lakshmana che portava dall'eremo alla riva del fiume. Poi Kausalya vide l'offerta di pasta d'ingudi che Rama aveva fatto all'anima del re defunto, e proruppe in un lamento: "Ahimè, il potente monarca deve accontentarsi di questa misera offerta; poiché suo figlio, il principe Rama, che è nato per regnare, conduce una vita da asceta".
Quando Rama le vide avvicinarsi alla capanna, corse loro incontro, si prostrò e strinse loro i piedi. Dopo di lui, Lakshmana s'inchinò dinanzi a loro, seguito immediatamente anche da Sita. Kausalya abbracciò Sita e le disse piangendo: "Vedendoti sopportare tutte queste privazioni, il fuoco del dolore mi consuma". Quindi Rama s'inchinò ai piedi del saggio Vasishtha. Infine tutti presero posto. Bharata sedette proprio dietro a Rama, con le mani giunte. Tutti erano impazienti di sentire ciò che Bharata aveva da dire.
La mattina presto del giorno dopo, si riunirono tutti come prima e Bharata disse: "Il regno mi è stato dato da mio padre e da mia madre. Esso è mio. Ma io adesso lo do a te, Rama! Nessun altro eccetto te può esserne re. Io non sono alla tua altezza". L'intera assemblea approvò all'unanimità.
Rama prese la parola e rispose: "L'essere incarnato non è libero, Bharata, ma è condotto qui e là dai risultati delle sue azioni. In ogni caso, tutto in questo mondo ha come fine la distruzione, ogni innalzamento finisce in una caduta, ogni incontro ha per fine la separazione, e ogni essere vivente ha per fine la morte. La chiara consapevolezza che un frutto deve cadere e che un uomo deve morire libera dalla paura. Tutto ciò è naturale e inevitabile. Non ci si addolora per la morte più di quanto non ci si affligga per il fatto che un frutto matura e cade! Non addolorarti per un altro, Bharata, stai all'erta e renditi conto che la vita sta passando sia che tu sieda o ti muova. Gli stolti non percepiscono lo scorrere della vita. Allo stesso modo la gente non s'accorge che il tempo avvicina e separa le persone, come dei tronchi d'albero sono avvicinati e separati nell'acqua. Percependo chiaramente tutto ciò, uno deve lavorare diligentemente alla propria felicità: perché in effetti la vera felicità è la mèta di ognuno.
"Il nostro nobile padre, che era devoto alla giustizia, ha completato la missione della sua vita ed è deceduto. Piangere per lui non ritarderà la nostra morte! Torna ad Ayodhya, Bharata, e fa' ciò che devi fare: amministra il regno. E anch'io continuerò a fare ciò che devo: vivere nella foresta per quattordici anni. Questo è il corso del Dharma".
Bharata si rivolse nuovamente a Rama: "In tutto il mondo non c'è nessuno pari a te. Poiché conosci il Sé, non perdi mai la tua equanimità neanche in mezzo alla più grande calamità. In mia assenza mia madre ha commesso un'azione terribilmente malvagia; e anche se fu fatta per amor mio, io la detesto. Se non fosse perché onoro il codice che proibisce ad un principe d'uccidere una donna, l'avrei uccisa. Io reputo lei la sola responsabile, e non nostro padre. Egli era nobile, con moltissime nobili azioni in suo conto, e poi era anziano, e come padre per me era come Dio stesso; ma soprattutto ora è deceduto. Di certo se fosse stato pienamente cosciente egli non avrebbe mai sancito questo peccato. La sua azione conferma la verità dell'antico detto, che la mente si confonde quando s'avvicina la morte. Come degno figlio di nostro padre, è giusto che tu ripari il suo errore. Perché questo viene considerato il dovere di un figlio rispettoso: correggere gli errori del padre. Se lo farai, allora salverai me, mia madre e anche mio padre dal peccato e dalla calunnia. Non mischiare la vita nella foresta con il governo, il tenere i capelli intrecciati sulla testa con la funzione regale di proteggere il popolo: ti prego, non permettere quest'incoerenza nella tua condotta. Il dovere d'un principe è quello d'ascendere al trono e governare con giustizia: sfuggire questo dovere e abbracciare la vita ascetica non è corretto.
Se sei avverso ai piaceri, puoi condurre una vita ascetica ad Ayodhya, anche mentre amministri il regno. Io sono più giovane e inferiore a te in tutti i sensi; non posso prendere il tuo posto. Ho portato con me tutti i sacerdoti e i ministri: fatti consacrare al trono qui e ora. Se però non accetterai, anch'io rimarrò con te nella foresta".
Ma Rama rimase impassibile. Vedendo ciò, tutti furono fieri della fermezza di Rama, pur essendo dispiaciuti perché non voleva farsi incoronare re. Tutti applaudirono Bharata.
Rama rispose: "Sono d'accordo con ciò che hai detto, Bharata; ma ci sono altre considerazioni. Quando nostro padre chiese in sposa tua madre, egli offrì in cambio lo stesso regno; il che significava che il figlio di lei o il suo prescelto sarebbe stato re. Inoltre tu sai che egli le aveva promesso due doni, che infine lei ha reclamato. Noi dobbiamo mantenere la parola data da nostro padre. E il sacro dovere di un figlio; e poiché salva il padre dall'inferno chiamato 'put', il figlio viene chiamato 'putra'. Tu torna ad Ayodhya; io andrò nella foresta Dandaka. Tu governa il popolo; io governerò gli abitanti della foresta. Tu avrai il parasole reale sulla testa; io troverò l'ombra di un albero. Tu hai Satrughna, ed io ho Lakshmana come compagno. Così entrambi faremo il nostro dovere nei confronti di nostro padre".
Un brahmana di nome Jabali intervenne nel dialogo e disse a Rama: "E giusto che uno mantenga la sua parola; ma in primo luogo tu non avresti dovuto prendere questo voto improprio. In questo mondo, o Rama, nessuno è parente a qualcun altro; ciascuno viene solo e se ne va da solo. Soltanto gli stolti pensano che qualcuno sia suo padre o sua madre, ecc. Queste relazioni sono ripari temporanei che uno inventa e nei quali ci si rifugia nel corso del viaggio della propria vita. Abbandonando l'idea illusoria che il re era tuo padre, e che tu debba onorare la sua parola, ecc., torna ad Ayodhya e ascendi al trono che t'appartiene. Preoccuparsi degli antenati deceduti e sforzarsi di compiacerli è folle, Rama. Se fosse possibile soddisfare l'antenato deceduto offrendo da qui libagioni di riso, allora perché non lo si fa anche per appagare la fame di un parente in viaggio in terre lontane? Basati sulla percezione diretta e fai quello che consideri giusto; non dipendere da ciò che viene detto".
A Rama diede fastidio che un brahmana avesse potuto dare questo consiglio eretico, e lo rimproverò: "Se seguissi il tuo consiglio, diventerei un ipocrita. Pur sembrando buono, in realtà sarei l'esatto contrario. Se facessi ciò che mi pare o ciò che considero giusto, darei un cattivo esempio; e il popolo emulerebbe il mio esempio. Io non devierò dal sentiero della Verità: poiché soltanto la Verità è segno di un'encomiabile condotta regale. Il regno e il mondo intero sono stabiliti sulla Verità. La gente teme, sospetta ed evita l'uomo che non è sincero e che infrange le sue promesse. In questo mondo soltanto la Verità è Dio; il Dharma si fonda sulla Verità; non c'è religione superiore alla Verità. Sapendo questo, come potrei deviare dal sentiero della Verità, o brahmana! Io porto questa Verità sulla testa: tengo i capelli intrecciati perché così li portano anche le persone sante. La gente ignorante pensa il male, dice menzogne e indulge in azioni malvagie; e così si perde tutto ciò che è buono e salutare in questo mondo. Se seguissi il tuo consiglio, anch'io sarei colpevole di questo triplice peccato. No, io continuerò a vivere nella foresta, adempiendo il mio dovere verso mio padre. Una volta venuto in questo mondo d'attività, uno deve impegnarsi in giuste azioni. Il fuoco, il vento e il soma condividono i frutti dell'azione dell'uomo".
Allora Jabali rispose: "Io non sono un miscredente né dico quello che dicono i miscredenti; né la miscredenza esiste. In conformità col tempo sono diventato di nuovo un credente, e a tempo debito diventerò un miscredente. Ciò che ho detto è servito al suo scopo: ha espresso il mio desiderio e quello del popolo d'averti come re, e ha manifestato la tua gloria di persona saldamente stabilita nella Verità".

[NOTA: L'azione dell'uomo influenza l'atmosfera: il fuoco, l'aria e il soma (che non è solo la luna, ma anche l'azoto).]

Vedendo che Rama era rimasto offeso dalle parole di Jabali, il saggio Vasishtha intervenne dicendo: "O Rama, Jabali sa bene ciò che va fatto e ciò che non va fatto in questo mondo, ma ha parlato nella speranza di farti tornare ad Ayodhya. Adesso voglio dirti della tua discendenza a partire dal Creatore; di suo figlio Marici, che ebbe per figlio Kasyapa, il cui figlio Vivasvan - il sole - fondò la dinastia solare alla quale appartieni tu. Manu era figlio di Vivasvan, e suo figlio Ikshvaku governò Ayodhya.
Poi Vasishtha citò per nome tutti gli antenati di Rama. Il trono era stato invariabilmente trasmesso al figlio primogenito di ogni re. Vasishtha disse: "Questa tradizione non dev'essere violata da te". E continuò: "Padre, madre e precettore - questi tre sono i guru di una persona. Il padre gli dà solo la nascita, mentre il precettore gli dà la saggezza suprema, e per questo è chiamato guru. Seguendo il mio consiglio non commetterai alcun peccato".
Rama fu inflessibile nella sua decisione, e rispose al saggio Vasishtha: "Il debito che uno ha con il padre e la madre è davvero grande: per tutto il tenero e amorevole servizio che ha ricevuto da loro, nel nutrirlo, nel metterlo a letto e nel sussurrargli dolci parole. Per questo non verrò meno al comando di mio padre di vivere nella foresta".
A questo punto Bharata si rivolse decisamente a Sumantra e gli ordinò: "Prepara un letto d'erba kusha per me davanti a questa capanna; giacerò lì, senza mangiare e senza bere, finché Rama non tornerà ad Ayodhya". Sumantra guardò Rama!
E Rama disse a Bharata: "Tale condotta non s'addice a un principe! Un brahmana può fare una cosa del genere. No, Bharata, abbandona quest'impresa impossibile e torna ad Ayodhya". Allora Bharata si rivolse al popolo: "Perché non cercate di dissuadere Rama dalla sua risoluzione?". E il portavoce del popolo rispose: "Noi vi abbiamo ascoltato entrambi. Ciò che tu dici è giusto e nobile; ma vediamo che Rama è saldamente stabilito nella Verità e non desidera trasgredire il comando di suo padre. Perciò siamo incapaci di dire qualcosa".
Bharata fece un ultimo tentativo, e disse: "Tutti voi sapete che non ho desiderato il trono né ho desiderato l'esilio di Rama. Se Rama insiste a voler rimanere nella foresta, io mi offro umilmente come suo sostituto. Che Rama ritorni ad Ayodhya".
Ma Rama rispose: "Oh, no! Un impegno preso da nostro padre non può essere annullato né da te né da me. E trovare un sostituto significherebbe non attenersi sinceramente a quell'impegno. Io farò la mia parte, Bharata: e tu dovresti adempiere la tua".
Sia i saggi che erano presenti sul terreno dell'eremo di Rama, sia i saggi che assistevano a quest'evento divino dai loro reami invisibili, tutti lodarono la giusta condotta d'entrambi i fratelli. Quindi essi si rivolsero a Bharata e lo pregarono d'accettare il consiglio di Rama: "Anche noi desideriamo che Rama adempia la promessa che suo padre ha fatto a Kaikeyi". Rama si sentì immensamente incoraggiato da questo consiglio dei saggi e cantò le loro glorie.
Bharata fece un ultimo tentativo, e reiterò i punti fondamentali: "Rama, tu sei ugualmente obbligato a seguire le tradizioni della famiglia, e ad ascoltare le preghiere mie e di tua madre. Inoltre, io non posso governare il regno. Tutti i cittadini vogliono che tu sia il loro re". Ancora una volta Bharata cadde ai piedi di Rama e se li posò strettamente sulla testa. E ancora una volta Rama prese Bharata in grembo e gli disse con affetto: "Tu sei dotato di un'umiltà genuina e naturale, Bharata, con la quale potrai governare il mondo intero. La luna potrebbe rimanere senza luce, l'Himalaya potrebbe rimanere senza neve e l'oceano potrebbe rompere i suoi argini, ma io non disonorerò la promessa fatta da nostro padre. E questa è la preghiera che ti faccio: qualunque sia stato il motivo per cui madre Kaikeyi ha fatto il suo gesto, non dartene pensiero, e continua a trattarla come madre".
Il saggio Vasishtha suggerì un compromesso! Rama avrebbe fatto dono a Bharata dei suoi sandali di legno, che sarebbero stati installati sul trono al posto di Rama. Bharata pose immediatamente i sandali di fronte a Rama e lo pregò di benedirli. Dopo che Rama li benedì, Bharata si prostrò dinanzi ad essi e disse: "La conduzione degli affari di stato sarà affidata a questi sandali, Rama; e vivendo di frutti e radici, io vivrò fuori Ayodhya, attendendo con ansia il tuo ritorno. Se tu non tornerai il giorno dopo la scadenza dei quattordici anni, io mi getterò nel fuoco". Rama fu d'accordo.
I due fratelli e le madri si congedarono da Rama con gli occhi pieni di lacrime; e con gli occhi pieni di lacrime Rama rientrò nella sua capanna.
Ponendosi con riverenza i sandali di Rama sulla testa, Bharata s'avviò verso Ayodhya. Lungo la strada incontrò di nuovo il saggio Bharadvaja e gli raccontò tutto quello ch'era successo a Citrakuta. Il saggio Bharadvaja fu felice e pronunciò con gioia le seguenti parole di benedizione: "Non c'è da meravigliarsi che in te risiedano tutte le nobili qualità, o Bharata, come l'acqua cerca i punti più bassi della terra. Tu sei davvero umile. Beato quel padre che ha un figlio come te".
Bharata rientrò ad Ayodhya, che sembrava completamente priva di vita, di gioia e di qualunque segno di prosperità. Era un città in lutto. Lutto per il defunto re Dasaratha, e lutto per l'esilio di Rama. Bharata sospirò e disse: "Certamente la città ha perso tutto il suo splendore perché mio fratello l'ha lasciata".
Non appena le sue madri entrarono nei loro appartamenti, Bharata annunciò la sua decisione: "Partirò immediatamente per Nandigrama, e là vivrò sopportando questo grande dolore causatomi dalla separazione da Rama".
I consiglieri furono d'accordo con la sua proposta. Sumantra aveva il cocchio già pronto. Tutti i precettori, i consiglieri, i capi delle varie amministrazioni, e anche l'esercito, accompagnarono Bharata a Nandigrama.
Lungo tutto il tragitto per Nandigrama, Bharata tenne devotamente i sandali di Rama sulla sua testa.
Arrivati a Nandigrama, Bharata annunciò di nuovo: "Questo regno mi è stato dato sulla fiducia da mio fratello, che mi ha anche dato questi suoi preziosi sandali, che si prenderanno cura del benessere del regno. Durante il periodo dell'assenza di Rama, io amministrerò il regno come suo fiduciario, aspettando con ansia il giorno benedetto del suo ritorno ad Ayodhya. Subito dopo il suo ritorno gli passerò le redini del regno e gioirò quando metterà ancora una volta questi sandali ai suoi piedi. Così lascio fin d'ora l'onere dello stato a Rama, ai suoi sandali benedetti; e quindi m'assolvo dal peccato di usurpare il trono".
Il nobile Bharata stabilì la sua residenza a Nandigrama, vivendo vestito di corteccia d'albero e coi capelli intrecciati e raccolti sulla testa. Egli stesso teneva il parasole reale sui sandali di Rama. E prima di emettere qualsiasi editto reale, lo offriva ai sandali per l'approvazione. Egli installò sul trono e incoronò i sandali di Rama e, rimanendo subordinato ad essi, portò avanti l'amministrazione del regno.
Qualunque attività bisognasse intraprendere, qualunque decisione dovesse essere presa, e qualunque tributo fosse stato ricevuto - Bharata offriva tutto per prima cosa ai sandali di Rama e quindi faceva quant'era necessario fare.
Un giorno, avvicinatosi ad un anziano eremita, Rama gli chiese umilmente: "Signore santo, noto una certa inquietudine tra gli eremiti che vivono qui; e dal loro comportamento intuisco che noi ne siamo la causa. Vi prego di dirmi: sono stato colpevole di azioni indegne dell'onore della mia famiglia? Oppure mio fratello più giovane Lakshmana ha fatto qualcosa che ha offeso i saggi? O forse la giovane Sita ha commesso un atto d'indiscrezione?".
L'anziano saggio rispose prontamente: "Oh no, Rama, tutti noi non abbiamo visto altro che la condotta più esemplare in te, Lakshmana e Sita. Ma è vero che c'è dell'inquietudine tra noi. E questa ci viene causata da un demone chiamato Khara, che è uno dei fratelli minori di Ravana. Egli è cannibale, e ha già molestato ripetutamente i saggi che vivono a Janasthana. Ora da qualche tempo a questa parte egli ha rivolto la sua attenzione verso questo posto. Noi pensiamo che egli abbia in odio la tua presenza qui. E fino a quando tu vivrai qui, questi demoni continueranno a molestare gli asceti. Essi dissacrano i nostri altari e inquinano la stessa atmosfera. E per questo motivo oggi stesso desideriamo lasciare questo posto e andarcene altrove. Questi demoni non hanno alcuna simpatia per te, Rama: e anche tu faresti bene a spostarti da qui". Quindi gli eremiti lasciarono Citrakuta.
Qualche tempo dopo, Rama pensò tra sé: "Anch'io lascerò questo posto, ma per altri motivi. È stato qui che abbiamo incontrato Bharata, le mie madri e i cittadini di Ayodhya. Il ricordo di quell'incontro si protrae e disturba il nostro equilibrio mentale. Inoltre, gli elefanti e i cavalli che accompagnavano Bharata hanno inquinato il posto. È meglio per noi muoverci".
Prendendo questa decisione, Rama lasciò Citrakuta, insieme a Sita e a Lakshmana, e si diresse verso la foresta Dandaka.
Ben presto raggiunsero il sacro eremitaggio del saggio Atri, che li ricevette calorosamente. Egli chiamò sua moglie, l'illustre Anasuya, e le chiese d'accogliere Sita. Allora Anasuya fece entrare Sita nella capanna. Sita s'inchinò alla venerabile donna, che a sua volta la benedì e poi le disse: "Seguendo il tuo nobile marito, e abbandonando parenti e amici, hai fatto la cosa giusta, Sita. Quella nobile donna che ama suo marito, sia che questi viva in una città o in una foresta, sia egli buono o non tanto buono, eredita i mondi gloriosi. Anche se fosse un uomo di cattiva condotta, lussurioso e povero, per le nobili donne il marito soltanto è il dio supremo. Servi tuo marito, nobile Sita, trattandolo come fosse il tuo dio; e allora otterrai fama qui e il paradiso nell'aldilà".
Felice di udire il saggio consiglio di Anasuya, Sita le rispose: "Ti sono grata per le tue parole piene di saggezza, adorabile signora! È proprio vero quello che hai detto, che una nobile donna deve trattare il marito come dio, anche se egli avesse un cattivo carattere. E quanto più se egli è divino come lo è Rama! In verità il modo in cui dovevo comportarmi con lui mi fu indicato chiaramente da mia suocera: anzi no, da mia madre stessa, ancor prima del matrimonio. Quello che tu hai detto ha confermato e ribadito la loro esortazione: che eccetto il servizio al marito, la donna non ha altre forme d'adorazione o d'ascetismo. Io ho bene in mente le vite esemplari di quelle donne che hanno incarnato questo grande principio: la grande Savitri, e Rohini, e tu stessa".
Anasuya fu compiaciuta dalle parole pronunciate da Sita e le disse: "Ho accumulato molto merito con le mie austerità. Ti prego, Sita, chiedi qualunque cosa desideri: ti darò tutto quello che vuoi". Che cosa avrebbe potuto chiedere o desiderare Sita? Perciò rimase in silenzio, dopo aver detto: "Le tue benedizioni sono più che sufficienti per me". Ammirando la sua modestia e la sua mancanza di desideri, Anasuya continuò: "Bene, allora sceglierò io stessa qualcosa per te! Qui ci sono ghirlande divine, abiti, gioielli e cosmetici che metteranno ancor più in risalto la bellezza del tuo corpo. Queste cose ti faranno godere di una bellezza che non sfiorisce e accresceranno la delizia del tuo nobile marito, Rama.
Sita accettò umilmente i doni della nobile donna. Poi Anasuya le chiese di narrarle come avvenne il suo matrimonio con Rama. Con grande gioia Sita le raccontò la storia della sua nascita immacolata, della sua infanzia a corte come figlia di re Janaka, del proclama del re riguardo i suoi pretendenti, dell'arma divina del Signore Shiva, della visita di Rama a Mithila insieme a Lakshmana e al saggio Visvamitra, e infine della prodezza di Rama nell'usare la possente arma.
"Quindi - concluse Sita - mio padre mi offrì subito in sposa a Rama; che però esitò, non sapendo quale sarebbe stata la reazione di suo padre! Ben presto arrivò anche re Dasaratha, che approvò l'alleanza; e così ottenni la mano di Rama".
Più tardi gli eremiti della foresta dissero a Rama: "Ci sono molti demoni in quella foresta laggiù. Sono cannibali, e hanno molte e differenti forme. Bevono sangue. Si nutrono di asceti o brahmachari che sono stati impuri o poco vigilanti. O Rama, ti preghiamo di distruggerli. Se prenderai quel sentiero, entrerai in quella densa foresta".

FINE DELL'AYODHYA KANDAM

 

 

 

 


Libro Terzo: ARANYA KANDAM - La vita nella foresta

Rama entrò nella densa e paurosa foresta chiamata Dandaka. Eppure anche là essi trovarono eremi di saggi che avevano fatto della foresta la loro dimora. Intorno a ciascuno di questi eremitaggi si potevano vedere dappertutto seggi di stuoie e di pelli di daino. Le piccole capanne erano ancora molto ben tenute. L'ambiente circostante era pulito. Gli altari per la celebrazione del rito del fuoco proclamavano la santità del luogo. La tranquillità con la quale gli uccelli e gli animali selvaggi giocavano intorno agli eremitaggi testimoniava l'amore cosmico che irradiava dal cuore dei saggi. Gli stessi saggi riempivano tutta l'atmosfera col suono benedetto del canto degli inni vedici.
Rama s'avvicinò a loro con riverenza e umiltà, con le armi scariche e inguainate. Anche i saggi ricevettero Rama, Lakshmana e Sita con grande gioia e affetto. Dopo averli accolti e avere offerto loro frutti, radici, ecc., i saggi si rivolsero a Rama con amore e riverenza: "Tu sei nostro re, Rama, sia che tu viva in una città o nella foresta; e a noi spetta la tua protezione. Il re che tiene lo scettro è degno d'adorazione in quanto è considerato una manifestazione parziale del Signore stesso. Noi eremiti abbiamo rinunciato alla violenza e alla collera, e siamo totalmente dediti alla conquista della nostra mente e dei nostri sensi: perciò è tuo compito proteggere le nostre persone".
Rama trascorse una notte nell'eremitaggio che era situato proprio all'inizio della densa foresta. La mattina seguente si congedò dai saggi e continuò per la sua strada. La foresta diventava sempre più cupa e spaventosa. Ben presto Rama vide un terribile demone di forma indescrivibilmente sgraziata e terrificante. Anche il demone vide Rama, Lakshmana e Sita, e urlò forte.
Il mostro scattò verso Sita, la prese, e dopo essersi allontanato ad una certa distanza disse a Rama e a Lakshmana: "Ehi voi! Che cosa avete a che fare con questa giovane donna - voi che sembrate asceti? Voi siete un disonore per il sacro ordine degli asceti. Io mi porterò via questa donna e la sposerò. Io, il demone Viradha, ucciderò voi due peccatori e berrò subito il vostro sangue".
Sita era sconvolta dalla paura. Profondamente afflitto, Rama disse a Lakshmana: "Che tragedia, mio caro Lakshmana, proprio all'inizio della nostra vita nella foresta! Certo madre Kaikeyi sarà molto contenta di sentire che tutti noi siamo stati uccisi ancor prima di stabilirci nella foresta. Per me non c'è nulla di più doloroso che vedere l'amata Sita toccata da un altro uomo".
Il coraggioso Lakshmana consolò Rama con queste parole: "Non preoccuparti, Rama! Tra pochi istanti la terra berrà il sangue di questo demone".
Il mostro urlò di nuovo: "Ehi, voi due! Ditemi chi siete e dove state andando". Rama rispose garbatamente: "Noi siamo principi di nascita e apparteniamo alla famosa dinastia di Ikshvaku. Ora ti preghiamo, dicci chi sei tu e che cosa fai in questa foresta".
Il demone rispose: "O nobile re! Ti dirò chi sono. Mio padre si chiama Jiva e mia madre Shatahrada. Qui mi conoscono come Viradha. Con le mie austerità propiziai il Signore Brahma, il Creatore, e ottenni da lui il dono di essere invulnerabile alle armi e quello di non morire a causa di ferite o fratture agli arti. Perciò non puoi uccidermi! Lascia questa donna e fuggi via da qui!".
Sfidandolo, Rama lo colpì con parecchi missili. Ma benché trafitto, il demone non morì. Però lasciò Sita e si lanciò contro i due fratelli con una lancia. Rama spezzò la lancia con i suoi missili, ma le sue armi non avevano potere contro Viradha: lo colpivano, ma non appena egli apriva bocca cadevano a terra! Viradha afferrò Rama e Lakshmana, e sollevandoli con una mano ciascuno li portò via. Lakshmana cercò di fermarlo, ma Rama gli disse: "Lascia che ci porti dove vuole: sta andando nella stessa direzione in cui vogliamo andare noi".
Sita però era atterrita, e gridò: "O migliore dei demoni! Ti prego, prendi me e gettami alle bestie feroci; ma lascia stare i principi". Udendo questo, Rama e Lakshmana decisero di liberarsi del demone. Mentre erano ancora seduti sulle sue spalle, i due principi gli ruppero un braccio ciascuno. Viradha cadde a terra; ed essi, che ora stavano in piedi vicino a lui, cominciarono a colpirlo con i pugni. Poi Rama disse a Lakshmana: "È protetto dal dono che ha ricevuto; non possiamo ucciderlo in questo modo Scava una fossa nel terreno. Lo seppelliremo: questa è l'unica maniera in cui potrà morire".
In quel momento il mostro Viradha parlò: "Sono stato sconfitto da te, Rama, e la mia fine è vicina. A causa dell'influsso della qualità demoniaca dell'ignoranza non ho riconosciuto la tua gloria. Io ero un essere celeste chiamato Tumburu; ma incorsi nella collera di Kubera, che mi maledì, e quindi diventai un demone. Però dopo averlo supplicato egli mi disse: "Quando Rama ti ucciderà in combattimento, allora tornerai in cielo". Liberato da quella maledizione, ora tornerò in cielo. Laggiù vive il saggio Sarabhanga; ti prego, passa a trovarlo, dopo avermi seppellito in quella fossa. Questa è infatti l'antica tradizione con la quale si trattano i demoni".
Lakshmana finì presto di scavare un'enorme buca, nella quale seppellirono il mostro Viradha. Riunitisi a Sita, i due principi continuarono il loro cammino.
Quindi Rama disse a Lakshmana: "Questa è davvero una foresta terribile e abbiamo già avuto un assaggio della sua vera natura. Affrettiamoci verso l'eremitaggio del saggio Sarabhanga".
Avvicinandosi all'eremitaggio, Rama vide una cosa meravigliosa davanti ai suoi occhi: un radioso veicolo spaziale stava sospeso senza toccare terra. In esso c'era il capo degli dèi, lo stesso Indra, che rifulgeva con lo splendore del sole. Mentre Indra parlava con il saggio Sarabhanga, angeli e saggi lo servivano in molti modi. Indicando al fratello questo prodigio, Rama gli disse: "Guarda che meraviglia, Lakshmana! Indra, il dio degli dèi, che visita personalmente l'eremo del saggio Sarabhanga. Ho sentito dire che egli visita così il rito del fuoco dei saggi; ma ora l'ho visto. Guarda quegli esseri celesti che l'accompagnano. Hanno tutti le sembianze di giovani di venticinque anni: infatti ho sentito dire che gli esseri celesti hanno sempre venticinque anni! Ti prego, rimani qui con Sita, mentre io vado a vedere se si tratta proprio di Indra". Ma non appena Rama s'avvicinò di più all'eremitaggio, Indra disse al saggio: "Sta venendo Rama. Questa però non è l'occasione giusta perché io lo veda. Lo vedrò dopo che avrà ucciso in battaglia il malvagio Ravana. Rama deve compiere molte grandi meraviglie qui. Ora vado via. E anche tu, muoviti e vagli incontro". Il veicolo spaziale di Indra si levò nel cielo.
Rama permise poi a Lakshmana e a Sita di accompagnarlo, e tutti e tre s'inchinarono al saggio Sarabhanga. Spinto dalla curiosità, Rama chiese perché Indra aveva visitato l'eremitaggio. Il saggio rispose: "Egli era venuto a prendermi per portarmi nel regno supremo conosciuto come Brahma Loka, che io ho guadagnato con le mie austerità. Ma sapendo che tu eri nei dintorni, non sono voluto andare nel Brahma Loka senza prima vederti e servirti come bisogna servire un ospite. Ora che ti ho visto, ascenderò una dopo l'altra le regioni supreme. Le ho guadagnate a forza di austerità; e oggi le offro umilmente a te, Rama. Degnati di accettarle".
Profondamente commosso dall'amore e dall'affetto del potente saggio, Rama rispose: "Invero posso offrirti tutti i mondi, o saggio! Ma ora ti prego, indicaci un posto in questa foresta dove possiamo stabilirci". Il saggio rispose: "Passate per l'eremo del saggio Sutikshna, che di certo saprà indicarvi dove potete stabilirvi". Dopo aver detto questo, mentre Rama guardava, il saggio accese il fuoco sacro e vi entrò dentro. Il fuoco consumò il suo corpo fisico, e quindi il saggio risplendette della luce del fuoco e riacquistò il corpo di un giovane di venticinque anni. Quindi ascese al Brahma Loka e fu accolto dal Creatore.
Poco dopo l'ascensione al cielo del saggio Sarabhanga, i saggi e gli asceti dei dintorni si rivolsero a Rama. Questi saggi appartenevano a diversi ordini ascetici. C'erano dei Vaikhanasa e dei Valakhilya, che si dice siano usciti dalle unghie e dai capelli del Creatore, Brahma. Gli altri ordini includevano coloro che dopo aver mangiato l'unico pasto quotidiano non volevano che rimanesse nulla per quello successivo, coloro che si nutrivano dei raggi del sole e della luna, coloro che vivevano di foglie o di pietre polverizzate, coloro che usavano solo i denti per tagliare, triturare o ammorbidire il cibo, coloro che restavano immersi nell'acqua, coloro che si stendevano senza un letto, quelli che non si stendevano affatto, quelli che dedicavano tutto il tempo solo alle loro pratiche spirituali, quelli che vivevano d'acqua, quelli che vivevano d'aria, quelli che avevano per tetto solo il cielo, quelli che giacevano sull'altare, quelli che vivevano in cima agli alberi, quelli che indossavano solo vestiti bagnati, quelli pieni d'autocontrollo e dediti alla ripetizione del nome divino, e quelli che si circondavano di fuochi sotto il sole cocente. Tutti erano raggianti della luce dell'autorealizzazione.
Essi salutarono Rama e gli dissero: "Signore, il re riceve un sesto delle entrate dei sudditi, e in cambio egli deve proteggerli, trattandoli come figli. Se non lo fa, incorre nel peccato. Il re riceve un quarto della ricchezza spirituale acquisita dai saggi; ma in cambio deve proteggerli. È in questo spirito che veniamo da te, nostro re e protettore. In questa foresta ci sono esseri diabolici che terrorizzano i saggi e gli asceti. Ti preghiamo di proteggerci da loro". Rama rispose subito: "Lo farò certamente! Di sicuro è per questo che il mio nobile padre mi ha mandato nella foresta".
Congedatosi dai saggi, Rama procedette fino all'eremo di Sutikshna. Il saggio sedeva serenamente nella posizione di meditazione. Rama si presentò a lui, che gli rispose benignamente: "Ero in attesa del tuo arrivo, Rama. Ho saputo tutto da Indra, che mi ha appena fatto visita per dirmi che ora posso ascendere ai mondi superiori guadagnati con le mie austerità. E con la forza di quelle austerità io prego che voi tre possiate godervi la permanenza nella foresta". Quindi Rama chiese al saggio d'indicargli una dimora adatta a loro. Il saggio rispose: "Rimanete in quest'eremitaggio. A parte i daini, nessun'altra creatura vi disturberà". Ma Rama disse: "Se vivessi qui, potrei uccidere dei daini, e so che questo vi dispiacerebbe molto. Perciò non credo di dovermi stabilire qui".
Godendo dell'ospitalità di Sutikshna, Rama passò la notte nell'eremo, insieme a Lakshmana e a Sita.
La mattina seguente di buon'ora Rama si congedò dal saggio Sutikshna: "Signore, abbiamo trascorso una notte beata nella tua santa compagnia, godendo della tua ospitalità. È ora che procediamo, prima che il sole diventi troppo caldo". Rama, Lakshmana e Sita si prostrarono dinanzi al saggio, che a sua volta li tirò su e li abbracciò, come segno della sua benedizione. Egli augurò loro ogni bene e li invitò a tornare nel suo eremitaggio.
Mentre camminavano nelle profondità della foresta, Sita trovò l'occasione di aprire il suo cuore a Rama, e gli disse: "Signore, tu conosci bene le basi del Dharma, e non hai bisogno di alcun consiglio o istruzione. Però io so che quella che sembra una leggera negligenza iniziale può spesso condurre a una grave violazione del Dharma. L'adharma può essere evitato solo da chi riesce a resistere agli effetti dolorosi del desiderio. Questi effetti sono tre: il più spaventoso è la falsità di parola, quindi l'adulterio, e infine c'è la crudeltà non provocata. Certamente tu sei incapace dei primi due. Mi preoccupo però che tu possa soccombere al terzo. Gli asceti ti hanno chiesto di uccidere i demoni che vivono nella foresta Dandaka, e tu hai acconsentito. Perciò, armato con le tue armi e i tuoi missili, hai premura d'entrare nella terribile foresta Dandaka. Io non sono affatto contenta di ciò. Tu sei armato, e senza volerlo veramente potresti uccidere qualcuno.
"Signore, ho udito questa storia: In una certa foresta viveva un asceta estremamente pacifico, del quale neanche gli uccelli e gli animali feroci avevano paura. Volendo ostacolare le austerità di questo sant'uomo, Indra andò da lui nelle sembianze di un guerriero, e con un pretesto gli lasciò la sua spada, pregandolo di custodirla durante la sua assenza. L'asceta custodiva con zelo la spada, portandola persino con sé quando vagava per la foresta. Per far la storia breve, dopo un po' di tempo l'asceta cominciò ad impugnare la spada, dimenticando il suo voto di non-violenza. Tenere con sé un'arma letale è come giocare con il fuoco.
"Sono preoccupata, Signore, che questo possa accadere anche a te. C'è contraddizione in un asceta che porta un'arma: in uno che vuole condurre una vita da eremita, ma si comporta come un guerriero. Maneggiare un'arma perverte la mente. Sono sicura che i tuoi genitori sarebbero contenti se noi vivessimo secondo il Dharma. E il Dharma non è per chi cerca il piacere. Il Dharma porta alla prosperità; esso stesso dà grande felicità. Tutto si ottiene con il Dharma. Il mondo intero è stabilito nel Dharma. Però ci vuole una volontà di ferro e autocontrollo per preservare il Dharma".
Rama fu felice di udire quell'amorevole e giusto consiglio scaturito dal tenero cuore di Sita, e rispose:
"Certamente, Sita, tu stessa desideri che nessuno sia sottoposto a sofferenze nella foresta Dandaka; e questo è anche il mio desiderio. I saggi e gli asceti che vivono nella foresta si sono rivolti a me. Come principe io sono il loro giusto asilo, ed essi hanno cercato rifugio in me. Quando hanno chiesto di vedermi, io mi sono offerto di servirli ed aiutarli secondo le mie possibilità. Quindi mi hanno raccontato di essere tormentati in vari modi dai demoni cannibali che vivono nella foresta Pur essendo loro i santi brahmana che avremmo dovuto avvicinare con venerazione, eppure sono stati loro a venire da me, per chiedere il mio aiuto. Come avrei potuto rifiutare la loro preghiera? Perciò ho promesso d'esaudirla. Invero loro stessi sarebbero capaci di combattere i demoni, che potrebbero distruggere col potere accumulato con il loro ascetismo. Ma se facessero un'azione del genere, sarebbe una violazione del loro voto d'ascetismo e, in un certo senso, quest'azione stessa distruggerebbe il frutto delle loro austerità. Per questo non desiderano intraprendere direttamente l'opera di punizione dei demoni malvagi. Perciò ripeto che è mio dovere assolvere questo compito.
"Considerando tutto questo, ho dato loro la mia parola che li proteggerò. E ora, dopo aver dato la mia parola, non potrò tirarmi indietro finché vivrò. Potrei abbandonare la mia vita, potrei abbandonare Lakshmana e anche te, mia cara Sita; ma non potrò ritrattare la parola che ho dato a qualcuno, specialmente ai santi brahmana, ai saggi e agli asceti. Mi sono spiegato chiaramente, Sita? Come principe è mio dovere proteggere il popolo dai malfattori, perciò anche senza la loro richiesta dovrei offrire loro la mia protezione. Ora questi asceti hanno espressamente chiesto la mia protezione, e io l'ho promessa. Perciò non c'è possibilità di rompere questa promessa, a qualunque costo. Però terrò in mente le sagge parole che mi hai detto, spinta dal tuo grande amore per me. È giusto che tu mi consigli in questo modo, perché invero tu sei realmente la mia compagna nel Dharma".
Continuando a parlare in questo modo, Rama e Sita proseguirono verso gli eremi dei saggi della foresta Dandaka.
Rama camminava davanti, Sita lo seguiva, e dietro a loro stava Lakshmana. Essi ammiravano le cime dei monti, i laghi, gli alberi, i fiori e gli animali che vedevano lungo la strada. Una sera, mentre camminavano, videro un grande lago in cui c'era un folto gruppo di elefanti che si bagnava e giocava, e dove gru, cigni ed altre creature acquatiche vivevano senza paura, in grande delizia. Avvicinatosi al lago, Rama udì una musica meravigliosa, che sembrava provenire dal lago stesso. Ma nei dintorni non si vedeva nessuno. Perplesso davanti a questo fenomeno straordinario, egli chiese al saggio Dharmabhrit - che in quel momento si trovava con loro - di raccontare qualcosa di più sul lago.
Allora il saggio narrò a Rama la seguente storia: "Questo lago fu di fatto creato da un famoso asceta col solo potere delle sue austerità. Per moltissimi anni il saggio - chiamato Mandakarni - continuò a praticare le sue austerità nel lago, vivendo solo d'aria. Persino gli dèi erano turbati: pensando che il saggio volesse usurpare i loro poteri. E per distogliere la sua attenzione dalle austerità, gli dèi inviarono un gruppo scelto di cinque apsara (ninfe celesti). Le ninfe vennero qui e fecero uso della loro bellezza per attirarlo. Il saggio sapeva la verità e, per così dire, s'innamorò di loro per adempiere lo scopo degli dèi. Quindi creò un grandioso palazzo dentro il lago, nel quale vive ancora con le cinque ninfe. Perciò questo lago è chiamato Pancapsara. La musica che hai udito è proprio quella delle ninfe".
Rama rimase stupito dal potere delle austerità. In questo modo continuarono a girare per la foresta, visitando un eremitaggio dopo l'altro: trascorrendo alcune settimane in uno, alcuni mesi in un altro, godendo sempre della compagnia e dell'ospitalità dei saggi della foresta. Vagando così felicemente nella foresta insieme a Sita e a Lakshmana, passarono dieci anni.
Poi tornarono ancora una volta nell'eremo del saggio Sutikshna e passarono alcuni mesi in sua compagnia. Un giorno Rama disse a Sutikshna: "Sant'uomo, ho sentito dire che il famoso saggio Agastya vive in questa foresta. Vi prego, ditemi come possiamo raggiungere il suo eremitaggio. Desidererei incontrarlo". Sutikshna rispose: "Sì, Rama, io stesso stavo per chiederti d'incontrare Agastya, insieme a Sita e a Lakshmana. È una fortuna che tu abbia espresso lo stesso desiderio".
Quindi Sutikshna spiegò a Rama nei dettagli come raggiungere l'eremitaggio di Agastya, e concluse: "Se desideri incontrare il saggio Agastya è bene che tu parta oggi stesso".
Rama, Lakshmana e Sita giunsero in un luogo circondato da alti monti e dense foreste. L'odore pungente dei frutti dell'albero pipal confermava che il posto indicato da Sutikshna si trovava nelle vicinanze. L'eremitaggio del fratello del saggio Agastya era vicino.
A questo punto Rama narrò a Lakshmana la storia del saggio Agastya:
"C'è una storia interessante relativa al saggio Agastya; ora te la racconterò. Tanti anni fa questa zona era abitata da due demoni, che si chiamavano Vatapi e Ilvala. Ilvala si travestiva da brahmana e parlava la lingua colta (il sanscrito). Mascherato così attirava l'attenzione dei brahmana, che invitava a partecipare alla cerimonia sraddha per la propiziazione degli antenati defunti. Egli cucinava gustosamente il fratello maggiore Vatapi, che per l'occasione assumeva le sembianze di un caprone, e poi ne offriva la carne ai brahmana, secondo le ingiunzioni del rito. Ma dopo che avevano mangiato quella carne, Ilvala chiamava a gran voce: "Vatapi, vieni fuori". E Vatapi veniva fuori, lacerando il corpo dei brahmana. Infine gli dèi pregarono il saggio Agastya di porre termine a queste atrocità.
Agastya si prestò a mangiare a casa di Ilvala. Dopo il consueto pasto, Ilvala gridò: "Vatapi, vieni fuori". Ma Agastya disse serenamente: "Come può venir fuori Vatapi, visto che l'ho già digerito!". Infuriato Ilvala si scagliò contro il saggio, ma Agastya lo privò della vita con un semplice sguardo.
"Ora Lakshmana, liberata da loro e da quelli come loro, questa terra meridionale ha ripreso a prosperare".
Presto essi raggiunsero l'eremitaggio del fratello di Agastya, e ricevuti calorosamente dal saggio vi trascorsero la notte. Il giorno dopo Rama disse al fratello di Agastya: "Vorrei incontrare il tuo illustre fratello". E congedatisi da lui, i tre si diressero verso l'eremitaggio di Agastya.
Rama fece notare a Lakshmana: "Guarda questa terra prosperosa. Tutto ciò è dovuto alla grazia del saggio Agastya. Da quando egli ha liberato il paese dai demoni, la gente vive felice, senza paura. Perfino persone di disposizione diabolica sono diventate tranquille e amanti della pace. Questo è dovuto alla grazia del saggio Agastya. Tale è il suo potere spirituale che ora nessun peccatore può più vivere nella regione meridionale. Grazie alla gloria del saggio, gli dèi vengono facilmente compiaciuti dagli adoratori ed esaudiscono i loro nobili desideri". Così parlando, essi raggiunsero l'eremitaggio di Agastya; e Rama inviò Lakshmana ad informare il saggio del loro arrivo.
Lakshmana avvicinò umilmente un discepolo del saggio Agastya e gli disse: "Rama, figlio di re Dasaratha, è arrivato qui insieme alla sua sposa Sita e a me, suo servo e fratello. Egli attende d'essere ricevuto dal saggio Agastya secondo il suo piacere".
Entrando nel santuario, Rama vide gli altari sacri dedicati alle varie divinità invocate nei riti vedici. Quindi vide lo stesso saggio Agastya che gli stava venendo incontro. Rama, Lakshmana e Sita si prostrarono ai piedi del saggio, e poi rimasero in piedi con le mani giunte. Il saggio li fece accomodare e chiese gioiosamente come stavano; poi offrì loro dell'acqua per lavarsi mani e piedi, e del cibo da mangiare. Infine Agastya disse: "Questo è il sacro dovere di un asceta, Rama: dedicarsi all'adorazione del fuoco sacro e quindi offrire acqua e cibo all'ospite; altrimenti commette un grave peccato, il cui frutto sarà quello di mangiare la propria carne nell'altro mondo".
Quando terminarono di mangiare, Agastya portò molte armi e missili rari e li donò a Rama: erano stati tutti creati dall'inventore celeste Visvakarma. Uno era stato usato dallo stesso Signore Vishnu, un altro da Brahma, un altro ancora da Mahendra, ecc. Dopo aver spiegato le glorie di ognuno, il saggio li donò tutti a Rama.
Poi il saggio disse: "Sono felice che tu sia venuto a trovarmi, Rama. Trovo però che siete tutti molto stanchi; cosa ovvia dopo un lungo viaggio. Vedo che anche Sita ha bisogno di riposo. Sono felice che lei t'accompagni. In genere le donne sono volubili e possono anche rinnegare il marito che ha perso la propria fortuna. Dicono che la donna combini in sé l'irriverenza del fulmine, l'incisività distruttrice di un'arma, e la rapidità di un uccello. Ma tua moglie è libera da tutti questi difetti; invero ella è lodevole e il suo stato è pari a quello di grandi donne come Arundhati.
Rama era felice che lui, suo fratello e anche Sita godevano della stima del potente saggio. Poi si rivolse al saggio con questa preghiera: "Signore, indicateci benignamente un posto dove possiamo costruire un eremitaggio e trascorrere il periodo che rimane del nostro esilio".
Il saggio Agastya rispose: "Rama, non molto lontano da qui c'è un luogo chiamato Pancavati. Quello è il posto migliore dove potete sistemarvi, per trascorrere il resto del vostro esilio. Naturalmente so già per intuizione tutto ciò che è successo ad Ayodhya. Penso che Sita sarebbe felice di vivere a Pancavati, che si trova vicino al fiume Godavari. Vivendo là, potrai mantenere la promessa fatta a tuo padre e offrire anche protezione ai deboli e agli indifesi, ai saggi e agli asceti".
Mentre Rama, Lakshmana e Sita procedevano verso Pancavati, lungo il cammino videro un enorme avvoltoio. Il primo pensiero di Rama fu che si trattasse di un demone camuffato. Ma l'avvoltoio disse: "Sono un amico di tuo padre". Fidandosi della sua parola, Rama gli chiese ulteriori notizie sulla sua nascita e sui suoi antenati.
L'avvoltoio disse: "Tu sai che Daksha Prajapati ebbe sedici figlie e che il saggio Kasyapa ne sposò otto. Un giorno Kasyapa disse alle sue mogli: "Darete alla luce figli che saranno potenti nei tre mondi". Aditi, Diti, Danu e Kalaka ascoltarono con attenzione; ma le altre rimasero indifferenti. Di conseguenza le prime quattro diedero alla luce figli potenti di natura sovrumana: Aditi diede alla luce trentatré dèi; Diti diede alla luce dei demoni; Danu diede alla luce Ashvagriva, e Kalaka ebbe Naraka e Kalika. Infine gli uomini nacquero da Manu, e le specie subumane dalle altre mogli di Kasyapa. Tamra ebbe per figlia Suki, la cui nipote, Vinata, ebbe due figli: Garuda e Aruna. Mio fratello Sampati ed io siamo figli di Aruna. Ora io offro i miei servigi a te, Rama. Se tu ti degnerai d'accettarli, io proteggerò Sita quando tu e Lakshmana v'allontanerete dall'eremitaggio. Come hai visto, questa spaventosa foresta è piena d'animali feroci e anche di demoni".
Rama accettò questa nuova amicizia, e tutti insieme si diressero verso Pancavati in cerca di un luogo adatto per costruire un eremitaggio. Quando arrivarono a Pancavati, che Rama riconobbe grazie alla descrizione che gli aveva fatto Agastya, Rama disse a Lakshmana: "Ti prego, scegli un luogo adatto per la costruzione di un eremitaggio. Esso deve avere una bella foresta, acqua buona da bere, legna da ardere, fiori ed erba sacra". Lakshmana rispose umilmente: "Anche se vivessimo insieme per centinaia di anni, io continuerò ad essere il tuo servo. Perciò, signore, scegli tu il posto ed io farò quanto è necessario. Gioendo dell'attitudine di Lakshmana, Rama indicò il luogo adatto che aveva tutti i requisiti di un eremitaggio. Rama disse: "Questo terreno è sacro; è incantevole; ed è popolato da animali e uccelli. Dimoreremo qui". E subito Lakshmana si mise al lavoro per costruire l'eremitaggio nel quale poter vivere.
Abbracciando calorosamente Lakshmana, Rama gli disse: "Sono deliziato dal tuo ottimo lavoro e dal tuo servizio devoto: t'abbraccio in segno della mia ammirazione. Fratello, tu intuisci il desiderio del mio cuore, tu sei pieno di gratitudine, tu conosci il Dharma; avendo per figlio un uomo come te, nostro padre non è morto, ma è eternamente vivo".
In quell'eremitaggio Rama, Lakshmana e Sita vissero con grande gioia e felicità.
Passò del tempo. Un giorno Lakshmana andò da Rama di buon mattino per descrivergli ciò che aveva visto fuori dell'eremitaggio, e gli disse: "Rama, è arrivato l'inverno, la stagione che tu ami di più. C'è un freddo secco dappertutto. La terra è coperta di cereali. L'acqua è poco invitante e il fuoco è piacevole. I primi frutti della messe sono stati raccolti e gli agricoltori hanno debitamente offerto le primizie agli dèi e ai Mani (gli antenati), ribadendo così il debito di riconoscenza nei loro confronti. L'agricoltore che offre i primi frutti agli dèi e ai Mani viene purificato dal peccato.
"Il sole si muove nell'emisfero meridionale; e il nord non appare più illuminato. L'Himalaya, la dimora delle nevi, lo diventa ancora di più! E anche a mezzogiorno è piacevole fare una passeggiata. L'ombra di un albero, che tanto ci piaceva d'estate, ora non ci attrae. La mattina presto la terra, con i suoi campi ricchi di grano e di orzo, è coperta di nebbia. E così anche i campi di riso. Il sole, anche quando sorge, è debole e fresco come la luna. Persino gli elefanti che s'avvicinano all'acqua, la toccano con la proboscide ma la ritirano subito indietro, perché l'acqua è troppo fredda.
"Rama, il mio pensiero va naturalmente al nostro amato fratello Bharata. Anche in questo freddo inverno, lui che potrebbe avere gli agi di un re preferisce dormire per terra e condurre una vita ascetica. Certamente anche lui si sarà alzato presto stamattina, e forse ha fatto un bagno freddo nel fiume Sarayu. Che uomo nobile! Posso immaginarlo adesso davanti a me: con gli occhi simili ai petali di un loto, con la pelle scura, longilineo e quasi senza pancia. Egli conosce il Dharma. Dice sempre la verità. È modesto e autocontrollato; parla sempre in maniera piacevole; è dolce, ha braccia possenti e tutti i suoi nemici gli sono pienamente sottomessi. Quel nobile Bharata ha rinunciato a tutti i suoi piaceri ed è devoto a te. Egli si è già conquistato il suo posto nel cielo. Pur vivendo in città, egli ha adottato un tipo di vita ascetica e segue te nello spirito.
"Ci è stato detto che un figlio assomiglia alla madre nella sua natura: ma nel caso di Bharata questo s'è dimostrato falso. Mi chiedo come mai Kaikeyi, pur avendo nostro padre come marito e Bharata come figlio, si sia dimostrata tanto crudele".
Quando Lakshmana pronunciò queste parole, Rama lo fermò dicendo: "Non parlare male di nostra madre Kaikeyi, Lakshmana. Parla solo del nostro amato fratello Bharata. Sebbene cerchi di non pensare ad Ayodhya e ai nostri cari che vivono là, quando penso a Bharata desidero vederlo".
Dopo il bagno e le preghiere mattutine, Rama, Lakshmana e Sita tornarono nel loro eremitaggio. Mentre sedevano fuori della capanna, una terribile demonessa si presentò davanti a loro. Guardò Rama e subito s'innamorò di lui! Il volto di Rama era bello; quello di lei era orribile. Lui aveva i fianchi snelli; lei aveva una pancia enorme. Lui aveva occhi grandi e dolci; lei aveva occhi sgraziati. Lui aveva capelli morbidi e graziosi; lei aveva i capelli rossi. Lui aveva una forma attraente; lei aveva una forma orribile. Lui aveva una voce dolce; quella di lei somigliava al latrare di un cane. Lui era giovane; lei era arrogante. Lui aveva grandi capacità; mentre il parlare di lei era contorto. Lui era di spirito nobile; lei era malvagia. Lui era amabile; lei aveva un aspetto ripugnante. Rivolgendosi a Rama questa demonessa disse: "Chi siete, giovanotti; e che cosa fate in questa foresta, con questa donna?".
Rama le raccontò tutta la sua storia, di Lakshmana e Sita, dell'esilio dal regno, ecc.; e infine le chiese: "O donna incantevole, ora dimmi chi sei tu". Subito la demonessa rispose: "Oh Rama! Adesso ti racconterò tutto di me. Io sono Surpanakha, sorella di Ravana. Sono sicura che hai sentito parlare di lui. Egli ha altri due fratelli, Kumbhakarna e Vibhishana. Due altri fratelli, Khara e Dushana, vivono qui nelle vicinanze.
Appena ti ho visto mi sono innamorata di te. Cos'hai a che fare con questa brutta ed emaciata Sita? Sposa me, ed entrambi vivremo in questa foresta. Non preoccuparti di Sita e Lakshmana: li divorerò in un baleno". Ma Rama le rispose sorridendo: "Vedi, ho già mia moglie qui con me. Perché non fai la proposta a mio fratello Lakshmana, che non ha moglie?". Surpanakha - che era tormentata dalla passione - non trovò male il suggerimento, e rivolgendosi a Lakshmana disse: "Va bene. Allora sposami tu, e ce ne andremo in giro felici".
Lakshmana le rispose scherzando: "Non vedi che sono solo lo schiavo di Rama e Sita? Perché scegli di essere la moglie di uno schiavo? Così diventerai soltanto una serva. Convinci Rama a scacciare quella brutta moglie e a sposare te". Surpanakha si rivolse nuovamente a Rama: "Incapace di lasciare Sita, tu rifiuti la mia offerta. Guarda, la divoro subito. Quando lei non ci sarà più sposerai me, e ce ne andremo insieme felici per questa foresta". E così dicendo si scagliò contro Sita. Rama la fermò in tempo, e disse a Lakshmana: "Che hai fatto? Non è giusto scherzare con persone crudeli e indegne. Guarda come sta Sita. A stento è riuscita a salvarsi la vita. Vieni, deforma subito questa demonessa e mandala via".
Lakshmana fece guizzare la sua spada e recise il naso e le orecchie di Surpanakha. Ella fuggì sanguinante e in lacrime, andò da suo fratello Khara e cadde a terra davanti a lui.
Il demone Khara fu molto addolorato nel vedere la sorella Surpanakha cadere priva di sensi davanti a lui, con il sangue che le usciva profusamente dalle ferite causatele da Lakshmana al naso e alle orecchie. Inginocchiatosi accanto a lei, Khara disse pieno di collera: "Chi ti ha fatto questo? O sorella, il tuo valore è pari a quello degli dèi e dei semidèi. Quale folle ha perpetrato questa stupida azione, autoinvitandosi a una rapida morte per mano mia? Di certo neanche Indra, il dio degli dèi, oserebbe offendermi. Surpanakha, riprendi i sensi e dimmi chi è quel folle che oggi ha deciso di morire per mano mia".
Ancora stordita, Surpanakha riprese i sensi e disse a Khara: "Oggi ho visto nella foresta due giovani belli e potenti che hanno occhi che somigliano a petali di loto. Sono coperti di corteccia e pelli di daino, e vivono di frutti e radici come gli asceti, dediti all'autocontrollo, alle austerità e al celibato. Essi sono figli di re Dasaratha, e si chiamano Rama e Lakshmana. Con loro ho anche visto una giovane donna bellissima e ornata di gioielli. E questo ne è il risultato. Fratello, mi farai un grande favore se li farai uccidere: desidero bere il loro sangue".
Terribilmente inferocito, Khara ordinò a quattordici dei suoi guerrieri demoniaci: "Due uomini si sono permessi di entrare nella foresta Dandaka. Andate ad ucciderli, e uccidete anche la donna che si trova con loro. Così propizierete mia sorella: portatele da bere il sangue di quegli esseri umani".
I quattordici demoni partirono subito insieme a Surpanakha, e quando giunsero nell'eremitaggio videro Rama.
Anche Rama li vide, e disse a Lakshmana: "Proteggi Sita, Lakshmana! Io mi libererò velocemente di questi demoni e sarò di ritorno".
Rama disse ai demoni: "Noi siamo asceti che vivono di frutti e radici. Perché ci molestate? Sappiate inoltre che su richiesta dei saggi e degli asceti che voi tormentate costantemente, noi siamo venuti qui per uccidere i peccatori come voi".
I demoni replicarono: "Avendo provocato il nostro grande condottiero Khara, vi siete giocati la vita. Con queste nostre armi vi uccideremo in un istante". Dicendo questo, si lanciarono contro Rama con le lance e le spade in pugno.
Rama spezzò le loro armi con i suoi missili, e poi li colpì con quattordici missili contundenti, che trafissero i loro cuori. Essi caddero a terra morti.
Atterrita dalla vista di questa fulminea strage, Surpanakha tornò di corsa da Khara.
Vedendo ancora una volta Surpanakha rotolare a terra davanti a lui, Khara le chiese bruscamente: "Perché ti comporti così? Ho appena inviato i più formidabili eroi del mio esercito, che certamente uccideranno quegli esseri umani in brevissimo tempo. Quei quattordici eroi mi sono fedelissimi e sono invincibili in battaglia. Abbi un po' di pazienza e smettila con quest'inutile emotività".
Surpanakha rispose: "È vero! Poco fa hai mandato quei quattordici eroi insieme a me. Ma ora essi non esistono più! Facendo uso di tutta la loro potenza, essi hanno attaccato Rama e Lakshmana. Hanno scagliato le loro armi con tutta la loro forza. Ma sono morti! Con i cuori trafitti dai missili di Rama, ora essi giacciono morti. Dopo averli visti morti là per terra, e dopo aver visto lo straordinario valore di Rama, sono tornata qui da te profondamente afflitta dal dolore. Se vuoi salvare in tempo i demoni della foresta Dandaka, devi agire con la massima rapidità. Ma il mio intelletto mi dice che tu non hai la forza d'affrontare Rama. Tu pensi di essere potente, mentre in realtà non lo sei. Se non riuscirai a tener testa a questi esseri umani, per te sarà una disgrazia e una grave calamità. Perché di certo essi distruggeranno presto tutti i demoni; incluso te, fratello mio".
Punto sul vivo dalle sue parole, Khara le rispose: "Ti farò vedere quanto sono potente. Non prendo neppure in considerazione l'essere umano chiamato Rama. Dopo avermi provocato a combattere con le sue malvagie azioni, ora può considerarsi già morto. Lo abbatterò in un istante con la mia ascia; e tu berrai il suo sangue".
Surpanakha fu contenta di udire questa rassicurante promessa, e cominciò a lodare e ad ispirare il fratello.
Quindi Khara diede istruzioni al suo comandante in capo Dushana: "Ordina ai miei quattordicimila demoni di prepararsi a marciare immediatamente. Porta subito anche il mio cocchio; desidero guidare le gloriose armate di Pulastya, per distruggere quegli umani che si sono permessi di sfidarci".
Ben presto portarono il cocchio, risplendente come il sole stesso, e Khara vi montò. In poco tempo il potente esercito dei demoni fu pronto. Quest'esercito era equipaggiato di ogni sorta di armi: mazze di ferro, lance, clave, ecc.
Preceduto da questa potente armata, il grande e valoroso demone Khara andò incontro a Rama, desideroso di combattere contro il nemico umano.
Tutta la natura sembrava essere contro i demoni. Ovunque apparivano cattivi presagi che preannunciavano la loro distruzione. Gli animali gemevano. Nel cielo si videro nuvole spaventose e dall'aspetto minaccioso. Il sole fu circondato da un anello rosso. Un'oscurità paurosa s'impossessò della terra. La gente era confusa e non distingueva una direzione dall'altra. Ci fu una lunghissima eclisse solare. La terra tremava. Ci furono tempeste di polvere e di grandine.
Cattivi presagi apparvero anche sul corpo di Khara. Il braccio sinistro cominciò a pulsargli. Gli venne un dolore nella fronte. Però nessuno di questi segni ebbe il minimo effetto su di lui! Egli era troppo sicuro della propria forza! Diceva infatti: "Io non mi preoccupo come i deboli, perché sono molto forte. Potrei anche abbattere le stelle. Non tornerò indietro, se non dopo avere ucciso Rama, Lakshmana e Sita. Io sono invincibile; non sono mai stato sconfitto in battaglia da nessuno. Darò soddisfazione a mia sorella, che è stata sfigurata da Rama e Lakshmana". Circondato da dodici demoni di grande valore, Khara marciava verso l'eremitaggio di Rama continuando a urlare. Dushana era scortato da quattro potenti demoni.
Sentendo tutto questo, i saggi e i semidèi pregarono per la vittoria di Rama.
Anche Rama notò i cattivi presagi, e disse a Lakshmana: "Guarda questi sconvolgimenti nella natura, che predicono la distruzione dei demoni. I miei missili si stanno scaldando, prevedendo che oggi saranno usati propriamente. Vedo che il tuo viso è raggiante: e da ciò capisco che saremo vittoriosi; poiché l'uomo che ha il volto senza lustro alla vigilia di una battaglia perirà. Ah, Lakshmana, odo il tumulto provocato dalle forze dei demoni che avanzano. Un saggio deve prendere le giuste precauzioni anche contro una calamità che non si è ancora abbattuta su di lui. Perciò desidero che tu e Sita prendiate riparo in quella grotta, mentre io mi occupo di queste orde di demoni. Lo so che saresti capace di ucciderli tutti: ma stavolta desidero farlo io stesso. Ora ti prego, va'". Lakshmana si rifugiò immediatamente nella grotta con Sita. Rama si compiacque della sua totale ubbidienza.
Rama preparò le sue armi e i suoi missili. Gli dèi e i saggi che assistevano alla scena lo benedirono. Alcuni di essi erano però preoccupati: "Come potrà Rama, da solo, affrontare quattordicimila demoni?". Presto le orde demoniache furono in vista. Rama si guardò intorno e osservò attentamente i demoni. Nel suo furore, l'incantevole apparenza di Rama prese l'aspetto di Rudra quando s'apprestava a distruggere il sacrificio rituale di Daksha.
Khara e il suo potente esercito raggiunsero l'eremitaggio di Rama. Vedendo Rama in piedi con le sue armi, pronto a colpire, Khara ordinò al suo auriga: "Porta il mio cocchio proprio davanti a Rama". Giunto vicinissimo a Rama, Khara cominciò ad attaccarlo con una raffica di proiettili leggeri. Fatto questo, il demone lanciò un urlo. I seguaci di Khara, crudeli per natura, cominciarono a scagliare contro Rama un gran numero di armi convenzionali, compreso rami, tronchi e pietre. A grandi frotte, i demoni si precipitarono verso l'eremitaggio per colpire e uccidere Rama. Circondato da tutte le parti, Rama appariva come il grande dio Rudra circondato dai suoi servi!
Il corpo di Rama aveva subito molte ferite, ma niente di serio. Eppure egli somigliava al sole del tramonto, la cui luce è parzialmente velata dalle nuvole della sera. Vedendo questo, gli dèi, i semidèi e i saggi si preoccuparono. Estremamente adirato dal loro attacco improvviso, Rama brandì la sua arma rotante, dalla quale partirono centinaia e migliaia di missili. Egli usò i missili Nalika (quelli con la punta d'acciaio), Naraca (fatti completamente d'acciaio) e Vikarni (missili con il corpo spinato).
I demoni cadevano come mosche. I missili di Rama infrangevano le armi convenzionali dei demoni. Colpiti dai missili, le teste dei demoni si spaccavano, i loro scudi e i loro archi venivano spazzati via, ed essi cadevano a terra come alberi abbattuti. A loro volta essi scagliavano contro di lui lance, asce e altre armi del genere, che però nulla potevano contro le armi di Rama. Sopraffatti da Rama, i demoni sopravvissuti batterono in ritirata e andarono a cercare rifugio da Khara.
Fortemente turbato dal fatto che Rama da solo avesse potuto uccidere migliaia di demoni, Dushana si fece avanti. Anche le forze che s'erano ritirate tornarono a dar battaglia a Rama, scagliando pietre e grossi pezzi di legno. Rama lanciò un urlo di trionfo e usò il più potente missile Gandharva, che gettò i demoni nella più totale confusione. Subito dopo egli tornò alla sua arma rotante e lanciò contemporaneamente centinaia di missili in tutte le direzioni. Tale fu l'effetto del missile Gandharva e la velocità con cui Rama lanciava gli altri missili, che i demoni non riuscivano a vedere i missili ma solo Rama che impugnava l'arma. Sembrava che lui non facesse nulla: i lanci sembravano automatici. E lo stesso Rama era nascosto dal fuoco, che offuscava anche il sole.
Il terreno era tutto ricoperto dei corpi dei demoni morti. Le loro armi erano spezzate; persino le pietre che avevano lanciato erano state ridotte in polvere. Essi erano stati sconfitti completamente.

[NOTA: I demoni, con la possibile eccezione di Khara, avevano armi non balistiche; Rama invece aveva armi balistiche sofisticate. 'Frecce e archi' non trovano affatto posto qui.]

Affranto dalla vista dei suoi uomini caduti a migliaia, Dushana ordinò a un battaglione di gruppi d'assalto particolarmente scelti di combattere e uccidere Rama.
Questi attaccarono, usando come armi picche di ferro, spade, lastre di pietra, alberi e alcuni tipi di frecce. Ma Rama intercettò e distrusse tutte le loro armi con i suoi missili.
Infine si fece avanti Dushana in persona. Rama lo tempestò di missili, ma Dushana restituì colpo su colpo.
Con straordinaria destrezza, Rama distrusse l'arma di Dushana. Nello stesso tempo Rama spaccò la testa all'auriga di Dushana e abbatté i cavalli.
Ora sia Rama che Dushana erano senza cocchio. Brandendo un'arma pesante con innumerevoli punte fatte d'acciaio, oro e diamanti, Dushana si scagliò contro Rama. Ma con straordinaria precisione Rama tagliò le due braccia di Dushana, che caddero impugnando ancora la clava d'acciaio.
Allora si fecero avanti contro Rama i tre comandanti delle forze di Dushana. Uno brandiva una picca dal terribile aspetto, l'altro una scimitarra, e il terzo un'ascia. Ma Rama li distrusse mentre ancora si stavano avvicinando a lui: a Mahakapala spaccò il cranio; con numerosi missili sconfisse Pramathi, e a Sthulaksha trafisse gli occhi.
Il demone Khara impazzì dalla rabbia e gridò alle forze rimastegli: "Guardate che disgrazia! Avete visto come il potente Dushana è stato ucciso da un piccolo essere umano! E voi non fate altro che guardare. Via, attaccate questo Rama e distruggetelo subito".
Tutti i demoni rimasti si scagliarono contro Rama, che si liberò subito di loro usando missili che somigliavano al fuoco e che erano adornati con oro e diamanti.
I suoi missili non andavano mai sprecati. Se c'erano cento demoni, usava cento missili. Se c'erano mille demoni, usava mille missili e li distruggeva tutti.
Così, da solo, combattendo a piedi come un fante, quest'essere umano - Rama - uccise quattordicimila demoni che avevano commesso terribili azioni. Soltanto Khara e un altro demone chiamato Trisira sopravvissero.

[NOTA: Questo capitolo menziona l'uso di oro e diamanti per la preparazione dei missili.
Il testo originale usa un gioco di parole per descrivere l'uccisione di questi tre eroi. Mahakapala vuol dire 'Grande Testa' e il suo cranio viene spaccato. Pramathi è uno che sconfigge: e viene sconfitto. Sthulaksha è 'la cavità degli occhi': e gli viene sparato nelle cavità degli occhi.]

Quando Khara si fece avanti per combattere contro Rama, il demone Trisira lo avvicinò e gli chiese il permesso di andare al posto suo. Egli disse a Khara: "Ti giuro che lo ucciderò, oppure sarà lui a uccidermi. Ti assicuro che o tu ritornerai a Janasthana felice perché ho ucciso Rama oppure, vedendo che lui ha ucciso me, tu stesso lo affronterai. Ma lasciami andare per primo?". Khara approvò la sua idea.
Il demone Trisira era molto potente e fu rapido nel cominciare la sua offensiva. Con la sua arma egli colpì Rama sulla fronte. Tuttavia benché ferito, Rama continuò a combattere come se fosse stato colpito con dei fiori.
Mosso da un'immensa furia, con la sua arma Rama lanciò quattro missili che avevano le punte ricurve e che si occuparono dei cavalli. Con otto missili, egli abbatté l'auriga. E mentre Trisira stava saltando dal cocchio, Rama lo colpì al cuore e lo uccise.
Per ultimo si fece avanti Khara. Egli possedeva delle armi molto potenti, e inoltre era stato istruito sull'uso di missili estremamente potenti. Seduto sul suo cocchio, Khara scagliò molti missili contro Rama.
Giudicando correttamente la forza del nemico, anche Rama si munì di un'arma più potente. Quindi ebbe inizio un cruentissimo scontro tra Rama e Khara. La potenza di fuoco sprigionata da ambedue le parti oscurava lo stesso sole che splendeva nel cielo. Khara lanciò contro Rama i missili Nalika, Naraca e Vikarni.
Rama sembrava veramente stanco e gravemente ferito. Approfittando di questa situazione, Khara gli si avvicinò con l'intento di ucciderlo. Con grandissima abilità, con un colpo solo egli abbatté l'arma di Rama. E mentre Rama era disarmato, Khara approfittò immediatamente per colpirlo con vari missili. L'impatto di questi missili fu così forte che lo scudo protettivo che Rama indossava si spezzò e cadde a terra. Alcuni missili raggiunsero anche le parti vitali del corpo di Rama.
Con irrefrenabile ira, a questo punto Rama prese 'l'arma di Vishnu' che il saggio Agastya gli aveva recentemente donata. Afferrandola saldamente, Rama si scagliò contro Khara e lo colpì sei volte.
Con un colpo prese la testa di Khara, con altri due colpì le sue braccia, e tre li diresse nel suo petto.
Nello stesso tempo Rama colpì il cocchio con un tiro che ne spezzò il giogo; quattro colpi furono mirati ai cavalli, e il sesto s'occupò dell'auriga.
Il demone Khara però non era ancora morto. Privato del suo cocchio, egli saltò giù e con la clava in mano si scagliò contro Rama.
Mentre Khara avanzava con la clava in mano, Rama gli disse: "Tu sei colpevole di un peccato incommensurabile: il peccato di tormentare e uccidere eremiti e asceti innocenti. Anche se fosse il signore dei tre mondi, è giusto che un peccatore di questo tipo sia scansato da tutti. Ora stai per raccogliere il frutto del tuo peccato; poiché in questo mondo i frutti dolorosi del peccato maturano rapidamente, come le conseguenze di avere ingerito del cibo avvelenato. Penso che il vero scopo per cui mio padre mi ha mandato nella foresta è stato per permettermi di sterminare i demoni crudeli e peccatori come te. Presto ti spazzerò via da questo mondo. Presto vedrai quegli stessi asceti che hai torturato e ucciso: essi staranno in cielo, mentre tu sarai precipitato nell'inferno".
Khara rispose in tono, dicendo: "Finora hai ucciso solo demoni di forza comune; perciò pensi d'essere tanto potente! Non vantarti. Gli eroi e i forti non si vantano, ma le azioni che fanno parlano per loro". Detto ciò, Khara scagliò lesto la sua terribile clava contro Rama. Bruciando tutto ciò che incontrava sul suo cammino, la clava s'avvicinò a Rama, che però la intercettò e la distrusse con un missile antimissile.
Rama chiese a Khara: "E questo tutto quello che puoi fare? La clava è stata distrutta. Ora preparati ad andare incontro al tuo destino. Quando sarai messo a dormire per sempre, la foresta Dandaka tornerà ad essere ancora una volta la dimora dei santi che sono il rifugio di tutte le persone del mondo?". Khara rispose: "Credo che avvicinandosi la tua fine, tu non sappia cosa dire e cosa non dire. Durante l'ultima ora di vita, l'uomo perde il potere di discriminare e non sa cosa fare e cosa non fare". Tuttavia Khara era disarmato, poiché la sua clava era stata distrutta da Rama; allora egli si guardò intorno, in cerca di un'arma da usare: sradicò un grosso albero e lo scagliò contro Rama. Ma questi intercettò l'albero con un suo missile. Con una scarica di mille colpi, Rama crivellò il corpo di Khara. Nonostante ciò il demone malvagio non morì, ma s'avvicinò ancora di più a Rama. Rama indietreggiò di due o tre passi, e prese il missile più micidiale che gli aveva dato il saggio Agastya. Colpito da questo, Khara cadde a terra morto.
I saggi cantarono la gloria di Rama: "In un'ora e mezza tu hai distrutto quattordicimila terribili demoni. Meravigliosa è la tua forza". E continuarono: "Fu solo per questo motivo che i saggi Sarabhanga e Sutikshna suggerirono sagacemente che tu vivessi qui. Liberati dalla paura, i saggi riprenderanno a praticare qui le loro austerità". Infine essi benedirono Rama. Felicissima d'essere stata testimone delle sue gesta, Sita abbracciò Rama.
Tra i demoni che erano fuggiti all'inizio, uno (di nome Akampana) andò direttamente a Lanka e informò Ravana.
Pieno di stupore e di collera, Ravana interrogò Akampana: "Chi ha osato fare un gesto tanto folle? Chi è quel pazzo, essere umano o sovrumano, che può permettersi di contrastarmi? Né Indra né Kubera, figlio di Visrava, e neppure lo stesso Signore Vishnu può essere felice dopo avermi contrastato! Io sono la morte per la stessa morte. Persino il vento e il fuoco hanno paura di me. Dimmi invero: chi ha perpetrato questo crimine?".
Tremante, Akampana disse: "Signore, è stato il giovane figlio di re Dasaratha. Rama è così potente che davanti a lui le orde demoniache sono cadute a centinaia e migliaia. I demoni erano talmente atterriti che lo vedevano in qualunque direzione cercassero di fuggire per paura d'affrontarlo! I missili che lanciava s'abbattevano sui demoni come serpenti dalla testa infuocata che sputavano fuoco".
Ravana saltò in piedi dicendo: "Ah, è così? Andrò immediatamente a Janasthana e ucciderò questo Rama".
Akampana continuò: "Non è così facile, Signore. Tu non conosci il potere di Rama. Non puoi vincerlo in battaglia. Egli è capace di squarciare il firmamento e portare giù le stelle, la luna e i pianeti. E può sollevare la terra intera. Non solo, ma può distruggere l'intera creazione e rifare tutto daccapo. Ti dirò io come può essere sopraffatto. Egli ha una bellissima moglie di nome Sita, che eccelle anche gli esseri celesti per la sua bellezza: non esiste alcuna mortale bella come lei. Se con un tranello riuscissi ad allontanare Rama e a rapire Sita, potresti causare la morte di Rama. Perché Rama non vivrebbe senza Sita".
Questo piano piacque a Ravana, che la mattina seguente salì sul suo cocchio e partì per Janasthana; là incontrò il demone Marica, al quale disse: "Amico, mio fratello Khara e tutti i demoni di Janasthana sono stati uccisi da Rama, il figlio di re Dasaratha. Per vendicarmi, ho deciso di rapire Sita e provocare così la morte di Rama. Ho bisogno del tuo aiuto".
Marica tremò al solo pensiero. "O capo dei demoni, chi ti ha dato questo consiglio che mira alla distruzione? Certamente non un amico. Chi ti ha dato questo consiglio e ti ispira a rapire Sita è il tuo peggior nemico: è ovvio che egli vuole che tu prenda i denti velenosi del cobra di cui lui ha paura! Ti prego, lascia perdere Rama e non provocarlo. Lascia stare Sita: goditi la compagnia delle tue mogli, e lascia che Rama si goda la compagnia di sua moglie Sita".
Ravana fece ritorno a Lanka.
Surpanakha aveva assistito alla distruzione totale dei demoni di Janasthana, compresa quella del loro comandante supremo Khara. Scossa dal terrore, si precipitò a Lanka, da suo fratello Ravana - che era il re dell'isola - e lo trovò seduto con i suoi ministri in un palazzo il cui tetto sfiorava il cielo.
Ravana aveva venti braccia e dieci teste, aveva un petto massiccio ed era dotato di tutte le qualità fisiche di un monarca. In passato egli aveva combattuto contro gli dèi, e anche contro il loro capo Indra. Era espertissimo nella scienza della guerra e conosceva l'uso dei missili celesti in battaglia. Era stato colpito dagli dèi, e persino dal disco (l'arma rotante) del Signore Vishnu, ma non era morto. Aveva infatti praticato austerità indicibili per un periodo di diecimila anni, e aveva offerto in oblazione le sue stesse teste al Creatore Brahma, ottenendo da questi il dono che non sarebbe stato ucciso da alcun essere subumano o sovrumano (eccettuato l'uomo). Reso spavaldo da questa invulnerabilità, il demone aveva tormentato gli dèi e soprattutto i saggi.
Surpanakha si presentò a Ravana mostrando palesemente le amputazioni fisiche che le aveva causato Lakshmana, e gridò al fratello davanti all'assemblea: "Ravana, sei diventato tanto rammollito e dedito ai piaceri dei sensi che non sei più degno di essere il re. Il popolo perde ogni rispetto per quel re che si occupa solo dei propri piaceri e trascura i suoi doveri reali. Il popolo s'allontana da quel re che non ha informatori, che ha perso il contatto con il popolo e che il popolo non riesce a vedere, e che è incapace di fare ciò che è buono per la gente. È l'impiego di spie che rende il sovrano 'lungimirante', perché tramite loro egli vede molto lontano. Tu hai sbagliato a non mettere le giuste spie che raccogliessero informazioni per te. Perciò non sai che quattordicimila dei tuoi sudditi sono stati trucidati da un essere umano. Persino Khara e Dushana sono stati uccisi da Rama. E Rama ha assicurato agli asceti di Janasthana - che è un tuo territorio - che d'ora in poi i demoni non faranno loro alcun male. Ora essi sono sotto la sua protezione. Ma nonostante tutto questo, eccoti qua: a gozzovigliare in piccoli piaceri!
"Fratello, anche un pezzo di legno, una zolla di terra o la semplice polvere servono a qualcosa; ma quando un re decade dalla sua posizione diventa totalmente inutile. Invece quel monarca che rimane vigile, e che attraverso le sue spie è a conoscenza di tutto, ed è autocontrollato, pieno di gratitudine e retto nella sua condotta - questi governa a lungo. Svegliati e agisci, prima di perdere la tua sovranità".
Questo indusse Ravana a riflettere.
E quando la sua ira fu destata, Ravana chiese a Surpanakha: "Dimmi, chi ti ha sfigurata in questo modo? Cosa pensi di Rama? Perché è andato nella foresta Dandaka?".
Surpanakha diede una descrizione precisa e pittoresca dell'aspetto fisico di Rama. Ella disse: "Rama è pari in bellezza allo stesso Cupido; e nello stesso tempo è un guerriero formidabile. Quando combatteva contro i demoni di Janasthana, non riuscivo neanche a vedere cosa faceva; vedevo solo i demoni che cadevano morti sul terreno. Tanto per darti un'idea, ti dico che in un'ora e mezza ha ucciso quattordicimila demoni. Ha salvato me forse perché non voleva uccidere una donna. Egli ha un fratello chiamato Lakshmana, che è potente come lui; è il braccio destro di Rama e il suo alter-ego: la stessa forza vitale di Rama che si muove al di fuori del suo corpo.
"Ah, devi vedere Sita, la moglie di Rama. Non ho mai visto neanche una ninfa celeste che le possa esser pari in bellezza. Colui che ce l'ha per moglie e che lei abbraccia amorevolmente, sarà certamente il re degli dèi. Lei sarebbe la moglie adatta a te; e tu saresti davvero il pretendente più adatto a lei. Volevo infatti portarti qui la bellissima Sita, ma Lakshmana è intervenuto e ha mutilato crudelmente il mio corpo. Se tu la guardassi solo per un attimo, t'innamoreresti immediatamente di lei. Se questa proposta t'interessa, fai subito qualcosa e portala qui".
Ravana fu subito tentato, e diede ordine di preparare immediatamente il suo veicolo anfibio. Questo veicolo, riccamente decorato d'oro, poteva muoversi liberamente dovunque volesse il pilota. La sua parte frontale aveva l'aspetto di muli dalle teste diaboliche. Ravana prese posto nel veicolo e si diresse verso il mare.
La costa di Lanka era cosparsa d'eremitaggi abitati sia da saggi che da esseri celesti e semidivini. Inoltre era luogo di villeggiatura di ninfe ed esseri celestiali, che andavano là a fare sport e a divertirsi. Guidando a velocità elevata in mezzo a loro, Ravana attraversò interi campeggi pieni di veicoli spaziali dei celestiali. Attraversò anche dense foreste d'alberi di sandalo, e piantagioni di banane e di palme da cocco. In quelle foreste c'erano anche spezie e piante aromatiche. Lungo la costa si potevano trovare perle e pietre preziose. Poi attraversò delle città che avevano un'aria opulenta.
Ravana attraversò l'oceano nel suo veicolo anfibio e raggiunse l'eremitaggio dove Marica viveva da asceta, sostenendosi con una dieta disciplinata. Marica diede il benvenuto a Ravana e gli chiese la ragione della sua visita.
Ravana disse a Marica: "Tu sai che quattordicimila demoni, incluso mio fratello Khara ed il grande guerriero Trisira, sono stati uccisi senza pietà da Rama e Lakshmana, che hanno ora promesso la loro protezione agli asceti della foresta Dandaka, burlandosi così della nostra autorità. Scacciato dal suo paese dal padre adirato, ovviamente per aver commesso qualche azione deplorevole, questo principe ingiusto e crudele ha ucciso i demoni senza alcuna giustificazione. E i due fratelli hanno osato persino sfigurare la mia amata sorella Surpanakha. Devo fare immediatamente qualcosa per vendicare la morte di mio fratello e per riaffermare il nostro prestigio e la nostra autorità. Ho bisogno del tuo aiuto; ti prego di non rifiutare questa volta.
"Prendendo le sembianze di un cervo dorato di grande bellezza, avvicinati all'eremitaggio di Rama. Sita verrà sicuramente attratta, e chiederà a Rama e a Lakshmana di catturarti. E mentre essi correranno dietro a te, lasciando Sita da sola nell'eremitaggio, riuscirò facilmente a rapirla". Mentre Ravana stava ancora spiegando il suo piano, la bocca di Marica inaridì per la paura.
Trepidante, Marica disse a Ravana: "In questo mondo è facile trovare un consigliere che ti dice ciò che ti piace; ma è assai difficile trovare un saggio consigliere che ti dica la spiacevole verità che è bene per te; e ancora più difficile è trovare uno che segua tale consiglio. Sicuramente il tuo sistema informativo è carente, perciò non hai idea del valore di Rama. Altrimenti non penseresti di rapire Sita. Mi chiedo: forse Sita è venuta al mondo per porre termine alla tua vita, o forse a causa sua dovrà esserci molto dolore, o forse reso folle dalla lussuria tu vuoi distruggere te stesso, i demoni e la stessa Lanka. Oh no, ti sei sbagliato nella stima che hai fatto di Rama. Egli non è malvagio, ma è la giustizia incarnata. Non ha il cuore crudele, ma è generoso fino all'eccesso. Non è stato destituito ed esiliato dal regno, ma è venuto qui dopo aver rinunciato gioiosamente al suo regno per onorare la promessa che suo padre fece a sua madre Kaikeyi.
"O re, quando covi l'idea di rapire Sita, stai scherzando davvero col fuoco. Ti prego di ricordare: quando starai di fronte a Rama, sarai faccia a faccia con la tua morte. Sita è l'amatissima moglie di Rama, il quale è estremamente potente. Abbandona quest'idea pazzesca. Cosa guadagneresti mettendo a repentaglio la tua sovranità sui demoni e la tua stessa vita? Ti prego, prima d'imbarcarti in questi folli progetti, consulta il nobile Vibhishana e i tuoi virtuosi ministri. Sono sicuro che essi ti consiglieranno di non seguirli".
Marica continuò: "Ti voglio raccontare dei miei incontri personali con Rama Molto tempo fa ero giovane ed energico, potente e orgoglioso della mia forza. Avevo assunto la terribile forma di una nuvola enorme. Ero il terrore degli asceti della foresta, perché dissacravo i loro riti sacri. Un giorno il saggio Visvamitra s'apprestava a compiere un rito sacro, e per proteggerlo dalle nostre molestie si recò da re Dasaratha e chiese l'aiuto di Rama perché custodisse l'altare. Dasaratha lo implorò dicendo che Rama era troppo giovane per questo. Però Visvamitra assicurò il re che, benché giovane, Rama era l'unico capace di far fronte ai demoni, e ottenne che Rama l'accompagnasse nel suo eremitaggio.
"Mentre si svolgeva il rito sacro, mi recai come al solito all'eremitaggio. Vedendo fuori il giovane Rama, cercai d'entrare; ma egli mi tirò un missile, dal quale fui scagliato lontanissimo, nell'oceano! Rama era capace di tanto anche quand'era appena un bambino! Come possiamo avere un'idea della sua forza attuale? E come puoi affrontarlo in battaglia? Se deciderai di portare avanti il tuo piano, sicuramente tutti ne soffriremo. In questo mondo la gente soffre anche a causa dei peccati altrui, come soffrono i pesci che vivono in uno stagno infestato di serpenti. È un grande peccato commettere adulterio. Desisti e goditi le tue mogli, o re.
"Ascolta pure del secondo incontro che ho avuto con Rama, più recentemente. Giravo per la foresta con un paio di altri demoni, molestando e uccidendo asceti e bevendo il loro sangue. Nel corso del nostro vagare giungemmo dove viveva Rama in quel tempo. Assunta la forma di un cervo, mi precipitai verso Rama, pensando che vivendo nella foresta come un asceta egli sarebbe stato debole e impotente. Invece egli prese la sua arma e ci tirò un paio di missili. Conoscendo già il frutto della sua ira, mi dileguai ed egli non m'inseguì. Ma gli altri furono uccisi.
"Così salvato miracolosamente per la seconda volta, ho abbandonato la crudeltà e ora vivo qui da asceta, praticando lo yoga e l'autocontrollo. In ogni albero io vedo Rama soltanto, con la sua arma in mano. L'intera foresta mi appare come Rama. Persino le parole che iniziano con la sillaba 'ra' - come ratna, ratha - mi fanno tremare. Egli può uccidere facilmente tutti i tuoi soldati e generali; su questo non devi avere alcun dubbio. Conosco personalmente il suo valore. Se tu ti opporrai a lui, soffriranno anche molte persone innocenti. Di certo Rama sterminerà completamente la razza dei demoni. Se ha ucciso Khara è stata colpa sua, perché ha provocato Rama e ha causato il combattimento. Se non accetterai il mio consiglio, o re, periremo tutti".
Il consiglio di Marica non piacque a Ravana. Egli non l'accettò, come uno che vuole morire si rifiuta di prendere una medicina salutare. Al contrario, egli rimproverò severamente Marica, dicendo: "Il tuo consiglio è mal concepito ed inutile. Tu non m'impedirai di rapire Sita, che a Rama è più cara della vita stessa e senza la quale non potrebbe vivere. Quello che hai detto sarebbe stato appropriato se ti avessi chiesto un consiglio: ma in questo momento io non voglio il tuo consiglio, voglio assoluta obbedienza ai miei ordini. Mi duole, Marica, che tu non sappia come comportarti con il tuo re. Al re ti devi rivolgere con dolcezza dicendo cose non sfavorevoli, ma benefiche, dette umilmente ed educatamente. I re sono come il fuoco, Indra, la luna, Yama (il dio della morte) e Varuna (il dio delle acque). Perciò i re posseggono l'impeto del fuoco, la magnificenza di Indra, la gentilezza della luna, l'imparzialità di Yama e la fluidità dell'acqua. Per questo bisogna comportarsi cautamente con i re. Non ho chiesto il tuo consiglio, ma ti sto chiedendo di fare un lavoro per me. Se lo farai, ti darò metà del regno di Lanka; se rifiuterai, ti ucciderò subito. Ti conviene decidere d'obbedire. Assumi la forma di un cervo dorato e tenta Sita. Dietro sua richiesta, certamente Rama t'inseguirà. Dopo averlo allontanato, grida: "O Sita, o Lakshmana". Udendo ciò anche Lakshmana andrà in cerca di Rama, lasciando Sita da sola. Allora mi sarà facile portarla via. Può darsi che questo metta a repentaglio la tua vita, ma la tua morte è certa se mi disubbidisci".
Malgrado la minaccia, impavidamente Marica consigliò ancora a Ravana: "Chi ti ha dato questo consiglio è un grande peccatore. È dovere dei ministri dare giusti consigli al re: i tuoi ministri hanno fallito in questo e devono essere giustiziati. Quando un re prende una malvagia direttiva, i suoi ministri devono frenarlo: i tuoi ministri non l'hanno fatto. Il ministro che lo fa ottiene la grazia del Signore, e da questa ottiene prosperità e felicità. Se egli non lo fa, e il re persiste nella sua via malvagia, tutti, incluso i ministri, ne soffriranno. I ministri che incoraggiano il re ad indulgere nella violenza e nel male vengono distrutti insieme al re. Infatti tutto ciò che il re fa coinvolge inevitabilmente tutti i suoi sudditi, che ne subiscono ugualmente le conseguenze. Se farò quello che vuoi, di certo Rama mi ucciderà prontamente; e poco dopo ucciderà anche te. In questo caso mi considererò beato, perché andrò incontro alla morte per mano di Rama stesso, che è da preferirsi. Se invece riuscirai a portare Sita a Lanka, stai pur sicuro che sarà la tua fine. Né i demoni né Lanka sopravviveranno".
Ravana era determinato, e Marica sapeva bene che era inutile discutere con lui. Perciò, dopo l'ultimo tentativo d'evitare la catastrofe, Marica rassegnato disse a Ravana: "Cosa posso fare se sei tanto malvagio? Sono pronto a recarmi nell'ashram di Rama. Che Dio ti aiuti!".
Senza badare al rimprovero, Ravana espresse freddamente la sua gioia per il consenso ottenuto. Egli lodò Marica dicendo: "Questo è lo spirito giusto, amico mio: ora sei tornato il vecchio Marica che conoscevo prima. Penso che pochi minuti fa eri posseduto da qualche spirito maligno, e a causa sua avevi cominciato a predicare un vangelo diverso. Presto, montiamo su questo veicolo e raggiungiamo la nostra destinazione. Appena avrai fatto la tua parte, sarai libero d'andartene e di fare quel che più vorrai!".
Quindi Marica e Ravana salirono sul veicolo anfibio, che ora funse da velivolo, e lasciarono rapidamente l'eremitaggio di Marica. Ancora una volta attraversarono foreste, colline, fiumi e città: e presto raggiunsero i dintorni dell'eremitaggio di Rama.
Scesero dal velivolo decorato d'oro. Tenendo Marica per mano, Ravana gli disse: "Laggiù c'è l'eremitaggio di Rama, circondato da piantagioni di banane. Bene, ora vai e comincia a fare il lavoro per cui siamo venuti qui".
Immediatamente Marica si trasformò in un cervo attraente. Era straordinario, totalmente diverso da qualunque altro cervo che abitasse la foresta. Era unico. Risplendente come una gemma enorme. Ogni parte del suo corpo era di colore diverso. I colori avevano uno splendore e un fascino soprannaturale.
Abbellito e decorato dai colori splendenti di tutte le pietre preziose, il cervo - che in realtà era il demone Marica mascherato - cominciò ad andare in giro nei pressi dell'eremitaggio di Rama, brucando l'erba di tanto in tanto.
Ad un tratto s'avvicinò a Sita; poi corse via e si unì agli altri cervi che pascolavano ad una certa distanza. Era molto giocoso, saltellava e si rincorreva la coda roteando.
Sita era uscita a raccogliere dei fiori, quando vide di sfuggita quel cervo straordinario e fuori del comune. Notando il suo sguardo, anche il cervo s'avvicinò a lei, sentendo così vicino il compimento della sua missione. Poi scappò via, fingendosi timoroso.
Sita rimase stupefatta alla sola vista di quel cervo inconsueto di cui non aveva mai visto alcun pari e i cui colori sembravano tanti gioielli.
Dal luogo in cui stava raccogliendo fiori, Sita, piena di meraviglia nel vedere quel cervo straordinario, chiamò forte Rama: "Vieni presto a vedere, Signore; vieni con tuo fratello. Guarda questa creatura straordinaria. Non ho mai visto un cervo così bello".
Rama e Lakshmana guardarono il cervo, e in Lakshmana sorse il sospetto: "Sono diffidente; penso che si tratti del solito demone Marica mascherato. Ho sentito dire che Marica può assumere qualunque forma desideri, e che con questo trucco ha causato la morte e la distruzione di molti asceti in questa foresta. Sicuramente questo non è un vero cervo: non si è mai sentito parlare di un cervo con i colori dell'arcobaleno, con ognuna delle sue parti che brilla dello splendore di una gemma diversa! Già questo dovrebbe farci capire che è un demone, e non un animale".
Sita interruppe il discorso di Lakshmana e disse: "Non importa, una cosa è certa; questo cervo ha accattivato la mia mente. È così caro. Non ho mai visto un tale animale vicino al nostro eremitaggio! Ci sono tanti tipi di cervi che girano intorno all'eremitaggio, ma questo è straordinario e fuori del comune. È superlativo in tutti i sensi: i suoi colori sono meravigliosi, la sua forma è affascinante e anche la sua voce è deliziosa. Sarebbe fantastico se si potesse prenderlo vivo. Potremmo tenerlo come nostro beniamino, per distrarci la mente. Poi potremmo portarlo ad Ayodhya: sono sicura che i tuoi fratelli e le tue madri lo adorerebbero. Se non fosse possibile catturarlo vivo, allora lo si potrebbe uccidere; amerei tanto averne la pelle. Lo so che non mi sto comportando bene con voi due: ma non posso farci niente; ho perso il mio cuore per quel cervo. Sono terribilmente curiosa".
In realtà anche Rama era curioso! Perciò parteggiò per Sita, e disse al fratello: "È bellissimo Lakshmana. È fuori del comune. Non ho mai visto una creatura come questa. I principi vanno a caccia di animali e conservano le loro pelli. Con lo sport e la caccia essi acquistano molte ricchezze! Si dice che la vera ricchezza sia quella che uno persegue senza premeditazione. Perciò cerchiamo di prendere il cervo o la sua pelle. Se, come dici tu, è un demone mascherato, allora sarà mio dovere ucciderlo; come Vatapi, che tormentava e uccideva saggi e asceti, fu giustamente ucciso dal saggio Agastya. Vatapi si fece beffe degli asceti finché non incontrò Agastya. Anche questo Marica si è fatto beffe degli asceti finora: ma oggi è venuto da me! La bellezza stessa del suo manto è la sua morte. E tu Lakshmana, ti prego, custodisci Sita con estrema attenzione, finché non avrò ucciso questo cervo con un colpo solo e non avrò riportato la sua pelle".
Rama si armò e inseguì quello strano cervo, che vistosi cacciato cominciò a scappare lontano. Ora scompariva, ora sembrava molto vicino; ora correva veloce, ora sembrava confuso - in questo modo però condusse Rama molto lontano dall'eremitaggio. Rama era stanco e aveva bisogno di riposare.
Fermatosi sotto un albero, Rama rimase perplesso dal comportamento dello strano cervo; mentre questi s'avvicinò insieme ad altri cervi e cominciò a pascolare non lontano da lui. Quando Rama riprese l'inseguimento, esso scappò lontano. Ma Rama non voleva più andare oltre, né perdere altro tempo, e presa l'arma, la caricò con il missile di Brahma e tirò. Il missile penetrò le sembianze illusorie di cervo e trafisse il cuore stesso del demone.
Marica gridò forte, saltò alto nel cielo e poi cadde a terra morto. Cadendo, però, ricordò le istruzioni di Ravana e, imitando la voce di Rama, gridò ad alta voce: "Ehi Sita! Ehi Lakshmana!".
Rama vide il terribile corpo del demone. Ora sapeva che Lakshmana aveva ragione. Ma ciò che lo sconcertò di più fu il modo in cui il demone aveva gridato prima di morire. Pieno d'apprensione, egli s'affrettò verso l'eremitaggio.
Nell'eremitaggio, Sita e Lakshmana udirono quel grido. Credendo che si trattasse della voce di Rama, Sita fu presa dal panico e disse a Lakshmana: "Presto va', tuo fratello è in pericolo. E io non posso vivere senza di lui. Il mio respiro e il mio cuore sono molto agitati".
Ma ricordando l'ammonimento di Rama di proteggere Sita e non lasciarla mai sola, Lakshmana le disse di non preoccuparsi.
Sita però divenne sospettosa e furiosa, e gli disse: "Ah, adesso capisco la tua trama! Tu hai posto gli occhi su di me e aspettavi che accadesse questo. Quale tremendo nemico di Rama sei tu, che ti fingi suo fratello!".
Addolorato dalle sue parole, Lakshmana rispose: "Nessuno nei tre mondi può sconfiggere Rama, o donna beata! Non era affatto la sua voce. Questi demoni sono capaci di simulare qualsiasi voce. Avendo ucciso quel demone mascherato da cervo, Rama sarà presto qui. Non aver paura!".
Ma la sua calma turbò ancora di più Sita, che esplose letteralmente di rabbia e disse: "Tu sei il peggiore nemico che Rama potesse avere. Lo so che tu ci hai seguiti, fingendoti astutamente fratello e amico di Rama. Ora so che il tuo vero scopo è avere me, oppure sei un complice di Bharata. Ma non riuscirai. Adesso stesso mi toglierò la vita, perché non posso vivere senza Rama".
Profondamente ferito dalle terribili parole di Sita, Lakshmana le disse: "Per me tu sei degna d'adorazione: perciò non posso risponderti. Non c'è da meravigliarsi che le donne si comportino in questo modo: esse infatti sviano facilmente dal Dharma; sono volubili e hanno la lingua tagliente. Non posso sopportare quello che hai appena detto. Perciò andrò. Gli dèi sono testimoni di quanto è successo qui. Possano gli dèi proteggerti. Ma dubito che quando Rama ed io torneremo, ti troveremo qui". E inchinandosi a lei, Lakshmana partì.
Ravana stava aspettando quest'occasione d'oro. Egli prese le sembianze di un asceta. E ricoperto di vestiti color ocra, portando con sé una conchiglia come ciotola per l'acqua, un bastone e un ombrello, egli si avvicinò a Sita che stava ancora in piedi fuori della capanna, aspettando ansiosamente il ritorno di Rama.
La presenza stessa di Ravana in quella foresta faceva presagire una disgrazia. Persino gli alberi e le acque dei fiumi avevano, per così dire, paura di lui. Mascherandosi da uomo santo, Ravana si presentò davanti a Sita: come un pozzo profondo coperto di paglia, una trappola mortale.
Guardando fisso la nobile Sita, che si era ritirata nella capanna con gli occhi grondanti di lacrime, Ravana le si avvicinò; e sebbene il suo cuore fosse colmo di lussuria, egli cantava degli inni vedici. Usando un tono dolce, tenero e affettuoso, Ravana disse a Sita: "Giovane donna! Dimmi, sei tu la dea della fortuna o la dea della modestia, o sei forse la consorte dello stesso Cupido?". Poi Ravana descrisse l'incomparabile bellezza di Sita in termini apertamente immodesti, assolutamente indegni di un anacoreta, di cui aveva assunto la forma. E continuò: "O donna incantevole! Tu mi hai rubato il cuore. Non ho mai visto una donna così bella, né tra gli esseri divini né tra quelli semidivini. La tua forma straordinaria, la tua giovinezza, e il fatto che vivi in questa foresta, tutte queste cose messe insieme turbano la mia mente. Non è giusto che tu debba vivere in questa foresta. Dovresti vivere in una reggia. Nella foresta ci vivono le scimmie, i leoni, le tigri e gli altri animali selvatici. La foresta è l'ambiente naturale dei demoni, che ci si muovono liberamente. Tu vivi da sola in questa foresta spaventosa: non hai paura, amabile donna? Ti prego, dimmi, perché vivi in questa foresta?".
Ravana aveva l'apparenza esteriore di un brahmana. Perciò Sita gli offrì la venerazione e l'ospitalità che era suo dovere offrire a un brahmana. Lo fece accomodare e gli diede dell'acqua per lavarsi i piedi e le mani. Quindi mise del cibo davanti a lui.
Tutto quello che lei faceva aumentava soltanto la lussuria di Ravana e il suo desiderio di rapirla e portarla con sé a Lanka.
Allora Sita rispose alle sue domande. Egli sembrava un brahmana e, se non avesse risposto alle sue domande, avrebbe potuto adirarsi e maledirla. Sita disse: "Sono figlia del nobile re Janaka; il mio nome è Sita. Sono l'amata consorte di Rama. Dopo il nostro matrimonio, Rama ed io abbiamo vissuto nel palazzo di Ayodhya per dodici anni". Quindi gli narrò sinceramente tutto quello che successe prima dell'esilio di Rama nella foresta; e continuò: "Perciò, quando Rama aveva venticinque anni e io diciotto, lasciammo il palazzo reale e cominciammo la vita nella foresta. Ora noi tre viviamo in questa foresta. Mio marito, Rama, tornerà presto portando della selvaggina e vari frutti selvatici. Ora vi prego di dirmi chi siete voi, brahmana, e cosa fate in questa foresta tutto solo".
Ravana non perse tempo e, rivelando la sua vera identità, disse: "Io non sono un brahmana, Sita: io sono Ravana, il signore dei demoni. Il mio stesso nome incute terrore nel cuore degli dèi e degli uomini. Appena t'ho vista, ho perso il mio cuore per te; e non traggo più alcun piacere dalla compagnia delle mie mogli. Vieni con me e sii la mia regina, Sita. Amerai Lanka, la mia capitale, circondata dal mare e situata in cima a un monte. Là vivremo insieme, e ti godrai la vita, e non penserai più nemmeno una volta a questa miserabile vita nella foresta".
Udendo questo, Sita s'infuriò e disse: "Io ho deciso fermamente di seguire Rama, che è pari al dio degli dèi, potente, leggiadro e devoto alla giustizia. O re dei demoni, nutrire un desiderio per me che sono sua moglie equivale a legarsi un macigno intorno al collo e cercare d'attraversare a nuoto l'oceano: si è condannati a morte. Non puoi neanche paragonarti a lui: tu sei come uno sciacallo, mentre lui è il leone; tu sei come un metallo comune, e lui è l'oro".
Ravana però non rinunciò al suo desiderio, anzi ripetè: "Neanche gli dèi osano stare davanti a me, o Sita! Timoroso di me persino Kubera, il dio della prosperità, abbandonò il suo veicolo spaziale e scappò sul Kailash. Se gli dèi, comandati da Indra, hanno solo un presentimento della mia ira, si dileguano. Anche le forze della natura mi obbediscono. Lanka è circondata da mura possenti. Le case sono costruite d'oro, con le porte incastonate di pietre preziose. Dimentica questo Rama, che vive come un asceta, e vieni con me. Lui non ha neppure la forza del mio dito mignolo!". Sita era su tutte le furie: "Certo comportandoti così tu vuoi la distruzione di tutti i demoni. E non potrebbe essere altrimenti, visto che hanno un re tanto indegno, privo di autocontrollo. Potresti sopravvivere dopo aver rapito la moglie di Indra, ma non dopo aver rapito me, la moglie di Rama".
Ravana fece crescere enormemente il suo corpo e disse a Sita: "Tu non ti rendi conto di quanto io sia potente. Posso fare un passo nello spazio e sollevare la terra con le mie braccia; posso bere le acque degli oceani; e posso uccidere la stessa morte. Posso lanciare un missile e far scendere il sole. Guarda le dimensioni del mio corpo".
Mentre egli espandeva la sua forma, Sita volse lo sguardo da lui. Riprendendo la sua forma originaria con dieci teste e venti braccia, Ravana si rivolse nuovamente a Sita: "Non ti piacerebbe diventare famosa nei tre mondi? Sposami dunque, e io ti prometto che non farò nulla per dispiacerti. Togliti dalla mente quel Rama mortale e insignificante".
Ravana non attese una risposta: afferrando Sita per i capelli e sollevandola con le sue braccia, egli lasciò l'eremitaggio. Subito l'aureo veicolo spaziale gli fu davanti, ed egli vi salì insieme a Sita.
Mentre veniva portata via Sita gridò forte: "O Rama". Poi gemette ad alta voce: "O Lakshmana, sempre devoto al tuo fratello maggiore, non sai che Ravana mi sta portando via?". E a Ravana disse: "Vile demone, tu raccoglierai i frutti di quest'azione malvagia, anche se non si manifesteranno immediatamente". Poi disse come tra sé: "Certamente Kaikeyi sarebbe felice oggi". E rivolta agli alberi, al fiume Godavari, alle divinità della foresta, agli animali e agli uccelli, disse: "Vi prego, dite a Rama che sono stata portata via dal malvagio Ravana". Infine vide Jatayu e gridò forte: "Jatayu! Guarda, Ravana mi sta portando via".
Udendo quel grido d'aiuto, Jatayu si svegliò e si precipitò da Ravana dicendo: "Io sono Jatayu, il re degli avvoltoi. Ti supplico Ravana, desisti da questa azione indegna di un re. Anche Rama è un re, e la sua consorte è degna della nostra protezione. Un saggio non deve indulgere in azioni che lo disonorano davanti agli altri. E la moglie di un altro è degna di protezione quanto la propria. Sia gli eruditi che la gente comune spesso emulano l'esempio del re; ma se lo stesso re si rende colpevole d'indegna condotta, cosa sarà del popolo? Se tu persisti nella tua malvagità, anche la prosperità di cui godi ti lascerà presto.
"Perciò t'invito a lasciare andare Sita. Non bisogna accollarsi un peso superiore a quello che si può portare; non bisogna mangiare quello che non si riesce a digerire. Chi mai indulgerà in un'azione che è causa di dolore e che non promuove la giustizia, la fama o la gloria permanente? Io ho sessantamila anni e tu sei giovane. Ti avverto. Se non lasci andare Sita, non riuscirai a portarla via finché io sarò vivo e capace di fermarti! Ti abbatterò insieme al tuo veicolo spaziale".
Non potendo tollerare quest'insulto, Ravana si volse contro Jatayu pieno di collera. Jatayu colpì il velivolo e lo stesso Ravana, il quale a sua volta restituì ferocemente il colpo a Jatayu.
Il combattimento aereo tra Ravana e Jatayu appariva come la collisione tra due montagne alate. Ravana usò tutti i missili convenzionali: i Nalika, i Naraca e i Vikarni. Ma il poderoso uccello se li scrollò di dosso. Jatayu squarciò la calotta del velivolo e ferì lo stesso Ravana.
Con grande veemenza Jatayu strappò l'arma (un cannone) dalle mani di Ravana e la spezzò con i suoi artigli. Ravana prese un'arma ancora più terribile, che lanciò letteralmente una pioggia di missili. Contro di essi Jatayu usò le sue stesse ali come scudi efficaci.
Lanciandosi anche su quest'arma, Jatayu la distrusse con i suoi artigli e lacerò perfino l'armatura di Ravana. Non solo, ma danneggiò anche i propulsori dorati del velivolo spaziale di Ravana, che avevano la forma di demoni; e così danneggiò il mezzo che avrebbe potuto portare il suo occupante dovunque avesse desiderato. Il velivolo prese fuoco. Con il suo potente becco, Jatayu dilaniò il collo del pilota di Ravana.
Poiché il velivolo spaziale era stato messo temporaneamente fuori uso, Ravana saltò fuori, trattenendo ancora Sita col suo braccio poderoso.
Mentre Ravana era ancora sospeso in aria, Jatayu lo sfidò di nuovo: "Essere malvagio, neanche adesso vuoi desistere dal male. Di certo hai deciso di provocare la distruzione dell'intera razza dei demoni. Inconsapevolmente o volontariamente tu stai ingoiando del veleno che certamente ucciderà te e tutta la tua stirpe. Rama e Lakshmana non tollereranno la tua azione peccaminosa: e tu non potrai contrastarli sul campo di battaglia. L'azione indegna che stai commettendo è riprovevole. Ti stai comportando come un ladro, non come un eroe". Jatayu si lanciò su Ravana e gli lacerò il corpo con violenza.
Quindi ci fu un violento scontro frontale tra i due. Ravana colpì Jatayu con un pugno, ma Jatayu riuscì a strappare le braccia del demone. Immediatamente però gliene crebbero altre.
Ravana colpì Jatayu, prendendolo con un calcio. Dopo un po' Ravana sguainò la sua spada e recise le ali di Jatayu. Privato delle sue ali, Jatayu cadde morente.
Vedendo Jatayu a terra, Sita si precipitò da lui piena d'angoscia, come sarebbe accorsa al fianco di un parente intimo. Affranta da un'inconsolabile dolore, Sita cominciò a lamentarsi a gran voce.
Mentre Sita gemeva vicino a Jatayu, Ravana le si avvicinò. Guardandolo con infinito disprezzo, Sita gli disse: "Vedo presagi terribili, Ravana. Sia i sogni che il comportamento e le grida degli animali e degli uccelli sono chiari segni delle cose a venire, ma tu non li noti! Ahimè, ecco Jatayu, il caro amico di mio suocero che sta morendo per me. O Rama, o Lakshmana salvatemi, proteggetemi!".
Ravana l'afferrò di nuovo con la forza e la portò dentro il velivolo, che era stato rimesso in condizioni di volare. Il Creatore, gli dèi e gli esseri celesti che avevano assistito a tutta la scena esclamarono: "Evviva! Il nostro scopo verrà sicuramente raggiunto". Anche i saggi della foresta Dandaka gioirono interiormente al pensiero: "Ora che questo demone malvagio ha toccato Sita, la sua fine e quella di tutti i demoni è vicina". Mentre veniva portata via da Ravana, Sita gridava piangendo: "O Rama, o Lakshmana".
Tenuta stretta in grembo da Ravana, Sita era nella tristezza più assoluta. Il suo volto esprimeva angoscia e dolore. I petali dei fiori caduti dalla sua testa si sparsero un po' sul corpo di Ravana. Lei aveva una bella carnagione dorata, mentre lui era scuro. Seduta sul suo grembo, ella sembrava un fiocco d'oro indosso a un elefante, o come la luna che splende in mezzo ad una nube tenebrosa, o come il bagliore di un fulmine in una densa nuvola nera.
Il veicolo spaziale balenava nel cielo rapido come una meteora. Sulla terra sottostante, gli alberi ondeggiavano come per rassicurare Sita dicendo: "Non temere". Le cascate sembravano lacrime che uscivano dalle montagne, e le persone dicevano tra loro: "Davvero il Dharma non esiste più, visto che Ravana sta portando via Sita".
Ancora una volta Sita rimproverò Ravana: "Dovresti vergognarti di te stesso. Ti vanti del tuo valore; ma mi stai portando via come un ladro! Tu non mi hai vinta in duello, cosa che sarebbe stata considerata eroica. Ora per moltissimo tempo a venire si parlerà della tua ignominia, e il tuo atto ingiusto e deplorevole sarà ricordato dalla gente. Mi stai portando via a tale velocità che nessuno può fare qualcosa per fermarti. Se solo avessi il coraggio di fermarti per qualche attimo, ti ritroveresti morto. Il mio Signore Rama e suo fratello Lakshmana non ti risparmieranno. Lasciami andare, demone! Ma tu non vuoi ascoltare ciò che è bene per te. Proprio come chi è arrivato alla soglia della morte ama solo cose dannose. Rama scoprirà presto dove sono e tu sarai mandato nel mondo dei morti".
Ravana continuò il suo volo, benché di tanto in tanto la paura lo facesse trepidare.
Il veicolo spaziale volò su colline e foreste e s'avvicinò all'oceano. In quel momento Sita vide sul terreno sottostante cinque forti vanara seduti a guardare con curiosità il velivolo. Con un rapido movimento, Sita si tolse i gioielli, li avvolse nello scialle che aveva sulle spalle e gettò il tutto in mezzo ai vanara, nella speranza che se per caso Rama fosse passato di là, essi avrebbero potuto dargli un'indicazione della direzione in cui era stata portata via.
Ravana non s'accorse di nulla e continuò a volare. Ora il velivolo, che si muoveva nello spazio a forte velocità, stava sorvolando l'oceano. Poco dopo Ravana atterrò a Lanka insieme alla prigioniera Sita. Quindi Ravana fece stabilire Sita nei suoi appartamenti privati, affidandola alle cure di alcune delle sue ancelle principali. E disse loro: "Prendetevi grande cura di Sita; che nessun maschio s'avvicini a questi appartamenti senza un mio preciso permesso; fate in modo che Sita possa avere tutto ciò che desidera. Qualsiasi negligenza da parte vostra vorrà dire morte immediata".
Ravana stava tornando nei suoi appartamenti, e camminando pensava cos'altro poteva essere fatto per assicurare il successo del suo piano. Fece chiamare otto dei suoi demoni più feroci e li istruì dicendo: "Andate immediatamente a Janasthana. Prima quel territorio era dominato da mio fratello Khara, ma ora è stato devastato da Rama. Sono furibondo al pensiero che un semplice essere umano abbia potuto uccidere Khara, Dushana e tutte le loro forze. Non importa; distruggerò presto Rama. Tenetelo d'occhio e informatemi dei suoi movimenti. Siete liberi di provocare la sua distruzione". I demoni partirono immediatamente.
Ravana tornò da Sita e l'obbligò a visitare gli appartamenti. Il palazzo era sostenuto da pilastri d'avorio, oro, cristallo e argento, ed era tutto costellato di diamanti. Il pavimento, le pareti, le scale - tutto era fatto d'oro e diamanti.
Poi disse di nuovo a Sita: "In questo palazzo ci sono più di mille demoni sempre pronti ad eseguire i miei ordini. Io pongo ai tuoi piedi i loro servigi e l'intera Lanka. Io offro a te la mia vita. Tu hai per me più valore della mia stessa vita. E ai tuoi ordini saranno pure tutte le gentildonne che ho sposato. Diventa mia moglie. Lanka è circondata da ogni lato da ottocento miglia di oceano. Nessuno vi si può avvicinare, e meno di tutti Rama. Dimentica il debole Rama. Non preoccuparti delle definizioni che le Scritture danno della giustizia: ci sposeremo secondo i riti nuziali dei demoni. La giovinezza vola via presto. Sposiamoci subito e godiamoci la vita".
Ponendo un filo d'erba tra sé e Ravana, Sita disse: "O demone! Rama, il figlio di re Dasaratha, è il mio Signore, l'unico che io adoro. Lui e suo fratello Lakshmana porranno certamente fine alla tua vita. Se essi t'avessero visto mettere le tue mani su di me, t'avrebbero ucciso all'istante, così come hanno mandato Khara al riposo eterno. Forse tu non puoi essere ucciso da demoni e dèi; ma non puoi sfuggire alla morte per mano di Rama e Lakshmana. Il tuo fato è segnato, senza ombra di dubbio. Tu hai già perso la vita, la fortuna, l'anima stessa e i sensi, e a causa delle tue malvagie azioni Lanka è già rimasta vedova. Anche se tu non la senti, la morte sta bussando alla tua porta. O peccatore, in nessuna circostanza potrai mai mettere le tue mani su di me. Puoi legare questo corpo, o puoi distruggerlo: dopotutto non è altro che materia inanimata, e non reputo importante preservarlo, come non considero importante vivere qui... una vita che mi darebbe solo obbrobrio".
Trovandosi impotente, Ravana fece ricorso alle minacce: "T'avverto, Sita. Ti do dodici mesi di tempo per decidere d'accettarmi come tuo marito. Se entro questo lasso di tempo non prenderai questa decisione, i miei cuochi ti faranno a pezzi e ti mangerò a colazione".
Poi, non avendo più altro da dirle, si rivolse alle ancelle che la circondavano e ordinò loro: "Conducete Sita nel boschetto di asoka e tenetela là. Per farla cedere al mio desiderio, usate tutti i metodi di persuasione che conoscete. Sorvegliatela attentamente. Prendetela e piegate la sua volontà come domereste un elefante selvaggio".
Le demonesse portarono via Sita e la confinarono nel boschetto di asoka, al quale esse stesse fecero la guardia giorno e notte. In quel posto Sita non trovava pace nella mente, e sopraffatta dalla paura e dall'angoscia pensava costantemente a Rama e a Lakshmana.
Si dice che in quel periodo Brahma, il Creatore, sentendosi turbato dalla sofferenza di Sita, così parlò a Indra, il capo degli dèi: "Sita è prigioniera nel boschetto di asoka. Languendo per il marito, ella potrebbe togliersi la vita. Va' dunque a rassicurarla, e portale il cibo celeste che la sosterrà finché Rama non giungerà a Lanka".
Allora Indra apparve davanti a Sita. Per dimostrarle la sua identità le mostrò che i suoi piedi non toccavano per terra e le sue palpebre non battevano. Poi le diede il cibo celeste dicendo: "Mangia questo, e non avrai più fame o sete, né sarai mai più presa dalla fatica".
Mentre Indra parlava con Sita, la dea del sonno (Nidra) aveva preso possesso delle demonesse.
Marica, il demone che aveva preso le sembianze di un cervo singolare, era stato ucciso. Ma Rama era rimasto perplesso e ansioso per la maniera in cui era morto, gridando 'O Sita, o Lakshmana'. Rama intuì l'esistenza di un terribile complotto. Perciò s'affrettò a tornare al suo eremitaggio.
Nel frattempo vide molti cattivi presagi, che aggravarono la sua ansietà. E pensò: "Se Lakshmana ha udito quella voce, forse sarà corso ad aiutarmi, lasciando Sita da sola. I demoni vogliono sicuramente fare del male a Sita, e tutto questo potrebbe essere proprio un complotto per raggiungere tale scopo".
Mentre procedeva preoccupato verso l'eremitaggio, egli vide Lakshmana che veniva verso di lui. L'angosciato Rama incontrò il triste Lakshmana; l'afflitto Rama vide l'addolorato Lakshmana
Prendendo Lakshmana per il braccio, Rama gli chiese con tono pressante: "Perché hai lasciato Sita da sola e sei venuto qui? La mia mente è piena d'ansietà e di grande timore. Quando vedo tutti questi cattivi presagi intorno a noi, temo che qualcosa di terribile sia successo a Sita. Sono certo che Sita è stata rapita o uccisa"
Il silenzio di Lakshmana e il suo volto angosciato aumentarono il fuoco dell'ansietà nel cuore di Rama, che continuò a chiedergli: "Sta bene Sita? Dov'è la mia Sita, la vita della mia vita, senza la quale non posso vivere neanche per un'ora? Oh, che cosa le è successo? Ahimè, il desiderio di Kaikeyi oggi è stato esaudito. Se vengo privato di Sita, certamente morirò. Cos'altro potrebbe volere Kaikeyi? Come potrò sopravvivere, se entrando nell'eremitaggio non troverò Sita viva?
"Dimmi, Lakshmana. Parla. Certamente quando quel demone ha gridato 'O Lakshmana' con la mia voce, avrai temuto che mi fosse successo qualcosa. Sicuramente anche Sita avrà udito quel grido e, in uno stato di grande agonia mentale, ti avrà mandato da me. È doloroso che Sita sia stata lasciata sola. Immensamente angustiati dall'uccisione del demone Khara, tutti i demoni non aspettavano altro che l'opportunità di vendicarsi, e oggi l'hanno avuta. Sono sicuro che approfittando della nostra assenza hanno fatto molto male a Sita. Che posso fare adesso? Come posso affrontare questa terribile disgrazia?".
Ancora Lakshmana non riusciva a pronunciare una parola su quanto era accaduto. Infine i due fratelli arrivarono vicino all'eremitaggio. Tutto ciò che vedevano faceva riaffiorare in loro il pensiero di Sita.
Prima d'arrivare all'eremitaggio, pieno d'apprensione per Sita, Rama disse ancora una volta a Lakshmana: "Non dovevi venire via, lasciando Sita da sola nell'eremitaggio. Io l'avevo affidata alla tua protezione".
E siccome Rama continuava a ripeterlo tante volte, Lakshmana rispose: "Non sono venuto da te, lasciando Sita da sola, semplicemente perché ho udito il demone Marica gridare 'O Lakshmana, o Sita' imitando la tua voce; ma sono venuto solo perché sono stato letteralmente spinto da Sita a farlo. Quando udì quel grido, fu presa subito dall'angoscia e mi chiese di correre ad aiutarti. Io cercai di calmarla dicendole: "Non è la voce di Rama! È impensabile che Rama, che è all'altezza di proteggere persino gli dèi, pronunci la parola 'salvatemi'". Ma ella interpretò male il mio atteggiamento, e disse qualcosa di molto crudele, qualcosa di molto strano, qualcosa che odio perfino ripetere. Disse: "O tu sei un agente di Bharata oppure hai intenzioni indegne verso di me, e perciò sei felice che Rama sia in pericolo e non corri ad aiutarlo". Solo allora fui costretto a partire".
Nella sua ansia per Sita, Rama non prestò attenzione alla spiegazione di Lakshmana, e disse al fratello: "Sviato dalle parole di una donna adirata, tu non hai eseguito i miei ordini; non sono molto contento di quello che hai fatto".
Rama si precipitò nell'eremitaggio, ma non vi trovò alcuna traccia di Sita. Confuso e disperato oltremisura, mentre continuava a cercare Sita, Rama si ripeteva: "Dov'è Sita? Ahimè, forse è stata divorata dai demoni, o forse è stata portata via da qualcuno, o forse si è nascosta da qualche parte, o forse è andata nella foresta". Ma le loro ricerche non diedero frutto. La sua angoscia superò ogni limite. Non trovandola, Rama fu completamente sopraffatto dal dolore e cominciò a comportarsi come un pazzo.
Incapace di controllarsi, egli chiese agli alberi, agli uccelli e agli animali della foresta: "Dov'è la mia Sita?". Gli occhi dei cervi, le proboscidi degli elefanti, i rami degli alberi, i fiori - tutto lo faceva pensare a Sita. "Di certo voi sapete dov'è la mia amata Sita. Sicuramente avete un suo messaggio per me. Non me lo direste? Non alleviereste il dolore del mio cuore?". Così gemeva Rama. A volte gli sembrava di vedere Sita in lontananza e, avvicinandosi a 'lei', diceva: "Mia amata, non scappare. Perché ti nascondi dietro quegli alberi? Non vuoi parlarmi?". Poi diceva tra sé: "No, non era Sita. Ah, è stata divorata dai demoni. L'ho lasciata sola nell'eremitaggio per farla mangiare dai demoni?". Lamentandosi così, in preda al dolore, Rama passò un po' di tempo vagando e correndo in giro.
Rama tornò nuovamente all'eremitaggio e, vedendolo vuoto, diede ancora sfogo al suo dolore. Egli chiese a Lakshmana: "Dov'è andata la mia amata Sita? O forse è stata davvero portata via da qualcuno?". Di nuovo, immaginando che fosse tutto un gioco e uno scherzo preparato da Sita, diceva: "Basta giocare, Sita! Vieni fuori. Vedi, anche i cervi sono tristi perché non ti vedono".
Poi, volgendosi ancora a Lakshmana, diceva: "Io non posso vivere senza la mia Sita. Presto mi riunirò a mio padre nell'altro mondo. Ma egli potrebbe adirarsi con me e dirmi: "Ti ho detto di vivere nella foresta per quattordici anni; come mai sei venuto qui prima?". Ah Sita, non abbandonarmi".
Lakshmana cercava di consolarlo: "Non angosciarti. Tu sai che Sita ama la foresta e le grotte sulla montagna. Dev'essere andata là. Cerchiamola nella foresta. Questa è la cosa giusta da fare, non dolerti".
Queste coraggiose parole allontanarono per un momento la tristezza da Rama. Pieno di zelo ed impazienza, Rama cominciò a setacciare la foresta insieme a Lakshmana. Poi Rama piombò di nuovo nello scoraggiamento: "È strano, Lakshmana, non riesco a trovare Sita da nessuna parte". Ma Lakshmana continuò a consolarlo: "Non temere, fratello; ritroverai presto la nobile Sita".
Ma stavolta le sue parole ebbero meno significato per Rama. Sopraffatto dal dolore, egli prese a lamentarsi: "Dove troveremo Sita, e quando? L'abbiamo cercata dappertutto nella foresta e sulle colline, ma non l'abbiamo trovata". Gemendo in tal modo, afflitto dal dolore, con il cuore e l'intelletto sconvolti dalla perdita di Sita, Rama spesso sospirava angosciato, mormorando: "Ah, mia amata".
Ad un tratto credette d'averla vista, mentre si nascondeva dietro dei banani, e poi dietro degli alberi di karnikara. E rivolgendosi a 'lei' disse: "Mia amata, ti ho vista dietro i banani! Ah, ora ti vedo nascosta dietro l'albero di karnikara. Mia cara, basta, basta con questo gioco; il tuo scherzo aumenta la mia angoscia. Lo so che questo gioco ti piace; ma ti prego, adesso smetti e vieni da me".
Quando Rama si rese conto che era solo una sua allucinazione, si rivolse di nuovo a Lakshmana lamentandosi: "Ora sono certo che qualche demone ha ucciso la mia amata Sita. Come posso tornare ad Ayodhya senza Sita? Come posso presentarmi davanti a Janaka, suo padre? Oh, no! Lakshmana, anche il paradiso è inutile senza Sita. Io continuerò a vivere nella foresta; tu puoi tornare ad Ayodhya. E puoi dire a Bharata che egli deve continuare a governare il paese".

[NOTA: L'espressione di dolore di Rama è vivida, altamente poetica e piena di sringara-rasa (amore). Ma non sono riuscito a rendergli giustizia; e questo vale anche per le descrizioni delle stagioni in questa sezione.]

Rama era inconsolabile, e la sua angoscia contagiò persino il prode Lakshmana. Piangendo profusamente, Rama continuò a parlare a Lakshmana, che a questo punto era stato preso anche lui dal dolore: "Nessuno in tutto il mondo è colpevole di tanti errori quanto lo sono io. Ed è per questo, caro Lakshmana, che subisco un dispiacere dopo l'altro, un dolore dopo l'altro, che mi spezzano il cuore e mi rendono demente. Persi il mio regno, e fui strappato via da parenti e amici. E dopo essermi rassegnato alla sfortuna, persi mio padre e fui separato da mia madre. Venendo in questo eremitaggio, mi stavo rassegnando per l'ennesima volta alla sfortuna; ma non potevo restare in pace a lungo. Ora sono stato visitato da questa terribile disgrazia, la peggiore di tutte.
"Ahimè, quanto amaramente avrà pianto Sita mentre veniva trascinata via da qualche demone. Forse è stata ferita; forse il suo amabile corpo è stato ricoperto di sangue. Perché mai, mentre lei pativa tutte quelle sofferenze, il mio corpo non è esploso in mille pezzi? Ho paura che il demone abbia squarciato la sua gola e bevuto il suo sangue. Quali atrocità deve aver sofferto mentre veniva trascinata dai demoni.
"Lakshmana, questo fiume Godavari era il suo luogo preferito. Ricordi com'era solita venire qui, e sedendo su questa lastra di pietra ci parlava e rideva? Forse era venuta al fiume Godavari a raccogliere dei fiori di loto? Ma no! Non sarebbe mai venuta in questi posti da sola.
"O sole! Tu sai quello che la gente fa e quello che non fa. Tu sai cos'è vero e cos'è falso. Tu sei testimone di tutto. Ti prego, dimmi, dov'è andata la mia amata Sita. Perché con questo dolore sono stato privato di tutto. O vento! Tu sai tutto quello che succede nel mondo, perché sei dappertutto. Ti prego, dimmi, in quale direzione è andata Sita?".
Poi Rama disse a Lakshmana: "Guarda se Sita è da qualche parte vicino al fiume". Dopo avere cercato, Lakshmana tornò e riferì di non averla trovata.
Rama stesso andò dal fiume e gli chiese: "O Godavari, ti prego, dimmi: dov'è andata la mia amata Sita?". Ma il fiume non rispose. Era come se, temendo l'ira di Ravana, il Godavari mantenesse il silenzio.
Rama era scoraggiato. Chiese ai cervi e agli altri animali della foresta: "Dov'è Sita? Vi prego, ditemi in quale direzione è stata portata via".
Allora egli osservò che tutti i cervi e gli altri animali si volsero verso sud, e alcuni di loro andarono perfino verso sud. Quindi Rama disse a Lakshmana: "Guarda, indicano tutti che Sita è stata portata via in direzione sud".
Anche Lakshmana interpretò il comportamento degli animali come un segno sicuro che Sita era stata portata via in direzione sud, e suggerì a Rama che anche loro dovevano procedere in quella direzione.
Mentre andavano videro dei petali di fiori caduti a terra. Rama li riconobbe e disse a Lakshmana: "Guarda! Questi petali appartengono a dei fiori che avevo dato a Sita. Di sicuro, nel loro zelo d'aiutarmi, il sole, il vento e la terra hanno fatto in modo di mantenere freschi questi fiori".
Continuarono a camminare, e Rama vide delle orme sul terreno: due le riconobbe immediatamente come quelle di Sita. Le altre due erano grandi - ovviamente erano le orme di un demone. Vari pezzetti d'oro erano disseminati per terra. Ma ecco, Rama vide anche del sangue che, egli concluse, doveva essere il sangue di Sita. Di nuovo gemette: "Ahimè, qui il demone ha ucciso Sita per mangiarne la carne". Vide anche i segni di una lotta, e disse: "Forse c'erano due demoni, che hanno lottato per impadronirsi della carne di Sita".
Poi Rama vide sul terreno i resti di un'arma spezzata e di un'armatura d'oro, una calotta rotta, ed anche i propulsori e altre parti di un velivolo. Vide inoltre qualcuno che giaceva morto e che aveva l'aspetto del pilota del velivolo. Da tutte queste cose concluse che due demoni avessero combattuto per appropriarsi della carne di Sita, prima che uno riuscisse a portarla via.
Rama disse a Lakshmana: "Ora i demoni hanno suscitato la mia ira e si sono guadagnati il mio odio inestinguibile. Li distruggerò tutti. Anzi, distruggerò tutte le potenze che rifiuteranno di restituirmi Sita. Guarda l'ironia del fato, Lakshmana: noi aderiamo al Dharma, ma il Dharma non ha potuto proteggere Sita, che è stata rapita in questa foresta! Se le potenze che governano l'universo hanno assistito alla malvagità con cui Sita è stata divorata dai demoni, senza far nulla per arrestarla, chi mai farà ciò che per noi è piacevole? Penso che la nostra mitezza venga scambiata per debolezza. Noi siamo dotati d'autocontrollo e compassione, e siamo devoti al benessere di tutti gli esseri: eppure queste virtù sono ora diventate come dei vizi per noi. Adesso metterò da parte tutte queste virtù e l'universo vedrà la mia gloria suprema che causerà la distruzione di tutte le creature, inclusi i demoni. Se Sita non mi viene riportata immediatamente, distruggerò i tre mondi; gli dèi, i demoni e le altre creature periranno, perché diventeranno bersagli dei miei missili più potenti. Quando, pieno di collera, prendo in mano la mia arma, nessuno può affrontarmi, o Lakshmana, nello stesso modo in cui nessuno può sfuggire alla vecchiaia e alla morte".
Vedendo l'umore distruttivo di Rama, Lakshmana cercò di consolarlo dicendogli:
"Ti prego, Rama, non andare contro la tua natura. La bellezza nella luna, lo splendore nel sole, il moto nell'aria e la resistenza nella terra: queste cose fanno parte della loro natura essenziale. Ma tutte queste cose si trovano in te, e in più la gloria eterna. La tua natura non può abbandonarti; come neanche il sole, la luna e la terra possono abbandonare la loro natura! Inoltre, come re, non puoi punire tutte le creature per il peccato di una sola persona.
"I sovrani miti e pacifici danno al crimine la giusta punizione. Ma soprattutto tu sei il rifugio e la mèta di tutti gli esseri. Senza dubbio io troverò il vero criminale che ha rapito Sita, scoprirò di chi sono quest'armatura e queste armi; e tu darai la giusta punizione al colpevole. Oh no, nessun dio ti farebbe un dispiacere, o Rama; né questi alberi, queste montagne e questi fiumi. Sono sicuro che essi ci aiuteranno con zelo nella nostra ricerca di Sita. Certo, se non riuscissimo a riavere Sita con mezzi pacifici, allora prenderemo in considerazione altri mezzi.
"O Rama, chi non viene visitato dalla sventura in questo mondo? Però la sventura lascia l'uomo con la stessa rapidità con la quale lo ha visitato. Perciò, ti prego, riacquista la calma. Se tu che sei dotato d'intelligenza divina mostri mancanza di sopportazione di fronte a questa disgrazia, che cosa dovrebbero fare gli altri in simili circostanze?
"Re Nahusha, che era potente quanto Indra, fu colpito dalla sventura. Il saggio Vasishtha, il nostro precettore, ebbe cento figli e li perse tutti in un giorno! La terra è sconvolta da eruzioni vulcaniche e terremoti, il sole e la luna sono oscurati dalle eclissi, la sventura colpisce i grandi uomini e anche gli dèi.
"Giacché in questo mondo la gente compie azioni i cui risultati non sono manifesti; e le azioni, che possono essere buone o cattive, portano i loro frutti. Naturalmente questi frutti sono evanescenti. Le persone dotate d'intelligenza illuminata sanno ciò che è buono e ciò che non è buono; le persone come te non s'addolorano di fronte alle sventure, né si fanno ingannare da esse.
"Perché ti sto dicendo tutto questo, Rama? Chi è più saggio di te in questo mondo? Però ti sto dicendo queste cose perché, com'è naturale, il dolore sembra aver velato la tua saggezza. Queste cose le ho imparate da te: adesso sto solo ripetendo ciò che tu stesso mi hai insegnato prima. Perciò, Rama, conosci il tuo nemico e combattilo".
Allora Rama chiese a Lakshmana: "Dimmi, che cosa dobbiamo fare adesso?". E Lakshmana rispose: "Di sicuro dobbiamo cercare Sita in questa foresta".
Questo consiglio piacque a Rama, che fissò immediatamente la baionetta alla sua arma e con un'espressione di collera sul volto partì per andare in cerca di Sita. Subito dopo, a poca distanza, Rama e Lakshmana s'imbatterono in Jatayu, che era rimasto mortalmente ferito e sanguinava profusamente.
Vedendo quell'enorme avvoltoio allungato per terra, il primo pensiero di Rama fu: "Sicuramente questi è colui che ha divorato Sita". E gli corse incontro con la baionetta in canna.
Vedendo Rama che gli si scagliava contro, e intuendo il suo stato, Jatayu disse con flebile voce: "Sita è stata portata via da Ravana. Io ho cercato di oppormi, combattendo contro il potente Ravana. Ho rotto la sua armatura, la calotta, i propulsori e altre parti del suo veicolo spaziale. Ho ucciso il suo pilota e ho anche ferito lui stesso, ma egli mi ha reciso le ali e mi ha abbattuto".
Udendo che l'avvoltoio aveva notizie di Sita, Rama gettò le sue armi, gli si inginocchiò accanto e l'abbracciò.
Rama disse a Lakshmana: "Un'altra calamità da sopportare. Non c'è dunque fine alla mia sventura? La mia sfortuna s'abbatte anche su questa nobile creatura, amica dei miei padri". Rama chiese a Jatayu altre informazioni su Sita e Ravana.
Jatayu rispose: "Portando Sita con sé, il demone è volato via con il suo velivolo, lasciandosi dietro una nube e una tempesta misteriosa. Io sono rimasto mortalmente ferito. Ah, i miei sensi si offuscano... mi sento venir meno, Rama. Ma ti assicuro che ritroverai Sita". Presto Jatayu fu senza vita, anzi senza corpo, perché la sua anima ascese in cielo.
Preso nuovamente dall'angoscia, Rama disse a Lakshmana: "Jatayu è vissuto molto a lungo, eppure oggi ha dovuto lasciare il corpo; nessuno in questo mondo può sfuggire alla morte. Quale nobile fine! Quale grande servigio mi ha reso questo nobile avvoltoio! Le anime pie e nobili si trovano anche tra le creature subumane. Oggi ho dimenticato tutte le mie sventure precedenti: sono così addolorato per la perdita di questo caro amico che ha sacrificato la sua vita per amor mio! Lo cremerò io stesso, perché possa raggiungere i reami più sublimi".
Rama in persona celebrò i riti funebri, declamando quei mantra vedici che si recitano in occasione della cremazione dei propri parenti stretti. Subito dopo, Rama e Lakshmana continuarono il loro viaggio in cerca di Sita.

[NOTA: La descrizione del coltello fissato 'all'arco' indica abbastanza chiaramente qualcosa di simile alla baionetta.]

Procedendo verso sud-ovest, Rama e Lakshmana raggiunsero una densa e profonda foresta vergine chiamata Kraunca. Quindi proseguirono verso est e uscirono da quella foresta. Lungo il cammino attraversarono l'eremitaggio del saggio Matanga. La foresta intorno all'eremitaggio era ancora più terribile di quelle attraversate prima.
In questa foresta essi videro una grande caverna che non aveva mai visto la luce del sole o della luna; e là vicino videro una demonessa che aveva un orribile aspetto: aveva l'addome vistosamente sporgente, i denti aguzzi e la pelle dura, ed era intenta a divorare animali selvatici. Quando li vide arrivare, saltò rapidamente addosso a Lakshmana e cominciò a trascinarlo dicendo: "Vieni, divertiamoci. Io sono Ayomukhi. Ti amo, e sono sicura che ti rendi conto che sono degna di te. Con me potrai dominare incontrastato tutta questa foresta e goderti la vita". Ma con sveltezza e maestria egli le fece quello che aveva già fatto a Surpanakha.
I due fratelli andarono avanti e arrivarono in una foresta ancora più densa nella quale era difficile entrare. Intuendo il pericolo, Lakshmana disse a Rama: "Tieni pronta la tua arma, Rama: vedo molti cattivi presagi, benché ce ne sia anche uno buono che presagisce il nostro successo". Mentre diceva questo, davanti a loro ci fu un grande clamore, e presto videro un demone dall'aspetto terribile e insolito.
Il demone aveva un torace possente e un corpo enorme, ma non aveva né testa né collo; aveva la bocca nell'addome, e parlava come il tuono. Aveva un solo occhio sulla fronte, che era nel torace. Era dotato di lunghe braccia con le quali catturava le sue prede! Il suo nome era Kabandha. Ora egli bloccava la via di Rama e Lakshmana. Quando essi si avvicinarono, egli li afferrò, nonostante cercassero di tornare indietro.
Stretti nella ferrea morsa di Kabandha, i due fratelli erano impotenti. Rama affrontò coraggiosamente la terribile prova; mentre Lakshmana fu preso dallo sconforto, e disse al fratello: "Per me è finita, Rama. Che la mia vita sia offerta in sacrificio a questo demone; ti prego, liberati dalla sua morsa e continua a cercare Sita. E poi, riguadagnando il tuo regno, possa tu governare per sempre".
Stavolta toccò a Rama consolare il fratello e ridargli la fiducia in se stesso. Kabandha disse loro: "Ero molto affamato. Mi siete capitati tra le mani proprio per appagare la mia fame".
Rama fu preso nuovamente dall'angoscia e disse: "Certo il Tempo e la Morte non risparmiano nessuno; prima che usciamo da una tragedia, siamo sopraffatti da un'altra".
Kabandha chiese loro: "Vi prego di dirmi chi siete, voi che siete arrivati al momento giusto per appagare la mia fame". Ma invece di rispondergli, Lakshmana disse a Rama: "Ovviamente la forza di questo demone sta nelle sue braccia. Tagliamogliele subito. È disarmato, e quindi non è giusto che lo uccidiamo".
Kabandha fu infastidito dalla conversazione tra Rama e Lakshmana, perciò s'apprestò a divorarli senza perdere altro tempo. Mentre li stava avvicinando alla sua bocca, Rama e Lakshmana, che sapevano cosa fare, e dove e quando farlo, tagliarono rapidamente le braccia del demone con le loro spade. Il demone cadde a terra con un urlo possente Poi guardò di nuovo i principi e domandò: "Chi siete?". Lakshmana gli disse chi erano e che cosa li aveva portati nella foresta; quindi chiese a sua volta al demone: "E tu chi sei?".
Kabandha narrò la sua storia con queste parole: "Nella mia vita precedente possedevo una forma radiosa e gigantesca che rivaleggiava con il sole e la luna. Ero molto potente; ed ebbro di potere, assalivo i saggi e anche gli dèi.
"Propiziai il Creatore Brahma e ottenni da lui il dono di una vita lunghissima. Inebriato da questo dono, attaccai briga con Indra, il re degli dèi. Ma servendosi della sua potente arma - il fulmine - Indra mi colpì privandomi delle gambe, della testa e della bocca, che furono tutte spinte nel mio torace. Quando l'implorai di uccidermi, piuttosto che lasciarmi in quello stato, egli rispose che non voleva andare contro il dono concessomi dal Creatore. E quando lo supplicai: "Come posso procurarmi il cibo, con questa forma?", Indra mi concesse queste braccia eccezionalmente lunghe.
"Con questa forma una volta attaccai il saggio Sthulasira, che poi mi maledì: "Continua a rimanere in questa forma". L'implorai di modificare la sua maledizione, affinché potesse aver fine questa mia terribile condizione. Allora egli mi benedì: "Quando Rama e Lakshmana passeranno di qui e ti taglieranno le braccia, sarai liberato da questa forma". Per il fatto stesso che mi avete tagliato le braccia, io so che voi siete Rama e Lakshmana. Vi prego, eseguite la mia cremazione. Dopo sarò in grado di aiutarvi in qualunque modo vorrete".
Rama pensò immediatamente a Sita! E chiese dunque a Kabandha: "Ti prego, dimmi dov'è Sita. Mi è stato detto che è stata rapita da Ravana, ma io non so chi sia costui, qual è il suo aspetto e dove si trova. Ti prego di dirmi tutto questo". Il demone però ripeté: "Non ho il potere di conoscere le risposte alle tue domande. Prima di essere cremato da te, non posso sapere le risposte alle tue domande su Sita".
Aiutato da Lakshmana, Rama cremò personalmente il demone Kabandha. Mentre il fuoco ardeva, il corpo sgraziato di Kabandha sembrò dissolversi tra le fiamme. E da quel fuoco emerse un essere radioso coperto di candidi indumenti e adorno di gioielli. Sospeso nello spazio con il suo corpo etereo, quest'essere divino disse a Rama:
"Adesso ti rivelerò in che modo ritroverai certamente Sita. In questo mondo, quando si è di fronte ad una calamità, vi sono sei modi di superarla: e uno di essi consiste nel coltivare l'amicizia di qualcuno che si trova nella stessa situazione. Senza un tale amico, Rama, non riuscirai nell'impresa di ritrovare Sita. Io ti dirò come e dove trovare quest'amico.
"C'è un vanara chiamato Sugriva, il cui fratello - Vali - lo ha scacciato dal regno. Sugriva ti aiuterà nella tua impresa. Nello stesso tempo egli potrà essere aiutato nel suo desiderio di riottenere il regno perduto. Così vi sarete d'aiuto l'uno all'altro. Ma anche se tu non potessi aiutarlo, egli ti aiuterà certamente nella tua impresa. Sugriva vive sul monte Rshyamuka: è molto intelligente e conosce tutto di questo mondo; possiede grande cultura ed è fedele alla parola data. Sotto di sé ha un gran numero di vanara, con il cui aiuto Sita potrà essere facilmente ritrovata. Se necessario, egli manderà le truppe vanara ad invadere Lanka, e dopo avere sconfitto i demoni ti riporterà Sita".
Poi il trasformato Kabandha descrisse nei dettagli la strada per raggiungere il monte Rshyamuka: "Procedendo verso occidente, da un monte all'altro, da una foresta all'altra, raggiungerai il lago Pampa, le cui acque sono limpide e senza alghe. Nel lago troverai bellissimi cigni e pesci. Darai loro da mangiare e berrai le acque del lago. E poi incontrerai i vanara, che vanno anch'essi al lago.
"Anticamente il saggio Matanga viveva in quella regione. I suoi discepoli lo servivano portandogli il cibo dalla foresta. Le gocce di sudore che cadevano dal loro corpo irrigavano le piante della foresta; per questo i fiori là non appassiscono né muoiono. Il saggio non c'è più, e anche i suoi discepoli hanno lasciato il corpo. Ma un'anziana discepola del saggio è ancora viva. Il suo nome è Sabari: e sta aspettando con ansia la tua visita, dopodiché ascenderà in cielo. Quella foresta è chiamata Matangavana: a est della foresta c'è il monte Rshyamuka, molto scosceso e molto difficile da scalare. Ma all'eroe che riesce a scalarlo, esso riserva un compenso particolare: i suoi sogni si avverano. Rama, quando raggiungerai quel monte, scorderai sicuramente il tuo dolore. Sugriva dimora in una grotta su un versante della montagna".
Rama e Lakshmana seguirono le indicazioni di Kabandha, e raggiunsero la sponda occidentale del lago Pampa. Là videro l'incantevole eremitaggio dell'ascetica Sabari.
Non appena Sabari li vide, li accolse con grande rispetto e devozione, si prostrò ai loro piedi e adorò Rama. Rama le chiese come stava e se era riuscita a conquistare tutti gli ostacoli lungo il sentiero spirituale. Le chiese anche qual era il risultato delle sue pratiche spirituali e se godeva della pace suprema.
Colma di sublime devozione, Sabari gli rispose: "Adesso ho raggiunto la perfezione delle mie austerità, perché ho potuto vedere te! Oggi la mia nascita ha dato il suo frutto, e l'adorazione che ho offerto ai miei precettori ha assunto significato. Ora che ho visto te, Rama, posso anche ascendere in cielo. I miei occhi ti hanno visto. Il mio cuore è stato purificato; e con la tua grazia potrò ascendere ai mondi della vita eterna".
E continuò: "Quando tu eri appena giunto a Citrakuta, gli altri discepoli del saggio Matanga ascesero in cielo. Ma prima mi dissero: "Presto Rama e Lakshmana verranno qui: rimani nell'ashram fino ad allora e adorali! Dopo potrai raggiungerci". O Rama, ti offro i frutti migliori di questa foresta. Ti prego di accettarli e di benedirmi".
Dopo avere accettato la sua ospitalità, Rama le chiese di mostrargli tutte le cose associate con il saggio Matanga e i suoi discepoli. Allora Sabari mostrò loro la foresta che prendeva il nome da Matanga; il posto dove essi avevano praticato le austerità e dove avevano lasciato il corpo; l'altare usato per i rituali; la confluenza dei sette oceani; le vesti di corteccia che essi avevano lasciato (e che si erano preservate intatte) e i fiori che restavano sempre freschi.
Dopo aver mostrato loro tutto quanto, Sabari offrì il suo corpo al fuoco sacro e, abbandonando il corpo fisico, assunse un risplendente corpo astrale e ascese in cielo.
Poi Rama disse a Lakshmana: "Abbiamo visto il sacro eremo pieno di meraviglie di questi saggi; abbiamo visto gli animali felici che vivono liberamente in questo posto; abbiamo visto i sette mari, e abbiamo anche offerto libagioni per i nostri antenati. Sento che tutte le nostre cattive azioni passate sono state espiate e che la nostra cattiva sorte è giunta al termine".
Lasciando l'eremitaggio di Sabari, andarono verso il monte Rshyamuka, dopo essere passati vicino al lago Matangasara, sussidiario del Pampa, pieno di alligatori e tartarughe e che, con i suoi loti e ninfee dai molti colori, aveva l'aspetto di un bellissimo tappeto.
Raggiunta la montagna, Rama disse a Lakshmana: "Ti prego, va' a cercare Sugriva".

FINE DELL'ARANYA KANDAM

 

 

 

 


Libro quarto: KISHKINDHA KANDAM - il soggiorno a Kishkindha

La primavera era nell'aria. La vita risorgeva dalla terra. Era il tempo in cui si manifestano nuove cose: nuova crescita, nuova nascita. L'amore era nell'aria. L'amore afferrava i cuori di tutti gli esseri.
La primavera penetrava in Rama passando attraverso le vie dei suoi sensi. Tutto ciò che vedeva, tutto ciò che udiva, tutto ciò che odorava, tutto ciò che toccava gli ricordava l'amata Sita. E il ricordo di Sita rinnovava il suo dolore, facendolo lamentare per la sua perdita:
"O Lakshmana, ammira questo meraviglioso lago Pampa; guarda come splende, simile a una gemma immensa. E guarda questi alberi ricoperti di fiori: tanto piacevoli agli occhi, essi agitano la mia mente e rinnovano il mio dolore.
"Penso alla vita ascetica che Bharata sta facendo ad Ayodhya per causa mia, e penso a Sita. Tutta la terra è ricoperta da un tappeto di bellissimi fiori multicolori. Gli alberi sono pieni dei loro fiori e dei fiori dei rampicanti che li avvinghiano.
"Guarda qui, Lakshmana, questi alberi di Karnikara non sembrano più alberi. Con i fiori colorati che indossano mi fanno pensare a dei nobiluomini vestiti di giallo e riccamente adorni. Però, malgrado tutto questo, nel mio cuore c'è un peso. La primavera, che ha portato gioia e voglia di cantare agli uccelli e a tutti gli altri animali, non fa altro che intensificare il mio dolore, perché sono stato separato dalla mia cara Sita. E Cupido, che porta amore e piacere a tutte le creature, aggrava solo il mio dolore.
"Quando questi uccelli e animali cinguettavano e facevano vari versi, Sita ne rimaneva deliziata, e veniva a cercare la mia compagnia per condividere la sua gioia. Vedi, Lakshmana, come le api e anche le femmine degli uccelli, quando si uniscono ai loro compagni, emettono suoni deliziosi che esprimono la loro gioia. Tutte queste cose, che mi entrano attraverso le percezioni dei sensi, risvegliano in me l'amore.
"Ho paura, Lakshmana, che la stagione estremamente piacevole della primavera mi consumi dal dolore, perché sono stato privato della compagnia di Sita. La primavera che è qui, e la separazione da Sita che è lontana dalla mia vista: queste due cose mi bruciano dentro. Com'è strano che anche la piacevole brezza ravvivi il mio dolore. Il pavone che danza con la sua compagna sembra beffarsi di me! Vedi, Lakshmana, come questa pavonessa s'avvicina con amore al suo compagno: l'amore è comune a tutti gli esseri, anche a quelli subumani. Ora anche la mia amata Sita s'avvicinerebbe a me allo stesso modo, se non fosse stata portata via da quel demone".
Rama continuò:
"Sicuramente dove vive la mia Sita ora è primavera. Se anch'io sono tanto tormentato dall'arrivo della primavera e dall'assenza di Sita, come potrebbe lei godersi la primavera o evitare il tormento causato dalla primavera?
"O Lakshmana, comincio ad essere sempre più convinto che, consumata dal fuoco della separazione da me, Sita non potrà sopravvivere. Sita ed io siamo eternamente uniti l'una all'altro: ella in me ed io in lei.
"Ma no! Guarda quel corvo: prima era solito lamentarsi, presagendo il rapimento di Sita. Ora invece sembra trasmettere il gioioso messaggio che presto sarò riunito alla mia amata
"Però quando vedo quell'albero di asoka che si agita mosso dal vento, e lascia cadere i suoi fiori, mi sembra come se mi mostrasse i pugni in segno di minaccia. Guarda il placido e bellissimo lago Pampa, letteralmente coperto di ninfee e di loti che si riflettono meravigliosamente sulle sue acque. Eppure esso non mi dona alcuna gioia, perché non ho Sita con me.
"Quale strano potere possiede l'amore! Esso rende vivo e potente il ricordo della persona amata che è andata via ed appare irraggiungibile. Certo io riesco a sopportare il dolore causatomi dalla separazione da Sita, ma la stagione primaverile rende lo strazio insopportabile. Tutto ciò che insieme a Sita era piacevole, senza di lei diventa insopportabile!
"In questo momento, tutto qui mi ricorda di Sita: il loto mi ricorda i suoi occhi di loto, la brezza soave mi ricorda il suo respiro.
"Sono sicuro che il monte Rshyamuka dev'essere ricco di minerali: anche la polvere che si solleva qui sembra avere tanti colori, che fanno pensare a polvere minerale. Tutti gli alberi sono nel pieno della fioritura. E gli arbusti rampicanti che si avvinghiano agli alberi fanno pensare ad amanti che si abbracciano. Senti il vento, come si diverte: soffiando da un albero all'altro, da foresta a foresta, godendo della fragranza e della dolcezza dei diversi fiori.
"Sembra che gli alberi facciano a gara, in uno spirito di sana competizione, a rivestirsi di vesti sempre più ricche di magnifici fiori. E quando il vento soffia su di loro, mi sembra che ciascun albero voglia rivendicare la propria supremazia sugli altri, muovendo la sua cima in un gesto di autoaffermazione.
"Questo luogo è così bello, o Lakshmana, che se solo Sita fosse qui con me, non invidierei neppure i piaceri e le gioie di cui gode il re del cielo".
Rama continuò:
"Lakshmana, guarda quei due cervi: guarda come il maschio e la femmina si divertono felicemente su quel monte. Ahimè, io ho perso la mia amata Sita e sarò felice solo quando mi riunirò a lei. Senza la mia Sita la vita è insopportabile; però so benissimo che quando la ritroverò mi tornerà anche l'entusiasmo e la gioia di vivere. Sono molto preoccupato per Sita: perché so che starà soffrendo terribilmente per il fatto che è stata separata da me.
"Sono anche preoccupato per quello che dovrò fare quando tornerò ad Ayodhya, dopo il completamento dei quattordici anni di esilio: come potrò presentarmi davanti a re Janaka, e che cosa gli dirò quando mi chiederà di Sita? E che cosa dovrò dire a mia madre Kausalya, quando con amore mi chiederà notizie della sua amata nuora?
"Com'è terribile che colei che ha tanto insistito per seguirmi anche nell'esilio mi sia stata portata via! Com'è terribile che colei che ha voluto rimanere con me e servirmi anche nell'esilio, sia stata rapita senza che io potessi impedirlo! Dov'è Sita? Quando udrò di nuovo le sue dolci parole? O Lakshmana, ritorna ad Ayodhya e riunisciti al nobile Bharata. Dimenticami. Io non posso vivere senza Sita".
Il nobile e saggio Lakshmana disse a Rama: "Liberati da questo dolore, che ti è causato dalla separazione da Sita! Anche uno stoppino asciutto s'accende quando viene cosparso con molta resina. Allo stesso modo, una mente calma viene agitata dall'eccessivo attaccamento affettivo. Dovunque possa essere, Ravana non potrà vivere se non rilascerà Sita immediatamente. Anche se si nascondesse all'inferno, anche se si nascondesse nel grembo di Diti (la madre dei demoni), lo ucciderò e libererò Sita.
"Mantieni quello stato mentale positivo che costituisce la tua vera natura: un oggetto perduto non viene ritrovato, se non con uno sforzo! Perché questo sia possibile dobbiamo coltivare l'entusiasmo. L'entusiasmo è il potere più grande. Per l'uomo dotato d'entusiasmo non c'è nulla in questo mondo che non sia possibile conseguire. L'uomo pieno d'entusiasmo non si fa prendere dalla disperazione. Ritroveremo Sita facendo guidare le nostre azioni dall'entusiasmo. O Rama, liberati da questo dolore originato dall'affetto, che sfortunatamente ha velato la tua gloria suprema".
Incoraggiato da Lakshmana, Rama ritrovò la sua serenità. Poi i due fratelli cominciarono a scalare il monte Rshyamuka.
Un giorno Sugriva vide due uomini potenti che salivano su per la montagna; e preso dallo spavento si rifugiò nell'eremo del saggio Matanga.
Quando Sugriva vide i due potenti eroi, Rama e Lakshmana, si sentì in pericolo: aveva paura che fossero stati inviati dal fratello maggiore per ucciderlo. Circondato dai suoi ministri, Sugriva si spostò continuamente da una collina all'altra, cercando d'evitare il confronto con gli stranieri.
Vedendo Sugriva così agitato, uno dei suoi ministri - Hanuman - gli disse: "Ti prego, abbandona questa paura irrazionale. Siamo ancora sul monte Malaya (Rshyamuka), che è inaccessibile a Vali. Qui non vedo Vali da nessuna parte. Un re come te non deve permettere che la sua mente venga turbata. Noi dobbiamo osservare i movimenti e le azioni degli altri, e sapere che cosa passa nella loro mente! Questa è la vera abilità di governo!".
Il discorso di Hanuman fu ben accolto da Sugriva, che gli rispose: "È naturale che uno sia apprensivo quando vede guerrieri potenti come quelli. Quando i re come Vali vogliono distruggere i loro nemici, ricorrono a molti stratagemmi ingannevoli: perciò, non bisogna fidarsi dei re. E nemmeno possiamo fidarci del loro aspetto, Hanuman, perché spesso i nemici uccidono mascherandosi. Vali è scaltro, e anche noi dobbiamo ricorrere all'astuzia per sventare i suoi tentativi di uccidermi. Ti prego, mascherati come si deve e va' da loro; e per amor mio, cerca di scoprire chi sono con l'aiuto delle gesta che faranno e delle parole che diranno mentre tu mi loderai".
Hanuman si travestì da mendicante, si presentò umilmente ai due principi, e dopo essersi inchinato chiese loro: "Pur essendo vestiti da asceti, voi avete l'aspetto di saggi reali o dèi. Vi prego di dirmi chi siete e che cosa fate qui. Avete braccia potenti da principi, ma non portate ornamenti! Le vostre armi sono magnifiche, e riccamente rivestite d'oro e pietre preziose.
"Adesso vi dirò chi sono io. Un grande capo dei vanara (gli abitanti della foresta) Si è rifugiato qui, dopo essere stato scacciato dal suo regno dal suo crudele fratello Vali. Il suo nome è Sugriva; e io sono Hanuman, un suo ministro. Sugriva desidera la vostra amicizia. Anch'io sono un vanara, anche se ho assunto le sembianze di un mendicante".
Rama ammirò moltissimo il discorso di Hanuman, e disse a Lakshmana: "Di certo nessuno può parlare come lui se non è maestro dei tre Veda. Non c'è una sola pecca nel suo linguaggio, nel suo modo di esprimersi, o nella scelta delle parole o dei gesti. Ne sono rimasto favorevolmente impressionato. Ti prego, dagli una risposta appropriata". Allora Lakshmana disse ad Hanuman: "Abbiamo già sentito parlare del nobile Sugriva! Anche noi saremmo felici d'incontrarlo e coltivare la sua amicizia per il bene reciproco".
Felice di ascoltare le parole di Lakshmana, Hanuman chiese a Rama: "Vi prego di dirmi perché siete in questa foresta e in che modo noi possiamo aiutarvi".
Lakshmana raccontò tutta la loro storia nei dettagli, fino al rapimento di Sita; e aggiunse: "Non sappiamo dove vive il demone che ha rapito Sita e non conosciamo neanche i suoi poteri. Ma poco tempo fa abbiamo incontrato il demone Danu (Kabandha), che mentre ascendeva ai mondi superiori ci ha predetto che Sugriva ci avrebbe aiutati a trovare il demone che ha portato via Sita. Quindi siamo giunti fin qui seguendo le sue istruzioni. Questo è un evento straordinario, Hanuman! Colui che è il rifugio del mondo intero cerca rifugio in Sugriva. Colui la cui gratificazione porta gratificazione a tutti, cerca il favore di Sugriva, il capo dei vanara. Sugriva dovrebbe aiutare Rama a realizzare la sua impresa".
Dopo questo discorso Hanuman fu ancora più felice, e disse: "Siamo stati veramente fortunati che voi due, che siete maestri della vostra mente e dei vostri sensi, siate venuti qua da noi. Anche Sugriva ha bisogno del vostro aiuto. Privato di sua moglie e del suo regno dal fratello Vali, Sugriva vive qui in esilio, in preda al terrore. Egli darà certamente a Rama tutto l'aiuto che potrà".
Hanuman si spogliò del travestimento da mendicante e scortò i principi in presenza di Sugriva. Poi mise Sugriva al corrente dell'identità di Rama e Lakshmana, e concluse: "O re, ricevi Rama e Lakshmana con l'onore dovuto, e coltiva la loro amicizia".
Dopo avere dato il benvenuto a Rama e a Lakshmana, Sugriva disse loro: "Hanuman mi ha raccontato ogni cosa. Se accettate la mia amicizia, ecco qua la mia mano!". A queste parole, Rama strinse la mano di Sugriva e abbracciò il re in un gesto genuino d'affetto e amicizia. Poi Hanuman accese il fuoco sacro che doveva rendere testimonianza a questa nuova e significativa alleanza. Girando intorno al fuoco, Sugriva disse a Rama: "Adesso tu sei il mio carissimo amico; d'ora in poi noi divideremo le nostre gioie e le nostre tristezze".
Dopo la cerimonia del fuoco, quando tutti si rimisero seduti, Sugriva disse a Rama: "Mio fratello Vali mi ha privato del regno, e anche mia moglie mi è stata portata via da lui. Io mi sono rifugiato qui, su questo monte, che è di difficile accesso a Vali; ma vivo costantemente nel terrore. Ti prego, Rama, fa' in modo che la causa della mia paura sia rimossa".
Rama rispose immediatamente: "Guarda questi miei missili, Sugriva! Ben presto io ucciderò quel malvagio Vali".
Sugriva disse a Rama: "Hanuman mi ha spiegato il motivo per cui sei venuto qui. Io non so dove vive Ravana né conosco i suoi poteri, ma presto scoprirò tutto. Sia che egli viva su questa terra o negli inferi, Ravana non ci sfuggirà! Stai pur certo. A proposito, mi ricordo di qualcosa che accadde non molto tempo fa. Penso si trattasse proprio di Sita, che veniva portata via da un demone, che ovviamente era Ravana. Vedendoci seduti su questo monte, quella donna gettò un fagottello che cadde vicino a noi. Ella gridava ad alta voce: 'O Rama, o Lakshmana'. Il fagottello conteneva dei gioielli, che noi abbiamo conservato".
Rama era impaziente di vedere i gioielli! Quando Sugriva li portò vedendoli, Rama cominciò di nuovo a gemere forte, e disse al fratello "Vedi Lakshmana, guarda quest'indumento di Sita che lei ha gettato giù mettendo dentro i gioielli che portava nel momento in cui Ravana la rapì. Per fortuna sono caduti su un terreno morbido, sono intatti".
Osservandoli, Lakshmana disse: "Non riconosco gli ornamenti che Sita portava sulla testa o sul corpo, ma riconosco quelli che adornavano i suoi piedi, perché li notavo ogni giorno, quando m'inchinavo a lei".
Rama chiese nuovamente a Sugriva: "Dove vive il demone che ha rapito Sita, causandomi tutta questa infelicità? Egli ha decretato la distruzione dell'intera razza dei demoni per mano mia "
Ancora una volta Sugriva rispose: "Non so ancora dove vive. Ma non preoccuparti, Rama! Ti prometto che farò tutto il necessario per riportarti Sita. Basta con il dolore, abbandona la debolezza mentale. Vedi, anch'io sono stato privato del mio regno e di mia moglie. E sebbene appartenga ad una tribù primitiva della giungla, non m'addoloro. L'angoscia e la disperazione non si addicono a te, che appartieni ad una famiglia reale civilizzata. Io ti prego con le mani giunte: riacquista la tua virilità e non lasciare che il dolore entri nel tuo cuore. Infatti non c'è felicità per coloro che si affliggono e si angosciano, anzi essi vengono ulteriormente privati delle loro energie. Perciò non devi rattristarti. Anche la vita diventa incerta per chi si lascia andare alla tristezza. Abbandona la tristezza e sii coraggioso, Rama. Non pensare per favore che io stia predicando! Ti sto solo dicendo queste cose da amico, per il tuo bene";
Così incoraggiato, Rama riacquistò immediatamente la sua serenità e disse a Sugriva: "Amico mio, fa' ciò che un vero amico deve fare per sollevare l'altro dal suo dolore! L'amicizia che c'è tra noi è davvero rara oggigiorno nel mondo. Io non ho mai proferito menzogna, né mai sarò reo di falsità. Porterò a compimento il tuo scopo".
Sugriva fu immensamente felice di udire le parole di Rama, e disse: "Con la tua amicizia e il tuo aiuto, Rama, uno può guadagnare anche il paradiso: figuriamoci il proprio regno. Anch'io potrò darti il mio aiuto, sebbene non mi sia possibile dartelo subito a causa della sventura nella quale sono caduto. La tua amicizia ha per me un valore inestimabile. Essa accrescerà la mia reputazione davanti al mio popolo. Le persone buone abbandonano ogni senso di proprietà privata quando coltivano l'amicizia di altre persone buone: gli amici tengono in comune l'oro, l'argento e anche i gioielli inestimabili, senza sentire 'Questo è mio, non tuo'. Così sarà la nostra amicizia. E ancora, per amore dei propri amici uno rinuncia alle ricchezze, ai piaceri e anche al proprio paese".
Rama fu pienamente d'accordo con la dichiarazione di Sugriva sulle caratteristiche dell'amicizia. Tagliando uno degli alberi là vicino, Sugriva permise a tutti di avere un posto a sedere.
Quando tutti sedettero, Sugriva continuò, rivolgendosi a Rama: "Scacciato dal mio regno e privato di mia moglie, io vivo nella paura e nell'angoscia. Ti prego di liberarmi da questo dolore".
Rama rispose: "Il servizio utile è sicuramente frutto del senso dell'amicizia, mentre dall'inimicizia deriva il danno. Ucciderò quanto prima quel peccatore che ti ha defraudato di tua moglie. Non vedi i potenti missili che possiedo? Presto essi priveranno Vali della sua vita".
Felicissimo di questa rassicurante dichiarazione, Sugriva lodò Rama e continuò a dirgli umilmente: "Io sono affranto dal dolore, e tu sei il solo rifugio degli afflitti. Considerandoti un mio caro amico, io prendo rifugio in te e ti disturbo". Mentre parlava, gli occhi gli si riempirono di lacrime.
Asciugandosele, egli si sforzò di mantenere la sua compostezza, e poi continuò: "Vali è un potente vanara. Egli non solo ha usurpato il mio trono, ma mi ha scacciato dal regno dopo avermi insultato. Poi si è impossessato di mia moglie e ha incarcerato i miei parenti. Ora sta sempre a progettare di uccidermi. Per questo ero terrorizzato quando all'inizio vi ho visti arrivare qui. Questi pochi vanara sono gli unici compagni che ho; ma ora che tu sei diventato mio amico, sono sicuro che il mio dolore è finito. Perché nella gioia e nel dolore, gli amici sono l'unico soccorso che abbiamo".
Infine Rama chiese a Sugriva: "Raccontami gentilmente tutta la storia. Come mai sei incorso nell'odio di Vali, e perché egli ha usurpato il tuo regno e si è preso tua moglie?".
Sugriva disse: "Vali è il mio fratello maggiore. Egli è eccezionalmente forte. Nostro padre lo amava molto, e anch'io lo amavo. Quando nostro padre morì, Vali fu giustamente installato sul trono del nostro territorio chiamato Kishkindha.
"Vali aveva un nemico di nome Mayavi, figlio di Maya. Un giorno Mayavi venne da noi e sfidò Vali a duello. Le donne di corte e io stesso cercammo di far desistere Vali dall'accettare la sfida, per impedire uno spargimento di sangue; ma Vali non ci ascoltò.
"Quando Vali uscì per combattere contro Mayavi, quest'ultimo fu improvvisamente sopraffatto dalla paura e cominciò a correre. Vali lo inseguì, e anch'io andai con lui. Il demone Mayavi entrò in una spaventosa caverna sotterranea; e Vali lo inseguì, dopo avermi ordinato: "Rimani all'ingresso di questa caverna, Sugriva, mentre io inseguo il demone e lo uccido". Lo implorai che portasse anche me con lui, ma Vali rifiutò.
"Per un anno aspettai all'ingresso della caverna. Sentivo suoni terribili provenire dal suo interno, ma Vali non tornava. Infine del sangue uscì a fiotti dalla caverna, ma non riuscivo a sentire l'urlo di vittoria di Vali. Conclusi che egli fosse stato ucciso dal demone. Col cuore infranto tornai nel nostro regno. Quando i ministri vennero in qualche modo a sapere la verità, mi installarono sul trono.
"Dopo un certo tempo Vali ritornò. Io lo salutai, ma egli non se ne curò. Era furioso. Io gli dissi umilmente: "Siamo tutti molto fortunati a riaverti vivo tra noi. Ecco il tuo trono: ti prego, riprendilo! Pieno d'ansia, aspettai un anno all'ingresso della caverna. Poi vidi il sangue e pensai che fossi stato ucciso. Mosso dalla paura e dall'angoscia, chiusi la grotta con una grande roccia e tornai qui. I ministri insistettero per installarmi sul trono, per non mettere in pericolo la sicurezza dello stato lasciandolo senza un sovrano. Io non lo desideravo. Ti prego di perdonarmi. Tu sei il re sempre adorato, e io sono quello che ero prima".
"Ma quantunque lo implorassi, egli si rifiutava di ascoltarmi. Era infuriato; e mi accusò ingiustamente, dicendo: "T'avevo chiesto di rimanere all'ingresso della caverna. Dopo avere ucciso il demone Mayavi ho cercato di uscire dalla caverna, ma non vedevo neanche la strada, perché tu avevi chiuso la grotta con una roccia. Infine sono riuscito a rimuovere la roccia e sono venuto qui, solo per scoprire che tu sei diventato re!". Pieno di collera, Vali mi scacciò dal regno lasciandomi solo un panno. Poi ho trovato rifugio su questo monte che, per un altro motivo, è fuori dalla sua portata".
Rama ribadì la sua promessa: "Il tuo dolore finirà presto; non appena sarò davanti al malvagio Vali che si è preso tua moglie".

[NOTA: Nel testo è specificato 'un unico panno': deve forse una scimmia vestirsi?]

Sugriva disse: "Sono sicuro, Rama, che quando sei adirato puoi distruggere anche i mondi con i tuoi missili, come potrebbe fare il sole alla fine di un'epoca. Comunque ascolta con attenzione la descrizione dei poteri di Vali, e poi farai quanto necessario.
"C'era una volta un demone chiamato Dundubhi, che aveva l'aspetto di un bufalo ed era estremamente potente. Un giorno questo demone andò in riva all'oceano e sfidò in combattimento lo stesso oceano!
"L'oceano però gli rispose: "Ti prego, non sfidarmi! La mia potenza non è pari alla tua, però ti dirò chi potrebbe accettare la tua sfida. È il suocero dello stesso Signore Shiva: Himavan. Per favore vai da lui e metti alla prova la tua forza".
"Dundubhi non perse tempo e andò subito da Himavan. Cominciò a scuotere i picchi delle montagne e a distruggere le colline. Vedendosi così tormentato, Himavan disse a Dundubhi: "Ti prego, non tormentarmi in questo modo. Io non sono abile in battaglia, perché sono la dimora degli asceti. Tuttavia ti dirò chi è pari a te in forza ed eroismo, così che potrai sfidarlo a duello: è Vali, il figlio di Indra, che vive nel territorio Kishkindha. Se desideri incontrare e combattere uno che ti è pari, lui è il tipo al quale devi rivolgerti".
"Dundubhi arrivò nel territorio Kishkindha e non perse tempo nel far sentire la sua presenza. Egli fece tremare la terra, devastò la foresta e si mise a urlare forte. Vali sfidò Dundubhi a combattere. Ma quando Vali uscì dal palazzo era circondato da un certo numero di donne e appariva anche ubriaco.
"Dundubhi rifiutò di combattere con lui, e gli disse: "Stanotte divertiti, Vali, e torna da me domani. Ti stai vantando davanti a quelle donne e inoltre sei ubriaco. Non è morale combattere e uccidere una persona ubriaca o che ha un arto spezzato, o che è disarmata o emaciata. Un'azione del genere è tanto grave quanto uccidere un bimbo non ancora nato. Tu sei ubriaco e la tua mente è offuscata dalla passione. Perciò goditi questa serata e poi congedati dai tuoi amici, dai tuoi parenti e dal tuo regno, perché non li vedrai più!".
"Vali però non si tirò indietro! Egli afferrò il demone, lo sollevò, lo fece roteare e lo sbatté a terra con forza. Quindi lo colpì con pugni e calci, e infine il demone morì. Tuttavia quando Vali scagliò Dundubhi a quattro miglia di distanza con un calcio, del sangue del demone cadde in prossimità dell'eremitaggio del saggio Matanga".
"Quando il saggio Matanga scoprì che la zona circostante il suo eremitaggio era stata dissacrata dal sangue e che gli alberi dei dintorni erano stati distrutti o spogliati delle foglie, rimase molto contrariato. Sapendo che era stata opera degli abitanti della foresta (vanara), il saggio uscì dal suo eremitaggio, e vedendo i vanara pronunciò una maledizione: "Colui che ha ucciso questo demone-bufalo (Dundubhi), e che ha causato la caduta del suo sangue vicino al mio eremitaggio, e che è responsabile della distruzione di questa foresta che io ho nutrito come se fosse mia figlia, non vi entrerà più; e se lo farà, morirà istantaneamente. Neanche i suoi compagni potranno entrare in questa foresta: se lo faranno, diventeranno subito rocce e resteranno pietrificati per migliaia d'anni. Questo è l'ultimo giorno in cui possono stare in questa foresta; se non ne escono subito, da domani saranno pietrificati". Udendo questa maledizione e questo ultimatum, i vanara corsero da Vali e, rispondendo alle sue domande, lo informarono della maledizione e dell'ultimatum. Vali stesso si recò dal saggio e chiese scusa con le mani giunte; ma il saggio non gli prestò ascolto.
"Da quel tempo, questa foresta è inaccessibile a Vali e ai suoi compagni. Perciò per me è un posto sicuro, e mi sono rifugiato qui. Guarda là, Rama, l'enorme scheletro che rimane del demone Dundubhi. E questi sono gli alberi che Vali scosse a mani nude e privò delle foglie! Tale è la sua forza e tali sono i suoi poteri".
Lakshmana fu divertito da questo racconto, che esprimeva chiaramente l'ansietà di Sugriva e la sua incertezza sul risultato dell'incontro di Rama con Vali. Quindi Lakshmana chiese a Sugriva: "Bene! Dimmi dunque: come potresti essere convinto del valore di Rama?". Sugriva propose: "Con un calcio Vali scagliò Dundubhi a quattro miglia di distanza. Se con un calcio Rama potrà lanciare questo scheletro alla distanza di trecento metri, mi convincerò. O Rama, io non sminuisco la tua potenza né voglio impaurirti; ma dopo aver visto il valore di Vali sono diventato un pusillanime".
Rama s'avvicinò allo scheletro, lo sollevò con il suo alluce e lo scagliò alla distanza di ottanta miglia. Sugriva ne fu entusiasta; ma un dubbio entrò nella sua mente: Vali aveva calciato l'intero corpo di Dundubhi, mentre Rama aveva scagliato solo le ossa! Allora Sugriva propose a Rama un'altra prova: "Vali poteva abbattere questi alberi con un solo missile della sua arma. Puoi farlo anche tu? Sono sicuro di si, ma voglio vedertelo fare. Come il sole è il più splendente degli esseri radiosi, come l'Himalaya è la più alta delle montagne e il leone è il re degli animali, così tu sei il supremo tra gli uomini".
Dopo avere ascoltato le parole di Sugriva, Rama preparò divertito la sua arma, la caricò con un missile e tirò. Questo missile placcato d'oro trafisse gli alberi giganteschi, trafisse la stessa montagna e la terra intera e, meraviglia delle meraviglie, tornò da Rama.
Vedendo questo, Sugriva s'inchinò dinanzi a Rama, e con le mani giunte in segno di saluto gli disse: "Tu sei davvero eccelso, Rama, e potresti uccidere anche Indra, il dio dei cieli. Su questo non ho alcun dubbio. Ora la mia angoscia è svanita, e io sono immensamente felice, avendo la fortuna di avere per amico te che sei pari agli dèi. O Rama, apprestati ad uccidere il mio nemico, che vive nelle sembianze di mio fratello".
Anche Rama era ansioso di farlo; e rivolto ai presenti egli disse: "Andiamo". Allora tutti partirono verso Kishkindha, dove viveva Vali. Con urla e grida, Sugriva sfidò Vali a venire fuori. Vali, che aveva una forza indubbiamente superiore, rimase sorpreso dalla sfrontatezza del fratello e uscì ad affrontare la sfida di Sugriva. Rapidamente incrociarono le mani in un duello.
I due fratelli si colpivano reciprocamente a pugni e a calci. Il combattimento era terribile. Rama, Lakshmana e gli altri osservavano questa lotta feroce da dietro gli alberi che si trovavano a una certa distanza. Benché Rama stesse in piedi con l'arma pronta a sparare il missile più micidiale, egli non tirò perché non riusciva a distinguere chi fosse Vali e chi Sugriva!
Si somigliavano così tanto che Rama era indeciso. Naturalmente Sugriva fu ferito in maniera grave, ma riuscì a scappare e a rifugiarsi sul monte Rshyamuka. Vali lo inseguì fino ai piedi della montagna e poi si ritirò.
Rama andò subito a cercare Sugriva, e lo trovò terribilmente sconcertato e scoraggiato. Sugriva disse a Rama: "Sono rimasto molto deluso da te. Potevi dirmelo prima che non volevi uccidere Vali, e io non mi sarei avventurato contro di lui".
Rama gli spiegò: "Non riuscivo a distinguervi l'uno dall'altro! Non ho voluto tirare, per non rischiare di uccidere te. Uccidere uno al quale ho appena dato rifugio sarebbe un grande peccato. Ti prego, va' di nuovo, ma stavolta indossa qualcosa che ti faccia distinguere da Vali! Così potrò distinguere l'uno dall'altro quando sarete avvinghiati nel duello".
Seguendo l'ordine di Rama, Lakshmana raccolse dei fiori selvatici chiamati gajapushpi, ne fece una ghirlanda e la mise intorno al collo di Sugriva. Poi tutti si diressero ancora una volta verso Kishkindha.
Sugriva faceva strada. Lakshmana lo seguiva alle calcagna. Dietro a loro c'era Rama, e poi Hanuman e infine tutti gli altri compagni di Sugriva. Procedendo verso Kishkindha essi videro numerosi alberi stracarichi di fiori. Passarono vicino a grotte e a montagne, e videro animali selvatici e uccelli. Videro molti cervi che vagavano liberamente per la foresta; e videro anche degli elefanti.
Poi essi entrarono in un incantevole boschetto che destò l'attenzione di Rama. Intuendo che si trattava di un posto che aveva un particolare significato, egli chiese a Sugriva di raccontargli qualcosa che riguardasse quel luogo. Allora Sugriva narrò a Rama la seguente storia: "Quest'eremo è la dimora dei sette saggi noti collettivamente con il nome di Saptajana. Essi erano dei saggi di grandissimo autocontrollo che restavano perennemente sospesi con la testa in giù e giacevano sull'acqua Essi mangiavano una volta la settimana. Dopo aver praticato questo tipo di austerità per settemila anni, essi ascesero in cielo con i loro corpi. Nessun uccello o animale selvatico osa entrare in questo boschetto, dal quale emana incessantemente una fragranza divina e una musica celestiale. Coloro che qui s'inchinano devotamente a questi sette saggi, non soffriranno di alcun male fisico. Perciò è bene che anche tu e Lakshmana v'inchiniate a questi saggi, ricevendo le loro benedizioni". Rama e Lakshmana lo fecero.
Con le loro armi e i loro missili, Rama, Lakshmana e il gruppetto di vanara entrarono a Kishkindha. Sugriva era ansioso di combattere, e disse a Rama: "Siamo giunti a Kishkindha, dove vive Vali. Questa volta ti prego di ucciderlo senza indugio".
Rama lo riassicurò con queste parole: "Tu sei stato inghirlandato da Lakshmana con questi fiori di gajapushpi che splendono intorno al tuo collo, distinguendoti da Vali. Basterà che io lo veda una volta ed egli cadrà subito morto. La fine della tua sventura, la fine della tua paura e del tuo dolore è vicina, Sugriva. Se io fallissi nell'adempiere la mia promessa, allora potrai accusarmi. Non mi vanto, perché non voglio trasgredire il Dharma; ma in verità ti dico che oggi adempirò la mia promessa. Vai pure avanti e grida forte. Questo attirerà sicuramente l'attenzione di Vali, che allora uscirà per accettare la tua sfida; poiché gli eroi non ammettono una sfida senza ricambiare il favore".
Sugriva avanzò verso il palazzo di Vali e urlò. Quel suono era così potente e straziante che gli uccelli e gli animali s'allontanarono. Questo incoraggiò ulteriormente Sugriva, che andò ancora più vicino alla dimora di Vali, continuando a urlare!
Udendo di nuovo l'urlo di Sugriva, Vali fu terribilmente contrariato. La sua vanità fu offesa, e la sua ira si destò. Per questo il suo splendore fu, per così dire, eclissato. Vali, il potente eroe dalla forza incomparabile, non poté tollerare quell'insulto al suo valore, e si precipitò fuori del suo alloggio.
Sua moglie Tara, però, intervenne e gli disse garbatamente: "Signore, desidererei che tu non andassi ad incontrare Sugriva in questo modo. Sarebbe meglio riflettere sulla nuova situazione, valutarla attentamente e poi combattere, se necessario, dopo un po'. Sugriva era gravemente ferito ed è stato costretto a fuggire poco tempo fa. Ora è tornato. Sicuramente ha qualcuno che lo aiuta. Egli è astuto, e non si fiderebbe di un alleato del quale non avrebbe ben provato la forza. Questa è una cosa da considerare.
"Inoltre poco tempo fa ho sentito delle voci - poi confermate dalle spie mandate da tuo figlio Angada - che Rama e Lakshmana, figli di re Dasaratha sono arrivati nel nostro territorio. Rama e Sugriva sono diventati amici. Rama è potente, ed è anche la dimora del Dharma. Per questo penso che non sia saggio essere ostili a Rama. Ti do questi consigli per l'affetto che nutro per te, e non perché io trovi in te delle colpe, o mio signore. Fa' che non vi sia inimicizia tra te e tuo fratello Sugriva. Fa' che ci sia il perdono, e stringi amicizia anche con Rama. Dai a Sugriva l'incarico di principe reggente e fate tornare l'amore tra voi fratelli. Sicuramente tuo fratello merita il tuo amore e il tuo affetto".
Questo saggio consiglio non piacque a Vali, che aveva raggiunto il termine della sua vita. Egli disse aspramente a Tara: "Grazie per il tuo consiglio. Hai fatto il tuo dovere. Mi hai mostrato il tuo affetto; ora puoi tornare a casa. Io tornerò dopo aver sottomesso l'arrogante Sugriva. Non posso tollerare il suo comportamento insolente". A Tara non rimase altro che invocare le benedizioni di Dio su Vali.
I due potenti fratelli diedero inizio ad una cruenta battaglia. Vali colpì Sugriva, e Sugriva vomitò sangue profusamente. Poi Sugriva colpì Vali con un grande albero, e Vali rotolò per l'impatto. Ben presto però Vali ebbe la meglio e colpì Sugriva con tutte le sue forze. Tempestato di colpi, Sugriva continuava a combattere, guardandosi in giro come se cercasse aiuto.
Rama sapeva che per lui era arrivato il momento d'intervenire. Caricò quindi la sua arma con un missile terrificante e sparò. Il missile si staccò dall'arma producendo il rumore del tuono e colpì Vali al petto. Colpito da questo missile, Vali - il potente guerriero che risplendeva del suo valore - cadde a terra.
Vali però non morì. Egli portava una collana celestiale donatagli da Indra che preservava la sua forza vitale, il suo splendore e la sua bellezza. Tuttavia il missile di Rama, con il quale era stato colpito, gli aveva illuminato la strada che porta in cielo e lo aveva portato allo stato supremo.
Rama e Lakshmana si fecero avanti sul luogo dove lui giaceva. Guardandoli, e usando parole cortesi ma con tono aspro, Vali si rivolse a Rama: "Nato dal grande imperatore Dasaratha, tu Rama hai commesso un atto ingiusto. Mi hai colpito mentre combattevo con un altro; mi hai colpito tirando da un luogo in cui ti eri nascosto. La gente ti glorifica dicendo che sei giusto, devoto alla verità, compassionevole, ecc. Io pensavo che tutto ciò fosse vero. Perciò benché mia moglie Tara avesse sentito che tu eri qui come alleato di Sugriva, io ho combattuto con lui. Nessuno si sarebbe aspettato che tu mi colpissi in maniera poco cavalleresca.
"Rama, io non ti ho arrecato nessuna offesa: non mi sono intromesso nel tuo territorio, non ho invaso la tua capitale né ho commesso un atto d'aggressione contro di te. Eppure tu hai voluto uccidermi, mentre combattevo con un altro! Nonostante questo però tu vesti da persona giusta, portando i capelli intrecciati e vestendoti di pelle di daino e corteccia. La negoziazione pacifica, la carità, il perdono, il Dharma, la verità, la fermezza, il valore e anche la punizione dei criminali - queste sono le qualità dei re. Noi siamo un popolo primitivo della foresta che vive di frutti e radici come gli animali. La gente in genere combatte per la terra, l'oro e le belle donne; ma noi qui non abbiamo nulla di tutto ciò! Eppure tu hai cercato di uccidermi, senza alcun motivo apparente. Avendo perpetrato questo crimine d'omicidio premeditato, che cosa dirai di te agli uomini santi?
"Né la mia pelle né la mia carne sono di alcuna utilità. Cinque animali muniti di zampe possono essere mangiati dai brahmana e dagli kshatriya (principi e guerrieri): il rinoceronte, il porcospino, l'iguana, la lepre e la tartaruga. Ma la mia pelle e la mia carne non vengono neanche toccate dalla gente, e mangiare la carne del mio corpo è proibito. Eppure io, che ho cinque dita alle mani e ai piedi, sono stato ucciso. Tu hai trasgredito i limiti del Dharma; tu hai infranto il codice della moralità.
"Mia moglie Tara mi ha detto del tuo arrivo qui e della tua amicizia con Sugriva per adempiere la tua missione. Se mi avessi detto della tua sventura, ti avrei riportato tua moglie in poco tempo! Avrei incatenato Ravana e te lo avrei portato vivo: Penso che la mia fine sia vicina; nessuno può sfuggire alla morte. Ma per quale motivo hai causato la mia fine?".
Rama rispose:
"Tu non conosci il Dharma, né le cose del mondo, né le leggi che governano il piacere, né il comportamento della gente nelle condizioni e nelle circostanze più diverse: e tuttavia tu accusi me. Tutta la terra appartiene ai re che discendono da Manu e quindi dal mio antenato Ikshvaku. L attuale regnante della dinastia di Ikshvaku è il mio nobile fratello Bharata, che è il monarca supremo di tutta la terra: io ho ricevuto da lui il mandato di accertare che tutti i sudditi del nobile imperatore osservino le leggi della virtù.
"Io ti considero il peggiore dei peccatori, e ti dirò perché. Secondo il codice di rettitudine, il fratello maggiore, il padre e il maestro devono essere trattati come il proprio padre. Similmente, il fratello minore, il figlio e il discepolo devono essere considerati come il proprio figlio. Invece, ecco: tu vivi con la moglie di tuo fratello minore che per te è come una figlia! Il Dharma è estremamente sottile e difficile da comprendere, e la condotta del virtuoso è difficile da comprendere; solo il Sé che dimora nel cuore di ognuno conosce ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. La prima e più importante ragione per la quale ti ho colpito è perché tu vivi nel peccato con la moglie di tuo fratello minore, e come rappresentante dell'imperatore ho considerato mio dovere darti una punizione. A questo proposito c'è il famoso comandamento: "Sottostando alla giusta punizione inflittagli dal re, il criminale viene purificato e va in cielo. Ma se il criminale non viene punito, il re è colpevole del crimine . Per questo anche dei potenti sono stati puniti: mentre altri hanno fatto opere di espiazione per liberarsi dei peccati.
"In secondo luogo, Sugriva è mio amico, così come lo è Lakshmana. Io gli diedi la mia parola d'onore che il suo regno e sua moglie gli sarebbero stati restituiti. Perciò era mio dovere onorare la promessa fatta.
"Tu mi potresti chiedere perché non ho combattuto direttamente con te per ucciderti. Io ti rispondo: la gente uccide gli animali selvatici o quelli che servono come carne da mangiare stando in un luogo nascosto e senza alcuna provocazione. Perciò era giusto da parte mia ucciderti anche se non stavi combattendo con me, poiché tu appartieni alla stessa specie degli animali che dimorano nella foresta. O vanara, liberato dal tuo peccato con l'accettazione della giusta punizione, ora tu ascenderai in cielo".
Vali ritirò le sue accuse e chiese perdono per le dure parole proferite; poi implorò Rama: "Ti prego, fa' che si prendano giusta cura di Angada. So che sotto la tua guida Sugriva regnerà bene e rettamente; la mia unica ansietà è per mio figlio Angada". Ma Rama lo rassicurò al riguardo.
Quando il potente Vali cadde, i vanara fuggirono. Ma quando Tara seppe la terribile notizia, si precipitò dov'era il corpo del marito. Vide i vanara che fuggivano e chiese loro: "Perché voi vanara state scappando, abbandonando il potente re che fino a poco fa seguivate?".
In tutta fretta i vanara misero in guardia Tara: "Ti preghiamo, cara regina, non avvicinarti al luogo dove ora giace il corpo del re. Vali è morto, ma tuo figlio Angada è vivo. Sarebbe meglio proteggerlo dai missili micidiali di quel potente Rama di cui abbiamo visto il valore. Ah, con i suoi missili ha incenerito rocce e alberi. I suoi missili sono come fulmini e hanno lo stesso potere dei fulmini. Non avevamo mai visto né sentito dire di tali missili. Torniamo presto a difendere Kishkindha! Ora da un momento all'altro il vittorioso Sugriva, insieme ad Hanuman e ad altri, potrebbe prendere d'assalto il territorio".
La nobile Tara non ebbe paura, e disse: "No, io andrò dove giace il mio nobile marito. Ho perso lui: che cosa dovrei fare con il regno o con Angada?". Presto ella vide Vali steso sul terreno - quello stesso Vali che rivaleggiava in valore con il re dei cieli, Indra. In piedi vicino a lui vide anche Rama, Lakshmana e Sugriva.
Tara s'accasciò accanto al corpo di Vali e gemette: "Signore, perché oggi non mi parli? Perché mi hai abbandonata? Certo la terra ti è più cara di me, o sovrano della terra; perciò oggi hai abbandonato me e con le tue membra abbracci la terra. O potente eroe, hai pagato la pena per aver vissuto con la moglie di Sugriva. No, io non trovo colpe in te, né ti accuso. Solo il tempo ti ha ucciso: la tua ora è venuta, e tu che non potevi essere sottomesso da nessuno sei caduto nel tranello di Sugriva. Non ho mai conosciuto il dolore, perché ero protetta amorevolmente da te; ma ora dovrò vivere come una miserabile vedova. E tuo figlio Angada: chissà quale sarà il suo fato adesso? Ah, Rama ha adempiuto la promessa fatta a Sugriva, di ucciderti e restituirgli il regno e la moglie. Ora Sugriva sarà certamente felice e si rallegrerà. Noncurante del mio avvertimento, sei voluto andare velocemente incontro alla tua fine. E adesso che faremo noi, tue devote mogli?". Tutte le mogli di Vali si unirono al suo lamento; e insieme pregarono per il marito defunto: "Signore, se mai abbiamo fatto qualcosa che possa averti dispiaciuto, ti preghiamo di perdonarci". Poi esse toccarono devotamente i piedi di Vali e piansero profusamente.
Mentre piangeva la morte di Vali, insieme alle altre mogli dell'eroe, Tara decise di digiunare fino alla morte rimanendo nello stesso luogo in cui era stato ucciso il marito.

[NOTA: Uno dei sinonimi di vanara usati nel testo è 'vanacarina', che letteralmente significa 'uno che vaga per la foresta'.]

Il saggio Hanuman disse a Tara: "Nobile donna, dopo aver lasciato questo mondo ogni essere ottiene il giusto compenso per le buone e le cattive azioni fatte qui. Uno che merita compassione s'addolora per un altro. Chi dovrebbe addolorarsi e per chi - il morto o il vivo - quando la vita fisica qui è come una bolla! Perciò allontana la tua mente da quest'inutile dolore e applicala alla protezione di Angada e all'esecuzione del rito funebre dell'eroe defunto. Vali ha compiuto il suo dovere in questo mondo e sicuramente ha raggiunto lo stato beato dei giusti monarchi. Ora tocca a te compiere i doveri che ti competono! Fa' incoronare re Angada e disponi perché si compiano i riti funebri per Vali".
Tara però era inconsolabile, e rispose: "Cento Angada non eguaglieranno ai miei occhi un solo Vali, il mio amato signore. Potete andare per la vostra strada: il mio posto è qui, dov'è caduto il mio signore".
Naturalmente, Vali non era morto, perché indossava ancora la catena d'oro che proteggeva la sua forza vitale. Egli aprì gli occhi, guardò Sugriva e disse: "Fratello, non biasimarmi per tutto quello che è successo. Penso che non eravamo destinati ad essere felici insieme: perciò è successo tutto questo. Presto io lascerò questo corpo e questo mondo. Desidero che tu sia re dopo di me. Ti prego d'ascoltare le mie richieste e di accettarle. Per prima cosa: ti prego di prenderti cura di mio figlio Angada. Egli è pari a me in forza e valore. Ha avuto una vita comoda: fa' che non sia soggetto all'infelicità. Secondo, non disprezzare il consiglio di Tara. Ella non ha mai torto. Terzo, impegnati a portare a termine l'impresa di Rama; il non farlo equivarrebbe a infrangere una promessa e potrebbe costarti la vita stessa. Per ultimo: voglio darti questa divina collana d'oro come mio dono d'addio. Indossala. Il suo splendore e il suo potere protettivo potrebbero svanire con la mia morte, perciò voglio trasferirtelo ora stesso". Vali si tolse la collana e la diede a Sugriva. Egli sapeva che la sua morte era vicina.
Infine egli si rivolse ad Angada: "Figlio mio, prima di fare qualcosa considera bene il tempo e il luogo. Sopporta ugualmente le cose piacevoli e quelle spiacevoli, la felicità e l'infelicità. Obbedisci a Sugriva. Non approfittare di lui, come potevi fare con me. Sii cordiale con i suoi amici e tratta i suoi nemici come fossero i tuoi. Evita però l'affetto e l'odio eccessivo verso chiunque: perché sono entrambi dei mali; mantieni la via di mezzo".
L'anima di Vali lasciò il corpo. Tutti i vanara gemettero forte, raccontando le sue potenti imprese: specialmente il suo duello con Golabha, un essere celeste che lo combatté per quindici anni, ma che infine fu ucciso da Vali. Tara s'accasciò vicino al corpo di Vali.
Tara continuò a lamentarsi: "Grande eroe! Il tuo corpo è completamente ricoperto di sangue e fango, e la presenza del missile che ti ha trafitto il cuore non mi permette d'abbracciarti. Ora il fato è favorevole a Sugriva, ed egli è vittorioso. Il mio dolore mi fa pensare che una ragazza non debba mai essere data in sposa ad un eroe, perché prima o poi dovrà soffrire l'agonia della separazione da lui. Potrà essere ricca e avere molti figli, ma resterà vedova. Ti ho implorato di desistere da questa battaglia, ma non hai gradito la mia preghiera. Non ho potuto impedirti di combattere. Ora che sei morto, siamo tutti morti".
Quando Sugriva vide tutto ciò, rimase terribilmente scosso. Si avvicinò a Rama e, con la voce soffocata dal dolore, gli disse: "Invero tu hai mostrato un valore e una potenza sovrumana, e hai ucciso il potente Vali. Ma ora che egli è morto, il mio cuore s'allontana dal regno. Spinto dall'odio e da una grande rabbia io ho desiderato la morte di mio fratello, ma ora che è morto il mio cuore è tormentato dal dolore. Egli non mi avrebbe mai ucciso; anche quando avrebbe potuto farlo, mi diceva soltanto: "Vattene, e non farlo più". Io invece sono stato la causa della sua morte. Egli era nobile, io sono ignobile. Egli era virtuoso, io sono un peccatore. Chi m'assolverà da questo peccato, Rama? Io non merito la stima del popolo; io non merito il trono. Come potrei regnare, dopo aver commesso questo terribile crimine, ingiusto e deleterio per l'intera razza? Concedimi il permesso di andare, Rama, lasciami entrare nel fuoco. Gli altri vanara t'aiuteranno certamente a realizzare la tua impresa e troveranno Sita per te". Queste parole causarono a Rama tristezza e preoccupazione.
Nello stesso tempo Tara vide Rama, s'avvicinò a lui, e gli disse: "La tua gloria è incommensurabile, Rama. Tu sei un'incarnazione del Dharma. Ho solo una preghiera da offrirti. Ti prego di esaudirla. Nello stesso modo in cui hai ucciso mio marito, uccidi anche me; così che possa riunirmi a lui. Tu conosci il dolore della separazione dalla propria moglie; fa' in modo che mio marito non lo soffra. Tu non farai peccato uccidendo me, una donna: perché io sono solo l'altra metà di mio marito. Questo è quanto affermano i testi vedici: che la moglie è una sola cosa con il marito".
Dissuadendola dal desiderio di morire, Rama le disse: "O eroina, non permettere alla mente d'intrattenere questi erronei pensieri. L'universo è stato creato dal Signore, che ha pure ordinato che la felicità e l'infelicità siano inseparabili dal mondo. Questa è la legge universale. Perciò abbandona quest'angoscia indegna delle mogli degli eroi". Questo rasserenò Tara.
Rama parlò a tutti i presenti:
"Mostrare dolore non aiuta, ma ostacola il progresso dell'anima del defunto verso la propria libertà. Tuttavia è bene osservare il lutto tradizionale. Avete versato lacrime a sufficienza. Adesso si facciano i riti funebri come si conviene.
"Niyati (il Tempo, il controllore interiore delle cose o il principio del moto cosmico) è la sola causa di tutto nel mondo. Inoltre questa forza misteriosa è il solo strumento d'azione. E questo principio del moto cosmico che provoca tutte le attività. Nessuno fa qualcosa in questo mondo; e nessuno spinge un altro a fare qualcosa; tutti gli esseri manifestano la loro natura, e la natura è radicata nella legge eterna del Tempo, che è l'unico suggeritore interiore. Il Tempo non trascende se stesso; aderendo fermamente alla sua natura, esso non oltrepassa i suoi confini. Il Tempo (o il principio del moto) non ha amici o parenti, non è spinto da motivi né cerca di sopraffare alcuno: esso non ha relazione con alcuno e non è soggetto alla volontà di nessuno. Tuttavia la persona saggia e intelligente può facilmente discernere i cambiamenti portati dal tempo: e ci si può rendere conto di come nel corso del tempo uno ottiene il Dharma, la prosperità materiale e i piaceri.
"Vali ha adempiuto il suo dovere e ha raggiunto la dimora suprema. Ora è bene che voi tutti smettiate di addolorarvi e organizziate il suo funerale: è bene che sia fatto al momento giusto".
Lakshmana s'incaricò di dirigere il funerale. Sotto la sua guida, i diversi gruppi di vanara raccolsero tutti gli articoli necessari, incluso un bellissimo palanchino con il quale trasportare il corpo di Vali nel campo crematorio. Uno dei vanara corse dentro una grotta enorme e ne uscì subito fuori con il palanchino. Sugriva e Angada sollevarono il corpo di Vali e lo posero sopra al palanchino. Quindi il corpo fu portato al campo crematorio. Dei vanara precedevano il palanchino, coprendo la strada di gioielli anziché dei soliti petali di fiori. Tutte le donne-vanara gemevano a voce alta, e il loro lamento dava l'impressione che tutta la foresta stesse piangendo l'eroe.
Il corpo fu poggiato nel luogo prescelto per la cremazione. Tara si gettò ancora una volta sul corpo del marito e pianse in maniera inconsolabile, poggiando la testa di Vali sul suo grembo. Infine posero il corpo sulla pira. Secondo la tradizione Angada diede fuoco alla pira e fece umilmente il giro della pira accesa. Dopo la cremazione, tutti i vanara fecero il bagno nel fiume, offrirono libagioni all'anima del defunto e poi tornarono nelle loro abitazioni. Sugriva si avvicinò a Rama.

[NOTA: Nessuna traduzione è adeguata per 'niyati'. È 'quella entità che tiene in moto il mondo'. Nel suo significato vi è il suggerimento di una legge immutabile, di un destino inalterabile, di libero arbitrio entro certi limiti, ecc.]

Hanuman disse a Rama: "Per grazia tua, Rama, Sugriva ha ottenuto il regno di Kishkindha. Quando tu lo permetterai, egli farà il suo ingresso trionfale nel nostro territorio e sarà incoronato re. Sono certo che il territorio Kishkindha ti piacerà molto". Ma Rama gli rispose subito: "Non entrerò a Kishkindha, Hanuman. Il comando di mio padre implica che io non debba entrare in un villaggio o in una città. Fate incoronare immediatamente Sugriva".
E a Sugriva Rama disse: "Appena sarai stato incoronato, installa pure Angada sul trono come principe ereditario. Vedo che la stagione delle piogge è appena cominciata; e durerà quattro mesi. Non è la stagione adatta per l'impresa che abbiamo davanti; perciò puoi passare questi quattro mesi a Kishkindha, dedicandoti agli affari di stato. Io passerò questo periodo qui, in una grotta. Ma subito dopo la stagione delle piogge, ti prego di agire prontamente per distruggere Ravana e riportare Sita da me".
Sugriva entrò a Kishkindha. I vanara lo accolsero con ovazioni e lo applaudirono. I loro capi raccolsero tutti gli articoli necessari per l'incoronazione, accesero il fuoco sacro intonando i canti vedici, e lo incoronarono re. In conformità agli ordini di Rama, Sugriva installò Angada sul trono come principe ereditario. Sugriva andò nuovamente da Rama e gli comunicò la notizia dell'incoronazione. Quindi, dopo avere riottenuto sua moglie Ruma, egli rientrò nei suoi alloggi a Kishkindha.
Rama e Lakshmana si stabilirono sul vicino monte Prashravana, e scelsero una grotta spaziosa e ben ventilata, sul pendio della montagna. A settentrione c'era una bella montagna la cui cima aveva l'aspetto di una nuvola. Verso sud c'era un'altra montagna la cui cima era coperta di neve. C era un fiume che scorreva nelle vicinanze. La grotta non era neanche lontana da Kishkinda: potevano udire la musica e il suono dei tamburi dei felici vanara, che danzavano per esprimere la loro gioia. Tuttavia in quel luogo Rama non trovava pace senza Sita, che a lui era più cara della sua stessa vita.
Quando Rama espresse la sua angoscia, Lakshmana cercò di consolarlo, e aggiunse: "Ti sto solo ricordando il tuo potere e la tua saggezza, non ti sto insegnando".
Rama rispose: "Ho allontanato questo tipo d'angoscia, che è un ostacolo a qualsiasi azione. Sto aspettando con impazienza l'arrivo dell'inverno, quando potremo sconfiggere Ravana e potrò riavere Sita. Sono sicuro che Sugriva farà questo per me. Un eroe ripaga l'aiuto restituendolo. L'essere ingrato che non ripaga il suo debito viene evitato dai virtuosi".
Era giunta la stagione delle piogge. Per mitigare il dolore della separazione da Sita, Rama descrisse poeticamente a Lakshmana la bellezza e la grandiosità della stagione:
"Guarda, cominciano i monsoni. Durante questa stagione nulla si potrà fare per liberare Sita. Il cielo, che ha ricevuto il vapore acqueo dagli oceani, lo ha trattenuto per così dire per nove mesi, e ora si sgrava dell'acqua! Nubi nere sono ammassate nel cielo: e appaiono come gradini, sui quali ci si potrebbe arrampicare e andare ad inghirlandare il sole! Le nuvole della sera sono rosse, e hanno intorno delle nuvole bianche: sembrano come ferite sanguinanti che sono state fasciate con bende bianche. La terra è calda e nello stesso tempo bagnata da torrenti d'acqua: e questo mi fa pensare a Sita, arsa dal dolore e in lacrime per me. I monti mi sembrano dei brahmachari: le nuvole scure sono come le pelli di daino intorno ai loro fianchi, i torrenti sono il cordone sacro, e il suono che proviene dalle caverne è come l'Om. Guarda quel fulmine circondato da nubi nere: mi sembra Sita che lotta nella morsa di Ravana.
"Quegli alberi coperti di fiori e gli altri grondanti d'acqua, come se versassero lacrime, risvegliano in me l'amore per Sita. I tori e le vacche che si cercano mi fanno desiderare Sita. Ascolta l'orchestra della giungla, Lakshmana: le api con gli strumenti a corda, le nuvole cariche di pioggia che suonano i tamburi e le rane che ne vocalizzano i battiti. Guarda i pavoni che danzano allegramente. Le nuvole oscurano il sole per tutto il giorno, e solo dal comportamento degli uccelli e degli animali si capisce che il sole è tramontato. Le piogge torrenziali hanno posto fine alle ostilità tra sovrani rivali e anche al movimento del traffico sulle strade.
"Altrove, ad Ayodhya, Bharata deve aver completato tutti i preparativi per la stagione delle piogge e starà ora osservando i voti connessi alla stagione. Il Sarayu sarà probabilmente in piena. A Kishkindha, Sugriva si gode la vita, dopo avere riavuto la moglie e il regno. Ma la mia angoscia è senza limiti; la stagione dei monsoni sembra interminabile; Ravana è un terribile nemico, difficile da sconfiggere: ecco come tutto mi appare. Spero che Sugriva, dopo essersi riposato per un po', mi offra spontaneamente il suo aiuto. Questa infatti è la caratteristica di un vero amico. Spero che non si mostri ingrato. Io non l'ho spinto a intraprendere subito l'impresa perché so le difficoltà che s'incontrano durante la stagione delle piogge. Ora attendo con ansia la volontà di Sugriva e la fine delle piogge".
Lakshmana consolò Rama, rassicurandolo che Sugriva avrebbe senz'altro mantenuto la sua promessa.
La stagione delle piogge era terminata. Il cielo era tornato limpido, e i tuoni e i lampi erano cessati. Ma Hanuman vedeva che re Sugriva era totalmente preso dai piaceri dei sensi e aveva dimenticato il suo dovere, compiendo il quale avrebbe guadagnato prosperità e Dharma. Invero egli aveva trascurato anche gli affari di stato, che aveva delegato ai suoi ministri, e si era isolato dal popolo: dedicandosi completamente all'indulgenza dei sensi. Ora la sua sovranità non era più minacciata, visto che Vali era stato ucciso grazie al valore di Rama. Ma Hanuman era consapevole del pericolo dell'iniquità, di trascurare il proprio dovere.
Hanuman, che conosceva l'arte della persuasione e l'uso delle parole, avvicinò Sugriva con umiltà e delicatezza e, cantando le sue lodi, lo allietò portando gioia alla sua mente. Infine egli ricordò al re ciò che è benefico, veritiero e appropriato, usando parole che descrivevano saggiamente un misto di piacere e dispiacere, e che portavano impresso lo stampo della fedeltà e della certezza:
"O re, tu hai riottenuto il tuo regno e tua moglie: in questo modo il tuo scopo è stato raggiunto. Ora rimane da compiere l'opera del tuo amico. In questo mondo, chi aiuta gli amici al momento giusto prospera; la sua fama aumenta, e con essa anche il suo potere. Quel re per il quale il suo tesoro, le sue forze armate e i suoi amici sono ugualmente importanti come la propria persona, governerà un potente regno. Perciò bisogna abbandonare ogni altra cosa e servire i propri amici; altrimenti, si invita il disastro. Questo servizio però dev'essere dato in tempo: un servizio spettacolare, reso ad un amico dopo che è passato il tempo in cui il servizio stesso si rendeva necessario, non raggiunge lo scopo. Perciò ti prego, ordina che si cominci il lavoro per Rama e che si usino modi e mezzi per scoprire e salvare Sita. Rama non viene a ricordarti il tuo compito, anche se sarà certamente ansioso che lo si faccia al più presto, perché ora egli è nelle tue mani. Inoltre non dobbiamo dimenticare che Rama è potentissimo e perfettamente in grado di distruggere anche dèi e semidèi, figuriamoci i demoni: eppure egli sta aspettando, per vedere se tu manterrai la tua promessa. Il fatto stesso di servire Rama è un bene, e anche se egli non avesse fatto nulla per te, sarebbe stato lodevole servirlo. E quanto più lo è dopo che ti ha reso un servizio inestimabile! Ti prego perciò di ordinare ai vanara d'andare in cerca di Sita. Noi tutti obbediremo ai tuoi ordini e non avremo riposo finché non troveremo Sita".
Sugriva lodò questo consiglio e ordinò la coscrizione generale di tutti i vanara a Kishkindha. E decretò: "Chi non si presenterà qui entro quindici giorni da oggi, perderà la vita".
Vivendo nella grotta insieme a Lakshmana, Rama contava i giorni della stagione delle piogge. Ogni giorno gli sembrava interminabile, come fosse stato un anno intero, a causa della sua separazione da Sita.
Finalmente egli notò che la stagione delle piogge era davvero terminata. L'inverno s'avvicinava rapidamente. Ora Sugriva avrebbe dovuto accingersi a inviare i suoi vanara in cerca di Sita.
Rama pensò: "Quando eravamo insieme nell'eremitaggio, Sita amava il modo in cui la gru chiamava il suo compagno: ella stessa aveva la dolce voce della gru! Come può trovare gioia adesso? L'albero di ashana è carico di fiori e mi fa pensare a lei. Quando anche lei vedrà che l'albero di ashana è in fiore, che cosa farà, non potendomi vedere? L'amabile Sita, la cui voce era dolce come quella del cigno, si svegliava ogni mattina per ascoltare il canto dei cigni: ma ora, in che modo si divertirà? Come sarà triste, adesso che è senza di me, quando vedrà gli uccelli cakravaka che volano a coppie, ricordandole di me e del mio amore per lei? Senza di lei, senza la mia amata Sita non trovo alcuna gioia nel passeggiare per la foresta, o lungo le sponde dei fiumi o dei laghi. Con il suo amore e il suo desiderio per me ulteriormente intensificato dal sopraggiungere della stagione invernale, ella è sicuramente tormentata da questa crudele separazione da me".
Tornando dopo essere andato in cerca di frutti, Lakshmana vide che Rama sedeva con l'espressione abbattuta. Trovarlo così non era cosa nuova, ed egli sapeva che cosa tormentava suo fratello.
Avvicinandosi a Rama, Lakshmana gli disse: "Nobile fratello! Perché ti lasci andare così alla passione, negando in tal modo il tuo vigore? Il dolore ti deruba della tua equanimità mentale. Non puoi allontanare questi tristi pensieri per mezzo dello yoga? Ti prego, riacquista la serenità e la pace mentale, riacquistando in tal modo la tua forza interiore, grazie alla pratica dello yoga (kriya yoga) e al conseguimento dello yoga (unione) del samadhi (estasi). Allora godrai dell'abilità di fare ciò che bisogna fare.
"Non stare a preoccuparti di Sita: perché nessuno nei tre mondi potrà tenerla lontana da te! Senza dubbio, dobbiamo fare tutto ciò che è necessario; e dobbiamo farlo con straordinaria efficienza e diligenza. E tutto questo dev'essere fatto senza farsi prendere dall'ansia riguardo al risultato".
Rama disse a Lakshmana: "Guarda, fratello, la stagione delle piogge è terminata. Indra, il dio della tempesta, ha completato il suo lavoro e ora si è ritirato. Le nuvole hanno compiuto con successo la loro opera e riposano anch'esse. I venti che spingevano qui e là le nuvole cariche di pioggia, e le facevano svuotare, si sono placati. I tuoni e i rimbombi che riempivano il cielo hanno ceduto il posto a un estremo silenzio. Le foreste e le cime delle montagne luccicano dallo splendore, dopo essere state completamente ripulite dalle piogge.
"Il fragore dei torrenti, il gracidare delle rane e le grida dei pavoni sono cessati. I serpenti escono dai loro buchi. Le strade sono state liberate dal fango e sono di nuovo percorribili, invitando i re a marciarvi. Le acque dei fiumi e dei laghi sono tornate chiare e trasparenti. Cupido, il dio dell'amore, vaga di nuovo per il mondo pronto a risvegliare la passione nel cuore di uomini e donne.
"Per ogni re questo è il tempo di dare inizio a spedizioni contro i propri nemici. E questo è il tempo che si era stabilito perché Sugriva inviasse i vanara in cerca di Sita. Eppure non ho visto alcun segno da parte sua. I quattro mesi della stagione delle piogge sono trascorsi; e a me sono sembrati cent'anni, affranto com'ero per la separazione da Sita. Ma Sugriva non mi ha mostrato clemenza. Penso che mi stia trascurando, sentendo che sono 'un indigente, esiliato dal regno, ingannato da Ravana, lontano da casa, povero, tormentato dalla passione', e che io sia completamente dipendente da lui. Fu lui stesso che si offrì di iniziare la ricerca di Sita non appena la stagione delle piogge fosse terminata: ora, quel folle, ha completamente dimenticato. Penso sia meglio che tu vada a dirgli: "L'uomo ingrato che riceve favori da un amico promettendo di ricambiare, e poi manca di onorare la promessa è il peggiore dei malvagi. Mentre è veramente un eroe chi mantiene la sua promessa, sia che essa appaia buona o cattiva. Vuoi forse provocarmi ad usare ancora una volta il mio missile, come ho fatto per uccidere Vali?". Ora che il suo scopo è stato raggiunto, Sugriva ha convenientemente dimenticato la sua promessa. Ovviamente si è abbandonato ai piaceri dei sensi; sicuramente non si rende conto di cosa accadrebbe se la mia ira si destasse e fosse diretta contro di lui! È meglio che tu vada a dirgli: "La via che Vali ha preso per lasciare questo mondo non è chiusa: Attento!". Digli che distruggerò lui e tutta la sua gente. Digli tutto ciò che riterrai necessario per fargli intraprendere immediatamente la ricerca di Sita".
Lakshmana vide che Rama era adirato; e la sua collera contro Sugriva si destò pienamente.
L'ira e il dolore di Rama sollevarono la furia di Lakshmana, che disse al fratello: "È malvagio da parte di Sugriva non mantenere la sua promessa. E i malvagi come lui non devono essere posti sul trono. Oggi stesso lo spedirò nel regno della morte, dove ritroverà suo fratello Vali. Dopo potremo chiedere ad Angada di mandare i vanara in cerca di Sita".
Rama pacificò Lakshmana con queste parole: "Gli uomini nobili come te non contemplano un'azione tanto malvagia! Colui che annienta la collera è un eroe, il migliore tra gli uomini. Ti prego, tratta con Sugriva come ci si comporta con un amico. Mostragli amorevolmente l'urgenza della cosa e la giustezza della causa".
Allora Lakshmana, che faceva sempre come gli veniva detto, considerò cosa doveva dire a Sugriva, la sua possibile reazione, e l'ulteriore risposta da dare. Lakshmana era saggio quanto lo stesso guru. Tuttavia egli partì per Kishkindha pieno dell'ira generata dall'ira del fratello, a sua volta originata dal suo amore per Sita.
Nel vederlo arrivare, i vanara che erano in giro per le foreste di Kishkindha furono terrorizzati: essi percepirono la sua ira e capirono quanto fosse pericoloso incontrarlo. Rapidamente afferrarono ogni sorta di rocce e alberi a loro vicini, pronti a difendersi. Ma l'ira di Lakshmana crebbe ancora di più e, temendo per loro, i vanara si dispersero e andarono a cercare rifugio in Sugriva.
Il comandante dei vanara cercò di farsi ascoltare da Sugriva per comunicargli la notizia dell'arrivo di Lakshmana, ma Sugriva era troppo ebbro per poter prestare attenzione a qualsiasi cosa.
Non potendo decidere esattamente che cosa fare, i ministri ordinarono ai vanara di difendere Kishkindha da Lakshmana. Essi tornarono indietro per affrontare Lakshmana. Angada si fece avanti per accertare qual era la causa della sua ira. Ancora infuriato, Lakshmana ordinò ad Angada di annunciarlo immediatamente a Sugriva.
Angada valutò la situazione, fece ritorno al palazzo e afferrò i piedi di suo zio e di sua moglie Ruma. Sugriva era ancora inebriato. Ora tutti i vanara impauriti fuori del palazzo cominciarono a urlare dalla paura. Questo fece tornare Sugriva alla sobrietà.
Allora alcuni dei suoi ministri gli dissero: "Rama e Lakshmana, che sono devoti alla verità e hanno sembianze umane, sono degni d'essere sovrani, pur avendo dato a te il regno. Lakshmana è alla tua porta; per questo i vanara impauriti gridano. Fa' come Rama ha fatto per te, e fallo presto, o re; adempi la promessa fattagli".
Sugriva disse: "Io non ho offeso né Rama né Lakshmana. Non ho fatto nulla per offenderli. Allora perché Lakshmana è in collera con me?".
Hanuman rispose molto gentilmente: "Penso che la ragione sia ovvia, o re. Tu avevi promesso di organizzare la ricerca di Sita non appena fosse terminata la stagione delle piogge; ora la stagione è terminata, ma la ricerca di Sita non è ancora iniziata. Tu non t'accorgi che il tempo passa! Lakshmana è venuto sicuramente a ricordarti questo. Penso sia meglio che tu porga loro le tue scuse e adempia immediatamente la tua promessa".
Angada invitò Lakshmana ad entrare nel palazzo. Il palazzo - che aveva sette mura, ognuno con una propria porta - mostrava segni di grande ricchezza.
Lakshmana, che aveva un carattere integerrimo, non entrò negli appartamenti privati di Sugriva: ancora fumante di rabbia, egli attese fuori da solo. Sugriva udì il suono dell'arma di Lakshmana, ed ebbe la conferma che egli era lì come aveva detto Angada. Quindi disse a Tara: "Ti prego, va' e informati sul motivo della collera di Lakshmana; di certo egli non si comporterà male con te. Poi torna e riferiscimi la verità".
Tara s'avvicinò a Lakshmana e gli chiese: "Dimmi, ti prego; per quale motivo sei adirato con noi". Lakshmana gradì l'approccio conciliativo di Tara e disse: "Sugriva è immerso nei piaceri dei piaceri dei sensi e ha perso di vista la promessa che ci aveva fatto. È sempre ubriaco e non è mai sobrio. Tutto questo bere è contrario al Dharma e al raggiungimento del proprio benessere. Il bere è un ostacolo al Dharma, al benessere materiale e anche al godimento dei giusti piaceri. L'ingratitudine è nemica del Dharma; e la perdita di un amico è nemica del benessere materiale. Ora Sugriva sta invitando queste due cose, trascurando la sua obbligazione nei confronti di Rama".
Tara volle subito informare Lakshmana: "In realtà Sugriva ha già preso provvedimenti per adempiere la promessa fatta a Rama. Molti vanara sono già arrivati qui in obbedienza al suo comando. Però so che egli è stato negligente, e ne conosco pure la ragione: tu non conosci il potere della lussuria, anche se conosci bene quanto sia potente la collera. La persona soggetta alla lussuria è inconsapevole del tempo e del luogo, del Dharma e del benessere materiale. Anche i saggi sono caduti vittime della lussuria. E allora come puoi aspettarti che la vinca un incolto vanara? Ti prego, entra e incontra Sugriva".
Lakshmana entrò e vide Sugriva seduto sul divano, con la moglie Ruma tra le braccia. E questo lo rese ancor più furente.
Profondamente scosso dalla vista di Lakshmana fiammeggiante d'ira, Sugriva riacquistò la sua sobrietà. Seguito dalle sue regine e da altri, egli s'accostò umilmente a Lakshmana con le mani giunte.
Lakshmana disse, ancora furente: "Un re giusto viene onorato da tutti. Il re ingiusto che fa false promesse viene evitato da tutti. Si dice che chi promette di dare un cavallo e non adempie la promessa, subisce le conseguenze del peccato di uccidere cento cavalli. Non mantenere la propria promessa equivale al suicidio, Sugriva. Chi promette d'aiutare un amico in cambio dell'aiuto ricevuto, e non mantiene la promessa, è un peccatore degno dell'esecuzione. E non è stata prescritta alcuna espiazione per l'ingratitudine. Sebbene i saggi abbiano prescritto espiazioni anche per l'uccisione di una mucca, per l'uso dei liquori e per la trasgressione di un voto, non ne hanno data una per l'ingratitudine. L'ingratitudine è un peccato imperdonabile. Tu sei un vanara ingrato, che ha dimenticato la sua promessa e si è dato, al contrario, all'indulgenza dei sensi. Vergogna! Invece d'impegnarti al servizio di Rama, ti sei perso nell'indulgenza dei piaceri dei sensi. Desideri fare anche tu la fine di Vali? Tu non hai provato la potenza dei missili di Rama, perciò ti comporti in questo modo".
Tara si fece avanti in difesa di Sugriva e rispose: "Ti prego, Lakshmana, non parlare così a Sugriva, egli non merita le dure parole che hai detto né è colpevole di quanto lo accusi. Sugriva non ha dimenticato il suo debito verso il valoroso Rama. È vero che essendo stato privato dei piaceri dei sensi per lunghissimo tempo, ora è caduto nella loro trappola. Dicono che il saggio Visvamitra trascorse dieci anni con la ninfa Ghritaci come fossero stati un solo giorno! Il piacere dei sensi ha il potere d'indebolire le proprie percezioni. Certo, la lussuria è molto potente. Ma tu non dovresti accusare Sugriva prima di accertare la verità, e non dovresti adirarti tanto. Le persone nobili come te non si fanno prendere dall'ira senza prima comprendere pienamente i fatti. Sono certa che Sugriva rinuncerà al regno, alle ricchezze, a sua moglie Ruma, a me e persino ad Angada per fare piacere a Rama. Egli ucciderà Ravana e riporterà Sita a Rama. Vali ci diceva che a Lanka ci sono cento milioni trecentonovantanovemila e seicento demoni. E devono essere tutti uccisi prima che si possa uccidere Ravana e salvare Sita. Tutto ciò non può essere fatto senza un considerevole aiuto e un'organizzazione adeguata. Sugriva ha già ordinato che tutti i vanara e tutte le altre tribù della foresta si presentino presto a rapporto da lui. Perciò ti prego, lascia cadere la tua ira".

[NOTA: Nella descrizione di 'altre tribù' ci sono parole che possono essere certamente tradotte come 'orsi', ecc.; ma potrebbero anche essere nomi di tribù di persone - come i 'naga' dell'odierno Nagaland, che non sono 'serpenti' come vorrebbe dire la parola.]

Udendo l'umile e cortese deferenza di Tara, Lakshmana si sentì placato e gratificato; e fece un cenno con la testa. Sugriva disse a Lakshmana: "Tutto ciò che oggi ho, lo devo alla grazia di Rama. Non potrò mai ripagare il debito che ho con lui, né lui ha bisogno dei miei umili servigi. Con il suo valore egli può uccidere Ravana e riprendersi Sita. Io considero una benedizione poterlo assistere in questa impresa. Non ho dimenticato che con un solo missile egli trafisse i sette alberi giganti, quella montagna laggiù e la terra stessa! Se ho fatto qualcosa di sbagliato nei vostri confronti, per amore o per negligenza, io vi supplico di poter essere perdonato".
Compiaciuto dal contegno e dalle parole di Sugriva, Lakshmana disse: "In te, Sugriva, mio fratello ha un eccellente amico e alleato. Tu hai un cuore puro. Tu sei certamente degno di essere il re dei vanara. Con il tuo aiuto, Rama distruggerà Ravana e riavrà Sita; poiché tu sei pari allo stesso Rama come forza ed energia. Ti prego di perdonare le dure parole che ho pronunciato prima a causa del mio dolore e della mia impazienza".
Poi Sugriva si rivolse ad Hanuman, e ordinò: "Fai venire qui rapidamente i vanara che dimorano nelle seguenti catene montuose: Mahendra, Himalaya, Vindhya, Kailash e Mandara. Fa' chiamare tutti i vanara di colore nero e dalla forza elefantiaca che vivono sul monte Anjana e che possono correre come il vento. E poi gli altri vanara che vivono sui monti orientali e occidentali, sui monti Padma, Mahasaila, Meru, Dhumra e Maharuna. Se essi non obbediranno al mio ordine o tarderanno ad arrivare, perderanno la vita. Fa' partire subito dei veloci messaggeri".
L'ordine fu eseguito immediatamente, e tutte le orde di vanara che ricevettero il comando di Sugriva arrivarono rapidamente a Kishkindha. Trenta milioni di vanara di colore nero, cento milioni di vanara di colore dorato dalle montagne occidentali, milioni di vanara dal colore della criniera del leone dalle catene montuose del Kailash, molti milioni di più dalla catena montuosa himalayana, molti altri dai monti Vindhya e innumerevoli vanara dalle coste 'dell'oceano di latte' e da un distante continente chiamato Tamalavana. Tutti arrivarono a Kishkindha portando vari doni a re Sugriva. Alcuni si fermarono nel luogo dove in precedenza era stato celebrato un rito sacro per propiziare il Signore Shiva; e là mangiarono i frutti e le radici eteree che avevano il potere di liberare dalla fame per un mese! Infine essi dissero a Sugriva: "I vanara provenienti da tutte le montagne e le foreste sono arrivati qui". Compiaciuto, Sugriva accettò le loro offerte.
Sugriva era felice. Con l'aiuto dei vanara che erano arrivati, la missione di Rama poteva considerarsi pressoché compiuta. Lakshmana disse a Sugriva: "Andiamo da Rama".
Sugriva acconsentì pieno d'entusiasmo e ordinò alle guardie del corpo di portare il suo magnifico veicolo. Questo era placcato d'oro e aveva una bellissima cappotta bianca. Quando arrivò, Lakshmana vi montò insieme a Sugriva.
Circondato solo dai capi delle orde vanara, Sugriva si recò da Rama. Quando lo vide, da lontano, Sugriva scese dal veicolo e si fermò in piedi umilmente con le mani giunte in segno di saluto. Anche i capi vanara fecero la stessa cosa. Rama vide davanti a sé ciò che appariva come un oceano di vanara, e ne fu molto felice.
Sugriva cadde ai piedi di Rama. Rama lo sollevò amorevolmente e lo abbracciò, e quindi gli disse gentilmente, con affetto: "C'è il momento del Dharma, d'acquisire dei meriti religiosi, e c'è il momento di lavorare per la prosperità materiale e il momento di dedicarsi al godimento dei piaceri dei sensi. Ma chi trascura il Dharma e i doveri terreni per il godimento dei piaceri dei sensi si sveglia troppo tardi, come l'uomo che dorme sui rami di un albero e si sveglia dopo che è caduto. Questo è il momento di fare i passi necessari per cercare Sita".
Sugriva ripeté quello che aveva già detto a Lakshmana. "Tutto ciò che ho oggi lo devo a te, Rama. Come posso dimenticare il debito che ho nei tuoi confronti? Chi dimentica il proprio debito verso l'amico è un vile peccatore. Guarda questi guerrieri: essi sono i comandanti dei vanara, e sono venuti da tutto il mondo con milioni di vanara per combattere contro Ravana e liberare Sita per ridarla a te".
Rama fu molto felice, e disse di nuovo: "Tu sei il mio migliore amico, Sugriva; e con il tuo aiuto mi libererò di tutti i miei nemici".
Mentre conversavano così tra loro, sentirono un grande tumulto. Sollevando una nube di polvere, i vanara si misero in marcia verso il luogo dove stava Rama. Milioni e milioni di vanara di ogni tipo, di ogni colore e statura, appartenenti alle più svariate tribù degli abitanti della giungla erano là.
Sugriva li presentò a Rama. Stando in piedi con le mani giunte in segno rispettoso di saluto, Sugriva disse a Rama: "Che questi eserciti di vanara si accampino confortevolmente sui fianchi delle montagne e nelle foreste, e che i loro comandanti mi diano informazioni precise sul loro numero e la loro forza".
In seguito Sugriva disse a Rama: "Sono arrivati innumerevoli vanara, ciascuna tribù con i propri capi. Ognuno di essi possiede forza e coraggio immensi. Essi attendono i tuoi ordini: perché sono il tuo esercito".
Rama rispose: "Penso che la prima cosa da fare sia quella di scoprire se Sita è ancora viva, dove si trova, e dov'è la terra in cui vive Ravana. Tu sei più qualificato di me per dare a questi condottieri vanara gli incarichi appropriati per questa ricerca. Tu sai quello che c'è nella mia mente e sai che cosa bisogna fare. Per me tu sei secondo solo a Lakshmana per ciò che riguarda la comprensione della missione e per la tua saggezza riguardo al modo migliore di compierla".
Felice della fiducia che Rama aveva riposto in lui, Sugriva chiamò Vinata, un capo tribù, perché conducesse la ricerca nella 'regione orientale'.
Dando le sue istruzioni a Vinata, Sugriva disse: "Recati nella regione orientale della terra, e cerca minuziosamente la dimora di Ravana e il posto dove si trova Sita. Attraversa i numerosi grandi fiumi, il Gange, lo Yamuna, il Sarayu, e gli altri. Ricerca intensamente nei grandi territori di Brahmamala, Videha, Kosala e altri ancora. Cerca nei territori dei Kirata dalla carnagione dorata. Vai nel Yavadvipa; e ancora oltre, fino al monte Sisira. Continua fino all'altra costa, dove troverai il Mar Rosso. Cerca Sita nelle foreste là intorno e sulle montagne. Cerca in tutte le isole di quella regione.
"Attraversando il Mar Rosso, raggiungerai un'isola abitata da demoni di tipo insolito. Essi sono chiamati Mandeha e rimangono sospesi sui pendii delle montagne. Ogni mattina sono arsi dallo splendore del sole e dal fulgore dei saggi che offrono preghiere, e cadono nell'acqua, riacquistando la loro vitalità e il loro vigore. Quindi tornano sui pendii delle montagne, dove si riappendono di nuovo capovolti. Superato questo luogo, vedrai un oceano bianco, che sembra l'oceano di latte. Nel mezzo di quest'oceano vedrai una montagna bianca chiamata Rshabha. Oltre quell'oceano ne troverai un altro d'acqua dolce, nelle cui regioni sotterranee troverai un terribile fuoco ardente conosciuto come Vadavamukha. A sud della costa settentrionale di quest'oceano troverai una grande montagna splendente come l'oro. Davanti ad essa vedrai un serpente dalle mille teste, bianco come la luna, e vestito per così dire con un abito blu: esso è il sostegno del mondo. Poi vedrai la montagna che rappresenta l'estremità orientale della terra. Oltre, vi è l'inaccessibile oscurità totale. Cerca Sita giungendo fin là. Torna a riferirmi tutto entro un mese".
Per fare cercare Sita nella regione meridionale, Sugriva scelse i migliori vanara. Nila, il figlio di Agni, Hanuman, il figlio di Vayu, il potentissimo Jambavan e molti altri potenti vanara furono scelti per questa spedizione.
Egli pose Angada, figlio di Vali e principe reggente, come comandante delle forze vanara che costituivano questo contingente di ricerca.
Nelle istruzioni che impartì loro, Sugriva li invitò a cercare soprattutto nei luoghi più inaccessibili.
Egli disse: "Iniziate dai monti Vindhya e proseguite cercando nelle pianure dei fiumi Narmada, Krishna, Godavari e Varada. Cercate minuziosamente nelle regioni Mekhala, Utkala, Vidarbha, Vanga, Kalinga, Andhra, Cola, Pandhya e Kerala. Quindi continuate a cercare nei monti Malaya, con le benedizioni del saggio Agastya che troverete là.
"Da lì procedete verso la città dalle porte d'oro dei Pandhya, le cui mura di cinta sono costellate di pietre preziose. Tra la città e l'eremitaggio di Agastya si trova il monte Mahendra, che è pieno d'oro e che Agastya fece affondare nell'oceano. Lo stesso Indra visita questa montagna ogni quindici giorni.
"Al di là di questo monte si trova l'isola inaccessibile che è larga ottocento miglia e alla quale gli esseri umani non possono accedere. Cercate quest'isola attentamente; sicuramente quello è il territorio del potente Ravana, che merita la morte. Prima di lasciare quel territorio, accertatevi che Sita non sia là: non lasciate che ci sia il minimo dubbio.
"Ottocento miglia oltre quell'isola, nell'oceano, si trova l'isola parzialmente sommersa di Pushpitaka, con le sue alte montagne che appaiono come oro e argento. Centododici miglia oltre Pushpitaka c'è il monte Suryavan, dopo di questo c'è il Vaidyuta e ancora al di là c'è il monte Kunjara, dove il saggio Agastya ha un eremitaggio largo ottanta miglia e lungo altrettanto, fatto d'oro e gemme preziose. Là c'è pure la dimora dei serpenti conosciuta come Bhogavati. Ispezionate attentamente questo luogo spaventoso. Cercate anche nella montagna che si trova oltre questo luogo e nota col nome di Rishabha.
"Al di là di quel monte c'è il mondo dei Mani: non andateci. Dovunque andate, cercate Sita attentamente. Chi di voi tornerà per primo, entro un mese, e dirà d'avere scoperto Sita, godrà dei miei stessi privilegi, poiché sarà a me molto caro".
Dopo aver inviato i vanara nei territori meridionali, Sugriva si rivolse a Sushena, che aveva la carnagione e l'apparenza di una nuvola. Sushena era il padre di Tara, il suocero del re, ed era molto valoroso. Sugriva si rivolse a Sushena e ad altri capi vanara, tra cui il vanara chiamato Marica e il gruppo di vanara chiamati Marici (perché erano figli del saggio Marici):
"Procedete verso occidente, attraversando i territori Saurashtra e Candracitra, Bahlika e Kukshi. Perlustrate tutti questi territori in cerca di Sita. Quindi arrivate fino alla confluenza del fiume Sindhu con l'oceano. Là troverete una grande catena montuosa chiamata Somagiri, che ha un centinaio di vette. Sulle coste delle montagne, nelle incantevoli foreste vivono leoni alati che afferrano e portano via grossi pesci e anche elefanti. Perlustrate attentamente tutte quelle foreste.
"Quando giungerete in riva al mare vedrete una montagna dalla cima dorata e grande ottocento miglia, nota come la montagna Pariyatra. Laggiù vive una tribù di esseri celesti che sono potenti; perciò non provocateli disturbando la foresta, ma cercate Sita anche là. Nelle vicinanze di quella montagna, ma nell'oceano, troverete un'altra montagna chiamata Vajra, che splende come fosse ricoperta di diamanti e altre pietre preziose. Cercate attentamente Sita nelle sue grotte.
"In una parte dell'oceano c'è la montagna Cakravan: dove Visvakarma pose il Sahasrara Cakra, una ruota con mille raggi (o un revolver con mille camere di proiettile). Una volta il Signore Vishnu uccise i demoni Pancajana e Hayagriva e prese la conchiglia dal primo e il cakra dal secondo. C'è anche l'immensa montagna chiamata Varaha, lunga cinquecentododici miglia, sulla quale si trova la città dorata di Pragjyotishapura, dimora del demone Naraka. Al di là di questa c'è la montagna d'oro massiccio chiamata Megha, sulla quale Indra, re del cielo, fu incoronato dagli dèi. Ancora più in là ci sono i sessantamila monti dorati, compreso il monte Meru, sul quale dimora il saggio Merusavarni. Inchinatevi davanti a lui e chiedetegli di Sita; ma non procedete oltre quel punto.
"Non state via più di un mese. Insieme a voi, o eroi, invio anche mio suocero. Egli è un valoroso guerriero, e voi tutti dovete obbedirgli Certo voi siete tutti comandanti delle vostre forze, ma in questo caso dovete trattarlo come la vostra autorità suprema. Andate dunque verso occidente in cerca di Sita. Quando Sita verrà trovata e restituita a Rama, avremo fatto il nostro dovere. Se nel corso della spedizione penserete che sia utile fare altre cose, fatele pure!".
Dopo la partenza di Sushena e del suo gruppo verso occidente, Sugriva si rivolse a un altro potente vanara di nome Satabali e gli disse:
"Seguito da una grande schiera di vanara e dai tuoi stessi consiglieri, che sono tutti discendenti del sole, vai verso nord, o potente vanara! E insieme fate una meticolosa e diligente ricerca di Sita. Quando ritroveremo Sita e la riconsegneremo a Rama, avremo compiuto la più grande impresa della nostra vita. Soltanto la vita di chi si mette al servizio di un bisognoso è fruttuosa, anche se questi non gli ha reso alcun servizio: e quanto più è vitale quando il servizio è reso in cambio di un grande favore!
"Andate dunque nelle terre dei Mlecca, dei Pulinda, dei Surasena, dei Prasthala, dei Bharata, dei Kuru, dei Madra, dei Camboja e degli Yavana, che si trovano tutte a nord. Perlustrate quelle terre e cercate nelle montagne himalayane. Continuate fino all'eremo del saggio Soma, oltre al quale c'è il monte Kala: cercate Sita nelle grotte. Ancora oltre c'è il monte Sudarshana e poi il Devasakha: cercate anche là.
"Andando ancora oltre troverete una terra desolata priva di montagne, fiumi e alberi. Attraversatela velocemente, e infine vedrete il monte Kailash. Oltre il monte Kraunca c'è il monte Mainaka. Valicando questa montagna vedrete gli eremi dei siddha (saggi). Vedrete anche donne con i volti di cavalli. Nelle vicinanze vedrete il lago Vaikhanasa.
"Oltre questo lago il cielo stesso è illuminato dallo splendore dei saggi che vi dimorano. Procedete in quella direzione, e raggiungerete il fiume Sailoda. Lungo le rive di quel fiume c'è il territorio conosciuto come Uttara Kuru. In quel paese gli alberi sono carichi di fiori e frutti, alcuni dei quali sembrano pietre preziose! Da questi alberi, gli uomini e le donne che vivono là ottengono indumenti, letti e gioielli. Gli uomini e le donne di quel paese sono molto fortunati, e vivono godendosi la vita. Là nessuno è infelice, e ogni giorno tutti sviluppano qualità che appagano la mente.
"Ancora più in là di quel territorio c'è la montagna chiamata Somagiri: coloro che hanno raggiunto il mondo di Indra, il mondo di Brahma e il mondo celeste vedono quella montagna. Anche quando il sole non vi risplende, tutta la regione è illuminata dallo splendore della montagna! Il Signore Vishnu, il Signore Shiva e Brahma vivono là, circondati dai saggi. Non avventuratevi in quella regione, ma perlustrate tutti gli altri territori e sforzatevi più che potete di trovare Sita".
Sugriva era certo che soltanto Hanuman sarebbe stato in grado di portare a termine l'impresa!
Perciò, pur avendo impiegato milioni di vanara per formare i gruppi che dovevano andare in cerca di Sita, egli aveva un messaggio speciale per Hanuman; e prima che quest'ultimo partisse, Sugriva gli disse:
"Non c'è nulla che io possa immaginare come ostacolo per te, Hanuman, né su questa terra né nell'aria né nell'acqua, e neanche nei cieli. Tu conosci tutti gli esseri dei tre mondi, e ne conosci sia la forza che la debolezza. Non è ancora nato in questo mondo uno che ti possa essere pari in forza e splendore! Per questo, solo tu puoi escogitare un piano per scoprire Sita. Solo in te c'è la forza, la potenza e l'intelligenza, come pure il vero giudizio".
Rama fu molto felice di sentire elogiare il valore di Hanuman. Egli si tolse l'anello con il suo sigillo e glielo diede, aggiungendo queste parole: "Ti prego, Hanuman, porta con te quest'anello. Quando troverai Sita e le mostrerai l'anello, lei capirà immediatamente che vieni da parte mia e che io stesso ti ho inviato a cercarla. Il tuo entusiasmo e la tua dedizione al compito che ti è stato affidato, la tua forza e il tuo valore, come pure la stima che Sugriva ha di te - tutte queste cose insieme mi convincono che il tuo sforzo sarà coronato dal successo. O Hanuman! Io dipendo da te. Tu sei dotato di una forza immensa. Ti prego, fai tutto ciò che è necessario per trovare Sita".
Dopo avere ricevuto ognuna le proprie indicazioni, tutte le schiere di vanara guidate dai rispettivi capi partirono nelle direzioni loro assegnate.
Quindi Rama e Lakshmana ritornarono nella loro dimora, nella grotta sul monte Prashravana.
Mentre le schiere vanara marciavano ciascuna nella propria direzione, gli armati cantavano pieni d'entusiasmo: "Io troverò Sita". "Sarò io ad uccidere Ravana". "Per trovare Sita, possiamo arrivare perfino nel mondo degli inferi". "Per cercare Sita, possiamo attraversare anche l'oceano". "Per potere trovare Sita, possiamo attraversare perfino il terribile oceano". "Nessuno può sbarrarmi la strada, e sopravvivere".
Grande era il loro entusiasmo. Grande era il loro desiderio di compiere la loro parte per aiutare la missione di Rama.
Mentre Sugriva dava istruzioni ai condottieri delle truppe inviate per cercare Sita, Rama rimase meravigliato dalla conoscenza dettagliata e accurata che Sugriva possedeva della geografia del mondo. Preso dall'ammirazione e dalla curiosità, egli chiese a Sugriva come avesse fatto ad apprendere la geografia del mondo cosi bene e in maniera tanto completa.
Sugriva rispose: "O Rama, tu sai come Mayavi, il figlio di Dundubhi, avesse sfidato mio fratello maggiore Vali, e come Vali lo inseguì nella grotta. Io rimasi fuori della grotta per un anno intero, aspettando che Vali venisse fuori dopo aver ucciso il demone. Sai pure che poi vidi uscire del sangue fuori della grotta e che da questo trassi la conclusione che Vali fosse stato ucciso. Dopo di questo tu sai che ritornai a Kishkindha e i ministri mi installarono sul trono come loro re.
"Poi Vali ritornò dopo un certo tempo, dopo essere riuscito a rimuovere la grande roccia che io avevo posto all'ingresso della caverna. Tu sai che nonostante gli chiedessi infinitamente scusa e l'implorassi di ascendere al trono, Vali pieno di collera cominciò ad inseguirmi con l'intenzione di uccidermi.
"Allora, o Rama, cominciai a correre per salvarmi la vita. Arrivai fino all'estremità orientale della terra, e mi accorsi che Vali m'inseguiva ancora. Quindi scappai allo stesso modo in tutte e quattro le direzioni. Durante quella fuga, vidi ogni angolo della terra, che naturalmente m'appariva come l'impronta di un vitello. Fu in quel periodo che acquisii una conoscenza profonda e dettagliata della terra. Quando ritornai a Kishkindha, perplesso e incapace di decidere cosa fare, Hanuman mi disse: "Adesso ricordo che Vali suscitò la collera del saggio Matanga, che lo maledì e gli proibì per sempre di mettere piede sul monte Rshyamuka. Se andassimo là, Vali non potrebbe inseguirti". Allora andai velocissimo sul monte Rshyamuka, dove ho continuato a vivere fino a poco tempo fa".
I vanara, che erano andati nelle diverse direzioni, fecero una diligente ricerca seguendo le istruzioni di Sugriva. Essi cercarono dappertutto; senza tralasciare nulla, esplorando ogni luogo. Ma non ebbero successo. Passato un mese dal giorno in cui erano partiti, essi ritornarono a Kishkindha tristi e disperati, e riferirono a Sugriva: "O re, abbiamo cercato dappertutto. Quando vedevamo qualcuno prepotente, sospettando che si potesse trattare di Ravana l'inseguivamo, lo sfidavamo e a volte lo uccidevamo anche. Ma non abbiamo potuto trovare Sita. Siamo certi, però, che Hanuman avrà successo. Egli è andato nella direzione in cui Sita è stata portata via".
Angada, Hanuman ed altri andarono verso sud. Essi cercarono accuratamente nella regione dei monti Vindhya e in ogni luogo che attraversavano, ma non riuscirono a trovare Sita. Nel corso della loro ricerca giunsero in un luogo completamente desolato dove non cresceva nulla e dove non si vedevano né animali né uccelli. Un tempo in quella regione aveva vissuto un grande saggio chiamato Kandu, un asceta pieno di grande potere spirituale. Era accaduto che suo figlio, che aveva appena dieci anni, era morto durante la loro permanenza in quella regione. Pieno di collera, il saggio aveva lanciato una terribile maledizione contro quella terra che non aveva potuto mantenere in vita suo figlio! Da allora quella terra era diventata desolata.
I vanara penetrarono in una foresta terrificante, e là videro un demone spaventoso. Angada pensò che si trattasse di Ravana, e lo uccise in una cruenta battaglia. Ma, ahimè, non si riuscì a trovare Sita. Il morale dei vanara era molto basso, e il loro entusiasmo era calato.
Angada disse loro: "Vi prego, amici, non lasciatevi prendere dalla tristezza, dalla disperazione, dall'apatia e dall'ozio. I mezzi per raggiungere il proprio scopo sono: l'entusiasmo che non conosce disperazione, l'efficienza, e una mente che non si lascia sopraffare dall'apatia o dalla depressione. Dobbiamo continuare la nostra ricerca senza allentare minimamente il nostro sforzo. Se v'impegnerete assiduamente, il frutto del vostro lavoro sarà certo. Inoltre è bene ricordare che cosa significherebbe arrecare dispiacere al nostro re Sugriva, e che terribile delusione sarebbe per Rama". Il vanara Gandhamadana applaudì l'esortazione di Angada.
Allora tutti i vanara scalarono la Montagna Argentata in cerca di Sita, ma non riuscirono a trovarla. Mentre esploravano le grotte nel versante sud-occidentale, essi scoprirono una caverna inaccessibile che era custodita da un demone. Avevano fame e sete, e videro che la grotta conteneva piante, alberi, uccelli e oche; da ciò dedussero che doveva esserci anche dell'acqua. Inoltratisi nella caverna, che era immensa e molto profonda, dopo qualche tempo videro un punto chiaro e visibile. Tenendosi l'un l'altro, s'avvicinarono a quel punto luminoso, pieni di gioia e di speranza.
E là essi videro oro, gioielli e pietre preziose, e palazzi e appartamenti lussuosi. Pieni di stupore, andarono ancora avanti e poco dopo s'imbatterono in una radiosa asceta, vestita di cortecce e pelle di daino. Avvicinandosi umilmente a lei, Hanuman le chiese: "O santa donna, chi siete? Che cos'è questa strana caverna, e a chi appartengono quei gioielli?".
In risposta alla domanda di Hanuman, l'asceta disse: "O potente vanara, c'era una volta un grande mago chiamato Maya, il quale fece costruire questa grotta. Anticamente egli era stato un grande costruttore per i demoni. Egli praticò grandi austerità e così propiziò Brahma, il Creatore. Brahma concesse a Maya le immense ricchezze del saggio Sukra. Avendo ottenuto ciò che voleva, Maya si dedicò al godimento dei piaceri sensuali con la ninfa celeste Hema. Una volta che fu indebolito da questo, Indra brandì la sua arma mortale e lo uccise. Poi Indra disse a Hema di ereditare la grande fortuna di Maya. Io sono Swayamprabha, figlia del saggio Merusavarni, e custodisco il palazzo di Hema, che è una mia cara amica. Vi prego, placate la vostra fame e soddisfate la vostra sete con questa frutta e queste bevande; e poi ditemi chi siete voi".
Dopo che lui e tutti i vanara si furono ristorati, Hanuman narrò a Swayamprabha la storia di Rama fino al suo incontro con Sugriva, e come tutti loro erano in cerca di Sita. Infine concluse dicendo: "Mentre eravamo completamente esausti e affaticati, e tormentati dalla fame e dalla sete, abbiamo visto degli uccelli acquatici uscire in volo da questa grotta e abbiamo concluso che doveva esserci dell'acqua all'interno. Con la vostra ospitalità ci avete salvato la vita. Diteci, come possiamo ripagare il nostro debito?".
Swayamprabha rispose cortesemente: "Io sono un'asceta e non ho bisogno del servigio di alcuno".
Allora Hanuman disse ancora: "Vi prego, diteci come uscire da qui! Abbiamo molta fretta e abbiamo già superato il tempo che ci era stato concesso". Volendoli aiutare, Swayamprabha chiese a tutti loro di chiudere gli occhi: e in un batter d'occhio si ritrovarono tutti fuori della grotta. Ora Swayamprabha indicò ad Hanuman: "Da quella parte c'è il monte Prashravana e nella direzione opposta c'è l'oceano". Detto questo, ella tornò nella grotta.
Tutti i vanara si riunirono per decidere cosa fare. Essi erano molto preoccupati, perché già quand'erano nella caverna avevano superato il limite di tempo stabilito da Sugriva. Angada disse: "Per noi la morte è certa, se torniamo dopo il tempo stabilito e senza notizie di Sita. Perciò è meglio che ci sediamo qui e digiuniamo fino alla morte. In realtà io non sono stato incoronato principe da Sugriva, ma da Rama. E Sugriva, che non mi ama molto, potrebbe approfittare di questa occasione per farmi uccidere". Tutti i vanara furono d'accordo: "Abbiamo mancato con Sugriva, e ora non è né saggio né salutare tornare da lui. Continuiamo a cercare Sita e torniamo da Sugriva dopo avere ottenuto notizie di lei; altrimenti cercheremo d'entrare nella dimora della Morte".
Uno dei capi vanara suggerì che tutti loro si rifugiassero nella caverna per sfuggire alla collera di re Sugriva. Angada non respinse la proposta, e Hanuman vide in questo la nascita di un complotto che avrebbe potuto portare ad una lotta tra Sugriva e Angada. Quest'ultimo era molto intelligente ed era un maestro nell'arte della politica. Allora il saggio Hanuman usò allo scopo la terza delle quattro strategie politiche studiate per trattare con gli oppositori: egli fece sorgere differenze di opinioni tra i capi vanara. E infine disse ad Angada: "Tu sei invero un grande e potente eroe, ma la mente dei vanara è incostante ed essi potrebbero non rimanerti fedeli. Nessuno di questi capi vanara, me compreso, volterà le spalle a Sugriva e seguirà te. Tu ti stai mettendo contro un potentissimo eroe, e questo non è saggio. E ancora peggio, tu credi che questa grotta sia un rifugio sicuro; ma non lo è. Anche Indra riuscì ad entrarvi e uccise Maya. I missili di Lakshmana potrebbero ridurre rapidamente la grotta in frantumi. Presto tutti i vanara ti abbandoneranno, per mancanza di viveri e di altre cose necessarie. Il piano che è stato suggerito è denso di pericoli. Io penso che sia più saggio tornare a Kishkindha e pregare Sugriva di perdonare il ritardo. Egli è un giusto e non ti farà del male".
Angada andò su tutte le furie: "Chi chiami giusto? Sugriva? Colui che ha sedotto la moglie del fratello maggiore che per lui doveva essere come una madre? Quello che ha bloccato l'uscita del fratello dalla grotta? Quello che una volta ottenuto il suo scopo aveva completamente dimenticato il bene fattogli da Rama, e stava pensando solo a divertirsi? Non dimenticare che è stato solo per paura dell'ira di Lakshmana che egli ci ha mandati in cerca di Sita, e non perché pensava che fosse una giusta causa! Credi che Sugriva tollererà come principe me, che sono il figlio del suo nemico Vali? È probabile che egli non mi farà del male o non mi ucciderà pubblicamente, ma di certo escogiterà per me qualche punizione segreta. Ed è meglio morire adesso che passare il resto della vita in una prigione solitaria. No, io non vengo. Tu puoi ritornare; salutalo da parte mia e raccontagli tutto. Quindi parla a mia madre e anche alla regina Ruma".
Così dicendo, Angada si buttò a terra. Tutti i vanara fecero altrettanto e decisero di digiunare fino alla morte. In preda alla disperazione e allo sconforto, essi maledirono persino il giorno in cui Rama e Sugriva s'erano incontrati. Cominciarono a parlare ad alta voce dell'esilio di Rama, del rapimento di Sita, della morte di Jatayu, dell'uccisione di Vali, e così via. Ma mentre stavano parlando, un grande pericolo si librava sulle loro teste.
Il rumore, le folate di vento e la polvere precedettero l'approssimarsi alla grotta di un enorme avvoltoio. I vanara che erano seduti su uno spiazzo fuori della grotta videro l'avvoltoio appollaiato su una grande roccia. Il suo nome era Sampati ed era il fratello di Jatayu. L'avvoltoio disse tra sé: "Di certo la Provvidenza invisibile controlla il mondo intero. E la Provvidenza benevola ha decretato che il cibo mi arrivi, per così dire, davanti alla soglia di casa. Non appena ognuno di questi vanara morirà, io ne mangerò la carne". I vanara, però, udirono queste parole e ne rimasero profondamente turbati.
Con la mente sconvolta dall'intensa paura, Angada disse ad Hanuman: "La morte è venuta a trovarci nelle sembianze di un avvoltoio. Ma come prima il nobile Jatayu ha dato la sua vita per servire Rama, così anche noi moriremo al suo servizio. Almeno Jatayu ha subito il martirio mentre cercava d'aiutare concretamente Sita; invece noi sfortunatamente non siamo riusciti a scoprire dove è stata portata".
Udendo queste parole, la mente di Sampati venne turbata. E chiese: "Chi di voi ha menzionato il nome del mio amatissimo fratello Jatayu? Non ho sue notizie da moltissimo tempo; e sentendo parlare del suo assassinio tutto il mio essere è sconvolto. Com'è successo?".
A questo punto i vanara erano increduli, tuttavia aiutarono Sampati a scendere dalla roccia. Poi Angada raccontò tutta la storia di Rama, inclusa la sua amicizia con Sugriva e l'uccisione di Vali. E infine concluse: "Siamo stati mandati in cerca di Sita, ma non siamo riusciti a trovarla, e il limite di tempo stabilito da Sugriva è scaduto. Per paura d'affrontare la sua collera, abbiamo deciso di rimanere qui e digiunare fino alla morte.
Sampati disse: "Jatayu era mio fratello. Io e lui stavamo volando verso la dimora di Indra, dopo che questi aveva ucciso il demone Vritra. Quand'eravamo vicini al sole Jatayu stava per svenire, ed io lo riparai. Ma le mie ali furono bruciate dal calore del sole, e caddi quaggiù. Anche se sono rimasto senza ali e senza potere, per amore di Rama vi aiuterò come posso. Qualche tempo fa ho visto una bellissima donna che veniva portata via da Ravana, e gridava: 'O Rama, o Lakshmana'. Ravana vive a Lanka, un'isola a ottocento miglia da qui. Grazie anche al potere della mia vista, riesco a vedere che sia Ravana che Sita vivono a Lanka. Con l'intuizione posso anche vedere che troverete Sita, prima di tornare a Kishkindha. Ora portatemi in riva al mare, in modo che possa offrire libagioni per la pace dell'anima di mio fratello". I vanara furono lieti d'aiutare Sampati.
Quando sentì dire a Sampati che aveva visto Sita, Jambavan gli si avvicinò e gli chiese: "Ti prego, dimmi più precisamente dov'è Sita e chi l'ha vista?".
Sampati rispose: "Di fatto mio figlio Suparsva ha avuto un incontro ancora più diretto con Sita e Ravana. Vi racconterò tutta la storia; ascoltate.
"Vi ho detto che in uno sconsiderato tentativo di volare fino al sole le mie ali furono bruciate, e io caddi senz'ali su questa montagna. Come gli esseri celesti sono estremamente lussuriosi, i serpenti sono pieni di terribile ira, i daini s'impauriscono facilmente, così noi avvoltoi siamo molto voraci. Come potevo appagare la mia fame insaziabile senza le ali? Mio figlio Suparsva s'impegnò a procurarmi regolarmente del cibo. Un giorno, di recente, egli non arrivò all'ora abituale e io cominciavo a essere tormentato dalla fame. Quando lo rimproverai per il ritardo, egli mi raccontò che cosa era successo quel giorno. E disse: "Mentre stavo cercando della carne da portarti da mangiare, ho visto un grande demone che volava tenendo una donna tra le braccia. Io l'ho bloccato, desiderando portarteli entrambi per il tuo pasto di oggi. Ma egli mi ha implorato di lasciarlo andare: e come potevo rifiutare la sua richiesta? Allora l'ho lasciato andare. Poco dopo ho udito alcuni saggi della regione esclamare: 'Per puro caso oggi Sita si è salvata'. Dopo che si erano allontanati, ho continuato a seguirli con lo sguardo per molto tempo e ho visto che quella donna lasciava cadere degli ornamenti sulle colline. Per tutto questo sono in ritardo, o padre!". È stato da mio figlio Suparsva che per la prima volta ho sentito dire del rapimento di Sita. Io non potevo sfidare e uccidere Ravana, perché non avevo né le ali né la forza di combattere. Ma a modo mio offrirò il mio servizio a Rama.
"Su questa montagna viveva un grande saggio chiamato Nisakara. Il giorno in cui io e Jatayu volavamo verso il sole e le mie ali furono completamente bruciate, caddi quaggiù e rimasi privo di sensi per qualche tempo.
"Quando ripresi conoscenza, con grande difficoltà raggiunsi l'eremo del saggio, perché desideravo molto vederlo. Aspettai lì e dopo un certo tempo lo vidi arrivare all'eremitaggio, circondato da orsi, daini, tigri, leoni e serpenti! Quand'egli varcò la soglia dell'eremitaggio, essi ritornarono nella foresta. Il saggio mi salutò soltanto ed entrò. Ma ben presto tornò dov'ero e mi disse: "Non sei forse Sampati? Jatayu non è tuo fratello? Voi due eravate soliti venire qui in forma umana per salutarmi. Sl, ti riconosco. Ma dimmi: chi ha bruciato le tue ali e perché sono state bruciate?".
Sampati continuò: "Le mie condizioni fisiche e la perdita delle ali e della vitalità m'impedivano di fornire un completo resoconto della nostra disavventura. Comunque, dissi al saggio: "Determinati a raggiungere il sole, cominciammo a volare verso di esso. Ci librammo alti nel cielo e da lassù guardammo la terra: le città apparivano come dei carri! Udivamo rumori strani nello spazio. Le montagne sulla terra sembravano ciottoli; e i fiumi apparivano come lacci che legavano la terra! L'Himalaya e i monti Vindhya sembravano elefanti che si bagnavano in uno stagno. Il senso della vista ci giocava brutti scherzi. Sembrava che la terra fosse in fiamme. Poi ci concentrammo sul sole per avere il giusto orientamento. Il sole sembrava grande quanto la terra. Jatayu decise di tornare giù. Io lo seguii, cercando di proteggerlo contro i raggi cocenti del sole, e le mie ali si bruciarono. Penso che Jatayu sia caduto a Janasthana. Io sono qui sui Vindhya. Che devo fare adesso? Ho perso tutto. Il mio cuore desidera la morte, che mi procurerò gettandomi da una rupe".
"Il saggio, però, rimase un po' in contemplazione e quindi disse: "Non disperare. Tu riavrai le ali, la vista, la forza vitale e l'energia. Ho udito una predizione: presto la terra sarà governata dal re Dasaratha, il cui figlio Rama andrà nella foresta in obbedienza al comando di suo padre; là Rama perderà la moglie Sita e invierà dei vanara a cercarla. Quando tu informerai i vanara sul luogo in cui Sita è tenuta prigioniera, allora riavrai nuove ali. Invero potrei farti ricrescere le ali anche adesso: ma è meglio che tu le riottenga dopo aver reso un grande servizio a Rama". Non molto tempo dopo il saggio lasciò questo mondo.
"Ho atteso impazientemente tutti voi, per qualche centinaia d'anni. Ho spesso pensato di commettere suicidio; ma ogni volta ho abbandonato l'idea, sapendo d'avere una missione importante nella vita. L'altro giorno ho rimproverato mio figlio per aver lasciato andare Ravana con Sita; ma io personalmente non potevo inseguire Ravana".
Mentre Sampati stava parlando, delle nuove ali spuntarono ai suoi fianchi, sotto gli occhi dei vanara. I vanara gioirono e Sampati continuò: "È per grazia del saggio Nisakara che ho riavuto queste ali, o vanara; e, la crescita di queste nuove ali è prova sicura che riuscirete a trovare Sita".
Sampati si alzò in volo, per vedere se poteva ancora volare! Nel frattempo i vanara avevano abbandonato l'idea di digiunare a morte e avevano riacquistato l'entusiasmo e il morale. E ancora una volta partirono in cerca di Sita.
Le parole di Sampati ridiedero fiducia ai vanara, ma l'entusiasmo durò solo fino a quando non si trovarono di fronte allo stesso oceano. Raggiunsero la costa a nord dell'oceano meridionale, e là si fermarono Quando videro l'immensità dell'oceano i loro cuori s'avvilirono. Tutti esclamarono all'unisono: "Come possiamo attraversare quest'oceano e cercare Sita?".
Angada disse loro: "Non disperate, o vanara! Chi si fa prendere dallo scoraggiamento è derubato della sua forza e del suo valore, e non raggiunge il suo scopo". Udendo queste parole, tutti i vanara attorniarono Angada in attesa del suo piano. Ed egli continuò: "Chi potrà attraversare quest'oceano? Chi realizzerà il desiderio di Sugriva? Sarà sicuramente per grazia di quel vanara che riuscirà ad attraversare quest'oceano che potremo tornare a casa e rivedere le nostre mogli e i nostri figli: sarà per grazia sua che Rama e Lakshmana riceveranno grande gioia". Ma nessuno rispose. Angada continuò: "Certamente siete consapevoli d'avere una forza incommensurabile. Nessuno può ostruire il vostro cammino. Orsù, parlate: ditemi a che distanza ognuno di voi può andare".
Uno dopo l'altro i più potenti vanara risposero: "Io posso fare ottanta miglia". "Io posso percorrere una distanza doppia". "Io posso coprire tre volte quella distanza". E così via, finché non giunse il turno di Jambavan, che disse: "Molto tempo fa avevo una grande forza e avrei potuto facilmente attraversare l'oceano e ritornare, ma a causa della mia età avanzata sono diventato debole. Tanto tempo fa, quando il Signore Vishnu assunse la sua forma gigantesca (per misurare tutta la terra con un piede e il cielo con l'altro), io gli girai intorno. Ma ora, ahimè, sono incapace d'attraversare questo piccolo oceano".
Angada stesso dichiarò: "Io potrei sicuramente attraversare l'oceano e raggiungere Lanka, ma non sono certo di riuscire a fare il viaggio di ritorno. E se non tornassi, sarei andato invano". Ma Jambavan intervenne dicendo: "Oh, no: tu non devi intraprendere questo compito; quando si organizza una spedizione, il comandante in persona non deve mai andare. Tu sei la radice stessa di tutta la spedizione. E i saggi dicono che bisogna proteggere sempre la radice, perché conservando la radice ci si può sempre aspettare di raccogliere il frutto. Tu sei il nostro stimato capo, perciò non devi rischiare la tua vita in questa avventura".
Angada rispose: "Se nessun altro può attraversare l'oceano, e io non devo, allora siamo destinati a morire qui. Che cosa dobbiamo fare?". Ma Jambavan aveva altre idee, e disse: "O principe, c'è qualcuno tra noi che può compiere quest'impresa".
Jambavan si rivolse ad Hanuman: "E tu, o potente eroe, perché non parli? La tua potenza è pari a quella di Sugriva, anzi pari a quella di Rama e di Lakshmana; eppure te ne stai in silenzio.
"Voglio ricordarti la tua nascita e i tuoi antenati. La ninfa Anjana rinacque con il corpo di una donna umana come figlia di un capo vanara chiamato Kunjara. Si dice che un giorno, mentre riposava in cima ad un colle, il dio del vento, che aveva sollevato le sue vesti scoprendo le sue gambe attraenti, s'innamorò di lei. Il suo corpo fu come abbracciato dal dio del vento. Ma lei esclamò infuriata: "Chi osa violare la mia castità?". Il dio del vento rispose: "No, non ti violerò, donna! Ma poiché come vento sono entrato in te, darai alla luce un figlio che sarà mio pari in potenza".
"Anjana diede alla luce te, Hanuman! Quand'eri un bambino, un giorno hai visto il sole nel cielo, e pensando che fosse un frutto ti sei lanciato per coglierlo. Ma Indra t'abbatté con il suo fulmine e tu ricadesti sulla terra. Sbattendo, il lato sinistro del tuo mento si ruppe, e per questo sei stato chiamato hanu-man. Si dice che vedendoti ferito, il dio del vento s'arrabbiò; e nel mondo non ci fu più movimento di vento. Gli dèi impauriti propiziarono il dio del vento; e quindi Brahma il Creatore ti concesse il dono dell'invincibilità in battaglia. Quando Indra venne a sapere che non eri morto dopo essere stato colpito dal suo fulmine, ti conferì il dono che potrai morire solo quando lo vorrai. Non c'è nessuno pari a te in potenza o nell'abilità d'attraversare non solo quest'oceano, ma un oceano ancora più grande. Tutti gli altri sono scoraggiati. Di certo la missione dipende da te".
Man mano che gli venivano decantate le sue glorie e gli veniva ricordata la sua potenza, Hanuman per così dire cresceva in statura. Vedendolo pieno d'entusiasmo, gli altri vanara saltavano di gioia.
Hanuman cresceva in statura e muoveva la coda dalla grande gioia. Infine disse: "Ma certo che posso attraversare quest'oceano! Con la forza delle mie braccia posso anche spingerlo da parte. Agitato dalle mie gambe, l'oceano romperà i suoi argini. Io posso frantumare le montagne, posso lanciarmi nello spazio e solcarlo. Sono pari al dio del vento in forza e valore. Nessuno mi è pari all'infuori del divino Garuda. Potrei anche sollevare l'isola di Lanka e portarla via".
Immensamente ispirati da queste parole, i vanara esclamarono all'unisono: "Bravo, Hanuman. Tu ci hai salvati tutti. Pregheremo per il successo della tua missione, rimanendo in piedi su una sola gamba fino al tuo ritorno". Hanuman scalò la montagna pronto a lanciarsi.

FINE DEL KISHKINDHA KANDAM

 

 

 

 


Libro quinto: SUNDARA KANDAM - La magnifica impresa

Hanuman si stava preparando per saltare sull'oceano e attraversarlo per raggiungere Lanka. Prima di cominciare quest'avventura importante e vitale, egli rivolse preghiere al dio del sole, a Indra, al dio del vento, al Creatore e agli elementi. Poi si volse a est e s'inchinò al dio del vento, Vayu, suo padre. Infine volse lo sguardo a sud, per iniziare la sua grande missione.
Mentre stava là, con tutto il suo essere che si gonfiava d'entusiasmo, fervore e determinazione, nel momento in cui spinse il piede contro la montagna prima di prendere il volo, l'intera montagna tremò. E a causa della scossa i fiori caddero dagli alberi, gli uccelli e gli animali lasciarono i loro nidi e le loro tane, e le acque sotterranee sgorgarono all'esterno. Perfino gli esseri celesti amanti dei piaceri, e gli asceti amanti della pace, furono costretti a lasciare le loro dimore sulla montagna, e volarono nel cielo per osservare da lì l'avventura di Hanuman.
Dando prova della loro abilità e della loro conoscenza scientifica, i saggi e gli esseri celesti rimasero sospesi nell'aria sopra la montagna, desiderosi di assistere alla partenza di Hanuman per Lanka. E si dicevano l'un l'altro: "Il potente Hanuman, che è il figlio divino dello stesso dio del vento, attraverserà facilmente quest'oceano; perché egli desidera attraversarlo solo per adempiere la missione di Rama e quella dei vanara".
Hanuman si rannicchiò sulla montagna, pronto a partire come un lampo. Egli tese il suo corpo cercando così di radunare tutta l'energia che possedeva. Poi trattenne il respiro nel cuore, caricandosi ancora di maggiore energia.
Quando fu pronto si rivolse ai vanara che gli stavano intorno e disse: "Procederò verso Lanka con la velocità di un missile lanciato da Rama. Se nell'isola non troverò Sita, con la stessa velocità andrò a cercarla in cielo. E se non la trovassi neanche lì, prenderò Ravana, lo legherò e lo porterò davanti a Rama. Tornerò di sicuro coronato dal successo. E se fosse difficile legare Ravana e portarlo con me, sradicherò la stessa Lanka e la porterò a Rama".
Dopo avere rassicurato in questo modo i vanara, Hanuman si levò nel cielo. I grandi alberi radicati sulla montagna furono violentemente risucchiati dalla sua scia.
Alcuni alberi seguirono in volo Hanuman; altri caddero nell'oceano; e altri ancora fecero cadere i loro fiori sulle cime dei monti, formandovi vivaci tappeti. Altri fiori caddero sulla superficie dell'oceano, dove apparivano come stelle nel firmamento.
Il potente Hanuman si dirigeva verso Lanka, volando in direzione sud, con le braccia allargate. A volte sembrava che da un momento all'altro stesse per bere l'oceano; in un altro momento sembrava che volesse bere lo stesso cielo azzurro. Egli seguiva il corso del vento, e aveva gli occhi che luccicavano come il fuoco, come il fulmine.
Hanuman che volava nell'aria, con la coda raggomitolata all'insù, sembrava una meteora che con la sua coda attraversava il cielo da nord a sud. La sua ombra cadeva sulla superficie dell'oceano: e questo dava l'impressione che sull'oceano ci fosse una grande nave. Poiché volava sulla superficie del mare, lo spostamento d'aria causato dalla sua velocità agitava grandemente le acque.
Con il suo possente torace egli in effetti toccava la superficie dell'acqua. E così mentre ci volava sopra, il mare veniva agitato, e dietro la sua scia si sollevavano delle onde gigantesche. Sollevandosi fragorosamente, l'acqua si espandeva in un'infinità di bollicine sottili che alla fine sembravano formare tante nuvole.
Volando in questo modo nello spazio, senza alcun sostegno visibile, Hanuman aveva l'aspetto di una montagna alata.
E poiché Hanuman era impegnato in una missione al servizio di Rama, anche il sole era con lui e non lo bruciava. E poi Rama era un discendente della dinastia solare. Tutti i saggi che erano là presenti nelle loro forme eteree fecero piovere abbondantemente le loro benedizioni su Hanuman.
Vedendolo volare sopra le acque, Sagara - la divinità che presiedeva all'oceano - pensò tra sé: "Molto tempo fa gli antenati di Rama, i figli del re Sagara, mi resero un favore inestimabile. Perciò è mio dovere aiutare questo messaggero di Rama che è impegnato a rendergli un grande servizio. Devo far si che Hanuman non si stanchi durante il tragitto, col pericolo che fallisca nella sua missione. Devo fare in modo che abbia un po' di riposo, prima che proceda oltre".
Dopo avere deciso questo, Sagara chiamò Mainaka - la divinità che presiedeva alle montagne e che Indra aveva sommerso in fondo all'oceano - e le disse: "O Mainaka, Indra il capo degli dèi ti ha posta qui per impedire agli abitanti delle regioni sotterranee di venire su. Tu hai il potere di estenderti da tutti i lati. Ti prego, innalzati ed offri come un seggio ad Hanuman, che è impegnato in una importantissima missione per conto di Rama. In questo modo fa' che Hanuman possa riposarsi prima di procedere oltre".

[NOTA: Gli occhi che emettono fuoco e luce, un oggetto volante che si lascia dietro una scia (che sembra una coda), ecc., suggeriscono un razzo o un aereo a reazione.]

Acconsentendo prontamente alla richiesta di Sagara, la montagna Mainaka si sollevò dal letto dell'oceano. Mentre Hanuman volava verso Lanka vide emergere concretamente dall'oceano questa montagna, che gli si presentava davanti. Tuttavia egli pensò che si trattasse di un ostacolo che voleva impedire il suo avanzamento verso Lanka, un'ostruzione sul suo cammino da superare presto.
In effetti Hanuman passò a volo radente, sfiorando quasi la vetta della montagna; ma a causa dell'impeto del suo moto, la cima della montagna si spezzò.
Assumendo forma umana, la divinità che presiedeva alla montagna Mainaka si rivolse ad Hanuman, che intanto continuava il suo volo: "Ti prego, Hanuman, accetta la mia ospitalità. Riposati un po' sulla mia cima. Riprendi fiato. L'oceano fu ulteriormente esteso dai figli di re Sagara, un antenato di Rama. Perciò la divinità che presiede all'oceano desidera rendere in cambio questo servizio in segno di gratitudine: perché mostrare la propria gratitudine è il Dharma esterno. A tal fine il dio dell'oceano mi ha comandato di sollevarmi in superficie per offrirti un posto dove riposare. È nostra tradizione accogliere e onorare gli ospiti, anche se sono persone comuni; e quanto più importante è per noi onorare persone come te! C'è ancora un'altra ragione per la quale t'imploro d'accettare la mia ospitalità! Anticamente tutte le montagne erano dotate di ali. Esse andavano in giro volando e atterravano dove volevano; ma così esse terrorizzavano i saggi e tutti gli altri esseri. Rispondendo alle loro preghiere, Indra - il capo degli dèi - impugnò il suo fulmine e recise le ali delle montagne. Poi accadde che quando Indra stava per colpirmi, il dio del vento mi spinse violentemente e mi nascose nell'oceano. Fu così che mi salvai dalla furia di Indra. Perciò ho un debito di gratitudine con il dio del vento, che è tuo padre. Ti prego, permetti che mi possa sdebitare servendoti".
Hanuman rispose gentilmente: "Accetto volentieri la tua ospitalità, in spirito. Il tempo passa, e io ho una missione urgente da compiere; inoltre ho promesso che non mi sarei riposato finché non avessi portato a termine la mia impresa. Perciò perdona la mia rudezza e scortesia, ma devo continuare per la mia strada".
Come segno d'accettazione dell'ospitalità di Mainaka, Hanuman toccò la montagna con la mano e continuò subito il suo volo. Gli dèi e i saggi che assistettero a questa scena rimasero straordinariamente impressionati dal gesto di buona volontà di Mainaka e dallo zelo e dalla determinazione indefessa di Hanuman. Altamente compiaciuto dalla montagna Mainaka, Indra le conferì il dono dell'impavidità.
Gli dèi e i saggi che sorvegliavano il volo di Hanuman verso Lanka erano stati testimoni della sua prima dimostrazione di forza, quand'egli si era lanciato dal monte Mahendra, e della sua seconda dimostrazione di forza e d'entusiasmo: quando aveva rifiutato persino di riposarsi, insistendo sulla priorità del compimento della missione. Adesso essi volevano essere completamente certi della sua capacità di portare a compimento l'impresa che aveva cominciato.
Gli dèi e i saggi andarono da Surasa (la madre dei Naga) e le dissero: "Ecco Hanuman, il figlio del dio del vento, che sta attraversando in volo l'oceano. Per favore, ostacola il suo cammino solo per un po'. Assumi una spaventosa forma demoniaca, con il corpo grande come una montagna, con denti e occhi dall'aspetto terrificante, e con una bocca grande quanto lo spazio. Desideriamo accertarci della forza di Hanuman; perciò vogliamo vedere se, quando dovrà confrontarsi con te, egli avrà la meglio oppure si scoraggerà".
Obbedendo al loro comando, Surasa assunse una forma terrificante e si mise davanti ad Hanuman con la bocca spalancata. Mentre Hanuman continuava a volare, avvicinandosi alla sua bocca, Surasa gli disse: "Il fato ha decretato che oggi tu debba essere il mio cibo! Entra nella mia bocca e ti divorerò".
Hanuman però le rispose: "Donna, sto compiendo un'importante missione. Rama, il figlio di re Dasaratha, è andato nella foresta per onorare la promessa di suo padre. Mentre viveva nella foresta con sua moglie Sita e suo fratello, Sita è stata rapita da Ravana, il re di Lanka. Ora sto andando a Lanka per ritrovarla; perciò non ostruire il mio cammino. Lasciami andare! Se gli dèi hanno ordinato che io debba entrare nella tua bocca, ti prometto che non appena avrò scoperto Sita e informato Rama, tornerò qui ed entrerò nella tua bocca".
Surasa però era ben decisa, e ripeté: "Nessuno può sfuggirmi; ed è stato decretato che tu debba entrare nella mia bocca". E spalancò di nuovo la bocca.
Con il suo potere yogico Hanuman si rese piccolissimo, ed entrò rapidamente nella sua bocca e altrettanto rapidamente ne uscì! Poi le disse: "Donna, fammi continuare. Ho appagato il tuo desiderio ed ho onorato il decreto degli dèi: sono entrato nella tua bocca! Saluti a te! Ora andrò dove Sita è tenuta prigioniera".
Surasa abbandonò quella forma demoniaca e riacquistò la propria forma, che era d'aspetto piacevole. Quindi benedisse Hanuman: "Va'! Sicuramente riuscirai a trovare Sita e la riunirai a Rama". Gli dèi e i saggi furono entusiasti di questo terzo trionfo di Hanuman.
Hanuman continuò a volare verso Lanka, lungo la via aerea che contiene le nuvole cariche di pioggia e lungo la quale si rincorrono gli uccelli, là dove i maestri di musica si muovono liberamente e lungo la quale volano macchine aeree somiglianti a leoni, elefanti, tigri, uccelli e serpenti. Egli volava nel cielo che è anche la dimora di uomini e donne di saggezza che hanno accumulato molte opere meritorie, e che è come una calotta - adornata dal sole e dalla luna, dai pianeti e dalle stelle - creata dal Creatore Brahma per proteggere gli esseri viventi sulla terra.
Mentre volava egli lasciava dietro di sé una scia nera che somigliava alle nuvole scure, e a tratti lasciava anche scie rosse, gialle e bianche. Spesso volava attraverso formazioni di nubi.
Una demonessa di nome Simhika vide Hanuman che volava impavido nel cielo e decise di attaccarlo. Ella pensò: "Ho fame. Oggi ingoierò questa enorme creatura e appagherò la mia fame per un po' di tempo". E subito ella afferrò l'ombra di Hanuman proiettata sulla superficie dell'oceano.
Immediatamente la corsa di Hanuman fu arrestata ed egli venne spinto violentemente verso il basso. Hanuman si chiese: "Come mai mi sento improvvisamente tirare giù con tanta forza?". Guardandosi intorno egli vide l'orribile demonessa Simhika; si ricordò della descrizione che Sugriva gli aveva dato di lei e fu certo oltre ogni dubbio che si trattava di Simhika.
Hanuman aumentò il volume del suo corpo e la demonessa spalancò la bocca. Egli guardò nella sua bocca e attraverso di essa vide gli organi vitali interni. In un batter d'occhio Hanuman divenne piccolissimo e si lanciò nella sua enorme bocca, dove scomparve. Gli dèi e i saggi che guardavano quanto stava accadendo inorridirono. Ma con le sue unghie adamantine, Hanuman squarciò le parti vitali della demonessa ed uscì rapidamente dal suo corpo.
Così, con l'aiuto della buona fortuna e della sua abilità e determinazione, Hanuman trionfò sulla demonessa. Gli dèi lodarono la sua impresa e dissero: "Colui nel quale si riscontrano (come in te) queste quattro virtù (fermezza, intuizione, saggezza e abilità) non dispera in nessuna circostanza".
Hanuman aveva quasi coperto le ottocento miglia del suo viaggio. A poca distanza egli vide le coste di Lanka. Vide le dense foreste. Vide le montagne chiamate Lamba. E vide la capitale Lanka, costruita sulle montagne. Per non destare allarmi, egli fece un morbido atterraggio sui monti Lamba, che erano ricchi di alberi di ketaka uddalaka e noci di cocco.
Nonostante avesse attraversato l'oceano, coprendo una distanza di ottocento miglia, Hanuman non sentiva la minima fatica o stanchezza. Dopo essere atterrato sulla catena montuosa vicino al mare, per un po' egli vagò per le foreste, dove vide alberi di vario tipo, con fiori e frutti. Poi vide la città di Lanka: situata in cima a una montagna, circondata da larghi fossati e sorvegliata dalle forze di sicurezza dei demoni. Hanuman s'avvicinò all'ingresso settentrionale della città e lo ispezionò senza farsi notare. La porta era sorvegliata da demoni dall'aspetto ferocissimo e armati fino ai denti con armi potentissime.
Mentre stava a guardare, Hanuman pensava a Ravana, il rapitore di Sita, e intanto rifletteva: "Anche se le forze vanara arrivassero qui, a che servirebbe? Perché l'isola di Lanka non può essere conquistata neanche dagli dèi. E poi solo quattro di noi sono in grado d'attraversare l'oceano e giungere fin qui: Angada, Nila, Sugriva ed io. E questo sarebbe completamente inutile. Con questi demoni non si può negoziare e convincerli con mezzi pacifici. Comunque, per prima cosa devo scoprire se Sita è viva oppure no; solo allora potrò prendere in considerazione il passo successivo".
Per scoprire dove Sita era tenuta prigioniera, egli doveva entrare a Lanka. Il saggio Hanuman considerò quest'aspetto della sua missione: "Certo, devo stare molto attento, ed essere cauto e vigile. Se non lo fossi, potrei rovinare l'intera missione. Anche quando è stata escogitata e decisa attentamente, un'impresa fallisce se viene condotta male da un messaggero maldestro o inefficiente. Perciò devo considerare bene il da farsi, valutando diligentemente tutti i pro e i contro. Devo stare attento a non fare cose che non devono essere fatte. Devo entrare in città in maniera tale che la mia presenza e i miei movimenti non siano scoperti; e noto che le guardie di Ravana sono così efficienti che non sarà facile passare inosservato".
Stabilito questo, Hanuman ridusse le sue dimensioni fino a diventare piccolo quasi quanto un gatto, e al calar delle tenebre si diresse verso la città. Anche da lontano si rese conto della prosperità di cui godeva Lanka. C'erano edifici di molti piani, e strade soprelevate fatte d'oro. Era illuminata splendidamente e decorata con gusto. La città era di una bellezza e uno splendore difficili da immaginare. Quando Hanuman la vide, il suo cuore si riempì di sentimenti contrastanti di gioia e scoraggiamento: gioia al pensiero di vedere Sita, e scoraggiamento al pensiero delle difficoltà che l'aspettavano.
Senza che le guardie s'accorgessero di nulla, Hanuman entrò per la porta della città.
Hanuman stava ancora valutando le difficoltà dell'imminente campagna per liberare Sita.
Conquistare Lanka con la forza gli sembrava fuori questione. E così pensava: "Forse solo Kumuda, Angada, Sushena, Mainda, Dvivida, Sugriva, Kusaparva, Jambavan ed io siamo in grado d'attraversare l'oceano e giungere fin qui. Tuttavia, malgrado tutti gli ostacoli, abbiamo dalla nostra parte il valore incommensurabile di Rama e Lakshmana: certamente essi possono distruggere i demoni senza la minima difficoltà".
Mentre stava per entrare in città, Hanuman fu intercettato da Lanka, una demonessa che era stata posta a guardia della città.
Appena lo vide, ella gli chiese: "Chi sei, o vanara? A te non è permesso entrare nella città di Lanka!".
Hanuman non voleva assolutamente rivelare la propria identità, e perciò le rispose chiedendole a sua volta: "E tu chi sei, donna? E perché ostruisci il mio cammino?".
Lanka rispose: "Per ordine del potente Ravana, io sorveglio questa città. Nessuno può ignorarmi ed entrare in città: e tu, vanara, entrerai presto nel sonno eterno, ucciso dalle mie stesse mani!".
Hanuman le disse: "Io sono venuto in questa città per visitarla, per vedere tutto ciò che c'è da vedere. Una volta che avrò visto quello che desidero vedere, me ne ritornerò puntualmente nel luogo dal quale sono venuto. Ti prego, lasciami passare".
Lanka era irremovibile: "Non puoi passare senza prima sconfiggermi o senza ottenere il mio permesso", e dicendo questo levò la sua mano e colpì Hanuman sul petto.
L'ira di Hanuman si destò. E tuttavia egli si controllò, perché non riteneva giusto uccidere una donna! Allora strinse il suo pugno e colpì Lanka. Ella cadde a terra sconfitta, e quindi svelò il suo segreto:
"Fermati, o vanara! Non uccidermi. I veri potenti non violano il codice cavalleresco, e non uccidono una donna. Io sono Lanka, e chi ha conquistato me ha conquistato Lanka. Questo è quello che un giorno mi disse Brahma, il Creatore: "Quando un vanara ti sconfiggerà, sappi che allora i demoni avranno motivo di temere un grande pericolo". Sono sicura che la profezia si riferiva a te, o vanara! Ora mi rendo conto che l'inevitabile distruzione dei demoni di Lanka è cominciata nel momento in cui in quest'isola è entrata Sita, che è stata portata qui con la forza da Ravana. Adesso va', entra in città. Sono certa che troverai Sita e porterai a termine tutto ciò che desideri fare".
Hanuman non entrò in città attraverso la sorvegliatissima porta principale, ma scavalcò le mura di cinta. Poi raggiunse la strada principale e s'avviò verso la sua destinazione: la dimora di Ravana.
Lungo la strada Hanuman vide molti bei palazzi, dai quali provenivano il suono della musica e le allegre risate dei cittadini. Vide anche delle ricche abitazioni costruite con stili diversi, fatte per portare maggiore felicità e prosperità a chi vi abitava. Udì le urla di combattimento dei campioni di lotta libera che gareggiavano tra loro.
Qui e là poté sentire dei bardi che cantavano le glorie di Ravana, e notò che i bardi venivano circondati da un gran numero di cittadini che bloccavano la strada.
Nel cuore stesso della città, nella piazza principale, Hanuman vide numerose spie di Ravana. Queste spie avevano l'aspetto di persone religiose, con i capelli intrecciati o la testa rasata, ed erano ricoperti di pelli di vacca oppure non portavano alcun indumento. Nelle loro mani tenevano ogni sorta di armi, da pochi fili d'erba a clave e bastoni. Avevano fisionomie e stature differenti, e anche il loro aspetto e la loro carnagione differiva.
Hanuman vide anche la fortezza, che aveva una guarnigione di centomila soldati e si trovava proprio di fronte agli appartamenti privati di Ravana.
Hanuman s'avvicinò al palazzo di Ravana, che era veramente una dimora celestiale. Nel cortile del palazzo e intorno all'edificio vi erano numerosi cavalli, cocchi e anche carri aerei. Il palazzo era costruito con puro oro massiccio e l'interno era decorato con molte pietre preziose; la fragranza dell'incenso e della pasta di sandalo s'avvertiva dappertutto. Hanuman entrò nel palazzo.
Era quasi mezzanotte, e la luna splendeva chiara nel cielo. Dal palazzo emanavano le melodie degli strumenti musicali a corda; le donne di buona natura dormivano con i loro mariti. Mentre i violenti cacciatori nottambuli uscivano dalle loro dimore per andare a divertirsi.
In alcuni posti Hanuman vide dei lottatori che si allenavano. In altri posti vide delle donne che si truccavano usando diversi tipi di cosmetici. Altre donne ancora si divertivano con i loro mariti; mentre altre, i cui mariti erano lontani, apparivano pallide e infelici nonostante fossero ugualmente belle.
Hanuman vide tutto questo: ma non riuscì a vedere Sita da nessuna parte.
Non potendo vedere Sita, l'amata moglie di Rama, Hanuman si sentì molto addolorato e infelice e divenne depresso e di cattivo umore.
Hanuman fu molto colpito dalla bellezza e dalla grandiosità del palazzo di Ravana che considerò come il vanto supremo di tutta Lanka. Ma egli non entrò subito negli appartamenti privati di Ravana. Per prima cosa esaminò i palazzi degli altri membri della famiglia reale e dei capi dei demoni, come Prahasta. Poi esaminò i palazzi dei fratelli di Ravana: Kumbhakarna e Vibhishana; e anche quello del figlio di Ravana: Indrajit.
Fu molto colpito dai segni evidenti di prosperità che poteva vedere ovunque. Dopo aver esaminato i palazzi di tutti questi eroi, Hanuman raggiunse il palazzo dello stesso Ravana.
Gli appartamenti privati di Ravana erano sorvegliati da demoni dall'aspetto terribile, muniti delle armi più micidiali. La magione privata di Ravana era particolarmente sorvegliata da un numero maggiore di soldati. E anche queste guarnigioni erano decorate con oro e diamanti. Hanuman entrò nel palazzo e al suo interno vide palanchini, divani, giardini e gallerie d'arte, stanze particolari per godere dei piaceri sessuali e altre per indulgere in vari passatempi durante il giorno. Vi erano anche altari speciali per compiere i rituali sacri. L'intero palazzo risplendeva della luce emessa dalle pietre preziose che si trovavano un po' dappertutto.
Ovunque andasse, i talami, i divani e le posate per il pranzo erano d'oro. Il pavimento di tutto il palazzo era impregnato dell'odore di vini e liquori. Effettivamente Hanuman pensò che il palazzo fosse come un paradiso sulla terra, splendente della ricchezza delle pietre preziose e fragrante del profumo di una grande varietà di fiori che ne copriva la volta, dandogli l'aspetto di una collina coperta di fiori.
Vi erano piscine con loti e ninfee; e in una di esse c'era scolpita la figura di un elefante regale ritratto mentre offriva la sua adorazione a Lakshmi, la dea della prosperità.
Proprio al centro del palazzo si trovava parcheggiato il migliore di tutti gli aeromobili, chiamato Pushpaka. Esso era stato dipinto con molti colori e ricoperto con molte pietre preziose. Inoltre era decorato con pregevoli figure di serpenti, uccelli e cavalli foggiati di gemme, argento e coralli. Ogni parte di quell'aeromobile era stato progettato minuziosamente, e per farlo erano stati usati solo i materiali migliori. In più possedeva delle caratteristiche particolari che non avevano neanche i velivoli degli dèi; di fatto raccoglieva in sé quanto di meglio si poteva immaginare! Ravana lo aveva ottenuto dopo molti sforzi e austerità.
Hanuman vide tutto questo. Ma non vide Sita da nessuna parte!
Hanuman salì sull'aeromobile Pushpaka, dall'alto del quale poteva facilmente guardare negli appartamenti privati di Ravana! Dall'aeromobile stesso egli poteva sentire il forte odore che proveniva dalla sala da pranzo di Ravana: odori di vini e liquori, e di cibo eccellente. L'odore era allettante e Hanuman pensò che il cibo doveva essere nutriente. Nello stesso tempo egli vide il bellissimo salone di Ravana, che aveva i pavimenti di cristallo, con figure intarsiate d'avorio, perle, diamanti, coralli, argento e oro. Il salone risplendeva di pilastri di gemme. Per terra vi era un tappeto con un disegno di una bellezza straordinaria. Sulle pareti c'erano dei murali che rappresentavano paesaggi di varie nazioni. Questo salone era concepito in maniera tale da dare a tutti i cinque sensi la massima gratificazione possibile! Una luce soffusa illuminava tutto il salone.
Sul tappeto giacevano addormentate delle belle donne. Con la bocca e gli occhi chiusi, s'erano addormentate esauste dopo aver bevuto e danzato; dai loro corpi emanava la dolce fragranza dei fiori di loto. Ravana era là che dormiva attorniato da tutte queste donne, e sembrava come la luna circondata dalle stelle nel cielo notturno. Tutte s'erano addormentate in uno stupendo disordine, alcune usando le proprie braccia come guanciale, altre con il capo appoggiato da qualche parte sul corpo delle compagne. I loro capelli erano in disordine e così pure i loro vestiti; tuttavia nessuna di queste condizioni attenuava la bellezza delle loro forme. Dall'alito di tutte quelle donne proveniva un forte odore di alcolici.
Quelle donne provenivano da diversi ranghi della società. Alcune di esse erano figlie di saggi reali, altre di brahmana, altre ancora erano figlie di gandharva (artisti celesti), e naturalmente alcune erano figlie di demoni: ma tutte avevano desiderato volontariamente Ravana, perché l'amavano. Alcune egli le aveva conquistate con il suo valore; altre si erano infatuate di lui. Nessuna di queste donne era stata portata via da Ravana contro la propria volontà. Nessuna di esse era stata sposata in precedenza; nessuna desiderava un altro uomo. Ravana non aveva mai rapito un'altra donna, eccetto Sita.
Per un attimo Hanuman pensò che Ravana sarebbe stato certamente una brava persona se avesse potuto ottenere per moglie anche Sita, allo stesso modo delle altre: e cioè, prima che ella sposasse Rama, e conquistandola o per mezzo del suo valore o facendola innamorare di sé. Ma continuando a riflettere, Hanuman concluse che con il rapimento della moglie di Rama, Ravana aveva commesso un'azione davvero vile ed estremamente indegna.
Al centro di quel salone, Hanuman vide il letto più bello e lussuoso: era celestiale nel suo aspetto, costruito interamente di cristallo e costellato di gemme. Il signore dei demoni, lo stesso Ravana, vi dormiva sopra.
La vista del demone fu dapprima ripugnante per Hanuman; perciò distolse lo sguardo da lui. Ma poi lo guardò di nuovo. Vide che le due braccia di Ravana erano forti e possenti, e adornate con splendidi gioielli. Il suo volto, il suo petto, e invero tutto il suo corpo era forte e raggiante. Le sue membra risplendevano come il lampo.
Intorno a questo letto ce n'erano altri sui quali dormivano le consorti di Ravana. Parecchie di loro avevano ovviamente intrattenuto il demone con la loro musica, e s'erano addormentate con gli strumenti musicali tra le braccia. Su un altro letto ancora dormiva la più affascinante di tutte le donne che si trovavano nella sala: infatti ella sorpassava tutte le altre in bellezza, giovinezza e ornamenti. Per un momento Hanuman pensò che si trattasse di Sita: e il pensiero stesso d'aver visto Sita lo fece gioire.
Tuttavia quel pensiero non durò a lungo. Hanuman si rese conto: "Non può essere! Perché separata da Rama, Sita non dormirebbe né si divertirebbe, né s'adornerebbe né berrebbe. E neppure andrebbe mai a vivere con un altro uomo, anche se si trattasse di un essere celeste: perché in verità non c'è nessuno uguale a Rama". E non avendovi trovato Sita, egli distolse il suo sguardo dal salone.
Quindi Hanuman ispezionò la sala da pranzo e la cucina, dove vide una gran varietà di carni, condimenti e piatti prelibati, e molte bevande. Il pavimento della sala da pranzo era pieno di coppe, frutti e anche braccialetti e cavigliere, che probabilmente erano caduti a coloro che avevano bevuto.
Mentre stava ispezionando il palazzo in cerca di Sita, un pensiero attraversò la mente di Hanuman: era forse colpevole di trasgredire i limiti della moralità, in quanto stava guardando le mogli altrui, mentre dormivano liberamente nell'intimità con i vestiti in disordine? Ma egli si consolò con questo pensiero: "È vero, ho visto tutte queste donne nell'appartamento di Ravana. Ma nessun pensiero lussurioso è entrato nella mia mente! Solo la mente è la causa delle buone e delle cattive azioni compiute dai sensi; ma la mia mente è devota alla rettitudine ed è stabilita in essa. Dove altro posso cercare Sita, se non tra le donne che vivono nel palazzo di Ravana: potrei forse cercare una donna che si è perduta in mezzo a un branco di daini? Ho cercato Sita in questo posto con la mente pura; ma non sono riuscito a vederla".
Hanuman aveva cercato per tutto il palazzo di Ravana, ma non aveva potuto trovare Sita. E rifletteva: "Non devo scoraggiarmi. Perché è stato ben detto che la perseveranza è il segreto della prosperità e di una grande felicità; solo la perseveranza sostiene tutto e corona ogni attività con il successo. Cercherò in tutti quei posti dove non ho ancora cercato". Quindi si mise a cercare Sita nelle altre zone del palazzo. Vide moltissime altre donne, ma non Sita.
Poi Hanuman cercò Sita fuori del palazzo, ma non la trovò. Ancora una volta fu preso dallo scoramento, e pensò: "Non riesco a trovare Sita da nessuna parte; eppure Sampati disse d'aver visto sia Ravana che Sita. Forse c'è stato un errore di persona? Può essere che sfuggendo a Ravana, Sita sia caduta in mare. O forse è morta per il colpo. Oppure, non cedendo a Ravana, è possibile che questi l'abbia uccisa, divorandone le carni. Ma è impossibile che Sita abbia acconsentito a diventare la sposa di Ravana. E se è dispersa o è morta, come posso informare Rama di questo? In tutti i casi, sia informare Rama che non informarlo mi sembra ugualmente spiacevole. Che farò adesso?". Poi Hanuman rifletté sulle conseguenze di un suo ritorno a Kishkindha senza portare notizie di Sita. Egli era certo che: "Quando Rama udrà queste brutte notizie, si toglierà la vita. E lo stesso farà Lakshmana e poi i loro fratelli e le loro madri ad Ayodhya. E neppure Sugriva potrà sopravvivere, dopo che Rama avrà lasciato questo mondo, ed egli sarà seguito nell'aldilà da tutti i vanara di Kishkindha. Quale terribile disgrazia s'abbatterebbe su Ayodhya e Kishkindha, se tornassi senza portare buone notizie di Sita!". Perciò Hanuman decise: "È bene che io non torni a Kishkindha. Vivrò qui sotto un albero come un asceta. Oppure potrei commettere suicidio gettandomi in mare. Però i saggi dicono che il suicidio è la radice di molti mali, e che se uno vive può esser certo che prima o poi troverà quel che cerca".
Improvvisamente riaffiorò in Hanuman la consapevolezza della sua forza straordinaria! Si levò e pensò: "Ucciderò quel demone di Ravana; anche se non potrò trovare Sita, almeno vendicherò il suo rapimento uccidendo il rapitore. Oppure potrei catturarlo e portarlo da Rama". Poi gli vennero in mente alcuni posti di Lanka dove non aveva ancora cercato. Uno di questi era il boschetto di asoka. Decise d'andarci; ma prima offrì una preghiera: "M'inchino a Rama, a Lakshmana e a Sita, la figlia di Janaka. M'inchino a Rudra, a Indra, a Yama, al dio del vento, alla luna, al fuoco e ai Marut". Egli si volse in tutte le direzioni e invocò le benedizioni di tutti: sapeva d'averne bisogno, perché intuiva che dei demoni di forza sovrumana erano a guardia del boschetto di asoka.
Allora Hanuman scalò le mura del palazzo e saltò nel boschetto di asoka. Era questo un luogo ameno e incantevole, con alberi e rampicanti di innumerevoli specie.
In quel boschetto Hanuman vide il parco degli uccelli, gli stagni e le piscine artificiali orlate da scalinate che erano state lastricate con pregiatissime pietre preziose e semipreziose. Egli vide anche una collina dal cui pendio scorreva una cascata. Non lontano da lì vide un raro albero di asoka o simsapa che aveva un aspetto dorato. Tutta la zona intorno a quest'albero era piena di altri alberi con foglie e fiori dorati, che davano l'impressione di essere risplendenti.
Arrampicatosi su quell'eccezionale albero di simsapa, Hanuman ebbe la netta sensazione che molto presto avrebbe veduto Sita. E così pensò: "Secondo quello che mi ha detto Rama, Sita è amante delle foreste e dei boschi. Perciò andrà di sicuro in quel laghetto di loti laggiù. Rama disse che le piaceva molto camminare per la foresta: è quindi certo che ella vorrà venire anche in questo boschetto. Sono sicuro che Sita, affranta dal dolore, verrà qui a offrire le sue preghiere della sera. Se è ancora viva, oggi sicuramente la vedrò".
Seduto in mezzo a quell'albero di asoka o simsapa, Hanuman poteva vedere l'intero boschetto. Egli rimase incantato dalla bellezza degli alberi e dei loro fiori, che avevano dei colori così vivi che davano l'impressione che tutto il posto fosse in fiamme.
Mentre osservava il paesaggio, non lontano da lui vide un magnifico tempio che era sostenuto da mille colonne e appariva come il Kailash. Il tempio era stato dipinto di bianco; aveva dei gradini ricavati dal corallo e i suoi marciapiedi erano tutti d'oro puro.
Infine Hanuman vide una donna radiosa dall'apparenza ascetica, circondata da demonesse che sembravano sorvegliarla. Nonostante i suoi abiti fossero sudici, ella era luminosa. La sua forma era bella, anche se emaciata dal dolore, dalla fame e dalle austerità. Hanuman fu certo che si trattava di Sita e che era la stessa donna che aveva visto per un attimo in volo sul monte Rshyamuka. Ella sedeva per terra e singhiozzava di frequente, certamente a causa della sua separazione da Rama.
Con grande difficoltà Hanuman riconobbe che si trattava di Sita: e in questo fu aiutato solo dalla descrizione vivida che Rama gli aveva fatto di lei.
Vedendola struggersi tanto per Rama, e ricordando il suo amore per lei, Hanuman rimase meravigliato della pazienza di Rama che riusciva a vivere senza Sita anche per poco tempo.
Hanuman contemplò la forma divina di Sita per alcuni minuti; ma ancora una volta fu preso dallo scoramento e ponderò: "Se persino Sita - altamente riverita dal nobile e umile Lakshmana, e l'amata dello stesso Rama - può essere soggetta a tanto dolore, bisogna davvero concludere che il Tempo è onnipotente. Certo Sita è fiduciosa nella capacità che Rama e Lakshmana hanno di liberarla; e perciò è tranquilla anche in mezzo a questa sventura. Solo Rama merita di essere suo marito, come solo lei merita di essere la sposa di Rama".
Quanto era grande l'amore di Rama per Sita! E che persona straordinaria era Sita! Hanuman continuò a 'ponderarla' sulla bilancia della sua mente: "Fu per amore di Sita che Rama uccise migliaia di demoni nella foresta Dandaka. Fu solo per amor suo che Rama uccise Vali e Kabandha. Khara, Dushana, Trisira: quanti demoni furono uccisi per lei. Sì! Sita è una persona talmente speciale che se, per amor suo, Rama mettesse tutto il mondo sottosopra, sarebbe giusto. Infatti la sua nascita è stata straordinaria, la sua bellezza è straordinaria e il suo carattere è straordinario. Ella non ha eguali; e quale amore straordinario ha per Rama, sopportando pazientemente ogni tipo di privazione, vivendo da prigioniera a Lanka.
"Rama si strugge per lei e attende impazientemente di vederla e riaverla. E lei è qui, che pensa costantemente a Rama: ella non vede né queste demonesse che la sorvegliano né gli alberi o i fiori o i frutti. Con il suo cuore immerso in Rama, ella vede continuamente solo lui". Ora Hanuman era certo che quella donna era Sita.
La luna s'era levata. Il cielo era limpido e il chiarore della luna permetteva ad Hanuman di vedere distintamente. Egli vide le demonesse intorno a Sita: avevano un aspetto ripugnante ed erano deformi in varie parti del corpo. Le loro labbra, i seni e l'addome erano sproporzionatamente grandi e cadenti. Alcune erano altissime e altre molto basse. Erano perlopiù di carnagione scura. Alcune avevano orecchie e altre parti che le facevano assomigliare ad animali. Erano lamentevoli e chiassose, e amavano la carne e gli alcolici. Avevano i corpi imbrattati di carne e sangue, perché mangiavano carne e sangue. Il solo vederle era ripugnante e faceva paura. Là in mezzo a loro c'era Sita.
L'abito e l'aspetto di Sita riflettevano il suo dolore. Ai piedi dell'albero asoka, il cui nome significa libero dal dolore, Sita era seduta immersa in un oceano di dolore e circondata da quelle orribili demonesse! Solo la sua fede nel coraggio e nel valore del suo signore Rama la sosteneva in vita. Hanuman s'inchinò mentalmente a Rama, a Lakshmana e a Sita, e si nascose tra i rami dell'albero.
La notte volgeva al termine. Nel suo palazzo, Ravana veniva svegliato dalla recita dei Veda da parte di demoni-brahmana che ben conoscevano le sacre Scritture, e anche dai musicisti e dai bardi che cantavano le sue glorie. Ancor prima di finire d'adornarsi propriamente, il pensiero di Ravana andò a Sita, e desiderò intensamente vederla. Mettendosi subito i migliori ornamenti e vestito splendidamente, egli entrò nel boschetto di asoka, accompagnato da cento dame scelte che portavano fiaccole d'oro, ventagli, cuscini ed altre cose. Esse erano ancora sotto l'effetto dell'alcool: e Ravana, pur forte e potente, era sotto l'influenza della passione per Sita.
Hanuman riconobbe la persona che aveva visto dormire nel palazzo la notte precedente.
Vedendolo venire verso di lei, Sita, intimorita, si coprì il petto con le gambe e le mani, e pianse amaramente. Afflitta per la sua separazione da Rama, e sconvolta dal dolore, la bellissima e radiante Sita era l'immagine della fama eclissata, della fede negletta, dell'intelligenza offuscata, della vana speranza, degli orizzonti distrutti, del comando trascurato e del culto impedito, della luna eclissata, dell'esercito decimato della lampada senz'olio e del fiume in secca. Ella pregava costantemente che Rama trionfasse presto su Ravana e venisse a salvarla.
Nel suo approccio con Sita, Ravana si mostrò galante e proferì parole dolci e sensate: "Ti prego, non aver paura di me, donna incantevole! Per un demone è naturale godere delle mogli altrui e rapirle con la forza: fa parte del Dharma del demone. Ma io non ti violerò contro la tua volontà. Infatti voglio conquistare il tuo amore, voglio guadagnarmi la tua stima. Sono forte abbastanza da sapermi controllare. Però mi si spezza il cuore nel vederti soffrire così, nel vedere una principessa come te indossare abiti luridi e laceri.
"Tu sei nata per far uso dei migliori cosmetici, per indossare abiti reali e per essere adornata con i gioielli più preziosi. Tu sei giovane, e questo è il momento di divertirti; perché il tempo passa. Non c'è nessun'altra nei tre mondi che sia bella quanto te, perché dopo aver fatto te il Creatore s'è ritirato. Tu sei così bella che nessuno nei tre mondi, neanche Brahma, potrebbe non soccombere alla passione. Se tu mi accetterai, tutto quello che ho sarà tuo: anche le mie prime mogli diventeranno tue serve. Voglio dirti che nessuno nei tre mondi mi è pari in forza e valore. Anche se è vivo, Rama non sa neppure dove sei; e non ha alcuna speranza di riaverti. Abbandona questa tua sciocca idea. Fa' che io possa vederti vestita e adornata come si deve, e godiamoci la vita a tuo piacimento.
Le parole di Ravana furono estremamente penose alla già angosciata Sita. Non desiderando neanche parlare direttamente a Ravana, ella pose un filo d'erba davanti a sé e disse: "Tu non puoi aspirare a me più di quanto un peccatore possa aspirare alla perfezione! Io non farò ciò che è indegno agli occhi di una moglie casta. Certo tu non conosci il Dharma e ovviamente non ascolti i consigli dei saggi. Dai l'esempio ai tuoi sudditi, o demone, e unisciti solo con le tue mogli. Il desiderio per le mogli altrui conduce all'infamia. Il mondo gioisce alla morte di un peccatore: e presto gioirà alla tua morte. Non nutrire desideri per me. Tu non puoi conquistarmi offrendomi potere e ricchezze: poiché io sono inseparabile da Rama come la luce lo è dal sole. Egli è l'incarnazione della giustizia e del Dharma; riportami da lui e chiedigli perdono. Egli ama coloro che prendono rifugio in lui. Se non lo farai, dovrai certamente soffrire: perché nessun potere al mondo potrà salvarti dalle armi di Rama. I suoi missili distruggeranno certo l'intera Lanka. E se tu non m'avessi rapita approfittando dell'assenza di Rama e Lakshmana, oggi non saresti vivo. Tu non hai avuto il coraggio di affrontarli, codardo!".
L'ira di Ravana si destò, ed egli rispose: "Normalmente le donne rispondono al piacevole approccio di un uomo. Ma tu sembri diversa, Sita. Tu susciti la mia collera; ma il mio desiderio per te doma la mia ira. Il mio amore per te m'impedisce di ucciderti subito; anche se meriteresti la morte, per tutte le parole oltraggiose e impudenti che pronunci. Bene, avevo stabilito un anno come limite di tempo per una tua decisione. Da allora sono trascorsi dieci mesi; hai ancora due mesi per decidere di acconsentire al mio desiderio. Se non lo farai, i miei cuochi mi prepareranno un bel pasto con la tua carne.
Sita però rimase indifferente, e disse a Ravana: "Non parlare a vanvera, demone malvagio! Io potrei ridurti in cenere con la mia sola energia spirituale, ma non lo faccio perché non mi è stato ordinato da Rama e perché non voglio sprecare i miei poteri spirituali".
A queste parole di Sita, il terribile demone andò su tutte le furie e la minacciò: "Aspetta, ti distruggerò ora stesso". Ma non lo fece. Invece disse alle demonesse che la sorvegliavano: "Usate tutti i vostri poteri per convincere Sita ad accettare la mia proposta.
Immediatamente le spose di Ravana lo abbracciarono implorandolo: "Perché non godi della nostra compagnia, abbandonando il tuo desiderio per Sita? L'uomo che desidera la compagnia di chi non lo ama conosce il dolore, mentre chi cerca la compagnia di chi lo ama si gode la vita".
Udito questo, Ravana si allontanò ridendo forte.
Dopo che Ravana ebbe lasciato il boschetto, le demonesse dissero a Sita: "Come mai non apprezzi la mano di Ravana? Forse non sai chi è lui. Dei sei Prajapati figli del Creatore, il quarto era Pulastya. Da Pulastya nacque il saggio Vishravas, pari in gloria allo stesso Pulastya. Ravana è figlio di Vishravas. Il suo nome è Ravana perché fa piangere i suoi nemici. È un grande onore accettare la sua proposta. Inoltre Ravana sconfisse in battaglia le trentatré divinità che presiedono all'universo; perciò è superiore anche agli dèi. Ma la cosa più importante è che egli ti ama così tanto da essere pronto a rinunciare alle sue mogli preferite e a darti tutto il suo amore".
Profondamente addolorata dalle parole delle demonesse, Sita disse: "Basta con questi consigli volgari e peccaminosi. Un essere umano non deve sposare un demone. Ma anche questo è irrilevante. In nessun caso io abbandonerò mio marito e cercherò un altro". Le demonesse andarono in collera e cominciarono a minacciare Sita. Intanto Hanuman osservava tutto questo.
Le demonesse continuarono: "Hai già mostrato troppo affetto per l'indegno Rama; ogni eccesso è indesiderabile e porta a risultati non voluti. Finora hai agito secondo le regole della condotta umana. È tempo che tu abbandoni quel codice, che abbandoni l'essere umano Rama e acconsenti ad essere la moglie di Ravana. Finora abbiamo sopportato le tue dure e aspre parole e ti abbiamo offerto consigli amorevoli e salutari, preoccupate del tuo benessere. Ma tu sembri troppo stupida per accettare la verità. Sei stata portata qui da Ravana! Hai attraversato l'oceano! Nessun altro può attraversare l'oceano per venire a salvarti. Te l'assicuriamo, Sita: nemmeno Indra potrebbe salvarti da qui. Perciò, nel tuo interesse, fa' come ti diciamo. Basta piangere! Metti da parte il dolore, che ti distrugge. Abbandona questa vita miserabile: scegli l'amore e il piacere. Decidi presto, Sita: perché la giovinezza, soprattutto per una donna, è solo momentanea e passa velocemente. Deciditi a diventare moglie di Ravana. Se tuttavia sarai ostinata, noi stesse dilanieremo il tuo corpo e divoreremo il tuo cuore".
Altre demonesse presero a loro volta a minacciare Sita, dicendo: "Quando vidi per la prima volta questa donna graziosa portata qui da Ravana, sorse in me il desiderio di divorarle il fegato e la milza, i seni e il cuore. Sto aspettando quel giorno... Perché indugiamo? Riferiamo al re che è morta, e sicuramente ci chiederà di mangiare la sua carne!... Dobbiamo dividerci equamente la sua carne e mangiarla, non dobbiamo litigare tra noi... Dopo il pasto danzeremo davanti alla dea Bhadrakali".
In preda alla disperazione totale, Sita diede sfogo al suo dolore pensando a voce alta: "I saggi hanno giustamente detto che nessun uomo o donna ottiene la morte prima del tempo. Perciò malgrado io soffra un'angoscia intollerabile dovuta alla separazione dal mio amato marito, non riesco a togliermi la vita. Questo dolore mi sta consumando lentamente. Io non posso vivere, e neppure posso morire. Di certo questo è il frutto amaro di un terribile peccato commesso in una vita passata. Sono circondata da queste demonesse: e come potrebbe raggiungermi qui Rama? Che vergogna è la vita umana, e che vergogna è lo stato di dipendenza dagli altri, a causa del quale non posso neanche togliermi la vita.
"Che terribile sventura essere stata rapita da Ravana durante l'assenza di Rama e Lakshmana, nonostante vivessi sotto la loro protezione. E ancora più terribile è che, dopo essere stata separata dal mio amato marito, sono stata confinata qui circondata da queste terribili demonesse. E la cosa peggiore è che nonostante tutte queste disgrazie il mio cuore non scoppia dal dolore, facendomi morire. Certo finché vivrò non permetterò mai a Ravana di toccarmi.
"Mi chiedo perché Rama non ha fatto nulla per venire in mio soccorso. Per amor mio egli uccise migliaia di demoni quand'eravamo nella foresta. È vero, mi trovo su un'isola, ma i missili di Rama non hanno difficoltà ad attraversare gli oceani e ad intercettare il loro bersaglio. Sicuramente egli non sa dove sono. Ahimè, anche Jatayu, che avrebbe potuto informare Rama dell'accaduto, è stato ucciso da Ravana. Quando sapesse che sono qui, Rama distruggerebbe Lanka e prosciugherebbe l'oceano con i suoi missili. E allora tutte le demonesse di Lanka piangerebbero, come sto piangendo io ora. Rama ucciderebbe tutti i demoni, e l'isola diventerebbe un immenso campo crematorio.
"Vedo molti cattivi presagi. Mi riunirò con Rama. Egli verrà, e distruggerà tutti questi demoni. Quando Rama verrà a sapere dove sono, ridurrà Lanka in un luogo desolato, arso dai suoi missili. Però il tempo sta passando rapidamente: il limite di tempo che Ravana mi ha dato per decidere. Altri due mesi, e sarò tagliata a pezzi come cibo per Ravana. Può essere che Rama è morto, stroncato dal dolore della separazione da me? O forse è diventato un asceta? In genere le persone che si amano si dimenticano dopo una lunga separazione; ma non è così per Rama, il cui amore è eterno. Davvero beati sono i saggi che hanno raggiunto l'illuminazione e per i quali le cose piacevoli e spiacevoli non sono differenti. M'inchino ai saggi. Caduta in questa terribile disgrazia, ora stesso mi toglierò la vita".
Udendo le parole di Sita, alcune demonesse s'infuriarono terribilmente, e la minacciarono: "Andremo a raccontare tutto a Ravana, e poi potremo subito divorarti". Un'altra demonessa di nome Trijata si svegliò proprio allora dal suo torpore e disse alle sue compagne: "Smettetela con tutte queste chiacchiere di divorare Sita, sciocche che non siete altro! Ho appena avuto un sogno che preannuncia una terribile calamità in arrivo per noi". Tutte le demonesse le chiesero: "Raccontaci il sogno".
Trijata narrò il sogno in ogni dettaglio: "Nel mio sogno ho visto Rama e Lakshmana, alla guida di un velivolo spaziale bianco. Sita era seduta su una montagna bianca, vestita di risplendenti abiti bianchi. Rama e Sita erano stati riuniti. Allora Rama e Lakshmana montarono su un enorme elefante, sul quale salì anche Sita. Poi Sita aprì le braccia e le sue mani toccarono il sole e la luna. Infine Rama, Lakshmana e Sita salirono sul velivolo spaziale Pushpaka e volarono via verso nord. Da tutte queste cose io deduco che Rama è divino e invincibile.
"Ascoltate ancora. In un altro sogno ho visto Ravana: la sua testa era stata rasata; era unto d'olio; indossava abiti color cremisi; era ubriaco ed era caduto dal velivolo spaziale Pushpaka. Poi l'ho visto vestito di nero, coperto di un pigmento rosso e trascinato da una donna che guidava un veicolo tirato da asini. L'ho visto cadere dall'asino. Delirava come un pazzo. Poi egli entrò in un luogo tenebroso e puzzolente. Quindi una donna scura con il corpo ricoperto di fango legò una corda intorno al collo di Ravana e lo trascinò via verso sud. Nello stesso sogno ho visto Kumbhakarna e anche i figli di Ravana; ognuno di loro era stato sottoposto allo stesso trattamento o ad un altro molto simile. Solo la sorte di Vibhishana era differente: egli indossava degli abiti bianchi, con delle ghirlande bianche, e sopra la sua testa tenevano un parasole reale bianco.
"Inoltre nel sogno ho visto che l'intera Lanka era sprofondata nel mare, totalmente distrutta e rovinata. Ho visto anche qualcosa di piuttosto strano: ho visto Lanka divorata selvaggiamente dal fuoco. Benché l'isola sia protetta da Ravana, che è forte e potente, un vanara era stato capace d'incendiare Lanka, perché quel vanara era un servo di Rama.
"Sciocche donne, in questo sogno io vedo un chiaro avvertimento! Basta col trattare Sita crudelmente! Penso che sia meglio farle piacere e conquistarsi il suo favore. Sono fermamente convinta che Sita realizzerà il suo desiderio di riunirsi a Rama".
Udendo questo, Sita fu felice e disse: "Se sarà vero, vi prometto che vi proteggerò tutte".
Le demonesse però non prestarono attenzione a Trijata, e Sita pensò: "A ragione i saggi dissero che la morte non giunge mai ad una persona prima dell'ora stabilita. La mia ora è venuta. Ravana ha stabilito in maniera definitiva che se non acconsento al suo desiderio sarò messa a morte. E poiché non potrò mai e poi mai amarlo, è certo che sarò uccisa. Perciò sono già condannata. E quindi non farò peccato se oggi stesso mi toglierò la vita volontariamente. O Rama! O Lakshmana! O Sumitra! O Kausalya! O Madre! Rapita inesorabilmente e trascinata in questo posto spaventoso, io muoio. Sono sicura che la 'sventura' s'avvicinò a me nelle sembianze di un cervo dorato ed io, stupida donna, mandai i due principi a cercarlo. Forse anche loro sono stati uccisi da qualche demone. O forse sono vivi, ma non sanno dove sono.
"Ahimè, tutte le virtù che ho praticato e tutta la devozione con la quale ho servito il mio signore e marito non sono servite a nulla. Ora stesso abbandonerò questa mia vita sventurata. O Rama, dopo aver completato i quattordici anni d'esilio, tu tornerai ad Ayodhya e ti godrai la vita con le regine che forse sposerai. Ma io, che ti ho amato e il cui cuore resterà sempre legato a te, presto non ci sarò più.
"Come porrò fine a questa vita? Non ho armi, e nessuno qui mi darà un'arma o del veleno. Ah, userò il cordoncino che mi lega i capelli e mi appenderò a quest'albero".
Riflettendo così ad alta voce, Sita contemplò i piedi di Rama e si preparò ad uccidersi. Nello stesso tempo, però, ella notò molti buoni presagi che la dissuasero dall'idea di togliersi la vita. Il suo occhio, il suo braccio e la sua gamba sinistra palpitarono; il suo cuore ebbe un fremito, la sua tristezza per il momento la lasciò, la sua disperazione fu alleviata, ed ella tornò ad essere ancora una volta calma e radiosa.
Seduto sull'albero, Hanuman osservava tutto questo e pensava: "Se mi presentassi a Sita in mezzo a tutte queste demonesse, ella potrebbe spaventarsi e gridare; e potrei essere preso prima che le possa parlare di Rama. Potrei anche combattere contro tutti i demoni; ma poi potrei essere troppo debole per il volo di ritorno. Potrei parlarle nella lingua dei brahmana, ma lei potrebbe insospettirsi di un vanara che parla il sanscrito e scambiarmi per lo stesso Ravana! Parlare ora a Sita sembra rischioso; ma se non lo facessi, ella potrebbe commettere suicidio. Se non si agisce con la giusta considerazione del luogo e del tempo, si può ottenere il risultato contrario. Canterò le glorie di Rama a bassa voce, conquistandomi prima la fiducia di Sita, e dopo le comunicherò il messaggio di Rama".
Dopo una profonda riflessione, Hanuman decise sul modo più saggio e sicuro! A bassa voce, in maniera dolce e chiara e con accento colto, egli narrò la storia di Rama: "L'imperatore Dasaratha, un discendente del nobile Ikshvaku, era un saggio reale perché pur continuando a governare il suo regno era devoto sia all'ascetismo che alla giustizia. Il suo figlio primogenito Rama era a sua volta potente, glorioso e giusto. Per onorare la promessa che suo padre aveva fatto alla moglie, Rama andò nella foresta Dandaka insieme al fratello Lakshmana e alla moglie Sita. Là Rama uccise migliaia di demoni. Un giorno un demone mascherato da cervo fece allontanare Rama e Lakshmana, e approfittando di ciò il malvagio Ravana rapì Sita. Rama andò in cerca di lei, e mentre vagava per la foresta coltivò l'amicizia del vanara Sugriva. Sugriva inviò milioni di vanara in cerca di Sita. Dotato di un'energia straordinaria, io ho attraversato l'oceano; e sono stato fortunato perché sono in presenza di Sita".
Udendo queste parole, Sita fu piena d'immensa gioia. Ella guardò da tutte le parti, e infine vide il vanara Hanuman. Ma vedendo quel vanara seduto sull'albero, Sita fu presa dalla paura e dal sospetto, e gridò "O Rama! O Lakshmana". Vedendo il vanara che le si avvicinava fu presa dal terrore, ma fu piacevolmente sorpresa di notare il suo atteggiamento d'umiltà e adorazione.
Ella pensò: "Sto sognando? Spero di no! Porta sfortuna sognare di un vanara. No, non sto sognando. Forse è un'allucinazione. Ho pensato costantemente a Rama, ho pronunciato continuamente il suo nome, parlando di lui. E poiché tutto il mio essere è assorto in lui, sto immaginando tutto. Eppure l'essere che mi sta davanti non solo lo vedo, ma mi parla anche! Prego gli dèi che ciò che ho appena visto sia vero".
Con le mani giunte sulla testa in segno di saluto, Hanuman s'avvicinò umilmente a Sita e le chiese: "Chi siete, signora? Siete veramente la moglie del beato Rama?".
Estremamente felice per la domanda, Sita raccontò tutta la sua storia: "Io sono nuora di re Dasaratha e figlia di re Janaka. Sono la moglie di Rama. Abbiamo vissuto felicemente ad Ayodhya per dodici anni Ma prima che Rama fosse incoronato, la sua matrigna Kaikeyi chiese in dono al marito che Rama fosse esiliato nella foresta. Udendo questo, il re perse i sensi; ma Rama stesso prese l'impegno di soddisfare quella promessa. Io lo seguii, e anche Lakshmana venne con noi. Un giorno, mentre essi erano via, Ravana mi rapì con la forza e mi trascinò qui. Ora mi ha dato altri due mesi di vita, dopo di che vedrò la morte".
Inchinandosi di nuovo a Sita, Hanuman le disse: "Signora divina, io sono un messaggero inviato da Rama. Lui e suo fratello Lakshmana ti mandano i loro saluti e sperano che tu sia viva e stia bene". Sita gioì e pensò tra sé: "Certamente, c'è molta verità nell'antico adagio: 'La felicità arriverà all'uomo che vive, anche se dopo molto tempo'". Ma quando Hanuman le si avvicinò, ella s'insospettì di nuovo, e riflettendo gli disse: "Ravana! Prima ti sei camuffato da mendicante e mi hai rapita. Ora vieni a tormentarmi sotto forma di un vanara! Ti supplico, lasciami in pace". Ma nel frattempo ella pensava tra sé: "No, non può essere così; perché vedendo questo vanara il mio cuore gioisce".
Hanuman la rassicurò: "Beata Sita, io sono un messaggero inviato da Rama, che molto presto ucciderà tutti questi demoni e ti libererà dalla prigionia. Rama e Lakshmana pensano costantemente a te. E così pure re Sugriva, del quale io, Hanuman, sono un ministro. Dotato di un'energia straordinaria, io ho attraversato l'oceano. Non sono chi hai sospettato che fossi!".
Su sua richiesta, Hanuman le raccontò le glorie di Rama: "In bellezza, fascino e saggezza Rama è pari agli dèi. Egli è il protettore di tutti gli esseri viventi, del suo popolo, della sua missione e del suo Dharma. Egli è il protettore delle persone di buona condotta impegnate nelle diverse occupazioni; lui stesso pratica la buona condotta e fa in modo che la pratichino anche gli altri. Egli è potente, amichevole, conosce bene le Scritture ed è devoto ai santi.
"Rama ha tutte le caratteristiche dell'uomo perfetto, e cioè: spalle larghe, braccia forti, collo potente, viso grazioso, occhi di loto, voce profonda, pelle bruna. Egli ha il petto, il polso e il pugno saldo; le sopracciglia, le braccia e lo scroto sono lunghi; i capelli, i testicoli e le ginocchia sono simmetrici; il torace, l'addome e l'orlo dell'ombelico sono forti; il colorito dell'angolo degli occhi, delle unghie, delle palme delle mani e delle piante dei piedi è roseo; il suo glande, le linee dei piedi e dei capelli sono soffici; l'andatura e l'ombelico sono profondi; tre pieghe gli adornano la pelle del collo e dell'addome; i capezzoli, l'arco e le linee dei suoi piedi sono profondi; l'organo generativo, il collo e gli stinchi sono corti; tre spirali adornano i capelli sulla sua testa; ha quattro linee alla base del suo pollice e quattro linee sulla sua fronte; è alto quattro cubiti; le sue natiche, le braccia, gli stinchi e le ginocchia sono simmetrici; così pure le altre quattordici paia di membra; i suoi arti sono lunghi. Egli è eccellente in ogni aspetto. Anche Lakshmana, il fratello di Rama, è pieno di fascino e di ottime qualità".

[NOTA: In questo capitolo sono descritte le caratteristiche fisiognomiche del migliore tra gli uomini.]

Poi Hanuman le narrò nei dettagli tutto ciò che era accaduto. E menzionò in particolare come Rama pianse per la commozione quando Hanuman gli mostrò i gioielli che Sita aveva lasciato cadere sul monte. Hanuman concluse la narrazione affermando: "Io otterrò certo la gloria d'averti vista per primo; e anche Rama verrà presto qui a riprenderti" Infine egli rivelò a Sita la propria identità: "Kesari, mio padre, viveva sulla montagna chiamata Malayavan. Una volta, in ubbidienza al comando dei saggi, egli andò sul monte Gokarna per combattere e uccidere un demone chiamato Sambasadana, che terrorizzava la gente. Io sono figlio di Vayu (il dio del vento) e di mia madre Anjana. Ti ripeto, divina signora, che io sono un vanara, un messaggero inviato da Rama ecco, guarda l'anello con l'iscrizione del nome di Rama. Qualunque sia stata la causa della tua dolorosa prigionia, ormai è quasi finita".
Quando vide l'anello del sigillo, Sita avvertì la presenza dello stesso Rama; e si sentì piena di gioia. Immediatamente anche il suo comportamento nei confronti di Hanuman cambiò radicalmente, ed esclamò "Tu sei eroico, abile e anche saggio, o migliore tra i vanara. Che impresa eccezionale hai compiuto attraversando quest'immenso oceano, per ottocento miglia. È evidente che non sei un comune vanara, perché non hai paura neanche di Ravana. Sono felicissima di sapere che Rama e Lakshmana stanno bene; ma perché non è ancora venuto a liberarmi? Se volesse egli potrebbe prosciugare l'oceano, anzi potrebbe perfino distruggere tutta la terra con i suoi missili. Forse hanno dovuto attendere il momento propizio, e quel momento che significherà la fine della mia sofferenza non è ancora giunto.
"O Hanuman, parlami ancora di Rama. In tutto quello che fa, continua egli a fare affidamento sia sullo sforzo personale che sulla Provvidenza Divina? E dimmi, mi ama ancora come prima? Spero anche che nel suo penare per me non trascuri la sua salute. E poi dimmi come farà Rama a salvarmi da qui? Forse Bharata invierà un esercito? Quando rinunciò al trono e mi portò nella foresta, egli dimostrò una fermezza straordinaria: è ancora così fermo nelle sue decisioni? Oh, lo so che egli mi ama più di chiunque altro al mondo".
Hanuman rispose: "O Sita, presto tu stessa vedrai Rama! Affranto dal dolore per la separazione da te, egli non mangia carne né beve vino; e non si cura neanche di scansare le mosche e le zanzare che lo assalgono. Egli pensa a te costantemente. Difficilmente dorme, e quando ci riesce si sveglia gridando: "Ah, Sita". Quando vede un frutto o un fiore, egli pensa a te".
Udendo le glorie di Rama, Sita si sentiva liberata dal dolore, ma quando udiva del dolore di Rama, Sita lo sentiva a sua volta.
Sita rispose ad Hanuman: "La tua descrizione dell'amore che Rama nutre per me mi giunge come nettare misto a veleno. In qualunque condizione si possa essere, sia che uno goda d'immenso potere e prosperità sia che uno viva in grande miseria, il fine della propria azione trascina l'uomo come se questi fosse legato ad una corda. Guarda in che modo Rama, Lakshmana ed io siamo stati assoggettati al dolore. Di certo nessuno può vincere il destino. Mi chiedo quando verrà il momento in cui sarò di nuovo unita a Rama. Ravana mi ha dato un anno di tempo: dieci mesi sono già trascorsi e ne restano solo due. Al termine di questi due mesi, Ravana mi ucciderà di sicuro. Non c'è alternativa, perché l'idea di riportarmi da Rama non lo sfiora neppure. Invero questo era stato suggerito da Vibhishana, il fratello di Ravana: così mi ha detto sua figlia Kala. Ma Ravana rimane sordo a questi saggi consigli".
Hanuman disse a Sita: "Sono sicuro che non appena gli dirò dove sei Rama arriverà presto qui, con un esercito di abitanti della foresta e di altre tribù. Però, signora divina, io avrei un'altra idea: puoi riunirti a tuo marito oggi stesso; posso far cessare il tuo dolore immediatamente. Ti prego, non esitare; sali sulla mia schiena, e cerca l'unione (yoga) con Rama ora. Io ho il potere di trasportare te, e perfino Lanka, Ravana e tutto il resto! Nessuno sarà capace d'inseguirmi o di vincermi. Che grande trionfo sarebbe, se tornassi a Kishkindha con te sulla mia schiena!".
Per un momento Sita s'entusiasmò all'idea; ma poi rispose quasi scherzando: "Stai parlando davvero come un vanara, come un ignorante primitivo. Sei così piccolo, e pensi di portarmi attraverso l'oceano!". Allora Hanuman mostrò a Sita la sua forma reale.
Vedendolo come una montagna di fronte a lei, Sita fu certa che la sua sicurezza era giustificata, tuttavia gli disse: "Potente Hanuman, sono convinta che puoi fare come dici; ma non credo sia giusto che io venga con te. Tu andrai a forte velocità, e io potrei scivolare e cadere nell'oceano. Se venissi con te, i demoni sospetterebbero la nostra relazione e le darebbero un'interpretazione immorale. Inoltre, molti demoni t'inseguirebbero: e come potresti, disarmato, disfarti di loro e nello stesso tempo proteggere me? Potrei cadere di nuovo nelle loro mani. Sono certa che hai il potere di combatterli: ma se tu li uccidessi tutti, questo toglierebbe a Rama la gloria di ucciderli e di salvarmi. Sicuramente quando Rama e Lakshmana verranno qui con te, essi uccideranno i demoni e mi libereranno. Io sono devota a Rama, e di mia volontà non toccherò il corpo di un altro. Perciò, Hanuman, fa' che Rama e Lakshmana vengano qui il più rapidamente possibile".
Il saggio vanara Hanuman fu pienamente convinto della giusta risposta di Sita; e dopo averla apprezzata, pregò: "Se senti che non devi venire con me, ti prego di darmi un pegno che io possa portare con me e che Rama potrà riconoscere".
Questo suggerimento ravvivò vecchi ricordi che commossero Sita fino alle lacrime. Ella disse ad Hanuman: "Ti darò il pegno migliore. Ti prego di ricordare al mio glorioso marito un bellissimo episodio della nostra vita nella foresta che solo io e lui conosciamo. Il fatto avvenne quando vivevamo nei pressi del monte Citrakuta. Avevamo finito di fare il bagno, e c'eravamo divertiti tanto a giocare nell'acqua. Rama era seduto sul mio grembo. Il corvo cominciò a disturbarmi, ma io lo allontanai minacciandolo con dei sassi, ed esso si nascose. Mentre mi vestivo, il mio abito scivolò un po', e il corvo m'attaccò di nuovo. Ma stavolta mi difesi adirata. Osservando ciò Rama rise, mentre mi rappacificava dolcemente.
"Eravamo ambedue stanchi. Per un po' dormii in grembo a Rama. Poi Rama s'addormentò poggiando la testa sul mio grembo. Il corvo (che era il figlio di Indra mascherato) m'attaccò di nuovo e causò delle ferite sul mio corpo. Alcune gocce di sangue gocciolarono dal mio petto e caddero su Rama, che si svegliò. Vedendo il corvo perverso poggiato su un albero vicino, Rama prese il missile che porta il nome del Creatore e lo tirò al corvo. Il corvo si mise a volare per i tre mondi, ma non trovò rifugio da nessuna parte.
"Infine esso cercò rifugio dallo stesso Rama. Rama si calmò immediatamente; ma il missile non poteva essere neutralizzato. Il corvo sacrificò il suo occhio destro, ma ebbe salva la vita". Mentre raccontava l'episodio, Sita avvertì la presenza di Rama, e gli disse: "Per amor mio, Rama, tu fosti pronto ad usare il missile di Brahma contro un semplice corvo. Allora perché sopporti pazientemente il mio rapimento? Nonostante tu sia il mio signore e maestro, io vivo qui come una poveraccia! Non hai compassione di me? Da te io ho imparato che la compassione è la virtù più grande!" E rivolgendosi di nuovo ad Hanuman disse: "Nessun potere sulla terra può rivaleggiare con quello di Rama. Solo la mia cattiva sorte impedisce loro di venire in mio aiuto".
Hanuman spiegò: "Solo il non sapere dov'eri ha causato questo ritardo. Ora che sappiamo dove sei, la distruzione dei demoni è vicinissima". Sita gli disse: "L'adempimento della missione dipende da te; con il tuo aiuto Rama avrà sicuramente successo. Ti prego però di dire a Rama che io sarò viva solo per un mese ancora". Poi, come pegno ulteriore, Sita si tolse un gioiello e lo diede ad Hanuman. Egli lo prese, insieme alle sue benedizioni, e fu pronto a partire.
Ancora una volta Sita ricordò ad Hanuman: "Avevo tenuto con me questo gioiello, che per me significava la presenza stessa di Rama. Ogni volta che lo guardavo era come se Rama fosse con me. Esso ricorderà a Rama di me, di mia madre, e di re Dasaratha. Ti prego, riferisci a Rama tutto ciò che hai visto qui, come vivo, come peno per lui, e che rimango viva solo nella speranza di rivederlo. Di' tutto questo in maniera tale che Rama mi liberi da viva; e così ti guadagnerai il merito di aver fatto buon uso del potere della parola. Che cosa Rama farà, e quando e come, ora dipende interamente da cosa gli dirai e da come glielo dirai". Ma Hanuman la rassicurò.
Tuttavia la paura e il dubbio tormentavano Sita, che disse: "Un dubbio mi assale, Hanuman: come faranno le orde dei primitivi ad attraversare l'oceano e ad arrivare fin qui? Certo sarà una cosa gloriosa se Rama ucciderà Ravana e i suoi fedeli demoni e tornerà con me ad Ayodhya. Ma come pensi che si potrà fare questo?".
Per rassicurarla, Hanuman disse: "È cosa facile per noi vanara, o signora divina. I vanara sono molto potenti. Essi sono andati spesso intorno al mondo seguendo le rotte aeree. L'esercito di Sugriva è composto di vanara simili a me e anche superiori a me: anzi, nessuno di essi è meno potente di me. È ovvio che nessun saggio comandante invierebbe come messaggero un eroe superiore: soltanto quelli di minore importanza vengono mandati. Non avere alcun dubbio, Sita: io stesso prenderò Rama e Lakshmana su di me e li porterò qui. Il resto dell'impresa sarà facile".
Mentre Hanuman s'apprestava a partire, Sita gli ricordò di nuovo: "Ti prego, dai il gioiello a Rama. L'ho tenuto molto a cuore, considerandolo sempre come un preziosissimo ricordo. Ricordagli anche che una volta, quando il fausto segno sulla mia fronte si era cancellato, lui stesso me lo rimise ridendo. Ricordagli la storia del corvo che ti ho narrato, e ti supplico di non dimenticare di dirgli che posso restare in vita qui - e anche questo solo per amor suo - soltanto per un altro mese".
Ancora una volta Hanuman disse a Sita: "Posso giurarti che come tu pensi costantemente a lui, così anche Rama pensa costantemente a te, Sita. Stai certa che non ci sarà assolutamente alcun ritardo nella sua venuta qui".
Quando Hanuman si preparò a partire, Sita si sentì infelice e gli rivolse le ultime parole: "Tu hai i migliori pegni del mio amore per Rama. Ti prego, raccontagli tutto minuziosamente. Fa' che Rama possa porre termine alla mia agonia nel più breve tempo possibile".
Hanuman si congedò da Sita, ma non lasciò Lanka. E pensò: "È venuto il momento di dare una dimostrazione di forza militare. Con i demoni non si può negoziare; non si possono vincere nemici ricchi e prosperosi usando doni allettanti; né si può seminare la discordia tra i potenti, perciò solo una dimostrazione di forza sembra essere adeguata.
Prima di lasciare Lanka devo dare a questi demoni un assaggio della nostra forza; solo allora essi adotteranno l'atteggiamento giusto quando li affronteremo in battaglia. Inoltre, il successo viene solo se si utilizzano le opportunità che una spedizione offre per raggiungere non solo l'obiettivo principale, ma anche molti di quelli secondari. Sicuramente vi sono molti modi per avere successo in un'impresa; chi conosce molte vie per raggiungere il suo scopo si assicura il successo. Questo è il boschetto dei piaceri di Ravana, ed è ricco e bello. Lo distruggerò! Così provocherò certamente Ravana, che potrebbe venire qui con il suo esercito. Avrei allora l'opportunità di giudicare la sua forza e dargli un saggio di quanto dovrà aspettarsi da noi".
Con rapidità devastante, Hanuman liberò la sua energia e cominciò a distruggere il boschetto di asoka. Gli animali e gli uccelli fuggirono timorosi in tutte le direzioni. Le demonesse scapparono. Quelle che erano a guardia di Sita, e che stavano dormendo, si svegliarono; e vedendo quel vanara chiesero a lei chi fosse. Sita rispose: "Come faccio a sapere chi è? Solo un serpente sa dove sono le gambe di un serpente! Anch'io sono terrorizzata, non sapendo chi sia; anch'io penso che forse è un demone".
Tutte le demonesse corsero a fare rapporto a Ravana: "Signore, un potente vanara dall'aspetto terribile ha devastato il boschetto di asoka! Alcune di noi l'hanno visto parlare a Sita, ma Sita non vuole rivelare la sua identità. Noi non sappiamo chi sia. Potrebbe essere un messaggero di Indra o di Kubera o dello stesso Rama, venuto per scoprire dov'è Sita. È significativo che pur avendo distrutto l'intero boschetto, egli non abbia toccato la zona sotto l'albero simsapa dov'è confinata Sita)".
Ravana s'infuriò, e ordinò subito a un gran numero di schiavi (kinkara) d'andare nel boschetto e catturare Hanuman. Essi lo assalirono, armati con molte armi rozze. Hanuman lanciò un grido di guerra: "Vittoria a Rama, a Lakshmana e a re Sugriva! Io sono il servo e il messaggero di Rama, che distrugge tutti i suoi nemici. Il mio nome è Hanuman. Neanche mille Ravana equivalgono la mia potenza! Distruggerò Lanka, m'inchinerò davanti a Sita e poi andrò via". Il contingente di schiavi fu presto annientato! E i demoni che osservarono la battaglia raccontarono la tragedia a Ravana.
Il boschetto di asoka era stato distrutto e gli schiavi erano stati uccisi, ma Hanuman non era soddisfatto. Egli prese di mira un importante monumento, molto ben custodito dai soldati di Ravana. Estendendosi a dismisura, e gonfiandosi d'entusiasmo, Hanuman s'arrampicò sul monumento e cominciò a distruggerlo, riempiendo l'intera Lanka con quel fragore. E dalla cima del monumento gridava trionfante: "Vittoria a Rama! Vittoria a Lakshmana! Vittoria a Sugriva, che è protetto da Rama! Io sono Hanuman, il messaggero di Rama. Neanche mille Ravana possono affrontarmi in battaglia. Distruggerò Lanka, m'inchinerò davanti a Sita e poi andrò via".
Vedendolo e udendo il suo grido, un centinaio di demoni posti a guardia del monumento si scagliarono contro di lui con mazze di ferro, clave e altre armi del genere. Il potente Hanuman fece tremare il monumento: le colonne si spezzarono e la loro collisione provocò un boato. Poi con una delle colonne uccise i demoni. Ancora una volta Hanuman proclamò: "Ci sono migliaia di vanara ancora più potenti di me. Sugriva verrà presto qui con i vanara, e vi ucciderà tutti. E non rimarrà né Lanka né alcuno di voi, e neppure Ravana, che si è procacciato l'inimicizia di Rama".
Tutte queste cose i demoni le riferirono debitamente a Ravana. Su suo ordine, un potente demone chiamato Jambumali fu mandato a combattere e a catturare Hanuman. Il duello fu terribile. Jambumali colpì Hanuman con varie armi e lo ferì. Il vanara era bello a vedersi anche mentre sanguinava. Hanuman sollevò una roccia enorme e la gettò su Jambumali, che la spezzò con i suoi missili. Allora Hanuman raccolse dal campo una mazza di ferro e la scagliò con grande forza contro il demone. Jambumali rimase a terra morto.
Quindi Ravana mandò i sette figli dei suoi ministri, che erano degli esperti nel combattimento aereo. I loro bombardieri tuonarono e ruggirono quando arrivarono sul posto. Essi iniziarono a sparare contro Hanuman ancora prima di raggiungerlo. Anche Hanuman si librò nel cielo e schivò i colpi con successo.
Queste schermaglie furono seguite da un cruento combattimento frontale. Nessuno dei sette eroi poté resistere all'impeto di Hanuman. In breve tempo egli li uccise tutti. Tutta la zona era ricoperta dei resti fracassati degli aerei e dei corpi dei demoni uccisi. Il sangue scorreva a fiotti, come un fiume. Le grida dei feriti riempivano Lanka.
Hanuman si ergeva trionfalmente sull'arco che portava al boschetto.
Poi Ravana inviò cinque potenti guerrieri, comandanti del suo esercito, a disfarsi del vanara. I loro nomi erano Virupaksha, Yupaksha, Durdhara, Praghasa e Bhasakarna. Prima di congedarli, egli li ammonì con queste parole:
"Andate con un contingente adeguato. Siate vigilanti e fate tutto il necessario, avendo la giusta considerazione del tempo e del luogo. Io non credo che abbiamo a che fare con un vanara. Ho considerato tutto ciò che questo vanara ha fatto, e sono giunto alla conclusione che si tratta di un essere potente dotato di straordinario valore. È ben possibile che gli dèi, nostri nemici, abbiano creato un essere particolarmente potente per ucciderci. Finora voi avete sconfitto esseri di ogni tipo: dèi, saggi, demoni e semidèi. E io ho conosciuto molti potenti vanara: Vali, Sugriva, Jambavan, Nila, Dvivida ecc. Ma nessuno tra loro ha l'abilità di questo vanara. Perciò fate il massimo sforzo per prenderlo prigioniero. Io so che voi potete sconfiggere qualsiasi essere sulla terra, e persino dèi e semidèi; ma state in guardia e proteggetevi. Perché in una battaglia il successo è imprevedibile".
I cinque comandanti si portarono al boschetto di asoka, dove videro il potente Hanuman che risplendeva come il sole appena sorto. Essi si resero subito conto che egli era eccellente e superbo da ogni punto di vista: agilissimo e velocissimo, eccezionalmente coraggioso, incredibilmente forte, molto saggio, alimentato da un entusiasmo supremo e dotato di un corpo molto potente. Appena lo videro, gli spararono tutti insieme nello stesso tempo. Hanuman rimase ferito: ma le ferite sembravano fiori che gli incoronavano il capo.
Hanuman si alzò in volo, e fu inseguito da Durdhara. Nel corso del combattimento aereo, mentre Durdhara volava a bassa quota, Hanuman si lanciò in picchiata sul velivolo di Durdhara, come un fulmine che Colpisce una montagna. Il velivolo andò in frantumi e Durdhara morì.
Hanuman continuò a muoversi nell'aria. Virupaksha e Yupaksha decollarono coi loro velivoli e cominciarono a sparare ad Hanuman. All'improvviso Hanuman atterrò in una radura del boschetto, inseguito dai demoni. Ma prima che questi potessero toccare terra, egli sradicò un grande albero e con questo distrusse i loro velivoli. Ambedue i demoni furono uccisi.
Ora Praghasa e Bhasakarna attaccarono Hanuman. Essi usarono una lancia e un dardo, e ingaggiarono una lotta corpo a corpo. Hanuman parò i loro attacchi, sollevò un masso enorme che sembrava il picco di una montagna e lo scagliò su di loro. E fu la loro fine.
Ravana cominciò a preoccuparsi. Quando gli annunciarono la morte dei suoi potenti comandanti per mano del vanara, egli si guardò intorno e poi fissò lo sguardo sul giovane figlio Aksha. Questi pur essendo giovane era già feroce e aggressivo.
Aksha capì che lo sguardo del padre era un ordine e scattò in piedi, desideroso di combattere. Padre e figlio non scambiarono neanche una parola, ma si capirono perfettamente.
Aksha saltò sul suo aereo, che era un velivolo eccezionale, ottenuto con molto impegno e tanti sacrifici. Era placcato d'oro puro; aveva delle torrette di pietre preziose; era azionato da otto propulsori, e poteva raggiungere la velocità della mente! Non poteva essere attaccato neanche da dèi e demoni. Sfrecciando nell'aria sembrava un fulmine. Era equipaggiato con otto torrette per lanciare missili, che puntavano nelle otto direzioni. Tutte le parti di questo velivolo erano tenute insieme da cavi d'oro puro.
Hanuman fu sorpreso di vedere Aksha. Mentre stavano l'uno di fronte all'altro, come emettendo un fuoco terribile, tutti quelli che stavano osservando il combattimento tremarono dalla paura. Mirando accuratamente, Aksha sparò tre colpi, che ferirono Hanuman alla testa.
Per un attimo Hanuman barcollò. Ma quando si rese conto che chi gli stava davanti era lo stesso figlio di Ravana, gli ritornò l'entusiasmo. Mentre Hanuman continuava a guardare Aksha con grande furore, quest'ultimo continuava a sparare. Hanuman emise un feroce grido di battaglia e s'alzò in volo. Aksha lo inseguì accanitamente, continuando a lanciare missili. Ma Hanuman li schivò tutti con grande destrezza.
Hanuman pensò: "È vero, sembra un bambino, ma le sue azioni non sono da bambino. Prima avevo pensato di non uccidere questo ragazzino. Certamente è un bambino brillante, ma è anche potente e può affrontare persino dèi e demoni. Se non lo tratto con la dovuta considerazione, egli mi sconfiggerà; perciò devo ucciderlo. Un piccolo incendio che si propaga non dev'essere trascurato".
Dopo aver preso questa decisione, Hanuman tirò agli otto propulsori e li costrinse al silenzio.
Con il suo mezzo distrutto nelle parti vitali, Aksha cadde insieme ad esso. Quindi impugnò la spada e si precipitò contro il vanara. Ma Hanuman lo afferrò alle gambe, lo fece roteare nell'aria e lo scaraventò per terra, dove Aksha rimase ucciso.

[NOTA: La descrizione del velivolo è bellissima! S'è scritto che aveva otto cavalli: non usiamo forse anche noi l'espressione 'cavallo motore' nello stesso contesto? L'aereo era coperto d'oro in maniera tale da essere corazzato; perciò solo i motori erano vulnerabili.]
La morte di Aksha fu certamente un duro colpo per Ravana, che però non mostrò il suo dolore. Egli si rivolse all'altro suo figlio, Indrajit, di valore ineguagliabile, e gli disse: "Figlio mio, tu hai combattuto contro gli dèi e sei stato vittorioso anche su Indra. Tu sei mio pari da ogni punto di vista. Quando entri in battaglia, io sono certo della tua vittoria. Ora questo vanara ha ucciso tutti i nostri schiavi, e anche Jambumali, i figli dei nostri ministri e persino tuo fratello Aksha. Ritengo che spetti a te affrontarlo. Non serve a nulla prendere un grande esercito, perché gli uomini sono presi dal panico o vengono uccisi. Neanche le armi e i missili comuni sembrano avere un qualche effetto su questo vanara. Però io so che tu farai uso di qualunque tipo di missile sarà necessario, a seconda del tempo e del luogo. Forse qualcuno potrebbe dire che non è saggio da parte mia mandare te, che sei il mio figlio maggiore. Ma questo è il Dharma di un re. Anche tu devi imparare le tattiche militari e acquisire abilità in guerra riportando vittorie sui tuoi nemici".
Questo fu sufficiente per Indrajit, che si diresse dove si trovava Hanuman. Il suo velivolo somigliava a Garuda, l'uccello divino, e ne aveva la stessa agilità. Aveva quattro motori, ciascuno simile a una tigre, dotati di 'denti' potenti. Indrajit, il cui valore era pari a quello di Indra, montò a bordo del suo velivolo e partì a velocità incredibile.
Hanuman fu contento quando vide lo stesso Indrajit. Il firmamento era affollato di dèi e semidèi desiderosi d'assistere alla battaglia. Hanuman cominciò a volare e schivò con successo tutti i missili di Indrajit Indrajit realizzò che Hanuman non poteva essere ucciso, perciò decise di prenderlo prigioniero. Ma anche a tal fine egli dovette usare il missile più potente, quello dedicato al Creatore, Brahma.
Colpito, Hanuman cadde: ma il missile non lo uccise, lo immobilizzò soltanto. Hanuman godeva di un dono ricevuto dallo stesso Brahma che persino quel missile avrebbe avuto effetto su di lui soltanto per un ora circa. Comunque, egli pensò tra sé: Io non ho il potere di spezzare i legami di questo missile supremo; devo quindi onorare il missile e permettergli di legarmi". E pensò ancora tra sé: "Anche questo è buono, perché certo potrò incontrare Ravana faccia a faccia".
Vedendo che era caduto, i demoni gli si affollarono intorno, lo colpirono e lo legarono con delle funi. Questo liberò subito Hanuman dall'effetto del missile: perché questa è la legge, che il potere spirituale non può coesistere con il potere fisico.
Eppure Hanuman rimase docile. I demoni lo trascinarono alla presenza di Ravana.
Hanuman guardò lo splendente Ravana, che era magnifico in ogni cosa. Ravana era seduto su un trono di cristallo intarsiato di gioielli e riccamente rivestito. Hanuman lo guardò e pensò: "Quale fascino, quanto eroismo, quale nobiltà e quale splendore; Ravana è meravigliosamente dotato di ogni cosa eccelsa. Se solo non fosse devoto all'ingiustizia, potrebbe essere benissimo il regnante del cielo, o anche del suo sovrano".
Ravana fu colpito dalla maestà dell'aspetto di Hanuman e dalla sua forza, che era evidente. Egli ordinò ai suoi ministri di accertare lo scopo della sua visita a Lanka e scoprire per quale motivo aveva distrutto il boschetto di asoka.
I ministri posero ad Hanuman delle domande, ma prima l'ammonirono: "Dicci la verità, e sarai liberato. Se dirai menzogne non avrai salva la vita!".
Hanuman rispose: "Non sono un messaggero degli dèi o dei semidèi. Sono un messaggero di Sugriva. Poiché desideravo incontrare Ravana in persona, ho sradicato gli alberi nel suo giardino preferito. E quando i demoni mi hanno attaccato, li ho uccisi per autodifesa".
Rivolgendosi allo stesso Ravana, Hanuman disse: "Ho un messaggio da parte di Sugriva. Tu lo conosci ed egli è come un fratello per te". Poi Hanuman narrò la storia della nascita e dell'esilio di Rama, la perdita di Sita nella foresta, l'amicizia di Rama con Sugriva, e la ricerca di Sita organizzata da Sugriva.
"O re! Io posso dirti ciò che è buono nel passato, nel presente e nel futuro. Accetta il mio consiglio: restituisci Sita a Rama. Un re glorioso come te non dovrebbe abbassarsi ad una condotta tanto indegna e rapire la moglie di un altro. Nessuno nei tre mondi può affrontare il terribile potere di Rama e di suo fratello Lakshmana: Rama uccise il potente Vali con un solo colpo. Io ho compiuto un'impresa difficile: ho scoperto dove si trova Sita. Presto Rama completerà l'impresa.
"Tu non puoi convincere Sita ad accettarti, più di quanto non sia possibile digerire un potentissimo veleno. Ascoltami! Non giocarti il frutto dei meriti che hai acquisito nella tua vita precedente. Sita è certamente la terribile Kalaratri, che è stata portata qui per la tua distruzione. Restituiscila a Rama. In caso contrario vedrai Lanka bruciare e tutti i demoni perire. Nessuno, neanche tu, e neppure Indra, può sfuggire all'ira di Rama. Rama può distruggere tutti i mondi e crearli di nuovo! Io sono un umile servo di Rama ed il suo messaggero: quanto ti ho detto è la verità, ascoltami".
Udendo le parole di Hanuman, Ravana fu preso da un'ira incontrollabile, e ordinò la sua immediata esecuzione. Ma Vibhishana - il fratello di Ravana - intervenne e diede questo consiglio a Ravana:
"Potente re! Se anche tu puoi essere sopraffatto dall'ira, allora certamente la conoscenza delle Scritture è un inutile fardello. Sii ragionevole; e fa' che la giusta punizione sia inflitta a questo vanara dopo la dovuta deliberazione.
"Le Scritture proibiscono l'uccisione di un messaggero o di un ambasciatore, perché questi sta semplicemente sostenendo la causa del suo padrone ed è interamente dipendente da lui. Però è anche vero che questo vanara ha distrutto il boschetto e ha ucciso molti dei tuoi soldati.
"La giusta punizione per tali crimini è la mutilazione del corpo, la frusta, la rasatura della testa e il marchio a fuoco - un disonore peggiore della morte. Tuttavia, coloro che hanno mandato qui questo messaggero meritano la pena capitale. Se tu uccidessi questo vanara allora l'episodio potrebbe finire lì, perché nessun altro dal lato nemico sarà capace d'attraversare l'oceano e raggiungere Lanka, e tu non potresti distruggere il tuo nemico".
Il potente Ravana apprezzò il consiglio, che ponderò e accettò.
Quindi modificò il suo ordine: "Si dice che la coda sia l'ornamento più importante di un vanara: datele fuoco. Poi fatelo tornare. Con la coda in fiamme portatelo in giro per la città, in modo che lui e i suoi camerati sappiano che un'offesa come quella fatta da lui non rimane impunita a Lanka".
I demoni legarono Hanuman, bagnarono la sua coda nell'olio e le diedero fuoco. Hanuman pensò: "Per amore della causa di Rama sopporterò anche questo. Quando mi trascineranno per la città, potrò vedere meglio la sua potenza militare e raccogliere maggiori informazioni. È bene che io veda Lanka anche di giorno. I demoni trascinarono Hanuman per le vie della città, annunciandolo come una spia di Rama. Alcune demonesse andarono da Sita e la informarono di quanto era successo ad Hanuman. Sita pregò il dio del fuoco: "Se sono stata fedele a mio marito e se l'ho servito, se ho mai praticato delle austerità, o Dio, sii fresco con Hanuman". E cominciò a soffiare un vento gelido.
Lo stesso Hanuman si chiedeva come mai il fuoco non lo bruciasse né gli facesse male. E concluse: "Sicuramente la grazia di Sita, la gloria di Rama e la benevolenza del vento e del fuoco hanno mitigato il calore, e il fuoco non mi fa male". Hanuman si liberò rapidamente delle corde impugnò una mazza di ferro e uccise i demoni che sorvegliavano la città. Poi con la coda in fiamme riprese a ispezionare Lanka.
Hanuman ponderò: "Ho distrutto il boschetto di asoka, ho ucciso i demoni e ho incontrato Ravana. Ho fatto tutto quello che m'ero proposto di fare, eccetto la distruzione della fortezza di Ravana. Cos'altro potrei fare qui, prima di tornare da Rama?". E pensò: "La mia coda è in fiamme; con essa darò fuoco alle case dei capi di Lanka".
Hanuman s'alzò in volo e, una dopo l'altra, diede fuoco a tutte le case dei più grandi guerrieri di Lanka. Volando su Lanka, Hanuman tuonava come una nuvola nell'ora della dissoluzione cosmica. Un vento gagliardo propagò il fuoco. Tutti i palazzi governativi erano in fiamme. L'oro e gli altri metalli fusi scorrevano giù dalle case insieme alle pietre preziose che avevano adornato porte e pareti. I demoni fuggivano dagli edifici in preda alla confusione e al panico.
Hanuman incendiò l'intera città di Lanka. Pieni di terrore, demoni e demonesse dicevano tra loro: "Dev'essere il re degli dèi, o forse la Morte in persona, oppure è l'incarnazione del potere dello stesso Signore Vishnu".
Dappertutto c'erano pianti e lamenti. Le lingue di fuoco lambivano il cielo. L'intera montagna sulla quale sorgeva la città era in fiamme. Quando Hanuman andò in riva all'oceano e spense il fuoco sulla sua coda, gli dèi e i saggi cantarono le sue glorie e lo lodarono per le sue imprese.
La gioia di Hanuman non durò a lungo, perché nel suo cuore sorse una domanda: "E Sita? Forse anche lei è stata bruciata dal fuoco? Quale spaventosa tragedia se, accecato dall'ira, avessi inconsapevolmente causato la morte della stessa Sita! Quale peccato non commette l'uomo sotto l'influsso della collera: potrebbe anche uccidere il proprio guru e offendere i santi! Certo solo chi è in grado di controllare la propria collera con la pazienza può considerarsi un Uomo. Senza dubbio Sita è stata consumata dal fuoco. E ora che farò? È più saggio che mi getti in mare e perisca anch'io; perché se Rama sapesse che Sita è morta bruciata nell'incendio, egli morirebbe, e così Lakshmana, Sugriva e tutti gli altri ad Ayodhya. Quale terribile conseguenza ha causato la mia ira!".
Poi Hanuman ebbe dei buoni presagi e rifletté: "Sono sicuro che Sita non è stata consumata dal fuoco. Il fuoco non brucia il fuoco! Senza dubbio è stato per grazia di Rama e per il potere di Sita che il fuoco non mi ha bruciato! Sono sicuro che grazie alle sue austerità, e alla sua sincerità e castità, Sita è immune agli effetti del fuoco".
Nello stesso tempo i saggi e i semidèi proclamarono dal cielo: "Hanuman ha incendiato l'intera Lanka; ma Sita è salva". Rincuorato da questa notizia, lui si preparò a tornare da Rama.
Hanuman volle essere certo che Sita fosse salva e stesse bene; perciò tornò nel boschetto di asoka per vederla, e le disse: "Sono infinitamente benedetto, perché tu sei salva, signora divina!". Sapendo ch'egli stava per partire, Sita si sentì triste; e nella maniera caratteristica delle donne, ella reiterò i suoi dubbi sulla capacità dei vanara d'attraversare l'oceano e sulla probabilità che Ravana le potesse togliere la vita prima che lei potesse riunirsi al suo signore. Poi ribadì che non era il caso di andare via con Hanuman, dicendo però che lui doveva fare di tutto perché Rama uccidesse al più presto i demoni e riconquistasse lei, ottenendo la gloria.
Da parte sua Hanuman rassicurò di nuovo la nobile Sita che tutto sarebbe andato bene e che presto ella avrebbe visto Rama a Lanka, e allora il suo dolore avrebbe avuto fine. Dopo aver ricevuto le benedizioni di Sita, Hanuman salì sulla montagna chiamata Arishta, pronto al decollo, perché anelava rivedere Rama ed era felice che la missione fosse stata compiuta. Hanuman, il figlio divino del dio del vento, volò verso nord come una nuvola enorme che si librava nello spazio. Quando partì, la montagna sembrò sprofondare nelle viscere della terra; gli alberi tremarono e molte rocce saltarono dalle cime dei monti. Dietro di lui si sentiva un boato tremendo.
Hanuman volò celermente sull'oceano e da lontano vide di nuovo il monte Mahendra. Egli emise un suono grandioso, che riempì tutto lo spazio. Gli amici vanara di Hanuman attendevano con ansia il suo ritorno sul monte Mahendra. Quando udirono quel suono possente, essi capirono che egli stava tornando dopo aver completato con successo la sua missione. E desiderosi com'erano di rivederlo, furono felici. Il capo tribù Jambavan assicurò tutti i vanara che quel tipo di suono indicava il successo della missione! Tutti i vanara spezzarono dei rami dagli alberi vicini, ricavandone delle aste alle quali legarono a un'estremità i propri indumenti, improvvisando così delle bandiere. Questo fu il loro modo d'accogliere il loro eroe.
Hanuman atterrò su una radura del monte, e fu accolto calorosamente dai capi delle tribù vanara, che lo adorarono. Egli a sua volta adorò gli anziani, e poi annunciò: "Sita è stata vista". In seguito prese Angada in disparte e gli narrò nei dettagli come aveva visto Sita nel boschetto di asoka, quanto lei fosse emaciata dal dolore e dall'angoscia, e come desiderasse Rama giorno e notte.
Angada si complimentò con Hanuman per la sua impresa: Nessuno ti è pari, Hanuman! Tu ci hai salvato la vita. Solo attraverso la tua grazia e il tuo aiuto Rama potrà riavere Sita".
Jambavan chiese ad Hanuman: "Ti prego, raccontaci tutto nei particolari. Come hai fatto a scoprire la nobile Sita? Come vive? Qual è la forza di Ravana? Dicci che cosa dovremo riferire a Rama quando l'incontreremo e che cosa non dovremo riferirgli".
Hanuman narrò per esteso la sua storica avventura. Disse loro degli ostacoli che aveva incontrato durante la trasvolata dell'oceano. Raccontò dell'incontro con la demonessa Lanka, del suo ingresso a Lanka, e poi la ricerca e la scoperta di Sita nel boschetto di asoka. Raccontò che Ravana era entrato nel boschetto, cadendo ai piedi di Sita e implorandola d'accettarlo; e come, respinto da lei, l'avrebbe uccisa subito se non fosse intervenuta sua moglie Mandodari. Poi parlò del dolore di Sita e del sogno di Trijata, della saggia maniera in cui s'era guadagnato la fiducia di Sita, e di come lei gli aveva raccontato due episodi intimi della sua vita con Rama, dandogli anche il gioiello come segno del loro incontro.
Poi Hanuman raccontò vividamente la distruzione del boschetto di asoka, la sua vittoria sui potenti demoni mandati da Ravana, e come era stato immobilizzato dal missile di Brahma usato da Indrajit. Egli descrisse chiaramente il suo incontro con Ravana, l'ira di questi, il consiglio di Vibhishana e l'incendio di Lanka. Infine disse: "In tutta Lanka ho proclamato 'Vittoria a Rama, vittoria a Lakshmana, vittoria a re Sugriva', annunciando dappertutto di essere solo un piccolo messaggero di Rama. Naturalmente sono riuscito a fare tutto ciò solo per grazia di Rama, con le vostre benedizioni e come mio umile servigio a re Sugriva".
Hanuman continuò: "Sita è gloriosa e veramente degna di venerazione. Con il potere della sua castità ella potrebbe ridurre Ravana in cenere; ma giacché così non è stato, inferisco che anche lui abbia moltissimi meriti guadagnati con austerità e penitenze. Sono però fiducioso che unendo le nostre forze possiamo disfarci di Ravana e delle sue milizie. Potrei affrontare Ravana io stesso, se siete tutti d'accordo! Chi potrà mai affrontare il potente Jambavan, o Angada, o Nila, o Mainda o Dvivida? Qualunque cosa decidiamo, dobbiamo farla subito, perché le condizioni di Sita sono veramente pietose. Pensate che indossa ancora lo stesso pezzo di stoffa che aveva quando fu rapita da Ravana. Ella dorme sulla nuda terra, ed è l'immagine stessa del dolore. Però è stata felice di sapere dell'alleanza tra Rama e Sugriva. La sua devozione a Rama è salda e inconfutabile. Ella potrebbe facilmente maledire Ravana e causare la sua morte. Ma nella distruzione del potente Ravana, Rama deve svolgere la sua parte come strumento".
Quando udì Hanuman esaltare l'immensa forza dei vanara che costituivano il gruppo di ricerca sotto il suo comando, l'entusiasmo di Angada salì alle stelle. Egli dichiarò animosamente: "In effetti i due vanara Mainda e Dvivida, che hanno ottenuto il dono dell'invincibilità in battaglia dallo stesso Brahma, sono in grado di conquistare Lanka. E so bene che anche da solo io potrei uccidere Ravana e conquistare Lanka. E quando voi tutti siete con me, l'impresa diventa molto più facile Perciò sento che non dovremo tornare da Rama e riferirgli mestamente che Sita è stata vista, ma non è stata salvata. Noi insieme abbiamo tanta forza, valore ed eroismo. Non dobbiamo tornare a Kishkindha prima d'aver compiuto totalmente la missione di Rama. Avete sentito da Hanuman che egli ha incendiato Lanka e che i condottieri più valorosi di Ravana sono già stati uccisi da lui. Ben poco è rimasto da fare per noi tutti. Perciò suggerisco di andare a Lanka, uccidere i guerrieri rimasti, liberare Sita e insieme tornare da Rama e Sugriva. E allora porremo Sita tra Rama e Lakshmana".
Jambavan intervenne dicendo: "Non mi sembra che la tua proposta sia saggia, Angada. Siamo stati mandati da re Sugriva col preciso ordine di cercare Sita e scoprire dov'è tenuta prigioniera. E la missione è stata portata a termine completamente e in maniera soddisfacente da Hanuman. Noi non abbiamo l'autorità di combattere Ravana e liberare Sita con le nostre sole forze. Per Rama potrebbe non essere piacevole apprendere che i vanara hanno combattuto contro i demoni, liberando Sita. Rama ha fatto voto che avrebbe salvato Sita personalmente. Certamente noi dobbiamo aiutarlo in questa missione, ma non dobbiamo sostituirci a lui. Inoltre questo ci permetterà di essere testimoni del valore straordinario di Rama. Perciò torniamo subito da Rama e mettiamolo a conoscenza della situazione. Poi prenderemo una decisione riguardo al passo successivo".
Tutti quanti, incluso Angada, applaudirono e accettarono questo saggio consiglio.
Lungo la strada di ritorno passarono per un bosco chiamato Madhuvana, famoso per il suo dolcissimo miele. I vanara si misero a giocare. Per scherzo si facevano dispetti, si spingevano e si schiaffeggiavano l'un l'altro. Erano uno spasso. Dagli anziani del gruppo ottennero il permesso di prendere del miele dalle arnie. Ma una volta ottenuto il permesso, essi cominciarono quasi a distruggere il boschetto! Vedendo questo, il guardiano Dadhimukha protestò, e colpì anche alcuni vanara. Ma ubriachi com'erano, ben presto i vanara ebbero la meglio, e continuarono a devastare il boschetto.
Hanuman li incoraggiò cordialmente a prendere il miele e a devastare il boschetto, dicendo: "Terrò io lontano gli intrusi, bevete tutto il miele che volete!". Angada disse ad Hanuman: "Per celebrare la tua vittoria, eseguiremmo i tuoi ordini anche se fossero indegni: e con quanta gioia ti obbediremo ora che i tuoi ordini sono tanto gustosi!". Liberandosi dei guardiani con un semplice gesto, i vanara entrarono nel Madhuvana in gran numero e lo denudarono dei suoi frutti e dei suoi favi. Bevvero il miele fino a non poterne più, e s'ubriacarono. Giocavano tra loro, usando la cera come delle palle.
I guardiani, che erano stati lasciati da parte e ignorati, andarono a lagnarsi da Dadhimukha: "Incoraggiati da Hanuman, i vanara hanno distrutto Madhuvana, e noi siamo stati colpiti e minacciati". Dadhimukha tornò ancora una volta nel luogo in cui i vanara stavano facendo baldoria. Vedendolo arrivare, i vanara si fecero avanti per attaccarlo. Lo stesso Angada, che era completamente ebbro, colpì Dadhimukha e lo gettò a terra, senza mostrare la benché minima pietà; e questo nonostante Dadhimukha fosse un parente di Sugriva.
Accompagnato dalle guardie, Dadhimukha andò immediatamente a riferire l'accaduto a Sugriva. Quando fu in presenza di Sugriva, Dadhimukha si prostrò con la faccia a terra e salutò il re. Sugriva gli chiese qual era il motivo della sua visita, e Dadhimukha raccontò i fatti, dicendo: "Madhuvana, che per tanto tempo tu, Vali e tuo padre avete custodito con zelo, è stato completamente distrutto dai vanara!". Mentre egli parlava, Lakshmana - che era lì presente - chiese a Sugriva: "Cosa sta dicendo?".
Sugriva gli rispose: "O Lakshmana, questo vanara incaricato di custodire il Madhuvana è venuto a lamentarsi perché i vanara da noi inviati nelle regioni meridionali in cerca di Sita sono entrati nel Madhuvana e l'hanno distrutto. Questo mi fa pensare che il loro obiettivo sia stato raggiunto. Altrimenti non si sarebbero mai comportati così. Sicuramente Sita è stata scoperta, e naturalmente dallo stesso Hanuman. Quel gruppo è formato dai migliori vanara, come Jambavan, Angada e Hanuman. Ero sicuro che non avrebbero fallito. Da quello che hanno fatto inferisco che sono tornati da Lanka dopo aver visto Sita".
Rivolgendosi a Dadhimukha, Sugriva disse: "I misfatti di uno che ha compiuto la propria missione devono essere sopportati; perciò continua a custodire Madhuvana. Torna là e chiedi ai vanara di venire qui immediatamente. Rama, Lakshmana ed io siamo estremamente ansiosi di vederli subito".
Dadhimukha fece ritorno a Madhuvana, andò umilmente da Angada e si scusò. Nel frattempo anche i vanara erano tornati alla sobrietà. Dadhimukha disse ad Angada: "O principe, mi rendo conto che tutti voi siete stanchi dopo aver fatto un viaggio così lungo, perciò avete bisogno di nutrirvi e rinfrescarvi. Ti prego, lascia che i vanara mangino a sazietà i frutti di questo boschetto: tu sei il principe ereditario, tu sei il nostro signore e il proprietario di questo posto. Ho riferito a tuo zio Sugriva del vostro arrivo qui. Il re desidera che andiate subito da lui, perché sono tutti ansiosi di vedervi".
Angada si rivolse ai vanara: "Sembra che la notizia del nostro arrivo sia giunta fino alle orecchie di Rama. Dal modo in cui Dadhimukha mi ha comunicato gli ordini del re, sembra che siano tutti felici di sapere del nostro ritorno. Penso che sia giunto il momento di ritornare; ma non farò nulla contro i vostri desideri. Benché io sia il principe ereditario, non ho il diritto d'imporre i miei desideri su di voi; farò invece secondo i vostri desideri".
I vanara risposero: "O principe, chi altro avrebbe pronunciato tali parole? In questo mondo, quando un uomo gode anche di un minimo potere ne viene inebriato e pensa 'io sono tutto'. Anche noi desideriamo presentarci subito davanti a Sugriva, e attendiamo il tuo ordine per farlo".
Allora Angada disse: "Andiamo", e tutto il gruppo si diresse verso Kishkindha. Sugriva notò Angada che stava per atterrare, e indicandolo a Rama disse: "Sono certo che Sita è stata ritrovata, e che è stato Hanuman a trovarla. Con Hanuman, Jambavan, Angada ed altri eroi in questa squadra di ricerca, era impossibile che la missione fallisse. Oltretutto, essi non avrebbero osato devastare Madhuvana se avessero fallito. Perciò, Rama, fatti coraggio! Il tuo dolore sta per terminare".
Quando le forze vanara cominciarono ad arrivare ci fu molto tumulto nell'aria. Angada atterrò vicino a Sugriva, e insieme ad Hanuman e ad altri condottieri si avvicinò al re con le mani giunte in segno di saluto. Rama fu supremamente felice di udire da Hanuman: "Sita è stata trovata". Lakshmana guardò Sugriva con orgoglio e gratitudine. Rama guardò Hanuman con affetto divino.
Poi Rama interrogò Hanuman, e questi gli narrò con tutti i dettagli di come aveva attraversato l'oceano, dell'arrivo a Lanka e della scoperta di Sita ai piedi dell'albero simsapa. Poi Hanuman assicurò Rama che Sita pensava costantemente a lui e solo a lui. Hanuman realizzò che Rama e Lakshmana avevano assoluta fiducia in lui, e narrò tutti gli eventi che avevano avuto luogo a Lanka. Infine egli consegnò a Rama il gioiello che gli aveva dato Sita.
La vista di quel gioiello ravvivò le memorie di Rama, e con esse il suo dolore. Egli scoppiò in lacrime, e guardandolo con affetto disse: "Mio suocero donò questo a Sita in occasione del nostro matrimonio. Egli lo diede prima a mio padre, che poi lo legò ai capelli di Sita. Perciò guardando questo gioiello mi tornano in mente mio padre e mio suocero, ed è come se vedessi Sita. Hanuman, sii gentile e raccontami nei dettagli tutto ciò che ti ha detto Sita: perché udire quello che ha detto dà sollievo al mio cuore".
Allora Hanuman narrò profusamente il dialogo che aveva avuto con Sita. E ripeté a Rama anche la storia del corvo, che Sita gli aveva raccontato come pegno del loro incontro.
Poi gli disse: "Sita desidera che io ti chieda: "Tu sei un grande adepto nell'uso dei missili più potenti, allora perché non mi hai ancora liberata dalla prigionia di Ravana?". Inoltre ella prega ripetutamente: "Se tu nutri dell'affetto per me, ti supplico di venire a riprendermi presto, perché non potrò vivere per più di un mese".
Poi Hanuman raccontò a Rama di come lui si fosse offerto di portare Sita sulla schiena, affinché ella potesse riunirsi subito a Rama; e di come Sita si fosse rifiutata dicendo che sarebbe stato adharma. Hanuman disse: "Ella rifiutò educatamente l'offerta dicendo: "Non è Dharma, Hanuman: quando fui rapita nella foresta, Ravana toccò il mio corpo; ma allora io ero inerme, e perciò come potevo impedirlo?". Sita mi ha chiesto di fare tutto il necessario perché tu sconfigga Ravana in un combattimento aperto e la liberi".
Hanuman disse ancora: "Avendo completato la mia missione, avevo fretta di tornare da te. Sita mi pregò di nuovo d'informarti della sua triste situazione e di esortarti ad andare presto a Lanka. Inoltre mi disse: "Non desidero che Rama mi porti via di qui nella stessa maniera furtiva in cui Ravana mi ha portata via dalla foresta. Non sarebbe degno di Rama". Poi ella esternò dei dubbi sulla nostra capacità d'attraversare l'immenso oceano. Io la rassicurai dicendole che nell'esercito di Sugriva vi sono centinaia d'eroi molto più potenti di me, che possono facilmente attraversare l'oceano, vincere Ravana e i demoni, e liberarla. Le ho persino detto che nell'esercito di Sugriva non c'è nessuno inferiore a me, e a sostegno di questo ho detto: "Chi invierebbe il più grande eroe come messaggero? Un saggio sovrano invierebbe come messaggero solo un eroe di terza categoria". Le ho assicurato che al più presto tu avresti invaso Lanka e ucciso Ravana in un combattimento aperto, liberandola così in maniera onorevole. In questo modo ho consolato la nobile Sita, ed ella ha tratto molta consolazione dalle mie parole".

FINE DEL SUNDARA KANDAM

 

 

 

 


Libro sesto: YUDDHA KANDAM - La grande battaglia

Rama disse: "Tu hai compiuto un'impresa grandiosa ed estremamente rara, Hanuman, e hai reso un grande servigio a re Sugriva. In questo mondo ci sono tre tipi di servitori. Il migliore svolge il lavoro assegnatogli dal maestro, e si spinge ancora oltre, perché anticipando creativamente i suoi desideri, adempie anche questi. Il servitore mediocre, benché capace, non fa nulla più di quello che il maestro gli ha ordinato di fare. Il servitore peggiore è colui che, benché capace, non esegue i desideri del maestro. Tu, Hanuman, sei assolutamente il migliore; hai fatto molto di più di quello che re Sugriva ti aveva chiesto di fare, senza però fare nulla di cui egli avrebbe potuto dispiacersi. Scoprendo dov'era Sita, tu hai invero aperto nuove prospettive di vita a Lakshmana, a me e a tutta la dinastia dei Raghu. Cosa posso darti come ricompensa? In questo momento, posso solo darti il mio abbraccio affettuoso". Così dicendo Rama abbracciò calorosamente Hanuman, che fremette di gioia.
Rama disse a Sugriva: "Sita è stata trovata, ma non ancora liberata. Per farlo dobbiamo attraversare l'immenso oceano. Come possiamo riuscirci?". Sentendo la preoccupazione di Rama, Sugriva si sforzò di rassicurarlo: "Non aver timore! Presto attraverseremo l'oceano, uccideremo Ravana e libereremo Sita. Dolore e disperazione preludono al fallimento. Le forze vanara sono già eccitate all'idea di combattere i demoni, e sono pronte a gettarsi nel fuoco per te. Dobbiamo trovare modi e mezzi di costruire un ponte sull'oceano. Ma abbandona l'angoscia, che deruba l'uomo del proprio valore e rende un re fiacco. E un sovrano fiacco è inutile, perché il popolo rispetta solo il valoroso".
Rama riacquistò la fiducia in sé e disse: "Col potere delle mie austerità posso attraversare facilmente il mare, costruendo un ponte o prosciugando le acque!". Hanuman intervenne dicendo: "Lanka ha quattro porte dotate di ponti levatoi ed è circondata da un fossato invalicabile. Essa ha quattro tipi di protezione: è circondata da un fiume, è posta su un monte, è circondata da dense foreste ed è ben fortificata, con mura e fossati. Ogni ingresso è custodito da centinaia di migliaia di demoni e possiede un deposito enorme di armi. Queste armi sono lunghe un metro e ottanta e possono sparare cento colpi simultaneamente, uccidendo altrettanti guerrieri. I ponti levatoi sono azionati da motori e sono placcati d'oro, come ulteriore protezione contro la ruggine e gli attacchi nemici. Però io ho danneggiato questi ponti e con i detriti ho riempito i fossati. Per attraversare l'oceano, un gruppo composto dai migliori condottieri vanara sarà in grado di farcela: forse non è necessario portare l'intero esercito".
Il racconto di Hanuman sulla difficile condizione di Sita e il suo rapporto sulla forza militare del nemico ispirò Rama a prendere una rapida decisione. Egli dichiarò: "Invaderò subito Lanka e la distruggerò! Questa è un'ora fausta e la giornata di oggi è favorevole alle imprese militari. Sugriva, ordina all'esercito di marciare! Nila, fa' marciare le milizie per la strada lungo la quale ci sono maggiori provviste di cibo. Se i demoni scoprissero i nostri preparativi all'invasione, potrebbero tentare d'avvelenare i frutti e le radici; occorre stare in guardia e fare molta attenzione. Alcuni vanara devono andare in avanscoperta e fare un'accurata ricognizione: potrebbero esserci dei demoni sulla strada in attesa di tendere un'imboscata al nostro esercito".
Re Sugriva e il comandante in capo delle forze tribali, Nila, diedero rapide istruzioni per far marciare l'esercito.
Le milizie attraversarono fiumi e laghi, montagne e foreste. L'entusiasmo dei soldati era altissimo e tutti erano ansiosi di combattere e salvare Sita. Essi marciarono senza riposare mai. Ogni loro azione e ogni movimento dei loro arti dava indicazioni del loro valore.
Quando raggiunsero il monte Mahendra, Rama salì in cima al monte. Da là egli vide l'immenso oceano. E mentre lo guardava dalla sua posizione, Rama si rivolse ai capi vanara: "Sugriva, ora abbiamo raggiunto le coste dell'oceano. Ora dobbiamo risolvere il problema che discutevamo prima. Fai accampare comodamente le armate vanara lungo la riva e studiamo modi e mezzi per attraversare l'oceano. Nello stesso tempo ti prego di prendere tutte le possibili precauzioni contro il sabotaggio e le infiltrazioni nemiche".
L'esercito s'accampò in riva al mare: e sembrava fosse un altro oceano, ma di colore bruno. Il frastuono prodotto dai vanara copriva il fragore dell'oceano. I capi delle forze vanara si fermarono a guardare il vasto oceano, per escogitare dei modi per attraversarlo.
Rama era angosciato per Sita. Egli disse a Lakshmana: "La gente dice che con il passare del tempo passi anche il dolore. Ma nel mio caso esso peggiora col passare del tempo. Oh, quando rivedrò la mia amata? Quando potrò tenere il suo viso tra le mie mani, e baciarlo? Quando abbraccerò intimamente la mia Sita, con il suo seno pieno e sodo stretto sul mio petto? Il pensiero che il limite di tempo che lei ha posto per salvarla stia passando velocemente mi causa un'angoscia insopportabile". Il fedele Lakshmana confortò adeguatamente il fratello.
A Lanka, un Ravana preoccupato convocò in assemblea i suoi consiglieri e comandanti, e così disse loro: "Un'impresa impossibile è stata compiuta, una città impenetrabile è stata violata e dei potenti eroi sono stati uccisi. E tutto questo da un semplice vanara. Vi prego di considerare cosa fare e consigliatemi. I saggi hanno descritto tre tipi di statisti. Il migliore è colui che comincia le sue imprese con le benedizioni di Dio e solo dopo essersi consultato con i suoi ministri. Il mediocre è colui che consulta solo sé stesso, decide la giusta linea d'azione e la porta avanti secondo le proprie decisioni. Il peggiore è quello che non sa valutare cos'è giusto e cos'è sbagliato, che ignora il divino, e dice: "Faccio tutto io". Parimenti, anche la consultazione può essere divisa in tre categorie. La migliore è quella in cui i consiglieri raggiungono un accordo unanime che si confà alle Scritture. Quando c'è molto conflitto prima di raggiungere l'unanimità, la consultazione è considerata mediocre. Quando ogni consigliere mantiene il proprio punto di vista e non si raggiunge l'unanimità, questa è la consultazione peggiore. Vi prego di considerare tra voi quale sia la migliore linea d'azione".
Nonostante quest'elaborata introduzione, i demoni balzarono su con impeto, brandendo armi come mazze di ferro, giavellotti, spade e lance, ed esclamarono: "Signore, perché dovresti temere Rama? Tu hai vinto molti dèi, semidèi e demoni. Rama non è pari ad alcuno di loro, e non parliamo di paragonarlo a te! Indrajit da solo potrà affrontare Rama e il suo potente esercito! Mandalo subito, e sarà la fine dei tuoi nemici".
Con lo stesso tono parlarono i comandanti. Prahastha disse: "Siamo stati letteralmente sorpresi da Hanuman. Se fossimo stati preparati, avremmo potuto facilmente disfarci di lui". Durmukha disse: "Comunque, non dobbiamo rilassarci così; andrò io stesso a distruggere le milizie vanara".
Vajradamstra disse: "Ma perché preoccuparsi tanto di Hanuman? Pensiamo a Rama, il nostro vero nemico. Andrò io da solo e lo ucciderò con la mia mazza di ferro. Suggerisco anche una semplice tattica per mezzo della quale possiamo disfarci dell'intero esercito vanara. Un contingente dei più feroci demoni dovrebbe andare da Rama nelle sembianze di esseri umani, e dirgli: "Siamo stati inviati da Bharata per aiutarti". Al momento opportuno essi attaccherebbero l'esercito vanara, annientandolo". Nikumbha, figlio di Kumbhakarna, disse: "Nessuno di voi deve preoccuparsi: io andrò subito laggiù e ucciderò personalmente Rama". Vajrahanu disse: "Andrò io stesso, inghiottirò Rama e poi tornerò".
I demoni che avevano consigliato Ravana erano impazienti di mostrare il loro coraggio; essi si alzarono agitando in aria le armi, e gridarono: "Noi uccideremo presto Rama, Sugriva, Lakshmana e anche Hanuman, quel vanara che ha devastato la città di Lanka".
Poi Vibhishana s'alzò dal suo seggio, frenò i demoni e disse a Ravana: "Vi sono occasioni in cui è necessario far ricorso alla violenza e vi sono occasioni in cui non è saggio ricorrervi. Fratello, non è saggio che tu abbia persino la speranza di sconfiggere in battaglia Rama, che è maestro di sé stesso ed ha il sostegno del Divino. Voi tutti avete già avuto un assaggio della forza, del valore e dell'intelligenza di Hanuman: è avventato presumere di poterlo affrontare in battaglia. L'errore peggiore nella strategia militare è sottovalutare la forza del nemico.
"C'è poi l'altra importantissima considerazione: per quale sua offesa desideri combattere e uccidere Rama? In realtà, tu sei colpevole di avere rapito sua moglie. E se tu dicessi d'averlo fatto per vendicare l'uccisione di Khara e di altri demoni da parte di Rama, neanche questo sarebbe corretto: Rama ha ucciso Khara per autodifesa, solo dopo essere stato attaccato da quest'ultimo.
"Smettila di perseguire la tua ingiusta azione, prima che il potere di Rama e la forza delle orde vanara ti distruggano. Abbandona l'odio, che distrugge la felicità e il Dharma; e segui il Dharma che accresce la gioia e la fama. Restituisci Sita a Rama, e continuiamo a vivere con i nostri figli e le nostre famiglie".
Ravana non rispose, ma si ritirò nei suoi alloggi.
La mattina seguente Vibhishana si recò nuovamente alla presenza di suo fratello Ravana, e gli disse: "Fin dal giorno in cui hai portato Sita a Lanka c'è stata una serie di cattivi presagi che predicono la distruzione di Lanka e dei suoi abitanti. Prima che ci colga il cattivo destino che questi brutti segni presagiscono, sarebbe bene fare ammenda! Perciò mi appello a te, perché tu restituisca Sita a Rama".
Ravana licenziò bruscamente Vibhishana, dicendogli seccamente: "Non ho paura di Rama, e non rinuncerò a Sita".
La passione per Sita e il disamore del suo popolo avevano cominciato ad intaccare la salute di Ravana, che deperiva ogni giorno di più. Aveva deciso per la guerra! Salì sul suo cocchio riccamente adornato e, circondato dai suoi comandanti, si recò nella sala del consiglio.
Poi comandò ai messaggeri di convocare una riunione straordinaria del consiglio; poiché, disse: "Ho cose estremamente urgenti da discutere".
Ravana si rivolse all'assemblea. Per prima cosa egli ordinò al comandante in capo Prahastha: "Assicurati immediatamente che le difese della città di Lanka siano salde e che tutte le armi di difesa siano ben piazzate ed equipaggiate". L'ordine fu subito eseguito.
Ravana continuò il suo discorso al consiglio: "Alcuni mesi fa ho rapito Sita, l'amata moglie di Rama, e dalla foresta Dandaka l'ho portata a Lanka. Ella è la donna più bella che abbia mai visto. Ho fatto di tutto per convincerla ad accettare la mia mano e il mio amore; ma finora li ha rifiutati. Ella mi chiese un anno per decidere, e io glielo concessi.
"Ora ho saputo che suo marito Rama si sta preparando ad invadere Lanka con un esercito sterminato di vanara. Io non so se tutti riusciranno ad attraversare l'oceano. D'altronde voi sapete quanta rovina ci ha causato uno solo di loro, venuto qui come semplice messaggero. Inoltre non sappiamo quali passi farà il nemico per realizzare il suo scopo. Comunque, fino a quando avrò tutto il vostro sostegno, io non temo nessuno sulla terra, meno che mai l'essere umano chiamato Rama. Non è passato molto tempo da quando mi avete aiutato a sconfiggere gli dèi. Perciò suggerirei di discutere i modi e i mezzi per conseguire il mio scopo: Rama e Lakshmana devono essere uccisi e Sita non dev'essere portata via da Lanka".
Kumbhakarna infuriato espresse il suo risentimento: "Perché non ci hai consultati prima d'andare a rapire Sita? Chi fa oggi ciò che avrebbe dovuto fare prima, e chi fa prima quello che dovrebbe fare dopo, non conosce il corso della giusta azione. O Ravana, chi pratica la giusta azione non ha rimpianti e non si pente. Comunque, ora tu ci hai chiamati a consulta e desideri combattere contro Rama. Staremo tutti al tuo fianco e distruggeremo Rama. Non temere".
Mahaparsva, un altro comandante dei demoni, disse: "Raggiungi il tuo scopo con la forza, o re! Seduci Sita con la forza; e quindi non ci sarà più nulla da temere. Ci occuperemo noi di Rama come si deve".
Rispondendo a quest'invito, Ravana disse: "Ahimè, questo non posso farlo. Vi racconterò una mia sventura. Una volta ho sedotto con la forza una ninfa celeste chiamata Punjikasthala. Ella riferì la mia condotta a Brahma, il Creatore, che di conseguenza mi maledì: "Se d'ora in poi sedurrai un'altra donna con la forza, la tua testa scoppierà in cento pezzi". Per questo non ho la possibilità di forzare Sita ad accettare il mio amore. Eppure sono sicuro che dopo che avrò ucciso Rama, Sita non avrà altra scelta se non quella di accettarmi".
Vibhishana parlò: "Prima che i terribili vanara invadano e distruggano Lanka, prima che i missili di Rama ti tolgano la vita, restituisci Sita a Rama".
Prahastha intervenne dicendo: "Che sciocco! Non abbiamo paura neanche degli dèi, tantomeno di Rama".
Vibhishana continuò: "Vi sbagliate nel sottovalutare il potere di Rama. Nessuno di voi potrà opporsi ai suoi missili. Coloro che incoraggiano il re nella sua malvagia azione, sono in realtà suoi nemici. Chi ha goduto dei favori del re ha il dovere d'impedirgli di fare azioni ingiuste e suicide, se necessario anche con la forza. Il vero ministro è colui che suggerisce ciò che è buono per il re, dopo aver valutato a pieno la propria forza e quella del nemico, e le possibilità di aumento, diminuzione o mantenimento di tale forza".
Indrajit, figlio di Ravana, balzò in piedi e disse: "Zio, tu sei un disonore per la razza dei demoni. La vigliaccheria che dimostri non è degna neanche dei mortali, tantomeno dei demoni. Zio Vibhishana è debole e timido e in lui non c'è né eroismo né coraggio. Io ho sconfitto persino Indra, il dio degli dèi; dovrei aver paura del mortale Rama? Il più debole dei demoni può sbarazzarsi di Rama; non c'è motivo d'aver paura".
Vibhishana continuò: "Non sei che un giovanotto, Indrajit. E come tale parli! Sfortunatamente, però, la tua millanteria ti trascina alla morte. Lo ripeto, l'unica cosa saggia da fare è quella di restituire Sita a Rama, insieme a gioielli e ricchezze".
Sentendo ripetere questo consiglio di Vibhishana, Ravana andò su tutte le furie, e disse: "Si può vivere con un nemico o con un serpente velenoso, ma non con un amico ipocrita che è devoto al nemico. Davvero, Vibhishana, il nemico peggiore è un parente stretto guidato dal proprio interesse personale. Questo parente è ostile anche ad un re giusto ed è sempre intento a causarne la caduta. La ricchezza esiste nella vacca; dai parenti viene solo la paura. Le donne sono note per la volubilità e i brahmana per le austerità. Sembra naturale, fratello mio, che a te non piaccia che io prosperi. Io ti ho mostrato tutto il mio affetto, ma mi rendo conto che l'affetto dato ad una persona ostile è infruttuoso e può anche diventare pericoloso. Se quello che hai detto fosse stato pronunciato da un altro, avrei ordinato la sua esecuzione: ma che cosa farò con te, traditore! ".
Vibhishana rispose: "Coloro alla cui porta bussa la morte non ascoltano i buoni consigli. In questo mondo, o re, vi sono molti che pronunciano parole piacevoli; ma davvero raro è chi profferisce un consiglio spiacevole, ma saggio, e ugualmente raro è chi ascolta un tale consiglio. Perdona l'offesa fatta. Salvaguardati, e che tutto vada bene".
Dopo avere espresso il suo pensiero a Ravana, Vibhishana volò immediatamente dove si trovava Rama, accompagnato da quattro dei suoi demoni devoti. Quando i vanara videro che un demone stava volando verso il loro campo, si misero allerta e chiesero il permesso di Sugriva per abbatterlo. Mentre era ancora in aria, Vibhishana annunciò la sua identità e le sue intenzioni: "Sono il fratello di quel Ravana che ha decretato la propria condanna con il rapimento di Sita. Ho abbandonato mia moglie e i miei figli e chiedo asilo a Rama. Vi prego d'informare Rama, il rifugio del mondo intero, che Vibhishana prende rifugio in lui".
Tutti i vanara andarono da Rama. Sugriva aprì il discorso con queste parole: "Egli viene dal lato nemico, ed è un nemico. Potrebbe essere una spia, un infiltrato; in ogni caso, è sospetto. Dacci il permesso di ucciderlo, Rama". Rama volle il consiglio dei capi vanara.
Alcuni suggerirono una cauta investigazione. Ma Hanuman differì da tutti gli altri e disse: "Vibhishana ha rifiutato il suo ingiusto fratello e ha cercato te, Rama. Egli dev'essere accolto. Nessuno degli altri suggerimenti è fattibile. Se fosse un nemico e una spia, non sarebbe facile scoprirlo né con il controspionaggio né interrogandolo. Il suo volto è calmo e tranquillo, e il suo contegno umile e puro: nella mia mente non c'è sospetto".
Mentre Rama approvava questo, Sugriva lo mise in guardia: "Ha tradito suo fratello; chi altri non tradirebbe?".
Pur apprezzando la saggezza di queste parole, Rama disse: "I parenti sono normalmente amichevoli, ma nel caso dei governanti è vero il contrario! I propri parenti e i governanti dei regni vicini sono i nemici peggiori di un re. Sotto questa luce potete capire perché Vibhishana abbia abbandonato suo fratello e sia venuto qui. In questo mondo non tutti i fratelli sono come Bharata, non tutti i figli sono come me, e non tutti gli amici sono come voi!
"Abbiamo sentito dire di una colomba che offrì ospitalità a un cacciatore, il suo peggior nemico: siamo noi peggiori della colomba, riluttanti ad accettare Vibhishana? E i saggi hanno dichiarato: "Anche un nemico che chiede aiuto dev'essere protetto ad ogni costo". Non proteggere un rifugiato è davvero un grande peccato. Questo è il mio fermo voto: se uno mi chiede rifugio anche una sola volta e dice: 'Io sono tuo', lo proteggerò da ogni paura. Perciò concedo il mio asilo a chiunque sia venuto, sia egli Vibhishana o lo stesso Ravana! Portateli da me".
Sugriva fu felicissimo, e dichiarò: "Ora considereremo Vibhishana come uno di noi".
Ottenuto il permesso dai vanara, Vibhishana fece un giro sul campo e subito dopo atterrò. Insieme ai suoi quattro compagni, Vibhishana cadde ai piedi di Rama.
Rama gli chiese subito: "Ti prego di dirmi in verità qual è la forza dei demoni, e anche le loro debolezze". Vibhishana rispose: "Ravana ha ricevuto dal Creatore Brahma il dono di non poter essere ucciso da dèi, demoni, semidèi, serpenti e uccelli. Suo fratello Kumbhakarna possiede una forza immane. Il comandante dell'esercito di Ravana, Prahastha, è un potente guerriero. E pure Indrajit, il figlio di Ravana, che possiede anche dei poteri magici. Ravana ha milioni di demoni che costituiscono il suo esercito".
Per niente scoraggiato, Rama dichiarò: "Ucciderò Ravana insieme al suo comandante generale e a tutti gli altri. E incoronerò te re, te lo prometto!".
Rama decise di suggellare immediatamente questa amicizia. Perciò chiese a Lakshmana di portare dell'acqua dall'oceano: "E con quell'acqua incorona Vibhishana re di Lanka: poiché egli si è guadagnato il mio favore". Lakshmana porto prontamente l'acqua e, mentre i vanara osservavano allibiti, Vibhishana fu consacrato re di Lanka.
Vibhishana consigliò loro: "La divinità che presiede all'oceano è in debito con Rama, perché un antenato di Rama rese un grande favore all'oceano. Perciò suggerisco che Rama propizi la divinità e chieda un mezzo per attraversare l'oceano". Rama accettò questo consiglio e sedette vicino all'oceano.
Una spia chiamata Sardula aveva controllato la forza delle milizie vanara e aveva riferito a Ravana della concentrazione delle truppe sulle rive dell'oceano. Assai turbato, Ravana disse a Suka: "Recati subito sull'altra sponda e chiedi a Sugriva: "Tu per me sei come un fratello. Quale offesa ti ho arrecato, che vuoi invadere Lanka con il tuo esercito?"".
Assumendo la forma di un uccello, Suka arrivò presto al campo di Sugriva e riferì il messaggio di Ravana. I vanara cominciarono ad assalire Suka, ma furono fermati da Rama. Sugriva rispose: Di' a Ravana: "Io non sono né tuo amico né il tuo benefattore. Ti sei messo contro Rama, e quindi meriti lo stesso trattamento che toccò a Vali! Ti vanti del tuo valore: e allora perché hai ucciso l'anziano Jatayu? Perché non hai rapito Sita in presenza di Rama? No, la tua vita è giunta al termine"". Mentre l'uccello stava per volare via, Angada disse: "Non è un messaggero; è una spia da uccidere!". Ma quando i vanara presero l'uccello, esso s'appellò a Rama, che lo fece lasciare vivo dicendo: "È un messaggero di Ravana, non uccidetelo". Comunque esso fu tenuto sotto custodia.
Rama si stese su una stuoia, con il suo braccio soltanto come guanciale, e fece voto di propiziare il dio dell'oceano e assicurarsi il suo aiuto per andare fino a Lanka. Il braccio che aveva fatto dono di migliaia di vacche, il braccio che era stato adornato con unguenti e gioielli, il braccio che Sita aveva usato come guanciale, il braccio la cui forza incuteva paura nei cuori dei nemici - quel braccio era il solo sostegno della testa di Rama, l'asceta, mentre adagiato sulla riva pregava il dio dell'oceano di mostrare la sua grazia.
Rama prese la ferma risoluzione: "Ora dovrò attraversare quest'oceano; altrimenti lo prosciugherò".
Per tre giorni e tre notti Rama rimase immobile, senza che il dio dell'oceano mostrasse alcun segno di compiacimento. Rama fu preso dall'impazienza e dalla collera, e disse a Lakshmana: "Ecco un esempio, fratello, di come i malvagi fraintendono la virtù dell'uomo nobile: essi pensano che si tratti di debolezza! Il mondo rispetta solo l'uomo che fa frastuono e clamore, che è vano e aggressivo! Né la fama né la vittoria si ottengono con un approccio pacifico. Guarda cosa farò adesso. Portami la mia arma e i missili. Prosciugherò l'oceano in modo che i vanara possano camminare fino a Lanka".
Rama impugnò la sua magnifica arma, prese alcuni missili terribili e li tirò all'oceano. Il loro effetto fu così violento che si crearono delle onde di proporzioni gigantesche. Le creature dell'oceano, gli enormi serpenti e gli altri esseri degli abissi si sentirono disturbati e messi in pericolo. Nel mare si levarono onde alte come montagne. Dall'oceano venne un boato terrificante. Persino Lakshmana ebbe paura.
Rama guardò l'oceano e disse colmo d'ira: "Ti prosciugherò per intero! Privato completamente della tua essenza, di te, oceano, resterà solo un letto di sabbia. Rama prese il missile più potente, che aveva i poteri del Creatore stesso, e lo scagliò contro l'oceano.
Il suo effetto fu inimmaginabile e al di là di ogni descrizione. Le montagne cominciarono a tremare. Ci fu un terremoto. Tutto fu avvolto da una densa oscurità. Il corso del sole, della luna e dei pianeti fu disturbato. Il cielo s'illuminò come se improvvisamente fossero apparse migliaia di meteore. Accompagnato dal frastuono assordante dei tuoni, il cielo fu illuminato dai lampi. Fortissime bufere di vento spazzarono la superficie della terra e dell'oceano. Anche le cime delle montagne furono trascinate via.
Dovunque gli esseri viventi gridavano nell'agonia. Le acque dell'oceano si sollevarono così bruscamente e con tanta forza che sembrò che l'oceano stesse per superare i suoi argini e sommergere la terra.
A questo punto la divinità dell'oceano si alzò e s'avvicinò umilmente a Rama. E a Rama che si ergeva ardente di collera, con l'arma pronta a scagliare il missile più distruttivo, l'Oceano disse: "Ogni cosa nella natura è governata dalla legge immutabile che sola determina le caratteristiche intrinseche ad ogni elemento. In conformità a quella legge, è naturale che l'oceano sia insondabile e invalicabile. Tuttavia ti suggerirò una via d'uscita, ti indicherò in che modo i vanara potranno giungere fino a Lanka".
Rama chiese all'Oceano: "Contro chi devo tirare questo missile infallibile, che è stato preparato allo scopo di prosciugare l'oceano?".
L'Oceano indicò la ben nota Drumakulya abitata dai peccatori: diretto in quel posto, il missile di Rama prosciugò ivi l'oceano e, per bilanciare quest'azione, egli benedì quel pezzo di terra: "Sarai fertile e piena di alberi da frutta".
L'Oceano disse: "Rama, ecco qua Nala, il figlio del grande Visvakarma (l'architetto dell'universo). Chiedi a lui di costruire un ponte su queste acque, perché egli è geniale quanto suo padre. Io sosterrò volentieri quel ponte".
Nala si prestò subito volontariamente: "Ciò che l'Oceano ha detto è vero. Costruirò il ponte sopra queste acque. L'Oceano ha un debito di gratitudine verso Rama, perché i suoi antenati avevano reso un grande favore all'Oceano. Tuttavia, non è stata la gratitudine che ha ispirato l'Oceano a cedere il passo, ma la paura! L'uomo ingrato in questo mondo riconosce solo la punizione, non l'amore e l'affetto".
Al comando di Rama, migliaia di vanara si prepararono per l'impresa straordinaria. Essi tagliarono tronchi d'albero e rotolarono enormi massi e pietre. Gettarono tutto quanto nell'oceano che, di conseguenza, divenne molto agitato. Alcuni vanara reggevano un filo a piombo per potere allineare bene i massi.
Con l'aiuto dei vanara, dotati di forza incommensurabile e capaci di grandi azioni, Nala costruì il ponte sull'oceano, usando tronchi, massi e pietre. Il ponte lungo ottocento miglia fu costruito in cinque giorni. Gli esseri celesti (i deva o esseri di luce) e i gandharva (i musicisti celesti) osservarono quest'impresa meravigliosa.
Non appena il ponte fu completato, Vibhishana si mise a guardia dell'estremità meridionale (a Lanka), per prevenire un sabotaggio da parte del nemico.
Quindi Sugriva disse a Rama: "Lascia che Hanuman trasporti te a Lanka, e che Angada trasporti Lakshmana". Tutti erano pronti a partire.
Ben presto Rama fu dall'altra parte dell'oceano. Egli vide Lanka, splendente di decorazioni, e il suo cuore si rivolse a Sita: non sarebbe passato molto tempo e l'avrebbe riavuta con sé. Rama disse a Lakshmana: "Guarda la bella città sulla collina, costruita anticamente dall'architetto divino Visvakarma. Con i suoi edifici a molti piani, con i suoi boschi e giardini, essa mostra tutti i segni di una grande ricchezza".
Poi Rama chiese a Sugriva: "Ordina la liberazione di Suka, il messaggero di Ravana che venne da noi nelle sembianze di un uccello!". Non appena fu liberato, Suka tornò da Ravana e gli riferì: "Sono andato da Sugriva e gli ho dato il tuo messaggio; ma i vanara mi hanno preso e mi avrebbero ucciso, se Rama non fosse intervenuto in tempo. Essi hanno costruito un ponte e hanno attraversato l'immenso oceano con l'esercito vanara. Rama è qui, con le sue armi e i suoi missili mortali. Ora ti rimangono aperte solo due possibilità: o restituisci Sita a Rama oppure combatti".
Ravana dichiarò con grande veemenza: "Non rinuncerò a Sita, neanche se dovessi combattere contro gli dèi, i semidèi e i demoni. Oh, attendo con ansia il momento in cui colpirò Rama e lo vedrò sanguinare. Rama non ha idea della mia potenza, perciò è tanto folle da volere una guerra".
Nello stesso tempo Ravana era ansioso dentro di sé. Egli chiamò due demoni, Suka e Sarana, e disse loro: "Mascherate molto bene la vostra identità e infiltratevi tra le milizie nemiche. Accertatevi della loro forza e riferitemi tutto nei dettagli. Non riuscivo a crederci quando mi è stato detto che hanno costruito un ponte sull'oceano; ma ora non c'è dubbio che essi sono pronti a combattere. Perciò è bene avere una giusta valutazione della loro forza".
I demoni presero le sembianze di vanara e penetrarono furtivamente tra le forze vanara. Vedendo la vastità dell'esercito, essi rimasero allibiti e non riuscirono a stimarne il numero e la forza. Vibhishana scoprì le due spie, le portò a Rama e gli disse: "Ecco due spie dei demoni, Rama: esse meritano l'esecuzione".
Rama disse loro: "Avete visto tutto, demoni? Allora tornate a riferirlo a Ravana. Se invece non avete visto tutto, sarò contento di chiedere a Vibhishana di mostrarvelo, così che possiate presentare a Ravana un resoconto completo della nostra forza". Rilasciati da Rama, essi tornarono da Ravana, e Sarana gli disse: "O re, sono stato preso da Vibhishana, ma è stato Rama a salvarmi la vita. Egli mi ha chiesto di farti sapere che domani stesso invaderà Lanka e la distruggerà. Ti prego, maestà, basta con questa ostilità contro Rama; fa' pace con lui".
Ravana disse severamente a Sarana: "Tu hai paura, codardo! Ma io non rinuncerò a Sita neanche se dovessi combattere contro tutti gli dèi, i semidèi e i demoni del mondo intero".
Subito dopo Ravana salì in cima al palazzo, che era una casa bianca con cupole dorate, e che aveva molti piani ed era alto quanto diversi alberi di borasso posti l'uno sull'altro. Da lassù egli vide l'intero paese ricoperto dalle forze vanara.
Allora Ravana comandò a Sarana: "Vieni qui e dimmi: chi sono i comandanti del loro esercito, e qual è la loro forza?".
Sarana rispose: "Quel potente vanara che marcia in testa all'esercito, e le cui grida scuotono Lanka, è Nila. Quell'eroe dall'andatura furente è Angada, il figlio di Vali. Dietro di lui c'è Nala, il costruttore del ponte. Quel vanara bianco è Sveta, un grande organizzatore e il consigliere militare di Sugriva. Ecco Kumuda. E là c'è Canda, circondato da innumerevoli vanara. Circondato ugualmente da innumerevoli vanara, laggiù c'è Rambha. Quell'impavido vanara è Sarabha, anche lui a capo di un vasto esercito. Quei due potenti vanara sono Panasa e Vinata. Krodhana è un valoroso comandante. E a capo di un'immensa forza ecco Gavaya, che è intrepido e non teme neanche la morte. Neanche i comandanti di questo potente esercito si possono contare: e sono tutti eroi impavidi, totalmente devoti alla causa di Rama e determinati a vincere.
"Ecco laggiù un altro capo, Hara, seguito da numerosi comandanti dell'esercito. Ecco là Dhumra, il capo di un'altra tribù. Un'altra tribù ancora è capeggiata dal potente Jambavan, che una volta aiutò il re degli dèi, Indra, ottenendo da lui molti doni. E vedi laggiù quel vanara maestoso che tutti gli altri stanno a guardare: è Rambha. Quella forma gigantesca che vedi laggiù è Samnadana. Quell'altro vanara, Kranthana, si dice sia figlio del dio del fuoco. E così pure Pramathi, quell'altro capo vanara dalla potenza incomparabile.
"Il condottiero di un'altra tribù ancora, detta dei Golangula, è il potente vanara Gavaksha. Un'altra tribù di vanara vive tra le montagne più alte; essi sono di diversi colori e sono di un valore e una ferocia incomparabile.
"Sono tutti là riuniti, zelanti, pronti a combattere e a distruggere Lanka. Laggiù puoi vedere il comandante supremo Satabali: desideroso di vittoria, egli adora il sole tutti i giorni. Tutti quanti sono completamente consacrati alla causa di Rama, al quale sono devoti. Per amor suo essi sono pronti a dare la vita".
Poi toccò a Suka indicare gli altri eroi tra le forze nemiche:
"Quei vanara che vedi laggiù sono in realtà figli di dèi e semidèi. Essi hanno una forza incommensurabile, e possono perfino cambiare le loro forme. Quei due comandanti sono Mainda e Dvivida; si dice che abbiano avuto un assaggio del nettare dell'immortalità. Certamente riconosci quel vanara in piedi laggiù! È lo stesso Hanuman che incendiò Lanka.
"Probabilmente sai che i due principi a fianco ad Hanuman sono Rama e Lakshmana. Quello vicino ad Hanuman è Rama, che aderisce al Dharma e dal Dharma è protetto. Egli è un maestro in tutte le branche della conoscenza ed è dotato del missile supremo conosciuto come missile di Brahma. Se lo desiderasse, egli potrebbe scindere i cieli e anche la terra. La sua ira è morte, e il suo valore è pari a quello di Indra. E Lakshmana, che gli sta al fianco, è l'alter ego di Rama e farebbe qualunque cosa per assicurare a Rama la vittoria.
"E riconoscerai senza dubbio Vibhishana, lì vicino a loro. Ho sentito dire che Rama lo ha consacrato re di Lanka. Vedi là anche Sugriva: la collana celeste che indossa, come pure Tara, la moglie di Vali, e il regno di Kishkindha gli sono stati donati tutti da Rama, dopo che questi uccise Vali.
"Osserva, grande re, questo potente esercito che sembra un pianeta in fiamme. Considerando la sua forza, prendi tutte le precauzioni utili per assicurarti la vittoria".
Ravana era preoccupato, e diresse la sua furia contro le due spie Suka e Sarana: "Traditori! Voi cantate davanti a me le lodi dei nemici che stanno per combattere contro di me. Che valore ha la vostra conoscenza delle scritture, se non sapete neanche come parlare davanti al vostro re? Dovrei farvi uccidere per il vostro cattivo comportamento; ma non lo faccio in considerazione dei servigi che mi avete reso in passato. Andate immediatamente via di qui".
Ravana ordinò che altre spie andassero da lui, e poi intimò loro: "Recatevi subito nel campo nemico e, senza destare il sospetto di nessuno, scoprite quali sono i piani di Rama. Osservatelo attentamente e tornate a riferirmi come dorme, come si sveglia e cosa sta facendo adesso. Chi conosce le abitudini e i movimenti del nemico lo vince facilmente".
Le spie entrarono nell'accampamento di Rama; ma Vibhishana si accorse della loro presenza. Tuttavia il misericordioso Rama ordinò che fossero liberate! Subito dopo i vanara le assalirono, e così tormentate le due spie fecero ritorno da Ravana.
Sardula si ripresentò davanti a Ravana e gli disse: "O re, non è possibile spiare l'esercito di Rama: sono tutti molto potenti e soprattutto sono protetti da Rama. Infatti appena giunti tra loro siamo stati subito riconosciuti. E le nostre vite sono state risparmiate solo grazie alla misericordia di Rama".
Ravana riunì immediatamente i suoi consiglieri per consultarsi. Dopo averli messi al corrente degli ultimi sviluppi della situazione, egli prese con sé il demone Vidyujjihva e insieme si recarono verso il boschetto di asoka. Vidyujjihva possedeva il potere di materializzare qualsiasi oggetto con un semplice gesto della sua mano. Ravana gli disse: "Ti prego, fa' comparire un perfetto duplicato della testa di Rama, come pure della sua arma e di un suo missile, e dammeli".
In un attimo il demone produsse gli articoli desiderati, e ricevette per essi una ricca ricompensa. Seguito dal demone, Ravana si recò nel luogo in cui sedeva Sita.
Avvicinandosi con calma a Sita, Ravana le disse:
"O donna affascinante, l'uomo per il cui amore tu vivi ridotta così, colui che aspetti che ti salvi da me, colui che uccise demoni potenti come Khara, tuo marito Rama è stato ucciso da me! Le tue speranze sono finite, Sita! È giunto il momento che tu riconsideri la tua posizione e accetti di essere mia moglie.
"Rama aveva sperato di uccidermi, di distruggere Lanka e di portarti via. Con l'aiuto di Sugriva egli aveva riunito un vasto esercito; aveva persino fatto costruire un ponte sull'oceano, ed era giunto alle porte di Lanka. Il sole era tramontato, e Rama e i comandanti delle sue milizie dormivano tutti. Alcuni dei miei soldati sono entrati silenziosamente nel campo nemico e hanno ucciso tutti i comandanti. Mentre Rama dormiva, il mio comandante supremo Prahastha ha reciso la sua testa con una spada affilata. Vibhishana è stato fatto prigioniero. Lakshmana è fuggito con il contingente da lui comandato. A Sugriva è stato spezzato il collo. Hanuman giace morto con le mascelle frantumate. Jambavan è morto. Allo stesso modo ci siamo disfatti di tutti gli eroi, senza alcuna resistenza. Tutti i vanara sono fuggiti, cercando di salvarsi. I loro capi sono stati uccisi.
"Ho pensato che ti sarebbe piaciuto vedere la testa di tuo marito, sporca di sangue e sabbia. Eccola qui".
Ravana fece un cenno e disse a Vidyujjihva: "Mostra a Sita la testa di Rama; lascia che veda con i suoi occhi la fine di suo marito!". Poi Ravana mostrò a Sita l'arma e il missile di Rama: "Ecco qua l'arma e il missile usati da Rama. Ora sono sicuro che acconsentirai a diventare mia moglie".
Dopo un momento di stupito silenzio, Sita scoppiò in lacrime e gridò ad alta voce: "O Kaikeyi! Oggi il tuo desiderio si è compiuto. Oggi il piano che tu hai cominciato disturbando la mente di re Dasaratha ha dato frutto, producendo la morte dell'amato principe della sua dinastia". Piangendo disperatamente, Sita cadde a terra come un banano reciso.
Sita continuò il suo lamento: "Ahimè, Rama, tu hai aderito al tuo Dharma, ma io sono diventata vedova. La vedovanza è considerata una tragedia indesiderabile nella vita di una donna devota al Dharma. Oh, che tragedia! Tu sei venuto a salvarmi, ma hai sacrificato la tua stessa vita. Degli astrologi molto preparati nello studio dei corpi celesti e dei loro movimenti avevano predetto che la tua vita sarebbe stata lunga: ma, ahimè, le loro predizioni si sono dimostrate erronee. Tu eri sempre vigile e saggio; e tuttavia sei stato ucciso nel sonno! Quando giunge l'ora, anche l'impossibile diventa possibile. Davvero il Tempo è il più grande potere sulla terra, portando tutto al suo compimento. Tu eri un grande maestro nelle scienze politiche e nell'uso delle armi: eppure, ecco, giaci qui, nelle mani del demone della distruzione. Ed ecco qui le tue armi, che io ero solita adorare ogni giorno!
"Forse ora sei felice, riunito al tuo amato padre nel cielo. Ma perché hai abbandonato me? Non ricordi cosa hai detto il giorno delle nostre nozze? Hai detto: Praticheremo sempre il Dharma insieme". Ti prego, porta anche me con te. È terribile anche pensarci: quel corpo che abbracciavo con tanto amore forse ora viene dilaniato dalle bestie! Quanto è crudele e ingiusto che a te che adoravi il fuoco sacro tanto regolarmente sia negato il privilegio di una vera cremazione! Quando Lakshmana tornerà ad Ayodhya, l'unico del gruppo di tre che lasciò la città, quanto grande sarà il dolore di madre Kausalya. Certo anche lei si toglierà la vita. O Rama, io sono quella donna sciagurata che ha causato tanta distruzione! Ah, la stessa moglie di Rama è diventata la sua morte".
Rivolgendosi a Ravana, Sita disse: "Metti il mio corpo su quello di Rama e uccidi anche me. Avvicina la mia testa alla sua e il mio corpo al suo: anche io me ne andrò con lui. Uccidimi. Mi renderai il più grande servigio. Sarà la tua azione più meritoria, in quanto riunirai un marito e una moglie".
Mentre ella continuava a gemere, un messaggero chiese urgentemente di Ravana: "Signore, i tuoi ministri hanno immediato bisogno di te". Ravana partì subito. E con la sua partenza scomparvero anche la testa e le armi di Rama. Ravana si consultò con i suoi ministri e ordinò la mobilitazione generale: "Radunate tutti i demoni; ma non dite loro il perché".
Non appena Ravana andò via, si presentò una demonessa chiamata Sarama. Avvicinandosi a Sita con amore e affetto, Sarama le disse: "Non addolorarti più, Sita. Tutto ciò che Ravana ha detto era falso. La testa e le armi di Rama sono state prodotte con la magia. Rama non è stato ucciso! Sono convinta che non sia possibile ucciderlo. Sia lui che suo fratello Lakshmana sono capaci di difendersi in maniera ammirevole. Io so di certo che Rama e l'esercito dei vanara hanno attraversato l'oceano e sono giunti alle porte stesse di Lanka".
Udendo il tumulto fuori del boschetto, Sarama continuò: "L'esercito di Ravana è stato mobilitato e le truppe stanno marciando per andare in guerra. Tutte le strade sono bloccate dalle truppe. Essi marciano verso la loro morte e per dare il benvenuto alla tua felicità, o Sita. Sono convinta che presto Rama entrerà vittorioso a Lanka. Molto presto vedrai il tuo amato marito; presto io vedrò te, mia carissima amica, seduta sul suo grembo. Egli asciugherà le tue lacrime e sarete riuniti. Puoi esser certa di questo, mia cara Sita. Per il momento, ti prego, adora il Sole, il Signore di tutti gli esseri".
Questa fu una grande consolazione per Sita. Ma Sarama le volle fare un favore ancora più tangibile, e disse: "Io ho il potere d'andare dove voglio, senza essere vista da nessuno. Se lo desideri, Sita, posso andare da Rama, vederlo, parlargli e poi tornare da te".
Sita le disse: "Se desideri farmi un favore, Sarama, allora ti prego d'andare dove sta Ravana e di scoprire cosa sta facendo e quali sono i suoi piani".
Sarama partì subito, andò alla corte di Ravana e tornò presto a riferire a Sita: "Sono stata alla corte di Ravana e ho udito tutto ciò che vi sta succedendo. Molti dei suoi ministri gli hanno consigliato di riportarti da Rama e di fare pace con lui. La madre di Ravana lo ha ammonito severamente: "Ricordati con quale facilità Rama da solo si sbarazzò di migliaia di demoni a Janasthana. Ricorda come l'eroico Hanuman ha compiuto l'impresa quasi impossibile di attraversare l'oceano e scoprire dov'era Sita". Ma nonostante tutti i consigli dei suoi ministri e di sua madre, Ravana è rimasto testardo, non desiderando rinunciare a te. La morte imminente gli offusca la mente. O Sita, per prima cosa Rama lo ucciderà, e quindi ti riporterà con sé".
Nello stesso tempo, udendo le grida delle forze vanara, l'esercito di Ravana si mise in marcia.
I demoni avevano perso il loro splendore, e dalla guerra non vedevano provenire alcun segno positivo, perché condannati dal peccato del loro sovrano.
Ravana tenne consiglio con i suoi ministri, mentre le sue truppe cominciavano a marciare verso le porte della città. Uno dei suoi consiglieri, che era anche suo nonno materno, si fece avanti.
Malayavan disse: "La parte vitale dell'arte di governare sta nel sapere giudicare, perché ci sono occasioni in cui uno deve attaccare e altre in cui uno deve fare pace.
"Ravana! Il Creatore ha dato vita a due soli tipi di esseri coscienti in questo mondo: il divino e il demoniaco. Il Dharma è la caratteristica del primo e l'adharma del secondo. Il pendolo oscilla costantemente tra i due. In un'epoca (il Satya Yuga) la virtù o il Dharma tiene l'adharma sotto controllo; in un'altra epoca (il Kali Yuga) prevale l'adharma. Nell'era attuale, però, vi è squilibrio tra i due: e tu, con le tue malvagie azioni di grande portata, hai fatto pendere la bilancia dalla parte dell'adharma. Come conseguenza, una terribile distruzione attende te e il tuo popolo. Dedito com'eri al potere e al piacere, tu hai oppresso i saggi e i santi. Ma quei santi pacifici hanno continuato le loro pratiche religiose: e il fumo che si leva dal fuoco sacro che essi adorano nei loro sacrifici si diffonde nelle dieci direzioni e causa la distruzione dei demoni.
"O Ravana, tu hai chiesto di essere invulnerabile solo contro dèi semidèi e demoni; ma ora sei stato invaso da esseri umani, vanara e altre orde tribali. Io vedo presagi terribili: le nubi fanno suoni spaventosi; i cavalli e gli elefanti piangono; dalle mucche nascono asini e dalle manguste ratti. I gatti si accoppiano con i leopardi, i porci con i cani, e i semidèi con i demoni e gli umani. La fine dei demoni è vicina. Io penso che Rama sia lo stesso Signore Vishnu incarnato in forma umana. Perciò fai pace con lui".
Ravana s'infuriò di nuovo e tuonò: "Tu non sai neppure cosa sia un comportamento giusto e corretto. Tu che appartieni alla mia corte sostieni la causa del mio nemico! Se Rama è Vishnu, allora mi sono preso la stessa dea Lakshmi, che ora è in mio possesso: e perché dovrei restituirla? No! Potrei anche spezzarmi in due, ma non m'inchinerò, mai! Questa è la mia natura innata, anche se potrebbe essere un difetto. E la propria natura innata è difficile da vincere. Ti assicuro che ucciderò Rama in brevissimo tempo!".
Malayavan diede le sue benedizioni a Ravana e lasciò la corte.
Ravana ordinò ai demoni più potenti di difendere tre delle quattro porte della città, decidendo di stare lui stesso alla porta nord. Dopo avere assicurato la difesa della città, acclamato e adorato dai suoi ministri, Ravana sciolse il consiglio e si ritirò nei suoi alloggi.
Rama ed i suoi amici erano giunti in prossimità della città e si trovavano ai piedi del monte Suvela. Vibhishana riferì a Rama: "I miei quattro consiglieri sono tornati con le ultime informazioni. Ben camuffati, essi sono entrati nel palazzo di Ravana e hanno appreso che il demone ha mobilitato il suo esercito e ha posto tre potenti demoni a guardia di tre porte della città, mentre lui stesso starà a guardia della quarta, quella a nord".
Vibhishana continuò: "Le forze comandate da Ravana hanno una potenza tremenda, esse sono molto più potenti di quelle con le quali egli invase la roccaforte degli dèi e ottenne la vittoria su di loro. Non sto dicendo questo per intimorirti, perciò non essere seccato con me. Ti do quest'avvertimento solo per destare sufficientemente la tua ira, perché allora sarai invincibile".
Rama considerò come spiegare le sue forze sul campo e quindi diede le seguenti istruzioni: "Nila attaccherà la porta orientale guardata da Prahastha. Angada sfiderà Mahaparsva e Mahodara alla porta sud. Hanuman attaccherà similmente Indrajit appostato alla porta occidentale. Io stesso andrò alla porta nord, insieme a Lakshmana, e combatterò quel vile demone che è l'oppressore del mondo, e io stesso ucciderò il demone malvagio. Ogni tribù dell'esercito vanara deve rimanere nell'aspetto che la distingue: con la propria uniforme, ognuna potrà essere facilmente distinta. I vanara non devono copiare le nostre apparenze, in modo che Vibhishana ed i suoi quattro demoni-ministri, Lakshmana ed io possiamo essere facilmente riconosciuti".
Seguito dai capi vanara, Rama scalò il monte Suvela e disse: "Passeremo qui la notte. Da questo posto potremo avere anche una buona vista di Lanka. Ogni volta che penso a quel perverso Ravana non posso trattenere la mia collera. Egli non sembra conoscere il Dharma, e non si cura del codice della giusta condotta né del prestigio della sua dinastia, per questo motivo è dedito a una condotta bassa e demoniaca. Ucciderò presto quel demone ignobile e immorale. Ahimè, una persona condannata alla distruzione pecca; e come risultato perisce tutta la sua stirpe".
Trascorsa la notte, i vanara e Rama guardarono in direzione di Lanka. Le vaste ed estese foreste intorno a Lanka erano belle, e i vanara le percorrevano sollevando una nube di polvere.
A distanza si vedeva il monte Trikuta, e in cima ad esso la città dorata di Lanka. Essa era piena di edifici a sette piani, palazzi, torri e fortificazioni. Il palazzo di Ravana aveva mille pilastri e lambiva il cielo. Rama, Lakshmana e i capi vanara scrutarono attentamente quella gloriosa città.
Rama e Sugriva stavano scrutando la gloriosa città di Lanka dall'alto del monte Suvela. Ad una certa distanza essi videro Ravana seduto sulla torretta d'osservazione della porta nord della città. Egli era accompagnato dal seguito reale, e accudito da servitori coi ventagli. Aveva un bellissimo parasole bianco sul capo. Era riccamente vestito, adornato e servito. Alla sola vista di Ravana, impulsivamente e impetuosamente Sugriva si lanciò contro di lui. Mentre era ancora nell'aria, Sugriva disse a Ravana: "O demone, io sono il servo e l'amico di Rama, l'imperatore del mondo! Oggi ti prenderò, non riuscirai a sfuggirmi".
Ravana gli rispose subito a dovere: "Ah, sei tu Sugriva! Fino a quando non ti ho visto, eri Sugriva (uno con un bel collo); ma ora sarai Hinagriva (privato del tuo collo)".
Atterrando vicino a Ravana, Sugriva gli fece cadere la corona. Ravana afferrò Sugriva e lo scagliò a terra. Sugriva però si alzò illeso. Seguì un duello di lotta libera da far rimanere col fiato sospeso. Essendo dei lottatori esperti, essi si immobilizzarono l'un l'altro a terra. Mentre lottavano caddero nello spazio tra due merli dell'imponente muro difensivo. Presto ripresero i loro posti in cima al muro e continuarono a combattersi, usando le diverse tattiche di lotta. Potenti com'erano, essi non si stancavano; ma cambiavano continuamente la posizione e la forma del corpo. Si tiravano colpi, li ricevevano e li paravano. Ora si gettavano l'uno sull'altro, ora avanzavano l'uno contro l'altro, e ora s'allontanavano l'uno dall'altro.
Ravana si rese conto che non poteva sconfiggere Sugriva in un combattimento frontale corpo a corpo, perciò decise di usare i suoi talenti soprannaturali. Sugriva intuì le intenzioni di Ravana, e volò via. Mentre Ravana stava ancora guardando perplesso, Sugriva volò in direzione del monte Suvela. Dopo aver compiuto un'impresa difficile e stremato le forze di Ravana, egli tornò al fianco di Rama.
Rama non sembrò molto contento, e disse a Sugriva: "Senza consultare dovutamente tutti noi, sei corso via impulsivamente. O Sugriva! I re non indulgono in tali azioni avventate. Ci hai tenuti tutti in ansia. Ti prego, non comportarti più così. Se ti fosse successo qualcosa, che cosa ne avrei fatto di Sita o Bharata o degli altri fratelli, o anche della mia stessa vita? Di sicuro, dopo avere ucciso Ravana, avrei incoronato Bharata re e mi sarei tolto la vita. Rendendoti conto di ciò, non mettere in pericolo la tua vita".
Sugriva rispose: "Perdonami, Rama, ma quando ho visto quel demone malvagio che ha rapito tua moglie, non sono riuscito a trattenermi!".
Rama disse a Lakshmana: "È ora che tutte le nostre truppe prendano posizione e rimangano estremamente all'erta. È essenziale che tutti possano avere facilmente cibo e acqua in abbondanza, e che sia assicurata la loro fornitura continua. Siamo sull'orlo di una guerra tremenda, nella quale posso prevedere fin d'ora che ci saranno moltissimi morti da ambo i lati. Le stesse preparazioni in corso smuovono il vento e producono terremoti. Le nuvole hanno assunto un aspetto spaventoso. Il sole è più cocente che mai. Anche la luna sembra aver perso la sua freschezza. Gli animali si lamentano dappertutto. Il cielo è inquinato, e perciò le stelle non si vedono chiaramente. È il momento di invadere la città".
Così dicendo, Rama scese dal punto di osservazione sulla montagna e passò in rassegna le sue forze. Rama guidò l'assedio, seguito immediatamente dai più potenti eroi vanara, circondati a loro volta dalle proprie divisioni delle forze armate. Ben presto giunsero sotto le mura della città di Lanka. Le forze si spiegarono secondo le istruzioni ricevute in precedenza da Rama.
Accompagnati dalle loro forze, Rama e Lakshmana si fermarono fuori della porta nord della città, che era difesa dal potente Ravana in persona. Ovviamente le forze che assediavano quest'ingresso non potevano essere protette che da Rama. Allo stesso modo, gli altri capi vanara presero d'assedio le altre porte della città, che ora era circondata.
Le forze composte di vanara, riksha e altre tribù a migliaia e decine di migliaia, organizzate in cento divisioni, strinsero d'assedio le porte di Lanka; e ce n'erano altre pronte a rinforzarle. Rama chiamò Angada e gli disse: "Caro amico, ti prego, vai da Ravana e dagli un ultimo avvertimento, l'ultimatum finale. Digli: "Ora stai per raccogliere i frutti amari di tutte le cattive azioni da te perpetrate contro gli dèi, i saggi, i semidèi e gli esseri umani. Anche se emaciato e indebolito a causa della mia separazione da Sita, sarò ugualmente in grado di servirti quei frutti amari. Libererò questa terra di tutti i demoni, se non ti arrenderai immediatamente a me, consegnandomi Sita. Quando tu e i tuoi camerati sarete stati uccisi, Vibhishana sarà il re di Lanka. Se non accetti la mia offerta, allora preparati a morire"".
Angada andò subito da Ravana e riferì dovutamente il messaggio di Rama. Su tutte le furie, Ravana lo fece catturare dai suoi soldati. Quattro demoni lo presero, ma Angada si lanciò in alto insieme ai soldati, li sbatté per terra e prima di poter essere catturato di nuovo prese il volo, distruggendo la cupola del palazzo di Ravana. Quindi tornò da Rama e riferì l'accaduto.
I capi dei demoni andarono a riferire a Ravana che l'esercito vanara aveva circondato la città e minacciava di prendere d'assalto le porte. Ravana salì in cima alla porta nord e guardò con occhi infuocati Rama e l'esercito vanara.
Rama spronava il suo esercito con grande entusiasmo. Mentre guardava Lanka, il suo cuore era in fiamme al pensiero: "Sita è là, sottoposta a privazioni indicibili". Pensando al dolore di Sita, Rama incitava i vanara, anch'essi ardenti d'entusiasmo. I vanara si lanciarono all'attacco gridando: "Scaglieremo migliaia di macigni su Lanka; faremo tutti i demoni a pezzi". Gettandovi alberi, massi e paglia, i vanara riempirono i fossati che circondavano la città e cominciarono a scalarne le mura. Altri cominciarono a colpire le porte d'oro, gridando: "Vittoria a Rama, Lakshmana e Sugriva". Con il supporto di Vibhishana, Gavaksha, Dhumra e le loro forze, Rama e Lakshmana condussero l'attacco alla porta nord.
L'esercito di Ravana era equipaggiato con armi più sofisticate, e gli stessi tamburini erano dotati di bacchette d'oro. Tamburi e conchiglie risuonarono dappertutto, spronando i demoni a difendere la città. I due eserciti si affrontarono, e lo scontro apparve come la battaglia leggendaria tra gli dèi e i demoni.
I demoni avevano veicoli eccellenti ed erano protetti da armature d'oro. I vanara, pur non avendo queste cose, erano pieni di zelo e valore personale. I potenti demoni sfidarono gli eroi vanara a duello. Indrajit affrontò Angada, Prajangha affrontò Sampati, Jambumali affrontò Hanuman, Satrughna affrontò Vibhishana, Tapana affrontò Gaja, Nikumbha affrontò Nila, Praghasa affrontò Sugriva, Virupaksha sfidò Lakshmana e quattro demoni combatterono contro Rama. Similmente altri demoni combatterono contro altri eroi vanara. Il sangue dei demoni e dei vanara scorreva come un fiume, con le teste e i tronchi che vi galleggiavano separatamente.
Jambumali ferì Hanuman, che a sua volta lo uccise. Sugriva uccise Praghasa, che a sua volta aveva ucciso diversi vanara. Lakshmana uccise Virupaksha. Agniketu e gli altri tre attaccarono Rama, che tirò quattro missili contro di loro e li uccise all'istante. Nikumbha ferì Nila, che però sollevò la ruota del carro dello stesso Nikumbha e con essa lo uccise.
Il potente Dvivida colpì il demone Asaniprabha con un grande albero e lo uccise. Alla guida di un cocchio, Vidyunmali attaccò Sushena, che però sollevò un grande albero con il quale colpì il carro. Poi Sushena sollevò un enorme macigno con il quale uccise il demone, sebbene questi nel frattempo avesse sferrato un potente colpo sul petto di Sushena.

[NOTA: Le parole abitualmente tradotte come 'massi', 'chiodi', 'denti', ecc., potrebbero essere nomi di potenti armi. L'idea che i demoni avessero armi sofisticate; mentre nell'altro esercito le avessero solo Rama, Lakshmana e Vibhishana, alimenta la morale che se si è dal lato del Signore (Rama) si può vincere una guerra anche contro il nemico più potente.
La battaglia continuò anche durante la notte. I vanara gridavano "Sei un demone?", e combattevano i demoni. A loro volta i demoni gridavano: "Sei un vanara?", e combattevano i vanara. I demoni, che erano di carnagione scura, si potevano riconoscere per le loro splendenti armature d'oro, Lanciando grida di guerra, tutti combattevano ferocemente.
Con i loro missili, che erano come serpenti velenosi, Rama e Lakshmana uccisero molti demoni visibili e invisibili. Era come la notte della dissoluzione cosmica. Quando sei potenti demoni attaccarono Rama, egli rispose al fuoco e i suoi missili illuminarono il cielo notturno: i demoni morirono. Tanti altri demoni si scagliarono contro Rama, trovando rapidamente la morte.
Angada continuava a combattere con Indrajit: egli ferì il potente figlio di Ravana e annientò il suo cocchio con i cavalli. Indrajit si sentì stanco, e decise di diventare invisibile. Gli dèi e i saggi che osservavano questo magnifico duello applaudirono il valore di Angada.
Indrajit infuriato decise di usare i suoi poteri magici. Sempre rimanendo invisibile, egli cominciò a dirigere i missili più letali contro Rama e Lakshmana. Si trattava di missili avvelenati, scagliati con tale profusione che Rama e Lakshmana furono letteralmente coperti di ferite. Così quando si sentì incapace di affrontarli direttamente, Indrajit impiegò i suoi poteri magici impedendo a Rama e a Lakshmana di vederlo.
Rama mandò dieci vanara in cerca del nemico; ma Indrajit li evitò astutamente e quindi scagliò i suoi potenti missili contro di loro e ancora contro Rama e Lakshmana. I due nobili principi sanguinavano profusamente. Rimanendo invisibile, Indrajit disse loro: "Nessuno in terra e in cielo può resistermi! Tra poco vi spedirò entrambi nella dimora della Morte!".
Dicendo questo, Indrajit diresse altri missili su Rama e Lakshmana. Ogni volta che un suo missile colpiva il bersaglio, Indrajit urlava di gioia.
Ben presto i due principi persero così tanto sangue da non poter neanche sollevare la testa. I loro corpi erano pieni delle ferite causate dai terribili missili velenosi scagliati da Indrajit. Il sangue scorreva dai loro corpi come fosse acqua. In questo scontro Indrajit aveva usato missili: naraca (con testa liscia e circolare), ardhanaraca (una versione minore della stessa arma), bhalla (a testa di scure), anjalica (a forma di mani giunte), vatsadanta (simile ai denti del vitello), simhadamshtra (simile ai denti del leone), e kshura (come il filo del rasoio).
Colpito da questi missili, Rama giaceva immobilizzato. La sua potente arma dorata era stesa al suo fianco.
Rama e Lakshmana giacevano sul campo di battaglia totalmente immobili. I vanara erano stupefatti: non riuscivano neanche a vedere l'aggressore. Mediante il suo occhio magico Vibhishana vide Indrajit appostato poco lontano, ma nascosto dal potere della magia. Ancora invisibile, Indrajit proclamò: "Abbattuti dai miei terribili missili velenosi, Rama e Lakshmana giacciono impotenti: nessuno al mondo li potrà salvare. A causa loro, mio padre Ravana ha trascorso una notte insonne; ma ora che io li ho uccisi, egli gioirà".
Sugriva era stato preso dal panico e piangeva profusamente. Vibhishana asciugò affettuosamente le sue lacrime e gli disse: "Non farti prendere dal dolore, o re. Questo è il momento dell'azione: assicurati che Rama e Lakshmana siano ben protetti durante il loro periodo d'incoscienza. Presto essi torneranno in vita".
Indrajit tornò alla corte di Ravana, s'inchinò al padre e annunciò: "Rama e Lakshmana sono morti". Fuori di sé dalla gioia, Ravana abbracciò calorosamente il suo amato ed eroico figlio. Poi Ravana mandò a chiamare le demonesse che custodivano Sita nel boschetto di asoka e disse loro: "Fate salire Sita sull'aereo Pushpaka e mostratele i corpi di Rama e Lakshmana. Quando vedrà che sono morti, ella mi cercherà di sua spontanea volontà". Sita aveva già saputo la notizia dalle demonesse. Ora, dall'aereo, ella vide con i suoi occhi Rama e Lakshmana stesi come morti sul campo di battaglia, in mezzo ai cadaveri di numerosi vanara.
Vedendo il marito e il cognato stesi per terra, Sita fu sopraffatta dal dolore e gridò il suo lamento: "Ahimè, tutte le predizioni fatte da saggi e astrologi al mio riguardo si sono dimostrate false. Dissero che sarei stata la regina di Rama, che avremmo avuto dei figli e che saremmo stati felici insieme. Tutte le eroiche gesta di Rama, di Lakshmana e dei vanara nello scoprire la mia prigione, attraversare l'oceano e invadere Lanka si sono mostrate vane. Rama e Lakshmana possedevano missili tremendi che potevano far cadere piogge torrenziali, incendiare tutto, creare maree e inondazioni, scatenare cicloni e uragani, e persino distruggere tutte le cose create. Normalmente essi non avrebbero usato questi missili, ma perché non li hanno usati quando hanno visto minacciata la propria vita? Ahimè, io non mi dolgo per noi, ma questo è un terribile colpo per Kausalya!". La nobile demonessa Trijata disse a Sita: "Non farti prendere dal dolore. Rama non è morto. Lo vedo chiaramente dall'espressione che ha sul volto. Nota pure che i vanara fanno la guardia ai due principi. Se fossero stati uccisi, i vanara sarebbero fuggiti! Non addolorarti: sono vivi". Esse tornarono al boschetto, ma nonostante le parole di Trijata, Sita aveva ancora il cuore affranto.
Affranti dal dolore, i vanara stavano intorno a Rama e a Lakshmana. Ad un tratto Rama riprese coscienza, prima di tutto grazie alla sua forza fisica e mentale e poi perché era pieno di purezza e di luce (poiché praticava il sattva-yoga). Turbato dalla vista di Lakshmana che giaceva incosciente, come morto, accanto a lui, Rama si lamentò: "Ahimè, che tragedia. Potrebbe essere possibile trovare una moglie come Sita, ma non un fratello come Lakshmana. Lui che da solo poteva uccidere migliaia di demoni è stato abbattuto dal malvagio Indrajit! Ahimè, non sono riuscito a mantenere la mia promessa di coronare Vibhishana re di Lanka! O Sugriva, torna a Kishkindha con tutti i condottieri vanara sopravvissuti. Tutti voi avete fatto del vostro meglio, ma gli esseri umani non possono beffare il destino. Ora mi toglierò la vita".
Proprio allora Vibhishana s'avvicinò verso di loro, ma scambiandolo per Indrajit, i vanara cominciarono a fuggire.
Sopraffatto dal dolore alla vista di Rama e Lakshmana, Vibhishana perse ogni speranza di ottenere il trono di Lanka. Sugriva lo consolò e poi disse a Sushena, suo suocero: "Non appena Lakshmana riprende coscienza, riporta i due principi a Kishkindha; io distruggerò i demoni, riprenderò Sita e porterò anche lei a Kishkindha". Sushena rispose: "Ricordo la guerra che ci fu anticamente tra gli dèi e i demoni, quando gli dèi furono similmente assaliti da demoni invisibili. Il saggio Brihaspati somministrò loro alcune medicine, insieme a delle preghiere, e riportò in vita gli dèi. queste medicine crescono sui monti Chandra e Drona, in mezzo all'oceano, e sono chiamate Sanjivakarani e Visalya: la prima riporta una persona in vita e la seconda cura istantaneamente ogni ferita. Manda subito dei capi vanara a prenderle".
In quel momento arrivò Garuda, sollevando un grande vento. Appena giunse, i veleni che avevano immobilizzato Rama e Lakshmana li lasciarono. Garuda pose le sue mani su di loro e si felicitò con loro. Al tocco di Garuda, le ferite si sanarono e i loro corpi riacquistarono il colorito dorato. Il loro splendore, la virilità, la forza, entusiasmo, la vista, l'intelligenza e anche la loro memoria raddoppiarono.
Profondamente grato, Rama gli chiese: "Solo la tua grazia ci ha salvati. Ti prego, dimmi chi sei". Garuda rispose: "Io sono tuo amico, sono la tua vita stessa, benché viva fuori del tuo corpo. Io sono Garuda. Fortunatamente ho saputo della vostra condizione e sono giunto qui in tempo: il veleno con il quale siete stati colpiti non aveva alcun altro antidoto. Che la vittoria vi arrida!".
Garuda partì. I vanara gioirono nel vedere Rama e Lakshmana pienamente ristabiliti.
Ravana udì le grida festose che provenivano dalle schiere vanara, e chiese ad alcuni demoni d'andare a scoprirne la causa. Questi salirono sulle mura della città e guardarono verso le truppe nemiche, poi tornarono a riferire a Ravana: "Rama e Lakshmana stanno bene! I vanara stanno celebrando la loro guarigione dal veleno mortale con il quale li aveva colpiti Indrajit".
Udendo queste parole, Ravana fu preso da un grande sconforto e osservò: "Se questi due principi sono tornati in vita dopo avere subìto l'attacco mortale di Indrajit, comincio a dubitare che tutta la forza del mio esercito possa sconfiggerli! I nostri missili terribili come il fuoco, che hanno sempre ucciso i miei nemici, si sono dimostrati inutili".
Poi Ravana ordinò al feroce demone Dhumraksha: "Portati subito sul campo di battaglia e uccidi tutti i vanara. Tu sei oltremodo potente e capace di far questo". Dhumraksha uscì rapidamente dal palazzo e, dopo aver ordinato al comandante in capo di schierare le truppe per la battaglia, andò verso la porta occidentale presa d'assalto da Hanuman. Mentre volava verso la porta occidentale, egli fu assalito da enormi uccelli e avvoltoi. Un grande avvoltoio si posò sul suo velivolo. Egli vide molti cattivi presagi nell'aria: vide un tronco senza testa che gli volava davanti, emettendo strani suoni. Tutta la natura e gli elementi presagivano cattivi segni.
Anche i vanara erano ansiosi di combattere. La battaglia che seguì fu estremamente cruenta. I demoni usarono tutti i loro missili contro i vanara, che a loro volta scagliarono alberi e macigni (forse anche questi nomi di missili) . Tutti urlavano inferociti. I vanara schiacciarono alcuni demoni, mentre fecero vomitare altri. Alcuni demoni furono straziati con i denti, e altri con le unghie. Ma anche i vanara subirono pesanti perdite per mano dei demoni. Alcuni furono falciati dai loro veicoli, altri furono letteralmente spazzati via.
Il suono prodotto dalle armi somigliava alla musica di strumenti a corda; i nitriti dei cavalli erano come il suono del tamburo; il barrito degli elefanti era come musica vocale: i diversi suoni della guerra creavano una sinfonia.
Vedendo che i demoni venivano assaliti, Dhumraksha avanzò verso Hanuman. Vedendo le forze vanara in difficoltà, Hanuman sollevò un enorme macigno e s'avvicinò a Dhumraksha. Con quel masso Hanuman fracassò il velivolo di Dhumraksha; poi attaccò anche altri demoni. Dhumraksha colpì Hanuman con una mazza chiodata. Incurante del colpo, Hanuman sollevò un macigno che sembrava la cima di una montagna e con esso colpì la testa di Dhumraksha, che cadde morto.
Turbato dalla notizia che Dhumraksha era stato ucciso da Hanuman, Ravana ordinò a un altro potente demone, chiamato Vajradamstra, d'andare al fronte. Questi era un adepto nelle arti magiche, e marciò circondato da un contingente variopinto di condottieri, seguito da una grande armata. Il suo veicolo corazzato era ricoperto da uno spesso strato d'oro, ed era decorato con il suo stendardo personale.
Essi andarono a combattere contro i vanara che si trovavano all'esterno della porta sud presidiata da Angada. Vajradamstra vide spaventosi presagi: ma egli pensò che preannunciassero la morte del nemico. Questa armata di demoni, che marciava bene ordinata verso il suo obiettivo, splendeva come le nuvole dei monsoni, e le loro armi luccicanti erano come lo sfolgorio dei lampi che abbelliscono le nuvole.
Demoni e vanara si scontrarono presto nella battaglia più sanguinosa: gli uni combattevano facendo uso di varie armi, gli altri combattevano con mani e piedi. Di conseguenza morivano in diverse maniere: alcuni con il corpo stritolato, altri con la testa schiacciata. Quando vide che i demoni stavano uccidendo impietosamente i vanara, Angada andò in loro aiuto e uccise molti demoni. E quando vide che i demoni cadevano numerosi, Vajradamstra andò in loro aiuto.
I demoni usavano vari tipi di missili e armi mistiche; mentre i vanara sradicavano alberi, rotolavano massi e li scagliavano contro i demoni. Ambo i lati persero moltissimi guerrieri. Mentre i loro corpi giacevano sul campo, alcuni con la testa fracassata, alcuni senza braccia o gambe, altri con il corpo schiacciato, avvoltoi e sciacalli facevano un ottimo pasto.
Angada e Vajradamstra s'affrontarono in un combattimento diretto. Vajradamstra diresse un migliaio di colpi ad Angada. Con il sangue che gli usciva da tutto il corpo, Angada rispose scagliando un albero. Vajradamstra intercettò e spezzò l'albero con un missile. Angada sollevò un grande masso e lo scagliò sul veicolo del nemico. Il demone saltò fuori appena in tempo per vedere il suo carro ridotto a pezzi. Angada scagliò un'altra enorme roccia contro la testa del demone. Vomitando sangue, Vajradamstra cadde e rimase a terra stordito, stringendo la sua mazza.
Subito dopo il demone si alzò, lasciò cadere la mazza e cominciò a lottare con Angada. Ambedue erano ugualmente potenti, di pari forza. Dopo un certo tempo furono tutti e due stanchi.
Infine, Angada sguainò la sua spada e recise la testa al demone. Con il corpo ricoperto di sangue e gli occhi rotolanti, il demone cadde, con la testa staccata dal tronco. I demoni superstiti fuggirono verso Lanka, mentre i vanara gioivano.
Quando seppe che anche Vajradamstra era stato ucciso, Ravana s'adirò ulteriormente e ordinò che andasse il demone Akampana.
Akampana aveva acquisito quest'appellativo perché in battaglia non poteva essere scosso neanche dagli dèi. Il suo carro era fatto d'oro massiccio, ed era invulnerabile. Nonostante egli fosse potente, era attorniato dai guerrieri più valorosi, e sebbene la giornata fosse splendida c'era una strana depressione nell'aria. Lo stesso demone vide cattivi presagi. Quando il suo potente esercito marciò sul campo di battaglia, i vanara furono presi dal panico. Lo scontro intenso e furioso sollevò sul campo una nuvola di polvere nella quale era difficile per i guerrieri distinguere perfino gli stendardi e le uniformi del nemico. Fu tale la confusione, che vanara e demoni uccidevano per sbaglio anche i propri compagni. L'uccisione indiscriminata seguì l'intensa furia dello scontro. Il campo di battaglia si coprì letteralmente di sangue infangato e di cadaveri ricoperti di polvere.
Akampana ordinò al conducente del suo carro corazzato: "Portami al centro della mischia, dove i demoni stanno cadendo più numerosi". Presto Akampana si trovò nel cuore della battaglia: e il potente guerriero cominciò a uccidere spietatamente i vanara. Alla vista di tanta strage, Hanuman si fece avanti sfidando Akampana . Questo sollevò il morale delle forze vanara. Akampana rivolse tutta la potenza dei suoi missili contro Hanuman. Hanuman si fece avanti con grande furore, ma non aveva armi con sé. Perciò sollevò un grande macigno, lo fece roteare e lo scaglio contro Akampana. Questi però lo intercettò e lo frantumò con un suo missile mentre era ancora nell'aria.
Vedendo l'impresa straordinaria del demone, l'ira di Hanuman crebbe. Egli sradicò un grosso albero chiamato asvakarna e, tenendolo in alto, si mise a correre furiosamente di qua e di là. Akampana fu turbato dalla vista di Hanuman che gli correva incontro brandendo il grosso albero, e sparò quattordici colpi contro il potente vanara. Hanuman però neanche se ne accorse! Egli splendeva come il fuoco senza fumo, come l'albero di asoka in piena fioritura.
Giunto di fronte ad Akampana, Hanuman lo colpì con l'albero: e il demone cadde esanime . Di conseguenza i guerrieri demoni gettarono le armi e si diedero alla fuga in direzione di Lanka. Scappando in preda al panico, nella confusione essi calpestarono i loro stessi compagni.
Tutti i vanara gioirono, circondarono Hanuman e lanciarono grida di gioia. Gli dèi, i condottieri vanara come Sugriva, Vibhishana e pure Rama e Lakshmana adorarono Hanuman.
L'uccisione di Akampana fu un colpo terribile per Ravana; ma egli non si diede per vinto, e disse al comandante in capo Prahastha: "Molti dei nostri più potenti guerrieri sono stati uccisi da quei vanara giganteschi. Non saprei chi mandare ancora. L'esito della battaglia è incerto.
D'altro canto, ritengo che una morte improvvisa e imprevista sia preferibile ad una morte certa, che può essere predetta. Ad ogni modo, ti prego di suggerirmi cosa fare, sia che il tuo consiglio possa essere piacevole o spiacevole". Il valoroso e leale Prahastha rispose: "O re, abbiamo discusso spesso quest'argomento in precedenza e avevamo previsto che se non si fosse presa la giusta decisione - che era quella di restituire Sita a Rama - la guerra sarebbe stata inevitabile. Questo si è avverato. Io ho goduto del tuo affetto e dei tuoi favori, che sono stati costanti; e allo stesso modo sarà costante la mia fedeltà a te. Né mio figlio né mia moglie né le ricchezze, e neanche la mia vita meritano d'essere preservati: guarda, sacrificherò la mia vita per te".
Pieno d'ira e d'entusiasmo, Prahastha marciò verso il campo di battaglia, circondato dai migliori guerrieri di Lanka. Prima della loro partenza, i brahmana praticarono vari riti religiosi perché avessero successo: I demoni indossarono non solo gli armamenti, ma anche le ghirlande debitamente consacrate dai brahmana con la recitazione di testi sacri. Prahastha montò sul suo carro corazzato che splendeva come il sole, che era stato equipaggiato d'ogni sorta di armi, che si poteva muovere a forte velocità e che era persino dotato di un paraurti per evitare collisioni. Circondato da numerosi e potenti generali, Prahastha si mise in marcia. Egli sembrava il dio della morte, Tramite Vibhishana, Rama si accertò dell'identità e della forza di questo guerriero. Ancora una volta vanara e demoni combatterono un'aspra battaglia. I comandanti dei demoni crearono confusione tra le schiere vanara. Ma presto Dvivida uccise Narantaka; Durmukha uccise il demone Samunnata. Jambavan uccise Mahanada e il vanara Tara uccise Kumbhahanu. Ancora più infuriato, Prahastha combatté con incredibile ferocia, uccidendo migliaia di vanara. L'intero campo sembrava uno spaventoso fiume di morte; ma i guerrieri combattevano incuranti dell'orrore.
Nila, il comandante in capo dei vanara, si precipitò contro Prahastha, che gli lanciò numerosi missili: non potendoli schivare, Nila li ricevette calmo, ad occhi chiusi. I due combatterono ferocemente, Prahastha usava un maglio e Nila dei massi. Quando Prahastha si scagliò contro Nila per ucciderlo, questi sollevò un grande masso con il quale uccise Prahastha. Privati del loro capo, i demoni fuggirono.
Alimentata dal dolore, la furia di Ravana esplose. Egli disse ai condottieri sopravvissuti: "Non è saggio sottovalutare la forza del nemico. Solo un guerriero di non meno valore sarebbe sopravvissuto ad uno scontro con Prahastha. Eppure è stato ucciso! Andrò io stesso sul campo di battaglia: darò fuoco all'esercito vanara e irrigherò la terra con il suo sangue". Detto questo, Ravana si preparò per scendere in campo.
Vibhishana istruì Rama sul nuovo scontro: "Guarda Ravana che splende come il sole, con la corona e gli orecchini, col suo corpo possente e terrificante come i monti Vindhya. Egli sconfisse persino Indra e Vaivasvata (il dio della morte)".
Rama guardò il nemico e non poté non esclamare: "Che splendore! Che radiosità? È difficile anche guardarlo direttamente, come lo è guardare il sole. E poi è circondato da demoni estremamente potenti. Però sono contento che oggi sia sceso lui stesso sul campo di battaglia: dirigerò contro di lui la grande collera che ha destato in me impossessandosi di Sita".
Prima di lasciare la porta della città, Ravana ordinò ai capi dei demoni: "Assicuratevi che le porte di Lanka e ogni sua casa siano ben custodite. Vedendo che io stesso e i nostri principali comandanti abbiamo lasciato la città, il nemico potrebbe invaderla". Detto questo, Ravana si lanciò in mezzo all'esercito vanara. Vedendo che Ravana stava sterminando le schiere vanara, Sugriva si fece avanti. Sollevando la 'cima di una montagna', Sugriva la scagliò contro Ravana. Questi però la intercettò con un suo missile, e la ridusse in frantumi. Quindi Ravana colpì Sugriva con un missile terribile. Ferito gravemente, Sugriva cadde a terra, contorcendosi in agonia.
Rama impugnò la sua arma, pronto a un confronto diretto con Ravana. Ma Lakshmana gli disse: "Lascia che vada io, Rama: posso disfarmi di lui". Dando il suo consenso, Rama cautelò il fratello: "Cerca i suoi punti deboli. Ricordati dei tuoi punti deboli e difendili sia con le armi che con la vigilanza". Ma prima che potesse raggiungere Ravana, Lakshmana notò che Hanuman era impegnato in una lotta corpo a corpo contro il demone. Hanuman disse a Ravana: "Hai chiesto l'invulnerabilità solo nei confronti di dèi e demoni: non sei immune contro i vanara e gli umani". Ravana colpì Hanuman sul petto, ma Hanuman rispose dandogli un colpo tremendo che lo fece barcollare! Allora Ravana disse ad Hanuman: "La tua forza e la tua abilità sono lodevoli!". E Hanuman rispose: "Vergogna alla mia forza., giacché tu sei ancora vivo, demone!". Ancora una volta Ravana strinse i pugni e sferrò un terribile colpo ad Hanuman, che rimase stordito per un po'. Nel frattempo Ravana rivolse i suoi missili contro Nila.
Nila saltò sul carro corazzato di Ravana, ma il demone l'ammonì: "Allontanati, prima che ti colpisca". Colpito da Ravana, Nila cadde a terra; ma per grazia del suo padre divino o angelo custode, egli non morì.
Abbandonandolo, ora Ravana si rivolse contro Lakshmana, che a sua volta gli gridò: "Perché sprechi la tua forza sui vanara; vieni e mostrami il tuo valore!". Ravana gli rispose adirato: "Con piacere! Ti farò provare il furore del mio fuoco". Ma Lakshmana lo schernì: "Gli eroi non sbraitano! Mentre tu, che sei il peggiore dei peccatori, non fai altro che vantarti!". Ravana rispose sparando sette missili. Lakshmana reagì opportunamente. Qualunque missile uno usasse, l'altro lo neutralizzava e rispondeva con un missile più potente. Ravana prese un arma estremamente mortale (che si diceva fosse appartenuta allo stesso Creatore) e colpì Lakshmana. Per un attimo Lakshmana si sentì mancare, ma riprendendo subito coscienza egli colpì Ravana con tre missili mortali. Ravana rimase svenuto per un po', e quando si riprese colpì Lakshmana con un'arma ancora più potente, un giavellotto dal potere distruttivo incalcolabile. Colpito da questo, Lakshmana cadde. Ravana provò a sollevarlo, presumibilmente per portarlo via: ma il corpo di Lakshmana divenne così pesante che Ravana non riuscì ad alzarlo. Hanuman sfido Ravana, e lo colpì con tanta forza che il demone vomitò sangue e svenne per un po'. Rapidamente Hanuman sollevò e portò via il corpo di Lakshmana, che era diventato leggero grazie all'amore che Hanuman aveva per lui. Lakshmana contemplò la verità che egli era parte del Signore, e questo sanò le sue ferite e gli permise di riprendere presto coscienza.
Rama si fece avanti per affrontare Ravana. Hanuman pregò Rama di sedere sulle sue spalle per combattere il demone. Rama acconsentì, e poi disse a Ravana: "Alzati, demone. Avendo offeso me, non puoi trovare rifugio da nessuna parte. Ricordati che da solo ho ucciso migliaia dei tuoi guerrieri. Appena riprenderà i sensi, Lakshmana stesso ucciderà te, la tua famiglia e i tuoi seguaci". Furioso per queste parole, Ravana. colpì Hanuman con molti missili incendiari. Ma Hanuman non se ne curò e la sua forza e il suo entusiasmo crebbero. Quindi Rama lanciò un missile contro Ravana. Colpito, quel Ravana che non poteva essere scosso neanche dal fulmine di Indra tremò violentemente e lasciò cadere la sua arma. Con un altro missile Rama fece cadere il suo diadema. Vedendo Ravana in condizioni disperate, Rama gli disse indulgente "Hai davvero mostrato grande forza e valore, ma vedo che sei stanco e ferito. Torna a casa, riposati e riprendi forza. Quando tornerai sul campo conoscerai la mia forza e il mio potere".
A testa bassa, Ravana rientrò a Lanka.
Seduto sul trono, preso dal dubbio, dallo scoraggiamento e dalla disperazione, Ravana rimuginava: "Ahimè, sono stato sconfitto da un mero mortale! Ora ricordo le terribili parole di Brahma: 'Il pericolo per te viene dai mortali'. Re Arananya della dinastia di Ikshvaku mi maledì dicendo che uno dei suoi discendenti mi avrebbe ucciso. Ricordo anche la maledizione di Vedavati, quando la violentai: sicuramente ella è rinata come Sita. La dea Uma mi maledì dicendo che la mia morte sarebbe stata causata da una donna. Queste maledizioni non possono che avverarsi. Tuttavia guardate bene le porte della città. Svegliate Kumbhakarna, poiché lui solo potrà combattere questi eroi, i nostri nemici. In genere egli dorme per nove, dieci mesi, ed è andato a dormire solo nove giorni fa, dopo le nostre consultazioni. Svegliatelo, perché solo lui può affrontare i nostri nemici".
I demoni prepararono tanto cibo, bevande, profumi e altre cose che piacevano molto a Kumbhakarna. Quindi scesero nel palazzo sotterraneo pavimentato d'oro e gioielli dove Kumbhakarna dormiva per lunghissimo tempo. Egli aveva un aspetto colossale, e quando espirava soffiava via le persone. I demoni suonarono le conchiglie, batterono i tamburi, urlarono, scossero e percossero il suo corpo enorme con clave e mazze, e persino con armi mortali. L'intera città riecheggiava di quei rumori e gli abitanti, gli uccelli e gli animali erano terrorizzati. Ma Kumbhakarna non si svegliava.
Poi i demoni spinsero mille elefanti a calpestare il suo corpo: questo fastidio lo svegliò. Subito egli sentì fame, e sbadigliando si svegliò. I demoni diressero la sua attenzione sulla montagna di cibo e, quando fu soddisfatto, s'inchinarono ai suoi piedi. Egli chiese perché l'avessero svegliato e quale urgente bisogno avesse il re. In breve essi gli descrissero gli eventi della guerra e le sconfitte subite dalle forze reali, e conclusero: "Quello che né dèi né demoni hanno potuto fare è stato fatto da Rama. Egli ha risparmiato il re quasi per compassione". Saltando dal letto, Kumbhakarna urlò: "Andrò subito sul campo di battaglia a uccidere i vanara, e anche Rama e Lakshmana. Solo dopo andrò a vedere il re. Farò felici i demoni procurando loro un ricco pasto di carne e sangue di vanara. E io stesso berrò il sangue di Rama e Lakshmana".
I demoni però insistettero che egli si consultasse prima con il re. Dopo essersi lavato e avere bevuto, Kumbhakarna s'incamminò verso il palazzo reale. Vedendo questo demone gigantesco camminare sulla terra, i vanara quasi morirono di paura.

[NOTA: Alcune leggende dicono che Vedavati sia sorta dal fuoco mistico a Dandaka, e che Sita sia scomparsa nella terra. Quindi sarebbe stata Vedavati, nelle sembianze di Sita, a vivere prigioniera a Lanka; e sempre lei sarebbe a sua volta rientrata nel fuoco, dal quale sarebbe riemersa la vera Sita, dopo la grande guerra.]

Vedendo la spaventosa figura di Kumbhakarna che si muoveva sulla terra come un essere cosmico, Rama chiese a Vibhishana: "Dimmi chi è: un demone o uno spirito maligno? Finora non avevo mai visto nulla del genere".
Vibhishana narrò a Rama la biografia di Kumbhakarna: "È Kumbhakarna, figlio del famoso saggio Visrava. Egli sconfisse in guerra tutti gli dèi, i semidèi e i demoni. Già da bambino divorò migliaia di esseri viventi. Lo stesso Indra, per difendere quegli esseri, lo colpì con un fulmine. Egli però non solo non morì, ma strappò una zanna dell'elefante di Indra e con essa colpì lo stesso dio! Allora Indra e gli dèi si rivolsero al Creatore, che venendo a sapere dei misfatti di un suo pronipote rimase scosso. E Brahma lo maledì: "Certo tu sei nato dal figlio di Pulastya per la distruzione del mondo; ma prima che possa farlo, entrerai nel sonno perpetuo". Kumbhakarna fece appello a Ravana, che supplico Brahma per lui: "Non è giusto che tu maledica così un tuo pronipote ma siccome la tua maledizione non può essere annullata, almeno modificala stabilendo quanto tempo dovrà dormire ogni volta". Brahma disse: "Dormirà continuamente per sei mesi, poi starà sveglio per un giorno, durante il quale avrà molta fame". Penso che, sconfitto da te, Ravana abbia svegliato Kumbhakarna. Solo vedendolo da lontano, i vanara sono fuggiti per la paura. Dubito che potranno affrontarlo sul campo di battaglia. Perciò suggerirei di fare annunciare che si tratta solo di un congegno meccanico, e non di un essere vivente: questo dovrebbe ridare fiducia ai vanara".
Lieto del racconto, Rama ordinò ai comandanti di tenere l'esercito in stato di massima all'erta!
Nel frattempo Kumbhakarna era giunto da Ravana. Questi s'alzò dal trono e mostrò un amore, un rispetto e un affetto straordinario per il fratello Kumbhakarna, che gli chiese: "Che posso fare per te? Per quale motivo sono stato svegliato con tanto sforzo". Ravana lo fece alzare, lo fece sedere al suo fianco, e gli disse: "Fratello, hai dormito a lungo. Intanto il nostro nemico Rama è riuscito ad attraversare il mare e ha stretto d'assedio la nostra città. Tu stesso puoi vedere che l'intera Lanka si è trasformata in un mare di vanara! Abbiamo cercato di combatterli, ma tu solo puoi affrontarli. Per questo ti abbiamo svegliato! Il tesoro è vuoto e le nostre risorse sono scarse: ti prego, salva Lanka, dove sono rimasti solo vecchi e bambini! Tu sai che mai prima d'ora t'avevo chiesto un tale favore; ti prego, fallo per amore di tuo fratello! Tu sei la nostra unica speranza, l'ultima nostra risorsa. Nessuno al mondo ha una forza pari alla tua. Se scenderai in campo, le schiere nemiche svaniranno come le nuvole d'autunno disperse da un uragano".
Udendo la supplica di Ravana, Kumbhakarna rise forte e disse: "Te l'avevo detto! Tu hai fatto un'azione, ignorandone le ovvie conseguenze, e senza chiedere alcun consiglio o aiuto. Bisogna certo perseguire il Dharma, la prosperità e il piacere, ma ogni cosa a suo tempo e luogo. Consultandosi con i suoi ministri, il re che sceglie il negoziato, l'offerta di doni, la discordia oppure la guerra, e che persegue il Dharma, la prosperità e il piacere con la giusta considerazione del tempo e del luogo, non dovrà poi pentirsene. Ma non chiunque può consigliare un re. Ci sono individui stolti che non conoscono le scritture e che in realtà non sono migliori delle bestie, ma che si fanno avanti a consigliare un re mossi dall'arroganza o dalla cupidigia. Seguire il loro consiglio porta al disastro. A volte i ministri si alleano apertamente o segretamente con il nemico e incoraggiano il re a compiere le azioni sbagliate: un re saggio deve guardarsi da questi. Certamente la cosa migliore da fare ti è stata consigliata da me e da Vibhishana: riportare Sita da Rama".
Ravana non sopportò questo sermone, e rispose adirato: "Perché predichi come se fossi il mio guru o mio padre? Consideriamo quello che va fatto ora: il passato è passato e non serve rimuginarlo. Anche se avessi fatto qualcosa di sbagliato, puoi annullarne le conseguenze con la tua forza".
Kumbhakarna saltò in piedi: "Non aver paura, non disperare. Ti ho dato quei consigli per affetto fraterno. Ma oggi avrai di nuovo prova della mia forza. Vendicherò la morte dei nostri eroi, asciugherò le lacrime dei familiari dei defunti. Comanda, e andrò immediatamente a distruggere i nostri nemici. Posso spaccare la terra, posso scuotere il firmamento e creare disordine nei cieli. Godi e sii felice. Considera che Rama è morto e che Sita è tua".
Il consigliere Mahodara intervenne e disse a Kumbhakarna: "Tu sei vanitoso e ignorante. Sia i virtuosi che i viziosi godono della vita nel mondo; ma solo il godimento del piacere è degno d'essere ricercato. Il re ha ragione nel volersi godere la vita con Sita. Inoltre non credo che la tua forza fisica ti servirà a qualcosa contro Rama".
Quindi si rivolse a Ravana: "Tu hai rapito Sita e l'hai portata qui; la cosa più importante ora è godertela, convincerla a sottostare al tuo desiderio. Io ho un'idea: spargi la voce che Kumbhakarna, io ed altri siamo andati a combattere Rama. Anche se non avessimo successo, spargi la voce che Rama è stato divorato. Quando Sita lo saprà, non avrà più speranze. Nel frattempo offrile ricchi doni, gioielli e altre tentazioni. I saggi ottengono i loro scopi senza combattere!".
Kumbhakarna derise Mahodara per il suo vile suggerimento, dicendo: "I ministri codardi rovinano la fortuna di un re, facendolo tirare indietro da una buona battaglia e assentendo ciecamente a tutti i suoi capricci".
Ravana lodò le parole del fratello. Kumbhakarna impugnò un tridente e fu pronto ad andare in guerra, da solo. Ma Ravana lo consigliò: "Porta l'esercito con te, o eroe! Perché i vanara sono potenti e la loro determinazione ne accresce il potere. Vedendo qualcuno da solo, senz'altra difesa, potrebbero sopraffarlo". Per mostrare ulteriormente l'affetto, l'apprezzamento, la speranza e la sicurezza che poneva in lui, Ravana abbracciò Kumbhakarna, gli mise al collo delle collane d'oro costellate di diamanti e s'inchinò rispettosamente a lui, che era suo fratello minore. Kumbhakarna si preparò per la battaglia, indossando un'armatura d'oro puro che era inattaccabile. Coperto dappertutto di gioielli, con uno splendente tridente in mano, Kumbhakarna aveva veramente l'aspetto del Signore Narayana.
Seguito da eroi potenti con i loro eserciti, Kumbhakarna s'avviò verso il campo di battaglia. Era feroce anche solo a vedersi. Aveva un corpo colossale e i suoi occhi fiammeggianti sembravano le ruote di un carro. Egli tuonò forte; "Farò un pasto delizioso di tutti i vanara. Io stesso ucciderò Rama, dal quale proviene la loro forza". Apparvero dei cattivi presagi inconfondibili, che però non lo fecero tirare indietro.
Non appena lo videro, i vanara si dileguarono. Angada cercò di ragionare con i suoi condottieri, per convincerli a non fuggire. E diceva loro: "Questo demone può essere potente, ma non può vincere il nostro Rama: perché nessuno lo può!". I vanara tornarono e attaccarono Kumbhakarna, ma questi li schiacciò inesorabilmente. Le rocce e i macigni che scagliavano contro di lui si frantumavano quando lo toccavano! Quando lui li colpiva quasi scherzando, dei vanara annegavano nell'oceano, altri scomparivano nelle foreste e altri si nascondevano nelle grotte.
Angada li richiamò continuamente: "Perché fuggite, vanara? Anche le vostre mogli rideranno di voi, se disertate la battaglia. Pur essendo nobili vanara, vi comportate come esseri incolti, sconvolti dalla paura. Se è ora di morire, diamo la vita qui. Se vinceremo la battaglia, ci godremo la terra. Se perderemo la vita, raggiungeremo il più alto dei cieli! Vi assicuro che Kumbhakarna non potrà sfuggire alla morte per mano di Rama". Ma i vanara risposero: "Kumbhakarna ha sterminato le nostre forze: questo non è il momento di resistere e combattere, ma di scappare. Le nostre vite ci sono molto care". Comunque, Angada riuscì a convincerli a tornare sul campo.
Ancora una volta i vanara attaccarono Kumbhakarna. In brevissimo tempo ottomilasettecento vanara caddero per mano sua. Hanuman fu gravemente ferito dal tridente di Kumbhakarna, vomitò sangue e rimase stordito.
Nila riuscì a ridare fiducia ai vanara. Trovandosi Kumbhakarna di fronte come una montagna, i vanara scalarono quella montagna e cominciarono a morderlo. Kumbhakarna afferrò questi vanara e se li mise in bocca, con l'intenzione d'ingoiarli; ma essi fuggirono abilmente dalle sue narici e dalle sue orecchie. Tuttavia Kumbhakarna continuò a divorare vanara e a ucciderli spietatamente.
I vanara chiesero aiuto a Rama, e Angada si precipitò in loro soccorso. Sollevando la cima di una montagna, Angada la gettò contro Kumbhakarna. Furente, Kumbhakarna scagliò il suo tridente contro Angada. Questi schivò il colpo e per tutta risposta colpì il demone sul petto. Il demone si sentì mancare! Appena Kumbhakarna si riprese strinse i pugni e colpì Angada con tutta la sua forza: Angada perse i sensi.
Allora Kumbhakarna si volse contro Sugriva. Sollevando la cima di una montagna, Sugriva sfidò Kumbhakarna: "Lascia stare i guerrieri vanara: guarda che ti faccio adesso!". Ma non appena colpì il torace di Kumbhakarna quel macigno si ridusse in frantumi. Il demone scagliò il tridente contro Sugriva, ma Hanuman lo intercettò, l'afferrò, lo pose con calma sul suo ginocchio e lo spezzò! Kumbhakarna rimase stupefatto e adirato per l'impresa straordinaria di Hanuman. Allora prese un masso enorme e con esso colpì Sugriva. Il re dei vanara svenne. Kumbhakarna andò dov'era caduto Sugriva, lo prese, se lo mise sotto l'ascella e s'avviò verso Lanka. Egli sapeva che con Sugriva fuori campo, tutti gli altri si sarebbero arresi, incluso Rama e Lakshmana.
Hanuman rifletté: "Che devo fare adesso? Grazie ai miei poteri soprannaturali potrei assumere proporzioni gigantesche, e quindi uccidere Kumbhakarna e salvare Sugriva. Ma la reputazione di Sugriva ne soffrirebbe e lui potrebbe non gradire d'essere salvato da me. Aspetterò lo sviluppo degli eventi, e nel frattempo solleverò il morale dei vanara".
Presto Sugriva riprese i sensi e si rese conto della sua situazione! Dopo un'attenta considerazione, egli morse le orecchie e il naso di Kumbhakarna! Colto di sorpresa da Sugriva e stravolto dal forte dolore, Kumbhakarna gettò a terra l'eroe vanara. Sugriva saltò subito in piedi e tornò immediatamente dove si trovava Rama, facendo fallire il piano del demone. Grondante di sangue, Kumbhakarna avanzò ancora una volta contro il nemico.
Kumbhakarna ghermì un maglio e si lanciò in mezzo alle schiere vanara. Lakshmana ricoprì letteralmente di missili il demone, che però rimase incolume e gli disse: "Apprezzo molto il tuo valore, Lakshmana! Finora nessuno aveva osato opporsi a me. Persino Indra una volta fu sconfitto da me. Per il fatto che mi hai sfidato ti rispetto come soldato. Ma io desidero uccidere solo Rama: morto lui, sarà la fine!".
Mentre Kumbhakarna s'affrettava verso Rama, questi gli tirò un missile spaventoso dotato del potere di Rudra, il dio della distruzione. Trafiggendo la poderosa armatura, il missile s'infilò dritto nel cuore del demone, e l'impatto fu tale che gli fece cadere le armi dalle mani. Tuttavia egli cominciò a correre all'impazzata, divorando i vanara. Poi lanciò un immenso pezzo di montagna, che Rama frantumò con i suoi missili; ma i suoi frammenti caddero su duecento vanara. Lakshmana capì la natura del demone e suggerì a Rama: "L'odore del sangue intossica il demone e lo fa correre tra i vanara, uccidendoli senza neanche volerlo. Facciamo arrampicare dei vanara su di lui per salvare gli altri". I vanara s'arrampicarono, ma il demone li scosse a terra.
Rama disse a Kumbhakarna: "Io sono il distruttore dei demoni. La tua morte è vicina !". Kumbhakarna rise a squarciagola e rispose : "Io non sono Viradha, Kabhandha, Khara, Vali o Marica! Io sono Kumbhakarna! Combatti con me. Vedrò quanto sei potente, e poi divorerò anche te".
Rama diresse contro di lui lo stesso tipo di missili con cui aveva ucciso istantaneamente Vali. Ma non ebbero effetto sul demone. Sollevando la sua clava di ferro Kumbhakarna si scagliò contro Rama, che a sua volta gli lanciò il missile 'del vento'. Questo staccò al demone il braccio alzato, che cadde insieme alla clava e uccise molti guerrieri! Con l'altro braccio, Kumbhakarna sradicò un grande albero e corse incontro a Rama, il quale fece partire un altro missile che gli staccò anche quel braccio.
Urlando, Kumbhakarna si scagliò contro Rama, che usando due missili a mezzaluna gli recise ambedue le gambe. Quando le gambe caddero, il suono della loro caduta si propagò per tutta Lanka. Pur senza braccia e senza gambe, Kumbhakarna fu ancora capace di spingersi avanti e avvicinarsi rapido a Rama con la bocca spalancata. Con un altro missile Rama lo imbavagliò e con un altro ancora gli recise la testa, nello stesso modo in cui Indra aveva decapitato anticamente il demone Vritra. Quando quell'enorme testa cadde, rotolò, e come una valanga distrusse molti edifici sul suo cammino. Così il nemico dei santi e degli dèi era stato ucciso da Rama, ed essi furono estremamente felici.
I demoni andarono a riferire a Ravana: "Il terribile Kumbhakarna, che era il terrore persino degli dèi, è stato privato della vita dai missili di Rama!". Udendo che il potente Kumbhakarna era stato ucciso sul campo di battaglia, Ravana fu sopraffatto dal dolore, perse l'equilibrio e cadde. I figli di Ravana piansero disperati, e insieme a loro anche gli altri fratelli del re. Riprendendo i sensi, Ravana si lamentò: "Ahimè, perché mi hai abbandonato e sei andato via, fratello Kumbhakarna? Mi chiedo com'è stato possibile che anche tu sia stato sconfitto e ucciso in battaglia. Che me ne farei adesso del consenso di Sita? La vita non ha più significato per me ora che tu sei scomparso. Ho schernito Vibhishana, e l'ho perso! Ora ho perso anche te, Kumbhakarna: per chi vivrò ora? Ah, è certo che la mia malvagia azione di non ascoltare il saggio consiglio di Vibhishana ha portato frutto".
Mentre Ravana esternava il suo lamento, suo figlio Trisira cercò di consolarlo: "Non c'è dubbio che Kumbhakarna fosse potente. Ed è vero che un guerriero come lui è stato ucciso dall'essere umano Rama. Ma questo non è certo un buon motivo per disperarti! Tu possiedi varie armi che ti sono state donate dallo stesso Creatore Brahma. E anche noi siamo qui. Rimani a Lanka, padre. Andrò io in battaglia e ucciderò i tuoi nemici". Questo discorso risollevò le speranze di Ravana.
Con le benedizioni di Ravana, i suoi quattro figli (Trisira, Devantaka, Narantaka e Atikaya) e i suoi due fratelli Mahaparsva e Mahodara, uscirono per andare sul campo di battaglia, portando con loro le armi migliori. Circondati dalle rispettive armate, essi incutevano terrore e sembravano invincibili. Nella loro disperazione erano determinati o a vincere o a morire sul campo.
Narantaka si gettò in mezzo alle schiere vanara, che al suo avanzare cadevano come mosche. Impugnando una lancia infuocata, Narantaka dava fuoco ai vanara. Questi, atterriti, chiesero aiuto a Sugriva, il quale incaricò Angada di fermare questa nuova minaccia. Angada sfidò Narantaka: "Lascia perdere i comuni vanara, demone! Ecco qua il mio torace : prova su di esso la forza della tua lancia!". Seccato dalla sua spavalderia, Narantaka scagliò la lancia sul petto di Angada. La lancia si spezzò! Angada colpì il veicolo di Narantaka con il palmo della mano: e il veicolo sprofondò nella terra. Narantaka diresse il suo pugno poderoso sul cranio di Angada e lo fratturò! Senza curarsi del sangue che gli usciva profusamente, Angada colpi il demone al petto con il suo pugno serrato. Con il petto spaccato, Narantaka cadde vomitando sangue caldo.

[NOTA: Lancia, maglio, mazza, clava di ferro, macigni, alberi, cime di montagne - la descrizione data della loro natura suggerirebbe che si trattava di armi che la scienza moderna non ha ancora prodotto.]

Trisira, Mahodara e Devantaka, fratello di Narantaka, attaccarono simultaneamente Angada. Il principe vanara prese un albero enorme e lo scagliò contro Devantaka; ma Trisira intervenne e lo spezzò. In questo combattimento, mentre Mahodara intercettava i missili di Angada, Trisira lo attaccava scorrettamente. Nonostante venisse attaccato contemporaneamente da tre demoni potenti, Angada non si scoraggiò.
Con un sol colpo Angada uccise l'elefante di Mahodara. Poi strappò una zanna all'elefante morto, e con essa colpì Devantaka. Il demone restituì il colpo. Nello stesso tempo Trisira lanciava i suoi missili contro Angada. Vedendo che il confronto non era equo, Hanuman e Nila vennero in aiuto di Angada. Nila si occupò di Trisira.
Devantaka combattè contro Hanuman. Scagliandosi su Devantaka, Hanuman gli diede un colpo tale sulla testa che gli spaccò il cranio. Il demone cadde a terra morto.
Mentre Nila combatteva contro Trisira, anche Mahodara cominciò ad attaccarlo. Per un momento Nila si sentì paralizzato; ma riprendendo forza, colpì Mahodara con un grande masso. Mahodara cadde. Rabbioso per questo, Trisira diresse i suoi missili contro Hanuman. Questi scagliò un immenso macigno contro Trisira, che però riuscì a frantumarlo. Hanuman immobilizzò il cavallo di Trisira, che a sua volta lanciò il suo potente giavellotto contro Hanuman; ma il potente vanara riuscì ad intercettarlo e lo spezzò. Trisira quindi usò la sua spada e ferì gravemente Hanuman. Questi a sua volta colpì il demone sul petto. Trisira cadde. Hanuman strappò la spada al demone, che riuscì ancora a colpirlo. Infine Hanuman tagliò la testa a Trisira con la sua stessa spada.
Dopo di loro, il potente demone Mahaparsva si fece avanti per combattere. Egli impugnava una mazza splendente che fiammeggiava continuamente. Con essa egli aveva vinto molti dèi e semidèi. Con la sua arma Mahaparsva creò molta confusione tra i vanara. Ora Rishabha si fece avanti per combattere contro il demone. Mahaparsva colpì Rishabha sul petto, facendolo sanguinare profusamente. Riprendendo le forze dopo un po', il vanara colpì a sua volta il demone sul petto e lo fece cadere. Rishabha si gettò su di lui e gli strappò la mazza dalla mano. Poco dopo Mahaparsva si alzò e tirò un colpo secco contro Rishabha, che cadde e rimase per un po' privo di sensi, Quando si rialzò, Rishabha colpì il demone che cercava d'avanzare verso di lui per riprendersi la mazza. Ma prima che Mahaparsva ci riuscisse, Rishabha lo uccise con la sua stessa mazza! Il demone cadde morto, e le forze demoniache cominciarono a fuggire.
Ora fu la volta di Atikaya, un altro figlio di Ravana. Egli avanzò sul campo di battaglia su un carro corazzato che splendeva come mille soli. Alcuni vanara immaginarono che fosse Kumbhakarna risuscitato dai morti, e fuggirono. Rama chiese a Vibhishana: "Chi è questo demone colossale? Guarda il suo carro corazzato! È pieno di torrette rivolte in tutte le direzioni. Ha quattro piloti, venti depositi di munizioni, dieci torrette da fuoco, e tuona come una nuvola mentre avanza sul campo. E inoltre è difeso da due lame scintillanti. Chi è questo potente demone?". Vibhishana rispose: "È Atikaya, un figlio di Ravana. Anche lui non teme la morte per mano di dèi e demoni, in virtù di un dono concessogli da Brahma. O Rama, stai attento e liberati subito di lui".
Alcuni condottieri vanara scagliarono massi e alberi contro il demone, ma egli se ne liberò quasi giocando. Non era interessato ad attaccare i vanara, ma andò subito da Rama e lo sfidò a duello. Lakshmana gli rispose subito: e mentre approntava la sua arma, il suono terribile che produsse sorprese e divertì Atikaya. Nondimeno egli disse: "Lakshmana, sei solo un ragazzo! Perché vuoi provocarmi ad ucciderti?". Lakshmana rispose: "Non fare lo spavaldo, demone! E non prendermi alla leggera, considerandomi un ragazzo: perché ragazzo o adulto, sono pur sempre la tua morte!".
Lakshmana tirò al demone un missile tremendo che lo neutralizzò. Allo stesso modo Lakshmana neutralizzò i missili del demone. Poi Lakshmana tirò un missile piatto che colpì il demone sulla fronte. Ferito gravemente, il demone disse: "Bene Lakshmana, è stato eccellente!". Atikaya lanciò un missile estremamente acuminato che colpì il petto di Lakshmana, facendolo sanguinare profusamente. Riprendendosi, Lakshmana lanciò un terribile missile dedicato al dio del fuoco; vedendolo, Atikaya lo intercettò con un missile dedicato al dio sole. I due missili si scontrarono nello spazio, bruciando completamente. Così l'uno intercettava i missili dell'altro. Anche quando Lakshmana riusciva a colpire il demone; i missili erano incapaci d'attraversare la sua armatura intarsiata di diamanti. Atikaya mirò a Lakshmana un missile dalla traiettoria a zigzag.
Colpito, Lakshmana rimase per qualche attimo stordito; e quando riprese coscienza udì la voce (del dio Vayu) che diceva: "Queste armi convenzionali non possono ucciderlo: usa il missile più potente, quello di Brahma". Lakshmana usò dunque il missile di Brahma. Quando partì dalla sua arma, il sole e la luna s'oscurarono e la terra tremò. Atikaya cercò d'intercettarlo, ma il missile di Brahma gli staccò la testa.

[NOTA: Il missile di Brahma sembra essere una specie di minibomba o proiettile atomico usato anche in combattimenti individuali, benché si menzioni anche la varietà più grande.]

Udendo della caduta di Atikaya, Ravana fu preso dall'ansia e disse ai suoi consiglieri: "Molti dei nostri guerrieri che consideravamo invincibili sono stati uccisi da Rama e Lakshmana. E anche quando essi sono stati attaccati con missili aventi il potere dello stesso Brahma, in qualche modo sono sempre riusciti a salvarsi. Questo mi sconcerta. Penso che Rama, dalla cui prodezza sono stati uccisi i potenti demoni, sia lo stesso Narayana. Perciò è essenziale che tutti voi esercitiate la massima vigilanza. Che le porte della città siano presidiate con estrema vigilanza; fate attenzione soprattutto agli spostamenti dei vanara".
Il figlio di Ravana, Indrajit, gli si avvicinò e disse: "Perché ti senti depresso, padre, mentre sono al tuo fianco pronto a uccidere i tuoi nemici? Dammi il permesso di scendere in battaglia; e ti prometto che li ucciderò tutti, compresi Rama e Lakshmana", Indrajit si preparò subito e fece una cerimonia del fuoco per il successo della sua missione. Il dio del fuoco apparve in persona per ricevere le offerte. Ci furono anche altri buoni presagi.
Quando Indrajit approntò il potentissimo missile che aveva il potere del Creatore Brahma, il mondo intero fu scosso. Tenendosi nascosto, Indrajit fornì copertura ai demoni, che attaccarono vigorosamente i vanara. Ma i vanara individuarono la posizione di Indrajit nel cielo e scagliarono alberi e massi contro di lui. Questo non fece che accrescere la sua ira, spronandolo ad attaccare con maggiore ferocia.
Tutti i più grandi eroi vanara - Gandhamadana, Nala, Mainda, Gaja, Jambavan, Nila e persino Sugriva, Rishabha, Dvivida e Angada - furono feriti gravemente da Indrajit. Restando invisibile agli altri, Indrajit sorvolò le forze vanara, ed evitando attentamente di colpire i propri guerrieri, fece cadere una pioggia di bombe di diversi tipi, somiglianti a lance, spade e asce. Cadendo sui vanara, queste esplodevano producendo una luce abbagliante e una pioggia di faville che cadevano tutt'intorno bruciando qualsiasi cosa toccassero. I vanara che osavano guardare questo fenomeno restavano accecati dalle faville e dai missili. Indrajit rivolse poi la sua attenzione su Rama e Lakshmana, coprendoli di fuoco. Rama disse a Lakshmana: "Sono certo che Indrajit sta usando il missile dedicato al Creatore Brahma: il suo potere è inviolabile. Sopportiamo pazientemente il suo fuoco per un po'; quando ci vedrà tutti feriti, Indrajit tornerà sicuramente a Lanka".
E così fu! Quando vide che tutti i capi vanara e persino Rama e Lakshmana erano caduti sul terreno sotto il potere del suo fuoco, Indrajit tornò in volo a Lanka e riferì a Ravana del suo successo.

[NOTA: Sicuramente Indrajit esaminò il campo di battaglia dal cielo, pensò che i capi nemici fossero morti e ritornò a Lanka. Altrimenti li avrebbe uccisi.]

In quella sola giornata, sei milioni e settecentomila vanara furono uccisi da Indrajit con il missile che racchiudeva il potere della natura. Vibhishana e Hanuman fecero il giro del campo e videro Jambavan che giaceva ferito. Vibhishana gli chiese: "O possente, sei ancora vivo, come ti senti?". Jambavan rispose: "Non ci vedo, ma dalla tua voce riconosco che sei Vibhishana. Ti prego di dirmi subito, Hanuman è ancora vivo?". Vibhishana rimase perplesso: "Perché mi chiedi di Hanuman ancor prima di Rama e Lakshmana?". Jambavan rispose: "Per un motivo molto importante: se Hanuman è vivo, la nostra sopravvivenza è possibile". Poi lo stesso Hanuman parlò a Jambavan, che felicissimo gli disse: "È tempo che tu mostri il tuo potere soprannaturale, o potente eroe! Tu puoi ridare vita a Rama, a Lakshmana e a tutti i vanara feriti: nessun altro può farlo. Parti subito per la montagna più alta coperta di ghiaccio: tra il monte Rshabha e il Kailash vedrai una montagna luccicante di erbe. Ivi troverai le quattro erbe: mritasanjivani (che resuscita i morti), vishalyakarani (che sana tutte le ferite), suvarnakarani (che ridona al corpo il suo splendore originario) e bandhani (che sana le fratture delle ossa) . Porta qui quelle erbe nel più breve tempo possibile".
Hanuman non perse tempo e partì per la spedizione di soccorso. Decollò con un boato potente che creò il panico nei cuori dei demoni di Lanka. Con la coda alzata, il dorso abbassato, le 'orecchie' all'indietro e la bocca spalancata, il velivolo di Hanuman fiammeggiò come il fuoco e si librò nell'aria con un grande boato. Ben presto egli raggiunse il posto descritto da Jambavan. Vide gli eremi dei saggi. Vide il trono del Creatore, la dimora del fuoco e quella del dio della prosperità, la luce del sole, l'arma della distruzione cosmica, e l'ombelico stesso della terra. Vide i monti Rshabha e Kailash, e tra i due vide delle erbe radiose. Ma quando atterrò per raccoglierle, non riuscì a vederle. Afflitto e perplesso, Hanuman rifletté un attimo e decise: "Giacché non riesco a vedere le erbe, sradicherò l'intera montagna e la porterò via". Portando con sé la montagna, Hanuman si mise di nuovo in volo e tornò presto a Lanka.
Non appena atterrò sul campo di battaglia, con la semplice inalazione dell'aria che emanava dalla montagna di erbe, Rama, Lakshmana e i milioni di vanara feriti riacquistarono una salute perfetta. Disgraziatamente per i demoni, Ravana aveva decretato che i morti venissero gettati nell'oceano, affinché non si conoscessero le vittime! Quindi Hanuman riportò la montagna nel suo luogo originario.

[NOTA: Le parole 'svayambhuva vallabhena' suggeriscono la forza nucleare (nata dalla natura), che poteva uccidere milioni. Sicuramente avevano un rapido antidoto contro le radiazioni nucleari.]

Sugriva disse: "Ora che Kumbhakarna è morto e pure i figli di Ravana sono stati uccisi, le difese di Lanka sono state infrante. Lanciamo immediatamente un attacco incendiario". I vanara irruppero nella città e incendiarono tutto ciò che trovarono. Le porte e i maestosi palazzi presero fuoco, e le mura e i gioielli che adornavano le porte s'abbatterono a terra come briciole. Indumenti é ornamenti furono incendiati. Il fuoco distrusse le armi dei guerrieri e le selle dei cavalli.
Decine di migliaia di case furono ridotte in cenere, con tutte le loro porte segrete, i cancelli, i muri di protezione e i loro mobili lussuosi. Le donne leggiadre che dormivano nelle loro case furono svegliate dal crepitio delle fiamme, e si precipitarono fuori gridando per la paura. Il fuoco che consumava Lanka si rifletteva sulla superficie dell'oceano dando l'impressione che l'acqua fosse diventata rossa.
Le bombe incendiarie lanciate sulla città distrussero anche le stalle. I cavalli e gli elefanti si misero a correre di qua e di là impazziti, mettendo paura gli uni agli altri.
Rama e Lakshmana, che avevano riacquistato forza e salute, presero le loro armi e guidarono l'invasione. Il rimbombo delle loro armi incuteva terrore nei cuori dei demoni. I loro missili distrussero le porte della città. Quando i missili di Rama fecero piovere fuoco sulle case dei demoni di Lanka, essi divennero furiosi. Sugriva ordinò ai vanara di entrare in città, ammonendoli: "Chiunque volta le spalle o smette di combattere dev'essere ucciso dagli altri per disobbedienza al re".
Quando vide che Rama e i vanara stavano invadendo la città di Lanka, Ravana comandò infuriato ai potenti eroi Kumbha e Nikumbha, Yupaksha, Sonitaksha, Prajangha e Kampana di fermare la marea degli invasori. Con i loro ornamenti e le loro armi che brillavano sotto i raggi della luna, questi potenti eroi raggianti di splendore marciarono contro le forze vanara. Seguì una cruenta battaglia tra demoni e vanara.
Angada sfidò Kampana. Quest'ultimo colpì Angada con una mazza. Sebbene gravemente ferito, Angada riuscì a tenersi su e a sollevare un grande macigno, scagliandolo sul demone. Kampana morì. Sonitaksha sfidò Angada, e fece piovere su di lui molti tipi di missili. Ma l'eroe vanara riuscì a sopravvivere ai missili e attaccò a sua volta il carro del demone.
Sonitaksha saltò a terra e i due s'impegnarono in un duello corpo a corpo. Alla fine Angada infilò profondamente la sua spada nel corpo del demone, che cadde a terra privo di sensi.
Quando Sonitaksha cadde privo di sensi, Angada andò in giro con la spada in pugno in cerca di un altro demone da sfidare. Prajangha e Yupaksha andarono incontro ad Angada. Anche Sonitaksha, che nel frattempo s'era ripreso, si unì a loro. Nello stesso tempo Mainda e Dvivida andarono ad aiutare Angada. Il combattimento dei tre eroi vanara contro i tre demoni fu uno spettacolo impressionante. Per un po' essi combatterono con alberi, massi e missili. Prajangha strinse il pugno con l'intenzione di colpire Angada, ma questi fu colpito prima sulla fronte da Sonitaksha e cadde. Rialzandosi rapidamente, con un pugno poderoso Angada staccò la testa di Prajangha.
Yupaksha prese la spada di Prajangha e si gettò nel combattimento. Dvivida riuscì a fermarlo, ma Sonitaksha intervenne. Dvivida gli ghermì la spada. Mainda venne in aiuto di Dvivida e colpì Yiutaksha. Dopo un feroce combattimento, Dvivida lacerò il volto di Sonitaksha, e gettando a terra il demone, lo schiacciò, Mainda prese Yupaksha per le braccia e lo stritolò: il demone cadde morto.
I demoni corsero verso Kumbha, il figlio di Kumbhakarna, dotato di una forza straordinaria e di poteri soprannaturali. Il demone sorprese Dvivida colpendolo con un missile. Dvivida cadde, contorcendosi nell'agonia. Mainda corse in suo aiuto e scagliò un masso contro Kumbha, ma questi lo frantumò con un suo missile e Mainda rimase a terra privo di sensi. Ora Kumbha attaccò Angada con i suoi missili. Tuttavia Angada rimase saldo e scagliò dei massi enormi contro il demone, che però li neutralizzò con i suoi missili e colpì Angada sulle sopracciglia. Incurante del sangue e del dolore, Angada continuò a combattere. Ma quando Kumbha lo colpì contemporaneamente con sette missili, Angada svenne. Ora Sugriva in persona entrò nella battaglia.
Scagliandosi impavido contro Kumbha, Sugriva gli strappò l'arma dalle mani e la spezzò; poi disse al demone: "La forza di Ravana è frutto di un dono che ottenne da Brahma. Tuo padre Kumbhakarna era forte di natura. Tu sei valoroso come tuo padre e Ravana. Certo dopo avere sopraffatto gli eroi vanara sarai stanco. Riposati un po', e poi ritorna. Allora ti mostrerò il mio valore. Non desidero cadere nell'infamia, uccidendoti mentre sei stanco".
Infuriato da queste parole, Kumbha attaccò Sugriva. Questi lo sollevò e lo gettò nel mare! Kumbha ritornò e assestò un colpo terribile sul petto di Sugriva, spezzandogli l'armatura e le ossa! Il colpo fu tale da produrre scintille di fuoco! Sugriva a sua volta colpì il demone al petto, e Kumbha cadde morto. La terra tremò e i cuori dei demoni si riempirono di paura.
Quando Kumbha fu ucciso, suo fratello Nikumbha si fece avanti verso Sugriva e si fermò a fissarlo, consumandolo con la sua ira. Nikumbha aveva un arma, una clava, placcata d'oro e intarsiata di diamanti. Quando il demone la brandiva, i venti dell'atmosfera terrestre cominciavano ad agitarsi. La stessa clava splendeva come una fiamma senza fumo. Quando il demone impugnava la clava sembrava che l'immenso cielo con i corpi celesti ruotassero intorno ad essa.
Hanuman si presentò impavido davanti a Nikumbha, si mise a torso nudo e lo sfidò. Nikumbha colpì Hanuman con la clava ma, cosa meravigliosa, la clava andò in frantumi. Hanuman colpì il demone con un pugno, spezzandogli l'armatura e facendolo sanguinare. Facendosi forza, il demone afferrò Hanuman e cominciò a trascinarlo! Dopo un po' Hanuman si liberò dalla morsa di Nikumbha si tirò su, lo fece cadere lo schiacciò e, sedendo sul suo petto, gli torse il collo e lo uccise.
Ravana andò su tutte le furie. Fece chiamare Makaraksha, figlio di Khara, e lo inviò speditamente sul campo di battaglia. Makaraksha partì, seguito da un grande esercito. Vi furono molti cattivi presagi, ma il demone li ignorò.
Quando i vanara furono attaccati dai demoni, lo stesso Rama andò in loro aiuto. Rivolgendosi a lui, Makaraksha gridò: "Aspetta, combatti con me, non con i miei guerrieri. Ho atteso questo momento fin dal giorno in cui ho saputo che avevi ucciso mio padre. Combatti con tutta la tua forza, con tutti i tuoi missili, o con le tue braccia". Rama rise della sua spavalderia e rispose: "La vittoria in guerra non si ottiene con il vano millantarsi! Quel giorno gli uccelli e gli animali della foresta appagarono la loro fame con la carne di quattordicimila demoni più quella di tuo padre. Oggi faranno un altro banchetto".
Seguì una terribile battaglia. I missili del demone venivano intercettati efficacemente dagli antimissili di Rama. Il fragore delle armi riempiva l'aria, come il rombo delle nuvole. Dèi ed esseri celesti osservavano questa battaglia.
Rama e Makaraksha si colpivano con i missili più potenti; e tuttavia nessuno dei due cadeva. Il fuoco era così intenso e costante che la terra era completamente oscurata. Rama fece cadere l'arma del demone. Questi saltò a terra, brandì il suo tridente fiammeggiante e lo scagliò contro Rama, che però riuscì a intercettarlo mentre era ancora nell'aria. Il demone si gettò contro Rama, ma questi gli tirò il missile dedicato al dio del fuoco. Il demone cadde morto, con il cuore trafitto dal missile. Avendo visto la morte di Makaraksha, i demoni fuggirono in città, timorosi dell'arma di Rama.
Ravana era fuori di sé dalla rabbia. Egli guardò suo figlio Indrajit e disse: "Figlio amato, con la tua potenza hai conquistato persino il re del cielo; ti è forse difficile uccidere in combattimento questi due esseri umani? Va' e uccidili con qualsiasi mezzo". Indrajit celebrò ancora una volta i riti religiosi per propiziare il suo successo in battaglia. Infine montò su un velivolo che poteva sfuggire alla vista, e portò con sé il missile dedicato al Creatore. Appena uscì dalla città divenne invisibile. Stando in alto nel cielo, egli diresse il suo fuoco contro Rama e Lakshmana. Ma per quanto questi dirigessero il loro fuoco contro il demone, non potevano raggiungerlo perché rimaneva invisibile nel cielo . Il demone si era nascosto efficacemente dietro uno schermo di fumo. Benché si spostasse costantemente, non lo si poteva vedere né si poteva udire il rumore del suo velivolo, Indrajit continuava a tirare direttamente su Rama e Lakshmana. Una volta un missile di Rama colpì dritto Indrajit.
Vedendo ciò, Lakshmana disse a Rama; "Indirizzerò contro il demone il missile del Creatore, e sarà la sua fine. Non vedo cos'altro possiamo fare a questo punto". Rama però non approvò la decisione, e disse: "Non puoi uccidere tutti i demoni per colpa di uno di loro, Lakshmana. Non si deve uccidere in battaglia uno che non combatte, che è nascosto, che viene a te con le mani giunte, che chiede il tuo aiuto, o uno che sta scappando o che è stordito. Mi libererò di lui con un solo missile di grande potenza".
Indrajit tornò a Lanka, e fece subito ritorno sul campo di battaglia ma questa volta in un carro corazzato e portandosi Sita dentro - una perfetta copia vivente della vera Sita, prodotta con la sua magia. Quando lo videro, i vanara gli si scagliarono contro con grande ira. Anche Hanuman lo vide: e vide Sita seduta nel carro, l'immagine stessa del dolore e della disperazione. Sotto gli occhi dei vanara, Indrajit sguainò la sua spada e afferrò Sita tirandole i capelli. Gemendo forte, ella ripeteva: "O Rama, o Rama".
Hanuman rimproverò Indrajit e l'ammonì: "Questo è davvero il peggiore dei peccati! Benché tu discenda da saggi brahmana, sei stato concepito da una demonessa, perciò manifesti questo carattere riprovevole! L'uccisione di una donna è condannata universalmente". Indrajit rispose: "È vero! Ma in guerra uno può fare qualunque cosa possa danneggiare il nemico. E per lei che tutti voi avete invaso Lanka; perciò uccidendola renderò vano il vostro scopo". Così dicendo, egli tagliò in due il corpo di Sita, mentre i vanara guardavano attoniti. Indrajit fu felice. I vanara furono travolti da un profondo dolore.
Vedendo Indrajit, i vanara cominciarono a fuggire. Hanuman cercò di sollevare il loro morale, e sotto la sua guida ripresero a combattere. Egli stesso sollevò un enorme macigno e lo gettò sul veicolo di Indrajit; ma il guidatore riuscì a scansarlo brillantemente. Il macigno colpì il suolo e creò una grande buca. Seguì un feroce combattimento tra i vanara e i demoni. Dopo un po' Hanuman ordinò ai vanara di ritirarsi, dicendo in lacrime: "Sita, per la cui liberazione stiamo combattendo, è morta. Dobbiamo riferire il fatto a Rama e a Sugriva, e poi fare secondo le loro decisioni". Tutti obbedirono.
Nel frattempo Indrajit decise di celebrare un'altra cerimonia religiosa per ottenere maggiore potenza in battaglia. E si diresse in un luogo chiamato Nikumbhila.
Intanto Rama aveva inviato Jambavan ad aiutare Hanuman a combattere i demoni. Jambavan vide Hanuman che si dirigeva da Rama, mostrando sul volto un immenso dolore. Hanuman s'avvicinò a Rama e disse: "Mentre combattevamo, Indrajit ha ucciso la nobile Sita davanti ai nostri occhi". A queste parole, Rama cadde privo di sensi. Lakshmana s'accasciò e pianse forte: "Se questo è potuto succedere a te, Rama, allora non c'è proprio verità nel credere che la felicità accompagna la virtù. Noi vediamo prosperare il malvagio Ravana, mentre tu che per tutta la vita hai aderito alla virtù non hai avuto che infelicità! Si direbbe che la virtù abbia bisogno della protezione della forza per ottenere la propria ricompensa, che è la felicità; ma allora essa è debole, e uno deve scansare la debolezza e fare ricorso al potere. Rinunciando al tuo diritto al trono, tu hai rinunciato alla forza: da lì viene questa sconfitta. In questo mondo solo l'uomo ricco ha amici e parenti; solo lui è considerato un uomo, un sapiente, un eroe, intelligente, benedetto e virtuoso. Persino il Dharma e i piaceri sono possibili solo per lui; e tutti gli rendono omaggio. Poiché hai rinunciato alla ricchezza, e sei andato nella foresta per onorare la parola di tuo padre, tua moglie è stata rapita!... Ah, Rama, alzati. Perché non realizzi che tu sei l'Essere Supremo? Ho detto queste cose solo per destare la tua ira. Ora io stesso ucciderò tutti questi demoni!".
In quel momento arrivò Vibhishana, e Lakshmana gli riferì quanto era successo. Allora Vibhishana disse a Rama: "Io conosco le intenzioni di Ravana verso Sita: egli non la farebbe mai uccidere. Si tratta sicuramente di un trucco di Indrajit, che è un adepto in magia. Ora egli sta per celebrare un grande rito religioso; se riuscisse a concluderlo, diventerebbe ancora più potente. Ti prego, manda Lakshmana insieme a me, e faremo subito quanto necessario".
Ancora parzialmente scosso dalla terribile notizia della morte di Sita, Rama non comprese chiaramente le parole di Vibhishana, e gli chiese di ripeterle. Vibhishana le ripeté e aggiunse; "Indrajit sta per celebrare un rito spaventoso in un luogo chiamato Nikumbhila. Se lo completasse, otterrebbe un'arma terribile chiamata Brahmasira: se riuscisse a ottenerla, potremo considerarci tutti morti. Io conosco il dono che ottenne da Brahma, che però gli disse: "Se prima che tu raggiunga Nikumbhila, o prima che completi il rito, qualcuno riuscisse a ucciderti, sarebbe la tua fine". Perciò ora e solo ora è il momento di liberarsi di Indrajit. Se lui morisse, anche Ravana potrebbe considerarsi morto! Non c'è tempo da perdere: manda subito Lakshmana accompagnato dall'esercito a Nikumbhila; egli riuscirà a uccidere Indrajit".
Rama comandò: "Lakshmana, parti subito con l'intero esercito e con tutti gli eroi vanara. Tu puoi uccidere facilmente Indrajit in battaglia. Vibhishana ti accompagnerà: lui conosce tutti i trucchi del demone".
Lakshmana affermò: "Oggi ucciderò quel terribile demone con i miei missili". Hanuman e un esercito di vanara, e Vibhishana con i suoi compagni andarono con lui.
Vibhishana consigliò i vanara: "Abbiamo quasi raggiunto la destinazione. Ora usate tutta la vostra forza e combattete questi demoni con pietre, massi e alberi. Quando avrete sterminato l'esercito di Indrajit, lui in persona si presenterà davanti a noi e potremo ucciderlo facilmente". Vanara e demoni si scontrarono e vi fu un feroce combattimento. I vanara combatterono furiosamente, con grandissimo entusiasmo. Perciò migliaia e migliaia di demoni caddero sul campo.
Vedendo la strage di demoni, Indrajit si turbò e lasciò l'ombra del grande albero sotto il quale stava celebrando il rito religioso, che non aveva concluso. Egli montò sul suo carro corazzato e ordinò al pilota di condurlo dov'era Hanuman, perché desiderava ucciderlo. Anche i demoni che erano con Indrajit attaccarono Hanuman con diverse armi e missili. Hanuman però rimaneva illeso.
Lo stesso Indrajit vide Hanuman in piedi come una montagna sul campo di battaglia, e con grande ira gli tirò numerosi missili. Hanuman però non si tirò indietro, e disse al demone: "Combatti con me, se sei un eroe, Indrajit! Una volta che ti sarai avvicinato a me, non tornerai indietro vivo".
Nello stesso tempo Vibhishana attirò l'attenzione di Lakshmana su Indrajit, e disse: "Vuole uccidere Hanuman! Ma prima che possa farlo, impegnalo in battaglia e uccidilo".
Allora Vibhishana condusse Lakshmana laddove si trovava Indrajit, dove aveva cominciato il rito sacro. Vibhishana disse a Lakshmana; "Se Indrajit concludesse questo rito, diventerebbe invisibile e potrebbe ucciderci tutti. Uccidilo prima che riesca". Lakshmana avanzò verso il demone e lo sfidò a duello. Indrajit vide Lakshmana, e vide al suo fianco anche Vibhishana. Rivolgendosi a Vibhishana, Indrajit disse: "Che vergogna! Tu sei uno di noi, eppure stai dalla parte del nemico. Hai perso del tutto il senso della parentela e della giusta discriminazione. Attento! Chi abbandona il suo popolo e serve il nemico, quando i suoi saranno eliminati, verrà ucciso anche lui dal nemico. Davvero ignobile è il modo in cui ci hai traditi".
Vibhishana gli rispose: "Benché sia nato nella vostra razza, non ho mai condiviso la vostra natura. Io sono contrario all'ingiustizia. Abbandonando la parentela di chi è ingiusto e dedito al male si ottiene la felicità. Tuo padre è crudele; egli ha tormentato i nobili saggi e sta cercando di sedurre la moglie di un altro. Ma soprattutto egli stesso mi ha scacciato dalla sua corte e dal suo regno. Basta, Indrajit, la tua fine è vicina".
Poi Indrajit disse a Lakshmana: "Oggi assaggerai ancora una volta il mio potere e la mia forza. Non ricordi che pochi giorni fa sia tu che Rama siete rimasti storditi dai miei missili? Oggi completerò l'opera". Lakshmana disse: "Non vantarti, eroe! Mostra piuttosto la tua potenza nell'azione. Tu ci hai feriti rimanendo invisibile ai nostri occhi. Combattere rimanendo nascosti non è azione degna di un eroe, ma di un ladro! Eccomi qui, vicino a te: spara!".
Reso furente dallo scherno, Indrajit lasciò partire un gran numero di missili. Lakshmana fu gravemente ferito, ma rispose al fuoco. Il duello tra i due eroi era tumultuoso, e a guardarlo faceva rizzare i peli. Dopo qualche tempo Vibhishana vide che il viso di Indrajit era un poco pallido, e disse a Lakshmana: "Il demone è stanco; attaccalo vigorosamente". Lakshmana usò i suoi missili con buoni risultati: Indrajit fu un po' scosso. Ma la sua ira alimentava la sua forza, ed egli tirò sette missili contro Lakshmana, dieci contro Hanuman e cento contro Vibhishana.
Noncurante di quest'attacco devastante, Lakshmana lanciò i suoi missili contro Indrajit e squarciò l'armatura del demone. Ferito e sanguinando profusamente, Indrajit continuò a combattere. Lo scontro tra i due potenti eroi continuò senza tregua; la sua importanza era senza precedenti.
Passò molto tempo, ma i due eroi non si ritiravano né mostravano segni di stanchezza.
Desiderando aiutare Lakshmana e affrettare la fine di Indrajit, Vibhishana esortò i vanara: "Perché state lì ad osservare il duello? Indrajit è l'unico sostegno rimasto a Ravana. La sua morte significherà la morte dello stesso Ravana, Potrei ucciderlo io stesso; ma siccome è mio nipote, quando mi avvicino ho pietà di lui. Riunitevi insieme e uccidete i suoi compagni, in modo che poi sarà più facile ucciderlo". Spronati in tal modo, i vanara si scagliarono violentemente contro i demoni, che a loro volta risposero attaccando il potente Jambavan. Indrajit combatteva alternativamente contro Vibhishana e contro Lakshmana. Le loro azioni erano così rapide che nessuno riusciva a vederli sparare. Il cielo era oscurato dal fuoco, Infine il sole tramontò e l'oscurità avvolse la terra.
Lakshmana colpì i 'cavalli' (motori) di Indrajit, e con un altro missile decapitò il pilota del suo carro. Senza farsi scoraggiare, Indrajit si mise alla guida del veicolo, continuando sempre a combattere. Gli eroi vanara saltarono sul veicolo e uccisero i cavalli (acquietarono i motori) del suo carro. L'astuto demone esortò i suoi guerrieri a combattere con maggior ferocia e, nel frattempo, sgusciò inosservato verso Lanka per procurarsi un altro carro corazzato.
Ancora una volta ci fu un feroce duello tra Lakshmana e Indrajit. Lakshmana fece cadere l'arma di Indrajit e lo colpì sul petto, ferendolo gravemente. Indrajit rispose al fuoco. Lakshmana lanciò una grandinata di missili su tutti i demoni e sullo stesso Indrajit. Di nuovo egli uccise il pilota del demone; ma questa volta Indrajit non se ne curò, perché i 'cavalli' (motori) del nuovo veicolo potevano funzionare senza pilota! Tutti i missili che Indrajit tirava a Lakshmana sembravano colpirlo e poi cadere. Pensando che Lakshmana avesse un'armatura impenetrabile, Indrajit lo colpì sulla fronte, e colpì allo stesso modo anche Vibhishana. Quest'ultimo, impugnando la sua mazza, uccise i cavalli del demone (fracassò i motori). Infuriato, Indrajit scagliò contro Vibhishana un giavellotto, che Lakshmana riuscì ad intercettare.
Sia Lakshmana che Indrajit cominciarono ad usare missili più potenti. Lakshmana intercettava i missili di Indrajit nell'aria, li neutralizzava e poi i due missili cadevano per terra. Lakshmana annullò un missile di Indrajit con un antimissile: il missile del fuoco del demone fu deviato dal suo missile del sole. Infine, prendendo un missile di Indra, Lakshmana disse: "Se Rama è devoto al Dharma e alla verità, che questo ponga fine alla vita di Indrajit". Il missile recise la testa di Indrajit, che cadde sul campo di battaglia. I demoni fuggirono. I vanara celebrarono l'evento.
Accompagnato da Vibhishana e Hanuman, e dagli altri capi vanara, Lakshmana si recò da Rama. Vibhishana annunciò la gioiosa notizia che Lakshmana aveva ucciso il potente Indrajit. Immensamente felice, Rama lodò Lakshmana più volte: "Tu hai compiuto l'impresa più difficile! ". Lakshmana fu modesto. Per l'affetto che aveva per lui, Rama lo tirò a sé con forza e ponendoselo in grembo gli baciò la testa e continuò a guardarlo con grande gioia e orgoglio. Infine disse a Lakshmana: "La vittoria è assicurata, ora che tu hai ucciso Indrajit in soli tre giorni. Adesso Ravana dovrà scendere di persona sul campo di battaglia con il suo esercito, e mi sarà facile disfarmi di lui. Con il tuo aiuto, Lakshmana, potrò riavere Sita e conquistare anche il mondo intero".
Udendo che Indrajit era stato ucciso, Ravana perse i sensi. Quando riprese coscienza si lamentò; "Ahimè, tu che terrorizzavi gli dèi, Indra e persino il dio della morte, com'è possibile che mi hai preceduto, invece di compiere prima le mie esequie? Certo sei andato nel cielo più alto, dove ascendono coloro che danno la vita per la causa del loro sovrano. Questa è la via di tutti i nobili guerrieri. Oggi gli dèi, gli asceti e i brahmana dormiranno in pace: ma oggi il mondo intero mi appare desolato".
Completamente sopraffatto da un'ira implacabile, Ravana pensò: "Ho ancora l'arma spaventosa che ottenni dal Creatore Brahma: con essa ucciderò Rama e Lakshmana, e tutti i loro guerrieri". E ancora: "Il mio amato Indrajit inscenò un trucco davanti ai vanara, e uccise una forma illusoria di Sita. Ora farò diventare vero quel trucco! Ucciderò Sita".
Ravana impugnò la sua temibile spada e si precipitò nel boschetto di asoka. I demoni lo seguirono urlando di gioia. Le sue mogli e anche i suoi ministri lo seguirono con apprensione.
Vedendolo avvicinare con la spada in pugno, Sita si chiedeva preoccupata: "Sta venendo ad uccidere me, o ha ucciso Rama e Lakshmana? Quale può essere la causa delle urla di gioia dei demoni? Ahimè, che follia non aver accettato l'offerta di Hanuman di riportarmi da Rama".
Intuendo le intenzioni di Ravana, il suo ministro Suparsva l'ammonì: "Maestà, ti prego, non soccombere all'ira commettendo questo crimine efferato. Uccidere una donna è completamente indegno della tua grandezza. Tu hai realizzato tutti i voti di un brahmana che conosce i Veda, e sei devoto ai tuoi doveri. Come puoi dunque pensare di uccidere una donna? Volgi su Rama la tua collera, e senza dubbio lo ucciderai. Allora potrai fare di Sita la tua consorte!". Ravana si calmò e accettò il consiglio del ministro.
Su ordine di Ravana l'intero esercito marciò verso il campo di battaglia. Presto demoni e vanara si scontrarono in un sanguinoso combattimento, che causò moltissimi morti e feriti da entrambi i lati. Per proteggere i vanara, lo stesso Rama entrò in battaglia, e con la sua potente arma stroncò molti demoni. I demoni rimanevano stupefatti dalla potenza inconcepibile di Rama, che era così rapido nel tirare i missili che essi non riuscivano neanche a vedere dove si trovava! E gridavano: "Eccolo che uccide il contingente con gli elefanti; eccolo che uccide i nostri condottieri; eccolo che uccide fanti e cavalli". I demoni vedevano persino Rama l'uno nell'altro e si uccidevano tra di loro!
Rama usò il missile che creava confusione: ulteriormente confusi, i demoni si videro intorno migliaia di Rama. In seguito si resero conto che vi era un solo Rama. A volte vedevano solo l'arma da fuoco di Rama, ma non lui. Vedevano l'arma di Rama che aleggiava rapidamente come una spada incendiaria che uccideva i demoni: ma non vedevano Rama. In tre ore duecentomila soldati e un gran numero di elefanti e cavalli erano stati uccisi dal solo Rama, con la sua arma che emetteva lingue di fuoco.
Rama disse ai suoi compagni: "Il potere di usare questi missili in tal modo è posseduto solo da me e da Tryambaka".
A Lanka le demonesse si riunirono in piccoli gruppi e si lamentarono: "Maledetta l'ora in cui l'orrenda, crudele e vecchia demonessa Surpanakha ha guardato con occhi lussuriosi il leggiadro principe Rama! Dev'essere stato certo il nostro destino e quello di tutti i demoni a ispirarle di desiderare Rama. Ma anche dopo, Ravana ha avuto tantissimi avvertimenti per rendersi conto della potenza di Rama: l'uccisione di quattordicimila demoni, di Khara, Dushana e Trisira, l'uccisione del potente Vali - tutto ciò avrebbe dovuto far desistere Ravana dal suo piano malvagio. Ravana ha avuto anche il saggio consiglio di Vibhishana; e avrebbe potuto realizzare l'immenso potere di Rama quando è stato ucciso Kumbhakarna, o almeno quando è stato ucciso Atikaya. Neanche la morte di Indrajit lo ha reso saggio! Ah, abbiamo perso tutti i nostri amici e parenti. Sì, la Morte stessa è venuta sotto forma di Rama. Abbiamo sentito che in risposta alle preghiere degli asceti oppressi, il Signore Shiva promise: "Una donna nascerà sulla terra per distruggere i demoni". Ravana ottenne da Brahma il dono dell'invincibilità, ma ignorò sprezzante gli esseri umani. Ora quest'uomo, Rama, è venuto certo a ucciderlo. Vibhishana è stato saggio, e ha chiesto in tempo la protezione di Rama. Noi però non abbiamo nessuno che ci protegga e non sappiamo dove andare".
Anche Ravana udì il lamento pietoso delle demonesse. Guardando furente i capi dei demoni che gli stavano intorno, egli ordinò di marciare! Tutti marciarono immediatamente verso il campo di battaglia con le loro divisioni. Rivolto ai comandanti Mahodara, Mahaparsva e Virupaksha, Ravana disse: "Oggi io stesso ucciderò Rama e Lakshmana, vendicando così l'uccisione di Khara, Kumbhakarna, Prahastha e Indrajit. Le teste dei miei nemici rotoleranno a terra. Con la loro morte asciugherò le lacrime di coloro che hanno avuto uccisi figli e fratelli. Portate il mio carro corazzato. Portate le mie armi. Che l'esercito mi segua sul campo di battaglia".
Ci fu la coscrizione generale: i capi demoni radunarono tutti i demoni abili di Lanka e li spinsero sul campo di battaglia per il combattimento finale e decisivo. Ravana montò nel suo particolarissimo carro corazzato, che incuteva sgomento persino ai demoni. Sul campo di battaglia, i guerrieri dicevano tra loro; "Ecco Ravana, il re dei demoni, accompagnato dalle sue insegne reali. Ecco colui che ha rapito Sita, quel malvagio che ha ucciso i brahmana e ha terrorizzato persino gli dèi. Eccolo che viene a combattere contro Rama". Circondato dai suoi comandanti, Ravana si avvicinò alla porta presso la quale si trovavano Rama e Lakshmana. Vi furono molti cattivi presagi, ma Ravana andò avanti senza prestarvi attenzione.
Ravana cominciò ad attaccare i vanara, che caddero in gran numero davanti a lui. Ponendo Sushena a capo di queste forze vanara, Sugriva si portò nelle posizioni frontali dove infuriava la battaglia. Con una pioggia di massi, egli uccise innumerevoli demoni.
Il demone Virupaksha venne in loro aiuto, combattendo da sopra un elefante. Egli diresse una scarica di colpi contro Sugriva, che però rimase illeso. Sollevando un grande albero, Sugriva colpì con esso l'elefante, che si ritirò barrendo. Virupaksha saltò giù dall'elefante e si scagliò contro Sugriva.
Sugriva prese un enorme macigno e lo lanciò contro Virupaksha, che comunque riuscì a scansarlo in tempo e a colpire Sugriva con la spada. La ferita fece perdere per qualche attimo i sensi a Sugriva, che però dopo un po' si riprese e colpì il demone con un pugno. Virupaksha colpì di nuovo Sugriva con la spada e lacerò la sua armatura. Sugriva cadde, ma rialzandosi subito sferrò un colpo sonoro sul petto del demone.
Virupaksha schivò il colpo, e colpì a sua volta Sugriva con un pugno. Pieno di furia, Sugriva assestò un colpo potente e vigoroso sulla tempia di Virupaksha. Il demone morì vomitando sangue, con il sangue che gli usciva come acqua da tutte le aperture del corpo.
Le perdite furono pesantissime da entrambi i lati e i combattenti si erano ridotti notevolmente di numero. Ravana si volse al demone Mahodara e gli disse: "Tutte le mie speranze sono ora legate a te, Mahodara: ti prego, vai in battaglia".
Mahodara giunse sul campo di battaglia pieno di zelo e d'entusiasmo, ma fu accolto da una grandinata di massi e alberi scagliati contro di lui dai vanara. Mentre i vanara assalivano i demoni, lo stesso Mahodara cominciò a uccidere molti vanara con i suoi missili mortali. Alcuni fuggirono, mentre altri corsero a cercare aiuto da Sugriva . Il re dei vanara impegnò il demone in combattimento: sollevò prima un enorme macigno e lo scagliò contro di lui; poi gli tirò un grande albero. Ma con i suoi missili il demone fece a pezzi sia l'uno che l'altro. Sugriva raccolse da terra una clava e con essa uccise (acquietò) i cavalli (i motori) del veicolo di Mahodara.
Mahodara attaccò Sugriva con la sua mazza ferrata; Sugriva rispose con la clava. Quando Mahodara lanciò la sua mazza contro Sugriva, questi la intercettò con la sua clava. La mazza cadde e la clava si spezzò. Sugriva raccolse una clava da terra e la scagliò contro il demone. Mahodara rispose con la mazza. I due eroi si scontrarono in aria e caddero a terra. Allora cominciarono a combattere a mani nude. Dopo aver lottato per un po', Mahodara prese una spada e altrettanto fece Sugriva. Mahodara colpì l'armatura di Sugriva, ma questi imperterrito tagliò la testa del demone con la sua spada. Sugriva fu soddisfatto. Ravana s'infuriò, e Rama fu felice.
Il demone Mahaparsva attaccò le forze di Angada. Grande fu la distruzione dei vanara per mano sua. Angada era dispiaciuto e furente. Afferrando una dava, egli la tirò al demone, che rimase temporaneamente stordito dal colpo. Sfruttando questa opportunità, il potente eroe Jambavan distrusse il carro corazzato del demone.
Riprendendo i sensi, Mahaparsva attaccò di nuovo Angada e gli altri eroi vanara, Gavaksha e Jambavan. Ancora una volta Angada scagliò una clava contro il demone, facendogli cadere l'arma dalle mani e l'elmo dalla testa. Poi assestò un pugno poderoso sulla tempia del demone. Mahaparsva scagliò un'ascia dall'aspetto terribile contro Angada, che fortunatamente riuscì a schivarla. Stringendo forte il pugno, Angada mirò un colpo potente sulla parte vitale del demone. Quando il pugno lo colpì al petto con la forza del fulmine, il suo torace si aprì e il demone cadde morto. Vedendo questo, Ravana rimase ulteriormente confuso e pieno di collera . I vanara gioirono.
Ravana disse al suo pilota: "Andiamo! Ucciderò io stesso Rama e Lakshmana, distruggendo così alla radice il malvagio esercito che ha causato tante perdite al mio popolo". Ravana lanciò un missile tremendo che diffuse l'oscurità, e uccise numerosi vanara. Allora Rama si fece avanti per sfidare Ravana, e i demoni cominciarono a cadere a frotte. Lakshmana attaccò Ravana, che neutralizzò facilmente tutti i suoi missili. Poi Ravana si diresse contro lo stesso Rama, e gli tirò una grandinata di proiettili. Ma Rama li intercettò tutti con un antimissile chiamato bhalla.
Ravana colpì Rama, che però rimase illeso e lanciò al demone il terribile missile dedicato a Rudra. Ravana non fu scosso, e cominciò a usare missili diabolici che sembravano avere le teste di leoni, tigri, avvoltoi, sciacalli, serpenti, asini, verri, cani, galli, alligatori, ecc. Notando questo, Rama usò i missili dedicati al dio del fuoco, che avevano teste che ricordavano il fuoco, il sole, la luna, le comete, i pianeti e le dimore lunari. I missili di Rama neutralizzarono in aria quelli di Ravana.
Ravana lanciò il missile di Rudra, dal quale scaturirono diverse armi: mazze, clave e tridenti dotati di forza adamantina. Per contrastarne l'effetto Rama usò il missile gandharva. Quindi Ravana usò il missile del dio del sole, che diede vita a numerosi dischi dal potere distruttivo inconcepibile; ma Rama se ne liberò efficacemente con la propria arma. Con un colpo Lakshmana strappò lo stendardo di Ravana, poi uccise il suo pilota e distrusse persino una sua torretta armata.
Ravana si volse furioso contro Vibhishana e gli lanciò un'arma tremenda chiamata shakti. Lakshmana la intercettò, ed essa cadde liberando terribili faville di fuoco. Ora Ravana si volse arrabbiato contro Lakshmana: "Giacché difendi Vibhishana, con questa shakti ti toglierò la vita". L'arma era molto potente e infallibile e, mentre volava verso Lakshmana, Rama pregò! Lakshmana fu colpito e rimase incosciente. Pur turbato profondamente, Rama si fece forza e continuò a combattere con furore. I vanara però non riuscivano a estrarre shakti dal corpo di Lakshmana; perciò doveva farlo Rama. Ma mentre questi soccorreva il fratello, Ravana gli tirò parecchi colpi.
Adirato, Rama disse ai vanara; "Proteggete Lakshmana, mentre io mi occupo di Ravana e libero il mondo dalla sua presenza. Per colpa sua ho sopportato molto dolore; ma quando l'avrò ucciso tutto il dolore svanirà. Per colpa sua ho dovuto portare in guerra molti vanara. Uccidendo Ravana, oggi farò un'azione che verrà ricordata e rievocata per tutto il tempo a venire". Incapace di difendersi dai terribili missili ora usati da Rama, Ravana fuggì.
Quando Ravana si ritirò dalla battaglia, Rama tornò da Lakshmana. Vedendolo a terra svenuto, come morto, Rama fu preso dallo sconforto e si lamentò: "Vedendo steso in un lago di sangue il mio amato fratello a me più caro della stessa vita, non ho la forza di combattere. L'arma mi cade dalle mani; le mie gambe vacillano. C'è in me un forte desiderio di morire. Che cosa otterrò con la vittoria, quando mio fratello non c'è più? Come mi presenterò ai miei senza di lui? Egli mi ha seguito nella foresta, io lo seguirò nella morte".
Il vanara Sushena cercò di confortare Rama dicendo: "Lakshmana non è morto. Perciò non affliggerti". E poi disse ad Hanuman: "Va' subito sul monte Mahodaya a prendere le erbe rivitalizzanti che hai già preso in precedenza".
Hanuman conosceva la rotta, che gli era stata indicata prima da Jambavan. Andò lì celermente e tornò presto. Ponendo la cima del monte davanti a Sushena disse; "Non sono riuscito a vedere le erbe; perciò lo portato la cima del monte". Sushena trovò le erbe, le schiacciò e le somministrò a Lakshmana.
Inalando le erbe, Lakshmana riprese i sensi. Rama fu felice, ma continuò ad essere sentimentale e ripeté: "Se tu non fossi tornato in vita, la mia vittoria sarebbe stata inutile". Quando gli fu ricordata la gravità della situazione, Rama aprì il fuoco sull'esercito di Ravana. Ben presto arrivò lo stesso Ravana nel suo carro corazzato e coprì Rama con i suoi proiettili. Vedendo che Ravana aveva un veicolo corazzato e Rama era a piedi, Indra, il re degli dèi, inviò rapidamente il suo carro corazzato con il suo auriga Matali. Il carro corazzato di Indra aveva 'cavalli verdi'. Matali fermò il carro davanti a Rama e disse: "Indra ha mandato il suo veicolo e le sue potenti armi, inclusa la shakti, perché tu possa usarli e ottenere la vittoria".
Nella cruenta battaglia che seguì, Ravana scagliò un missile che si trasformò in serpenti velenosi; ma Rama li neutralizzò usando un altro missile che liberò aquile nell'aria, Infuriato, Ravana usò missili ancora più potenti e assalì Rama, impedendogli di usare liberamente la sua arma. Gli esseri celesti incitavano Rama e i demoni incitavano Ravana. Quest'ultimo prese un'arma terribile, un tridente duro come il diamante, infuocato, dalle punte acutissime, che produceva un suono fragoroso, e disse: "Rama, quando lancerò quest'arma, morirai". Mentre s'avvicinava a lui, Rama tentò d'intercettarlo con i suoi missili, che però furono ridotti in cenere dal tridente. Infine Rama usò la shakti di Indra. Intercettata dalla shakti nel cielo; il tridente si spaccò e cadde a terra. Rama continuò attaccando a sua volta Ravana.
Tormentato dai missili di Rama, il re dei demoni Ravana s'infuriò terribilmente e coprì di fatto Rama con il suo fuoco. Rama tuttavia intercettò con successo tutti i missili del demone. In questa temibile battaglia, e nella polvere e nel fuoco sollevati dal combattimento, non si riuscivano a vedere neanche Rama e Ravana.
Ridendo con scherno, Rama disse a Ravana: "Sono certo che pensi di essere un grande eroe, Ravana. Ma non lo sei! Il fatto stesso che hai rapito mia moglie Sita a Janasthana senza che io lo sapessi prova che non sei un eroe! Hai messo le tue mani sulla moglie di un altro mentre ella non era protetta, eppure ti consideri un eroe! Ora subirai le conseguenze di quell'azione malvagia e meschina. Senza vergognarti hai rapito Sita mentre era sola: se avessi tentato di farlo in mia presenza, avresti raggiunto Khara all'altro mondo. Per fortuna ti sei presentato davanti a me. Staccherò la tua testa dal corpo, e le bestie feroci e gli avvoltoi mangeranno la tua carne".
L'ira di Rama aumentò la sua forza e il suo valore. In quel momento i missili divini si portarono, per così dire, davanti a lui, e la gioia che riempiva il suo cuore per l'imminente distruzione di Ravana gli permetteva di sparare in maniera facile e fulminea.
Rama percepì buoni presagi, e ne fu molto incoraggiato. Egli combatté con grande furia, e Ravana fu sopraffatto dai suoi missili. Vedendo la totale confusione di Ravana, il suo guidatore condusse il carro lontano dal campo di battaglia.
Quando Ravana si rese conto di ciò che il pilota aveva fatto, gli disse pieno di collera: "Tu hai disonorato il mio nome, Hai gettato vergogna sul mio valore. La mia gloria è stata offuscata dalla tua vile azione. Mentre il nemico stava davanti a me e io ero ansioso di combatterlo, tu hai guidato il carro lontano dal campo di battaglia! Se non mi riporti subito sul posto di combattimento sarò costretto a concludere che sei stato corrotto dal nemico per macchiare la mia reputazione". Il pilota spiegò; "Signore! È dovere di un buon conducente essere consapevole delle condizioni e della forza del suo padrone, delle condizioni del campo di battaglia, e della forza e della debolezza del nemico; egli deve sapere quando attaccare e quando ritirarsi. Considerando tutto questo e vedendo che eri affaticato, temendo che potessi essere sopraffatto dal nemico, ho agito solo nel tuo interesse. Quello era il mio dovere. Ora che mi ordini di riportare il carro in battaglia, lo faro senza indugio, compiendo il mio dovere verso il mio signore, i cui favori non ho dimenticato".
Il saggio Agastya apparve sul luogo della battaglia insieme agli dèi, e vedendo che Rama era stanco per il lungo combattimento con Ravana, gli disse:
"O Rama! Ascolta attentamente questo segreto. È il cuore del sole: la sua ripetizione costante conduce alla vittoria, ad ogni buon auspicio e alla distruzione dei nemici. Adora il sole! Egli è l'essenza stessa di tutti gli dèi, e solo lui protegge tutti gli esseri. Egli è il controllore dei corpi celesti. Egli è lo splendore degli splendori. Pregalo così:
"M'inchino ai monti orientali che salutano il sole al mattino e ai monti occidentali che da lui si congedano la sera. M'inchino al Signore di tutte le costellazioni e del giorno e della notte. M'inchino a lui, vittorioso e fausto, il cui successo è di beneficio al mondo; i cui cavalli verdi indicano la sua generosità e benevolenza. M'inchino a lui, feroce e coraggioso, che avanza nello spazio raccogliendo l'essenza di tutti gli elementi del mondo fenomenico. M'inchino all'entusiasmo che ispira il sole, alla cui presenza si schiudono i fiori di loto. M'inchino al Signore creatore, sostenitore e distruttore; alla personalità effulgente, eminente e colta che tutto consuma, e che guarda furente e minaccioso al male. M'inchino al Signore della luce, distruttore delle tenebre e della nebbia; al dio di gratitudine immensa, il cui splendore nuoce solo a chi gli è ingrato. M'inchino a colui che splende come l'oro fuso, il cui volto infuocato nasconde un cuore generoso; a colui che ha formulato e segue le leggi dell'intera creazione, e le dona luce disperdendo le tenebre".
"Il sole, o Rama, è il creatore e il distruttore di tutto, sveglio anche in chi dorme, signore di tutte le azioni. Colui che adora il sole non dispera, ma supera le paure e le calamità. Ora stesso tu vincerai Ravana". Detto questo, Agastya si ritirò. Rama sorseggiò dell'acqua, guardò il sole, recitò la preghiera e avanzò contro Ravana con il cuore colmo di gioia.
Nel frattempo il pilota di Ravana aveva riportato il carro sul campo di battaglia. Rama disse a Matali: "Ti prego, stai calmo e attento, perché è giunto il momento di uccidere il demone. È vitale che tu non sia confuso o preso dall'ansia, ma guidi con attenzione e destrezza. Sono sicuro che essendo il pilota di Indra, non hai bisogno che ti dica queste cose. Tuttavia te le ricordo non per ammonirti, ma perché tutto il mio essere è concentrato in questo combattimento!".
La battaglia finale tra Rama e Ravana cominciò. Ravana vide moltissimi cattivi presagi. Rama vide molti buoni e fausti auspici. Conoscendone il significato, Rama fu felice; e questo accrebbe molto la sua forza e il suo valore.
Quando Rama e Ravana cominciarono a combattere, i loro eserciti rimasero stupiti a guardarli! Rama era determinato a vincere. Ravana era sicuro di morire. Sapendo questo, essi combatterono con tutta la loro energia. Ravana mirò allo stendardo sul carro di Rama; e Rama tirò similmente allo stendardo di Ravana. Ma mentre quello di Ravana cadde, quello di Rama restò in alto. Poi Ravana mirò ai 'cavalli' (motori) del carro di Rama; ma nonostante li attaccasse con tutte le sue forze, essi rimasero intatti.
Tutti e due usarono migliaia di missili, che illuminarono lo spazio e vi crearono quasi un nuovo cielo! Ambedue erano precisi e i loro missili colpivano immancabilmente il bersaglio. Con zelo incessante, essi si combatterono senza mostrare il minimo segno di stanchezza. Quello che faceva l'uno, per contro faceva anche l'altro.
Ravana tirò a Matali, che però rimase illeso; poi lanciò una pioggia di mazze e magli contro Rama. Lo stesso suono che produssero agitò gli oceani e tormentò le creature acquatiche. Gli esseri celesti e i santi brahmana che guardavano pregarono: "Possa la buona sorte arridere a tutti gli esseri viventi, possa il mondo durare per sempre. Possa Rama vincere Ravana". Stupiti dal modo in cui si combattevano Rama e Ravana, i saggi dicevano: "Il cielo è come il cielo, l'oceano è come l'oceano; il combattimento tra Rama e Ravana è come Rama e Ravana: incomparabile".
Prendendo un missile potente, Rama mirò preciso alla testa di Ravana, che cadde. Ma un'altra cesta apparve al suo posto. Ogni volta che Rama recideva la testa di Ravana, ne appariva un'altra! Rama era perplesso. Il suo auriga Matali gli disse: "Perché combatti come un comune guerriero, Rama? Usa il missile di Brahma. L'ora della morte del demone e giunta", Rama si ricordò del missile di Brahma che gli aveva dato il saggio Agastya. Esso aveva come 'ali' il potere del dio del vento, come testa il potere del fuoco e del sole; l'intero spazio era il suo corpo; aveva il peso di una montagna e brillava come il sole o il fuoco di nemesi. Quando Rama lo prese nelle sue mani, la terra tremò e tutti gli esseri viventi furono terrorizzati. Infallibile nel suo potere distruttivo, quest'arma di distruzione estrema mandò in frantumi il petto di Ravana ed entrò profondamente nella terra.
Ravana cadde morto. I demoni superstiti fuggirono, inseguiti dai vanara. I vanara urlarono in gran giubilo. L'aria risuonò dei tamburi celesti. Gli dèi lodarono Rama. La terra tornò calma, il vento soffiò dolcemente e il sole tornò a splendere come prima, Rama fu circondato dai potenti eroi e dagli dèi, che si congratularono con lui per la vittoria.
Vedendo Ravana giacere a terra morto, Vibhishana scoppiò in lacrime. Sopraffatto dall'affetto fraterno, si lamentò: "Ahimè, quello che avevo predetto si è avverato. Tu non hai accolto il mio consiglio, preso com'eri dalla lussuria e dall'illusione. Ora che sei andato via, anche la gloria di Lanka è andata via con te. Tu eri come un albero fermamente radicato nell'eroismo, che aveva come forza l'ascetismo e manifestava fermezza in ogni aspetto della tua vita: eppure sei stato abbattuto. Tu eri come un elefante di grande splendore e nobile dinastia, pieno d'indignazione e affabilità: eppure sei stato ucciso. Tu, che eri come un fuoco ardente, sei stato estinto da Rama", Rama s'avvicinò all'affranto Vibhishana e con amore e gentilezza gli disse: "Non è giusto che ti dolga così per un potente guerriero caduto in battaglia. La vittoria non è monopolio di alcuno: un eroe o viene ucciso in battaglia o uccide il suo avversario. Perciò i nostri antichi saggi decretarono che non bisogna piangere per un guerriero ucciso in combattimento . Alzati e pensa a cosa bisogna fare adesso".
Vibhishana riacquistò la sua compostezza e disse a Rama: "Ravana dava molto in carità agli asceti; si godeva la vita; teneva bene i suoi servi; divideva le sue ricchezze con gli amici, e distruggeva i suoi nemici. Era regolare nelle sue osservanze religiose e conosceva bene le Scritture. Con la tua grazia, Rama, vorrei celebrare il suo funerale secondo le Scritture, per il suo benessere nell'altro mondo".
Rama fu contento e rispose: "L'ostilità termina con la morte. Fai pure le debite preparazioni per il rito funebre. Egli è tanto tuo fratello quanto mio".
Le cortigiane e le mogli di Ravana, udendo della sua morte, corsero fuori del palazzo e, giunte sul campo di battaglia, si rotolarono a terra in preda all'angoscia.
Piangendo sopraffatte dal dolore, esse manifestarono i loro sentimenti in diversi modi strazianti: "Ahimè, colui che non poteva essere ucciso in battaglia né dagli dèi né dai demoni è stato ucciso da un uomo di questa terra! Nostro amato signore! Certo quando hai rapito Sita e l'hai portata a Lanka, hai invitato la tua morte! E siccome la tua morte era alle porte, non hai ascoltato il saggio consiglio di Vibhishana, e l'hai trattato male ed esiliato. Anche dopo, se avessi restituito Sita a Rama, questa cattiva sorte non si sarebbe abbattuta su di te. Tuttavia ora non sei morto perché facevi quello che desideravi, o perché ti facevi prendere dalla lussuria; la volontà di Dio fa fare alle persone diverse azioni. Muore chi viene ucciso dalla volontà divina. Nessuno può sfuggire alla volontà divina, nessuno può comprarla o corromperla".
Inconsolabile nel suo dolore, Mandodari, la moglie di Ravana, si lamentò; "Signore, nessuno nei tre mondi poteva conquistarti. Neanche Indra e gli dèi potevano affrontarti: com'è possibile che un mero mortale ti abbia ucciso? Di sicuro questo Rama non è altri che l'Essere Supremo, senza inizio, mezzo o fine, il più grande tra i grandi, eterno e inamovibile. Egli ha preso questa forma umana per il bene di tutti gli esseri. Circondato da dèi nelle sembianze di vanara, avendo prima conquistato i sensi, ora egli ti ha ucciso. Ciò era evidente fin da quando uccise Khara, e quando Hanuman devastò Lanka per grazia sua. Ahimè, condannato dal destino hai cercato di sedurre Sita. In quell'occasione non sei stato ridotto in cenere perché il dio del fuoco aveva paura di te. Ma non si può sfuggire alle conseguenze delle proprie azioni. Vibhishana, che prese rifugio in Rama, ora gode di buona fortuna, mentre tu che hai peccato contro di lui sei morto. Non era necessario per te cercare Sita: ella non mi è affatto pari in bellezza, discendenza o cultura. Ma cercando lei, tu cercavi la tua morte. Ahimè, come andavamo felici sulle montagne: ora il tuo bel corpo è stato distrutto dai missili di Rama. È difficile credere che tu che eri il terrore di dèi, demoni, saggi e asceti, e adepto nella magia, abbia potuto fare questa fine. Ora sei partito, portando con te il tuo karma; ma noi restiamo sole. Certo il mio cuore è duro: come posso vivere quando tu sei morto? Guarda come noi vedove siamo uscite di corsa dai nostri appartamenti senza i veli: come mai non sei adirato per questo? Ho sentito dire che le lacrime di una moglie fedele non sono mai versate invano: le lacrime versate da Sita hanno causato la tua fine. Le maledizioni di tutte le caste donne da te molestate hanno prodotto questo frutto amaro". Mentre continuava a lamentarsi, le altre donne cercarono di consolarla: "Orsù, non disperare. Non sai che le fortune dei re sono fugaci?".
Rama invitò Vibhishana a celebrare i riti funebri. Vibhishana pensava: "Ravana era malvagio, e se io lo onorassi celebrando i suoi riti funebri, il popolo mi guarderebbe con disprezzo". Ma Rama ribadì il suo pensiero: "L'ostilità termina con la morte. Egli è tanto tuo fratello quanto mio. Che i riti procedano".
I brahmana che conoscevano le ingiunzioni delle Scritture prepararono la pira funeraria seguendo strettamente le regole vediche. Verso la fine del rito, Vibhishana diede fuoco alla pira funeraria.
Tutti tornarono in città. Quando le donne di corte rientrarono nel palazzo, Vibhishana restò in piedi vicino a Rama, guardandolo umilmente. Rama aveva deposto la sua arma e i missili una volta per sempre, ed era tornato dolce e gentile come prima.

[NOTA: La menzione specifica di brahmana e anche di riti vedici mostra che i demoni non erano esseri distinti dagli umani, ma che solo il loro comportamento era diabolico.]

Rama fece ritorno all'accampamento dove stazionavano le truppe vanara. Quindi si rivolse a Lakshmana dicendo: "Fratello, installa Vibhishana sul trono e consacralo re di Lanka. Egli mi ha reso un servizio inestimabile e desidero vederlo subito sul trono di Lanka".
Senza perdere un attimo, Lakshmana fece i preparativi necessari e con l'acqua dell'oceano consacrò Vibhishana re di Lanka, seguendo strettamente le ingiunzioni delle Scritture. Rama, Lakshmana e gli altri gioirono. I capi dei demoni portarono i loro tributi e li offrirono a Vibhishana, che a sua volta li pose ai piedi di Rama.
Rama disse ad Hanuman: "Con il permesso di re Vibhishana, ti prego di andare a informare Sita della morte di Ravana e che io e Lakshmana stiamo bene". Hanuman parti subito per il boschetto di asoka. L'addolorata Sita fu felice di vederlo. Con le mani giunte, Hanuman riferì il messaggio di Rama e aggiunse: "Rama vuole che ti dica che non devi avere più paura, perché ora che Vibhishana è re di Lanka sei come a casa tua".
Per un attimo Sita fu senza parole, poi disse. "Sono felice del messaggio che mi hai portato, Hanuman. Non trovo parole. Mi dispiace che adesso non ho nulla per ricompensarti; né alcun dono sarebbe all'altezza delle meravigliose notizie che mi hai portato".
Hanuman rispose umilmente: "Signora, le stesse parole da te pronunciate sono più preziose di tutti i gioielli del mondo! Mi considero supremamente beato di aver visto la vittoria di Rama e la morte di Ravana". Ancora più felice, Sita disse; "Solo tu, Hanuman, puoi pronunciare parole tanto dolci, ricco come sei di tantissime qualità. Davvero tu sei dimora di molte virtù", Hanuman disse: "Ti prego, dammi il permesso di uccidere queste demonesse che ti hanno a lungo tormentato". Sita rispose; "No, Hanuman, esse non sono responsabili delle loro azioni, perché hanno solo obbedito agli ordini del loro padrone. È stato il mio cattivo destino che mi ha fatto soffrire per mano loro. Perciò le perdono. L'uomo nobile non riconosce il male fattogli dagli altri; e non si vendica mai, perché egli è l'incarnazione della bontà. Bisogna essere compassionevoli con tutti, buoni e cattivi, e anche con coloro che meriterebbero la morte: chi è libero da peccato?".
Commosso dalle parole di Sita, Hanuman disse "Davvero tu sei la nobile consorte di Rama, a lui pari in virtù e nobiltà. Ti prego di darmi un messaggio da portare a Rama". Sita rispose: "Ti prego di dirgli che desidero ardentemente vedere il suo volto". Assicurandole che lo avrebbe visto quel giorno stesso, Hanuman tornò da Rama.
Hanuman riferì il messaggio di Sita a Rama, che volgendosi a re Vibhishana disse: "Ti prego, porta al più presto Sita da me, dopo che avrà fatto un bagno e si sarà adornata". Vibhishana andò subito da Sita e la fece portare da Rama seduta in un palanchino. Vanara e demoni l'attorniarono, ansiosi di vederla. Secondo la tradizione, Vibhishana voleva che nessuno vedesse Sita; perciò fece allontanare tutti. Fermandolo, Rama disse: "Perché li rimproveri, Vibhishana? Né case né vestiti né mura fungono da velo per una donna; solo il carattere è il suo velo. Che scenda dal palanchino e cammini verso di me". E così ella fece.
Rama disse duramente: "Sita, il mio scopo è stato raggiunto. Tutti hanno visto il mio valore. Ho adempiuto la mia promessa. La malvagità di Ravana è stata punita. L'impresa straordinaria di Hanuman ha dato frutto. La devozione di Vibhishana è stata ricompensata". Il cuore di Rama era in conflitto, timoroso com'era dello scherno pubblico. Perciò continuò: "Desidero che tu sappia che tutto questo non è stato fatto per te, ma per mantenere il mio onore. La tua condotta è aperta al dubbio, perciò anche la tua vista mi è spiacevole. Il tuo corpo è stato toccato da Ravana: e come potrei toccarti io, che appartengo a una nobile famiglia? Perciò ti permetto d'andare dove vuoi e di vivere con chi vuoi: Lakshmana, Bharata, Satrughna, Sugriva o anche Vibhishana. Mi è difficile credere che Ravana, che ti desiderava tanto, sia stato capace di tenersi lontano da te per tanto tempo".
Sita fu scossa. Le parole di Rama ferirono il suo cuore. Le sue guance s'inondarono di lacrime. Asciugandole, ella rispose: "O Rama, tu mi parli nel linguaggio di un uomo comune e volgare che parla a una donna comune. Quello che era sotto il mio controllo, il mio cuore, è stato sempre tuo. Come potevo impedire che il mio corpo fosse toccato quando ero indifesa e sotto il dominio di un altro? Ah, se solo mi avessi fatto sapere del tuo sospetto quando Hanuman è venuto a cercarmi, mi sarei tolta la vita allora e ti avrei risparmiato tutti questi guai e il rischio implicito nella guerra". Rivolgendosi al cognato, ella disse: "Accendi il fuoco, Lakshmana: è l'unico rimedio. Non vivrò sopportando questa calunnia".
Lakshmana guardò Rama e con la sua approvazione accese il fuoco. Sita pregò: "Se il mio cuore è stato sempre devoto a Rama, che il fuoco mi protegga. Se sono stata fedele a Rama in pensieri, parole ed opere, che il fuoco mi protegga. Il sole, la luna, il vento, la terra e altri sono testimoni della mia purezza; che il fuoco mi protegga", Poi ella entrò nel fuoco, come un'oblazione gettata nel fuoco sacro. Gli dèi e i saggi erano testimoni. Le donne che guardavano si misero a urlare.
Rama fu commosso fino alle lacrime dalle urla strazianti delle donne che assistevano all'auto-immolazione di Sita. Intanto tutti gli dèi, compresa la Trinità - il Creatore, il Conservatore e il Redentore (o il Trasformatore) - giunsero sul posto nelle loro forme personali. Salutando Rama, essi dissero: "Tu sei l'eccelso tra gli dèi, e tuttavia tratti Sita come se fossi un comune essere umano!".
Rama rispose alle divinità: "Io mi considero un essere umano, Rama, figlio di Dasaratha. Chi io sia e da dove provenga, potete dirmelo voi!".
Brahma, il Creatore, disse: "In verità tu sei il Signore Narayana. Tu sei l'Essere cosmico imperituro. Tu sei la verità. Tu sei eterno, Tu sei il Dharma supremo dei mondi. Tu sei il padre di Indra, il re degli dèi. Tu sei il solo rifugio dei santi e degli esseri perfetti. Tu sei l'Om, tu sei lo spirito del sacrificio. Tu sei l'essere cosmico che ha infinite teste, mani e occhi. Tu sei il sostegno dell'intero universo. L'intero universo è il tuo corpo. Sita è Lakshmi e tu sei il Signore Vishnu, che è di colorito scuro ed è il creatore di tutti gli esseri. Tu sei entrato in un corpo umano per distruggere Ravana. Tu hai realizzato pienamente il nostro scopo. È una benedizione essere alla tua presenza; è una benedizione cantare le tue glorie. Sono veramente beati quelli che ti sono devoti, poiché la loro vita sarà colma di successo". Non appena Brahma terminò di parlare, il dio del fuoco emerse dalle fiamme nella sua forma personale, sostenendo Sita con le sue mani. Sita brillava di tutto il suo splendore. Il dio del fuoco, testimone di tutto ciò che accade nel mondo, disse a Rama: "Ecco la tua Sita, Rama. Io non trovo alcuna colpa in lei. Ella non ha errato, in pensieri, parole o opere. Anche durante il suo lungo periodo di detenzione nella dimora di Ravana, ella non lo ha neanche pensato, poiché nel suo cuore c'eri sempre e solo tu. Accettala: non trattarla duramente e non nutrire il minimo dubbio su di lei".
Estremamente felice di come erano andate le cose, Rama disse: "In verità, ero pienamente consapevole della purezza di Sita. Neanche il potente e malvagio Ravana poteva mettere le mani su di lei con cattive intenzioni. Tuttavia questo battesimo con il fuoco è stato necessario, per evitare le calunnie e lo scherno del popolo; perché sebbene fosse pura, ella ha vissuto a Lanka per molto tempo. Io sapevo anche che Sita non mi sarebbe mai stata infedele: poiché noi non siamo differenti l'uno dall'altra, come il sole e i suoi raggi. Perciò per me è impossibile rinunciare a lei".
Detto ciò, Rama fu felicemente riunito a Sita.
Poi il signore Shiva disse a Rama: "Tu hai compiuto un'impresa difficilissima. Ora guarda tuo padre, l'illustre re Dasaratha, che appare nel firmamento per benedirti e salutarti."
Rama e Lakshmana videro quel grande monarca, loro padre, avvolto in un abito di purezza luminoso del proprio splendore. Ancora seduto nel suo veicolo celeste, Dasaratha sollevò Rama e, ponendoselo in grembo, l'abbracciò teneramente e disse: "Né il paradiso né l'omaggio degli dèi è per me tanto piacevole quanto rivedere te, Rama. Sono felice di vedere che hai completato con successo il periodo del tuo esilio e che hai distrutto tutti i tuoi nemici. Ancora adesso le crudeli parole di Kaikeyi mi tormentano il cuore; ma rivedendoti e abbracciandoti, quel dolore svanisce. Mantenendo la mia parola, tu mi hai salvato. Solo ora riconosco che sei la Persona Suprema incarnatasi in questo mondo come essere umano per uccidere Ravana".
Rama disse; "Ricordi che dicesti a Kaikeyi 'Io ripudio te e tuo figlio'? Ti prego, ritira quella maledizione, perché essa non affligga Kaikeyi e Bharata". Dasaratha fu d'accordo. Poi egli si rivolse a Lakshmana: "Sono contento di te, figlio mio; tu hai guadagnato un grande merito con il servizio fedele reso a Rama".
Infine re Dasaratha disse a Sita: "Amata figlia mia, non prendertela per la prova del fuoco alla quale Rama ti ha costretto a sottoporti: essa era necessaria per rivelare al mondo la tua assoluta purezza. Con la tua condotta sei stata esaltata sopra tutte le donne". Dopo avere parlato con loro, Dasaratha ascese in cielo.
Prima di congedarsi da Rama, Indra pregò: "La nostra visita a te non dev'essere infruttuosa, Rama. Comandami, cosa posso fare per te?". Rama rispose: "Se davvero sei compiaciuto di me, allora prego che tutti i vanara che hanno dato la loro vita per me possano tornare a vivere. Desidero vederli allegri e vigorosi come prima. Desidero anche vedere il mondo intero fertile e prosperoso".
Indra rispose: "Questa è davvero una cosa molto difficile; tuttavia non ritiro la mia parola, e quindi esaudirò la tua preghiera. Tutti i vanara torneranno in vita nelle loro forme di prima, con tutte le ferite sanate . E come tu hai chiesto, il mondo sarà fertile e prosperoso". In quell'istante tutti i vanara risuscitarono dai morti e s'inchinarono a Rama. Gli altri che erano testimoni furono pieni di meraviglia, e gli dèi videro che Rama aveva avuto appagati tutti i suoi desideri. Infine gli dèi fecero ritorno alle loro rispettive dimore.
Vibhishana s'avvicinò a Rama e gli disse: "Ti prego, Rama, ti è stato preparato un bagno, e anche vestiti e ornamenti da indossare".
Rama però rispose: "Che me ne faccio di bagno, vestiti e ornamenti, se prima non vedo il nobile Bharata? O Vibhishana, puoi trovare un modo che ci consenta di tornare rapidamente ad Ayodhya?".
Vibhishana rispose: "Certamente, Rama. Farò in modo che possiate tornare ad Ayodhya in un solo giorno. Abbiamo qui il velivolo celeste chiamato Pushpaka che mio fratello Ravana strappò con la forza a Kubera, il dio della prosperità. Ora è in mio possesso, ma al tuo servizio. Esso somiglia ad una nuvola e come una nuvola è capace di volare nel cielo; con esso potrai raggiungere facilmente Ayodhya senza alcun problema".
Vibhishana fece portare subito l'aeromobile chiamato Pushpaka. Questo era come un grande palazzo; splendente come il sole, fatto interamente di oro e diamanti. Persino Rama rimase senza parole nel vederlo.
Poi Rama disse a Vibhishana: "Tutti questi vanara, e altri, ti hanno aiutato a portare a compimento la tua grande missione . Perciò è giusto che li onori e li ricompensi con ricchezze e gioielli".
Vibhishana fece secondo il desiderio di Rama. Dopo avere assistito alla distribuzione dei doni, Rama si preparò a partire per Ayodhya. Prima di salire a bordo del velivolo egli si rivolse ai capi vanara riuniti: "Voi mi avete considerato come vostro amico, e mi avete reso un grandissimo servizio. Ora potete tornare alle vostre dimore. O Sugriva, anche tu ora puoi tornare a Kishkindha accompagnato dalle tue truppe. Vibhishana, ti prego, consolida il regno di Lanka, che adesso è tuo. Con il vostro permesso, faccio ritorno ad Ayodhya".
A nome dei capi vanara e dei principali demoni, Víbhishana espresse a Rama il loro desiderio: "Anche noi, Rama, desidereremmo accompagnarti ad Ayodhya. Siamo tutti desiderosi di assistere alla tua incoronazione. Inoltre vorremmo tributare personalmente i nostri omaggi a madre Kausalya. Per favore, esaudisci la nostra preghiera".
Felice di udire questo, Rama rispose: "Certamente, il vostro desiderio aumenta la mia gioia e intensifica la mia delizia. Il mio ritorno ad Ayodhya circondato da tutti i miei amici, aumenterà la gioia e la felicità di Bharata e di tutti coloro che ci stanno aspettando".
Felici di avere avuto il permesso di Rama, Sugriva e i capi vanara, e anche Vibhishana e i suoi ministri, salirono a bordo del magnifico aeromobile Pushpaka.
Con il permesso di Rama, l'aeromobile Pushpaka decollò emettendo un forte boato. Sorvolando la città di Lanka, il campo di battaglia e altri luoghi, Rama li indicò a Sita dicendo; "Guarda la città di Lanka costruita in cima al monte Trikuta!". In tal modo egli continuò a indicarle tutti i punti principali sopra i quali volavano. Mentre stavano sorvolando il territorio di Kishkindha. Sita disse a Rama: "Signore, mi piacerebbe tornare ad Ayodhya in compagnia delle mogli di Sugriva e degli altri capi vanara".
Rama ordinò che l'aeromobile atterrasse e quindi disse a Sugriva: "Fa' che le mogli dei capi vanara salgano a bordo il più presto possibile così che anche loro ci accompagnino ad Ayodhya". Sugriva annunciò la bella notizia alle donne di Kishkindha; "Noi tutti saremo testimoni del trionfante rientro di Rama ad Ayodhya". Senza alcun indugio esse salirono a bordo, e l'aeromobile decollò di nuovo.
Rama continuò a mostrare a Sita i diversi luoghi visitati nel corso del suo peregrinare. Il monte Rshyamuka, il lago Pampa, l'eremitaggio di Sabari, la foresta Janasthana dove Sita era stata rapita, e anche il luogo dov'era caduto Jatayu. Egli mostrò anche a Sita il loro eremitaggio.
Più in là le mostrò il fiume Godavari, l'eremitaggio di Agastya, gli eremitaggi di Sarabhanga e Sutikshna e quello del saggio Atri; le fece vedere Citrakuta, dove Bharata era andato a incontrarlo, l'eremitaggio di Bharadvaja, il fiume Gange e la dimora di Guha. Infine, indicandole Ayodhya, Rama disse: "Ecco laggiù Ayodhya! Ti prego, Sita, inchinati ad Ayodhya, ora che vi sei ritornata sana e salva".
Però ancor prima di raggiungere Ayodhya, Rama atterrò vicino all'eremo del saggio Bharadvaja, s'inchinò a lui e chiese notizie di Bharata e degli altri membri della famiglia ad Ayodhya.
Bharadvaja disse; "Vestito come un asceta, Bharata attende con ansia il tuo ritorno, venerando i tuoi sandali posti sul trono. Tutti stanno bene ad Ayodhya". Inoltre il saggio rivelò di conoscere già tutto quello che era successo a Rama a partire dal loro ultimo incontro. "Allora ero triste di vederti andare nella foresta; ora sono felice di vederti tornare al tuo regno", disse il saggio, e aggiunse: "Esprimi un desiderio, Rama, e io lo esaudirò".
Rama chiese: "Possano tutti gli alberi sul nostro cammino dare frutto, anche se questa non è la loro stagione. E che lungo la nostra strada ci sia abbondanza di miele". Il saggio disse: "E così sia". E subito, meraviglia delle meraviglie, tutti gli alberi nelle vicinanze si coprirono di frutti e miele. Tutti i vanara ne godettero a sazietà. Per volere del saggio, Rama trascorse un giorno nel suo eremo.
Benché Rama avesse accettato con piacere di trascorrere un giorno all'eremo del saggio Bharadvaja, egli era molto preoccupato per Bharata e considerò seriamente cosa fare.
Fatto avvicinare Hanuman, Rama gli disse: "Ti prego, Hanuman, recati immediatamente a Sringaverapura. Là incontrerai Guha, che è un mio grande amico, a me molto caro. Egli ti indicherà la strada per Ayodhya. Arrivato ad Ayodhya incontra Bharata e raccontagli tutto quello che mi è successo dal mio incontro con lui quattordici anni fa fino ad ora. Ti prego inoltre d'informarlo che domani arriverò ad Ayodhya, insieme a Sugriva e a Vibhishana. Ti prego di notare con molta attenzione quale sarà la sua reazione alla notizia che gli darai. Osserva ogni suo gesto e ogni espressione del suo volto. Nota se la notizia Io rende felice o se invece lo rattrista. É molto difficile per uno che ha goduto dei poteri del regno non essere influenzato dal desiderio di mantenerli. Se sentirai che Bharata vorrà continuare a regnare, sarò felicissimo di fargli governare il mondo intero".
Con le benedizioni di Rama, Hanuman partì immediatamente per Sringaverapura. Là incontrò Guha, e dopo essersi presentato gli comunicò la lieta notizia del ritorno di Rama.
Hanuman riprese il suo volo e raggiunse il piccolo villaggio di Nandigrama, non lontano dalla città di Ayodhya. Là vide il nobile Bharata, l'immagine stessa del dolore e dell'angoscia, che vestito con indumenti ascetici conduceva una vita estremamente austera.
Avvicinandosi a lui con le mani giunte, Hanuman disse a Bharata, che ben conosceva il Dharma e appariva come l'incarnazione stessa del Dharma: "Il beato Rama sta bene e chiede di te. Presto lo vedrai qui". Bharata svenne dalla gioia. Quando riprese i sensi versò lacrime di gioia e disse ad Hanuman: "Che tu sia un uomo o un dio, certo sei venuto qui mosso a compassione verso di me". Poi offrì ad Hanuman migliaia di vacche ed altre cose come dono di gioia.
Bharata gli chiese: "Ti prego, raccontami tutto. Come ha fatto Rama a ottenere l'amicizia dei vanara, e cosa avvenne dopo?". Per rispondere a quella domanda, Hanuman raccontò brevemente a Bharata l'intera storia di Rama. E concluse: "Su richiesta del saggio Bharadvaja, Rama ha deciso di trascorrere un giorno nel suo eremitaggio; per questo ha inviato me ad annunciarti la buona notizia. Domani - nell'ora propizia del Pusyayoga - tu vedrai Rama, che ha già raggiunto le sponde del sacro Gange e ora si trova nell'eremo del saggio Bharadvaja".
Udendo questo, Bharata fu immensamente felice.
Bharata diede subito inizio ai preparativi per l'accoglienza. Egli istruì Satrughna: "Che in tutti i templi e in tutti i luoghi di adorazione si offrano agli dèi delle preghiere di ringraziamento, con fiori fragranti e strumenti musicali".
Senza perdere tempo, Satrughna ordinò che si livellassero e annaffiassero le strade lungo le quali il corteo reale sarebbe giunto al palazzo, e che centinaia di militari formassero un cordone per tenerle sgombre. Ben presto tutti i ministri e migliaia di uomini con elefanti, cavalli e carri, uscirono per salutare, Rama. Il gruppo della famiglia reale si recò a Nandigrama guidato dalla stessa regina madre Kausalya, seduta nel suo palanchino. Quindi seguivano Kaikeyi e tutti gli altri membri della corte reale.
Da lì, Bharata guidò il corteo tenendo i sandali di Rama sulla testa, accompagnato dal parasole bianco e dalle altre insegne reali. Bharata era l'immagine stessa di un asceta e dal suo volto radiava la gioia che riempiva il suo cuore al solo pensiero del ritorno di Rama nel regno.
Bharata si guardava ansiosamente intorno, ma non vedeva alcun segno del ritorno di Rama. Hanuman lo rassicurò: "Ascolta, Bharata, ora puoi sentire il rombo dell'aeromobile Pushpaka. E guarda la nuvola di polvere sollevata dai vanara che corrono verso Ayodhya".
"Rama è tornato!" - queste parole furono pronunciate da migliaia di persone nello stesso tempo. Ancor prima che il Pushpaka atterrasse, Bharata salutò umilmente Rama, che era seduto nella parte anteriore dell'aeromobile. Il Pushpaka atterrò. Quando Bharata s'avvicinò, Rama lo abbracciò e lo pose sul suo grembo. Bharata s'inchinò a Rama e a Sita, e salutò Lakshmana. Poi abbracciò Sugriva, Jambavan, Angada, Vibhishana ed altri. Quindi disse a Sugriva: "Noi siamo quattro fratelli, e con te siamo cinque. Le buone azioni promuovono l'amicizia, mentre il male è un segno d'inimicizia".
Rama s'inchinò a sua madre, che per il dolore era diventata emaciata, e portò grande gioia nel suo cuore. Poi s'inchinò pure davanti a Sumitra e a Kaikeyi. Infine tutti quanti gli dissero: "Benvenuto, bentornato, Signore".
Ponendo i sandali di fronte a Rama, Bharata disse: "Rama, ecco il tuo regno, che ho amministrato per te durante la tua assenza. Mi considero infinitamente benedetto di poter assistere al tuo ritorno ad Ayodhya. Con la tua grazia, il tesoro è stato da me decuplicato, e così pure i granai e la forza della nazione". Rama si sentì felice. Dopo che tutti furono scesi, Rama ordinò che l'aeromobile Pushpaka fosse restituito al suo vero proprietario, Kubera.
Bharata diede immediatamente inizio alle procedure per l'incoronazione. Barbieri esperti tagliarono le ciocche intrecciate dal capo di Rama. Egli fece un bagno cerimoniale e fu vestito con magnifici abiti e adornato con gioielli reali. Kausalya stessa aiutò le donne vanara a vestirsi con abiti reali. Tutte le regine vestirono Sita in maniera adeguata alla grande occasione. Fu portato il cocchio reale, e salendovi sopra, Rama, Lakshmana e Sita furono portati in trionfo lungo le strade di Ayodhya, con Bharata stesso che guidava il cocchio. Quando giunsero a corte, Rama narrò brevemente ai suoi ministri e consiglieri gli eventi principali del suo esilio, sottolineando in particolare l'alleanza con il capo vanara Sugriva e le imprese straordinarie di Hanuman. Egli li informò anche della sua alleanza con Vibhishana.
Su richiesta di Bharata, Sugriva inviò i migliori vanara a prendere dell'acqua dai quattro oceani e da tutti i fiumi sacri del mondo. Poi l'anziano saggio Vasishtha diede inizio alle cerimonie connesse all'incoronazione. Rama e Sita sedettero su un trono fatto interamente di pietre preziose. Allora l'eccelso tra i saggi consacrò Rama cantando gli inni vedici appropriati. Dapprima i brahmana, e poi le vergini, i ministri, i guerrieri e infine gli uomini di commercio versarono le sacre acque su Rama. Dopo di questo il saggio Vasishtha fece sedere Rama sul trono d'oro intarsiato di gioielli, e gli pose sul capo la corona splendente che era stata fatta dallo stesso Creatore Brahma. Gli dèi ed altri tributarono i loro omaggi a Rama, offrendo magnifici doni. Anche Rama fece ricchi doni ai brahmana e ad altri, ivi compresi Sugriva e gli altri capi vanara.
Poi Rama diede a Sita una collana di perle, dicendole: "Puoi darla a chiunque desideri". Senza alcun indugio Sita diede quel magnifico dono ad Hanuman.
Dopo aver partecipato all'incoronazione di Rama, i vanara fecero ritorno a Kishkindha, mentre Vibhishana e i suoi ministri tornarono a Lanka.
Rama guardò Lakshmana con grande affetto ed espresse il desiderio che egli regnasse come principe reggente. Lakshmana non rispose, perché non voleva quell'incarico. Allora Rama nominò Bharata principe reggente. Da quel giorno Rama governò la terra per moltissimo tempo.
Durante il regno di Rama non vi furono né povertà né crimine né paure né ingiustizie. Tutti parlavano costantemente di Rama. Il mondo intero era stato trasformato in Rama. Tutti erano devoti al Dharma; perché lo stesso Rama era totalmente devoto al Dharma. Egli regnò per undicimila anni.
L'amministrazione del regno sotto di Rama fu caratterizzata dalla prevalenza naturale e spontanea del Dharma. La gente era libera da ogni tipo di paura. Non c'erano vedove nel paese, e il popolo non era infastidito dai serpenti e dalle bestie feroci, né soffriva di alcuna malattia. Non c'erano furti né rapine né alcun tipo di violenza. I giovani non morivano e gli anziani non dovevano celebrare i riti funebri per loro. Tutti erano felici, tutti erano devoti al Dharma. Vedendo soltanto Rama in tutti, nessuno faceva del male a un altro. Le persone vivevano a lungo e avevano molti figli; godevano di ottima salute e non conoscevano il dolore. Dappertutto la gente parlava sempre di Rama; il mondo intero appariva come la forma di Rama. Gli alberi avevano radici imperiture, e davano sempre frutto ed erano in fiore tutto l'anno. La pioggia cadeva ogniqualvolta era necessaria. Vi era sempre una piacevole brezza. I brahmana (i sacerdoti), i guerrieri, gli agricoltori e i commercianti, e anche gli appartenenti alla classe servile, erano totalmente liberi dalla cupidigia ed erano gioiosamente dediti ciascuno al proprio Dharma e al proprio compito nella società. Non vi era falsità nella vita delle persone, che erano tutte giuste. La gente era dotata di tutte le qualità desiderabili e tutti avevano il Dharma come luce guida. Così Rama regnò sulla terra per undicimila anni, circondato dai suoi fratelli.
Questa sacra epica chiamata Ramayana, e composta dal saggio Valmiki, promuove il Dharma, la fama, la lunga vita e, nel caso di un re, la vittoria. Chi l'ascolta sempre viene liberato da tutti i peccati. Ascoltando la storia dell'incoronazione di Rama, chi desidera figli li ottiene, e chi desidera la prosperità la ottiene. Il re conquista il mondo intero, dopo aver vinto i suoi nemici. Le donne che ascoltano questa storia saranno benedette con figli come Rama e i suoi fratelli. E anche i loro figli riceveranno il dono di una lunga vita, dopo aver ascoltato il Ramayana. Chi ascolta o legge questo Ramayana, con tale atto propizia Rama. Egli si compiace di lui, e Rama è davvero l'eterno Signore Vishnu.

Lava e Kusa conclusero: "Questa è la gloriosa epica del Ramayana. Che tutti possano recitarla, accrescendo così la gloria del Dharma, del Signore Vishnu. Gli uomini giusti dovrebbero ascoltare regolarmente questa storia di Rama, che accresce la salute, la lunga vita, l'amore, la saggezza e la vitalità".

OM TAT SAT

FINE DEL YUDDHA KANDAM

 

 

 

 


Libro settimo: UTTARA KANDAM -Dopo l'incoronazione

Durante il regno di Rama, un giorno si recò da lui una delegazione di parecchi grandi saggi, con a capo Agastya. Il grande saggio disse alla guardia del palazzo: "Ti prego, fa' annunciare a Rama che noi Rishi desideriamo vederlo". Per ordine di Rama, i Rishi furono immediatamente condotti alla sua presenza.
Il re ricevette i saggi con l'onore dovuto. Dopo aver preso posto nella corte reale, essi dissero a Rama: "Noi stiamo bene e siamo felici, e siamo contenti di vedere che anche tu, Rama, stai bene e sei felice. Per fortuna hai ucciso Ravana, il nemico del mondo. Non c'è da stupirsi che tu abbia ucciso Ravana; quando prendi le armi tu sei capace di conquistare i tre mondi. Siamo particolarmente felici per la morte del figlio di Ravana. Quando abbiamo saputo della morte di Indrajit, che per tutti gli altri esseri dell'universo era invincibile, abbiamo gioito; e per questo ti offriamo le nostre più fervide felicitazioni. Invero quella è stata l'impresa più lodevole: con essa hai liberato tutti noi da una grande paura". Rama chiese: "Vi prego, saggi, ditemi perché considerate la vittoria su Indrajit ancora più lodevole di quella su Ravana? Come fece a diventare così potente?".
I saggi risposero: "Prima di narrarti la storia di Indrajit, dobbiamo narrarti quella di Ravana. Ascolta, o Rama. Durante il Satya Yuga (l'età dell'oro) c'era un saggio brahmano chiamato Pulastya. Egli era figlio di Dio e pari al Creatore Brahma. Praticò intense austerità nell'eremitaggio di Trinavindu. In quei giorni, le figlie dei saggi e dei semidèi solevano giocare nelle vicinanze dell'eremitaggio. Questo disturbava le austerità di Pulastya, che pronunciò una maledizione: "Chiunque s'avvicinerà a me rimarrà incinta".
"Tutte coloro che sapevano della maledizione evitavano di andargli vicino. Ma la figlia del saggio reale Trinavindu non ne era a conoscenza. Un giorno ella andò in cerca delle sue amiche. Pulastya era impegnato nella recitazione dei Veda, e la ragazza sedette vicino a lui per ascoltare. Ben presto ella notò che in lei stava avvenendo un cambiamento. Spaventata, corse da suo padre e in risposta alle sue domande gli raccontò l'accaduto. Allora Trinavindu la portò da Pulastya e gliela offrì in matrimonio dicendo: "O santo, quando sarai stanco per le tue austerità, ella ti conforterà".
"Pulastya l'accettò, e lei lo servì con grande amore e devozione. Compiaciuto, il saggio le disse: "Sono felicissimo del tuo servizio devoto. Perciò ti benedico con questa grazia: darai alla luce un figlio a me pari sotto ogni aspetto, egli sarà chiamato Paulastya, e anche Visrava poiché hai concepito mentre ascoltavi la mia recitazione dei Veda".
"La moglie di Pulastya diede presto alla luce un figlio a cui fu dato il nome di Visrava. Il saggio Bharadvaja seppe delle nobili virtù di Visrava e offrì all'asceta la mano di sua figlia.
"Dal loro matrimonio nacque un figlio radioso. Il nonno Pulastya fu lietissimo della nascita del nipote, al quale diede il nome di Vaisravana.
"Vaisravana prese la risoluzione di seguire il sentiero della virtù già da bambino, perché pensò: "Il Dharma è davvero il nobile sentiero, perciò seguirò il Dharma". E si mise a praticare intense austerità per mille anni. Il Creatore Brahma si manifestò davanti a lui insieme a tutti gli dèi e gli chiese di esprimere un desiderio. Vaisravana disse: "Signore, desidererei essere un protettore del mondo e il custode della sua ricchezza". Compiaciuto, Brahma gli rispose: "In verità avevo intenzione di nominare quattro protettori del mondo, tre dei quali li ho già scelti, e cioè: Yama, Indra e Varuna. Tu sarai dunque il quarto protettore del mondo, e sarai il custode della sua ricchezza. Sarai pari agli dèi del cielo". Inoltre Brahma gli fece dono di un aeromobile, il Pushpaka.
"Vaisravana tornò a casa, andò da suo padre e gli chiese d'indicargli un posto dove stabilire la sua dimora. Visrava rispose: "Lungo le rive del Mare Meridionale c'è un monte chiamato Trikuta. In cima a quel monte il divino architetto Visvakarma costruì per i demoni una città chiamata Lanka, pari in splendore alla capitale del cielo. Ma giacché i demoni l'hanno abbandonata per paura del Signore Vishnu, la città è rimasta disabitata. Penso che dovresti stabilire là la tua dimora". Il figlio obbedì".
In risposta alla domanda di Rama riguardo all'origine dei demoni, il saggio Agastya disse: In principio Brahma creò l'acqua, e poi gli altri esseri. Questi, oppressi dalla fame e dalla sete, implorarono: "Ti preghiamo, dicci cosa fare". Brahma rispose: "Proteggete con ogni mezzo". Alcuni dissero: "Noi proteggeremo". Altri risposero: "Noi adoreremo". "Coloro che hanno detto 'rakshama' (proteggere), saranno demoni" - disse Brahma - "e coloro che hanno detto 'yakshama' (adorare), saranno semidèi".
Tra i rakshasa (demoni) ci furono due fratelli: Heti e Praheti. La nuora di Heti aspettava un bambino. Ella indusse prematuramente il parto e, abbandonando il bimbo su un monte, andò con il marito a divertirsi. Il bambino cominciò a piangere. Rudra e Parvati, che passavano da quelle parti, benedissero il bambino perché diventasse subito adulto. Parvati decretò: "D'ora in poi le demonesse partoriranno subito dopo il concepimento dei figli che diventeranno immediatamente adulti".
Quel bambino era Sukesha, che grazie alla benedizione ricevuta da Rudra divenne un giovane nobile. A tempo debito un gandharva chiamato Gramani gli diede in sposa sua figlia Devavati, che in seguito diede alla luce tre bambini: Malyavan, Sumali e Mali. Questi tre demoni, venuti a conoscenza dei doni concessi dal Signore a loro padre, si ritirarono immediatamente nella foresta e praticarono intensissime austerità.
Compiaciuto, Brahma concesse loro il dono che avevano chiesto: "Desideriamo essere invincibili, longevi e uniti". Appena realizzarono il pieno significato del dono che avevano ricevuto, essi divennero impavidi e cominciarono ad opprimere sia gli dèi che i demoni.
Un essere celeste chiamato Narmada aveva tre figlie, che diede in matrimonio ai tre demoni; e dalle loro unioni nacquero altri demoni.
Gli dèi e i saggi che venivano tormentati dai demoni chiesero protezione al Signore Rudra. Ma Rudra rispose: "Io non posso ucciderli, ma vi darò il mio consiglio. Abbandonando ogni altra attività, andate dal Signore Vishnu; prendete rifugio in lui. Egli distruggerà certamente tutti quei demoni".
E così fecero: andarono da Vishnu e gli raccontarono le atrocità commesse dai demoni. Il Signore li consolò e, dopo aver conferito loro il dono dell'impavidità, disse: "So già che Sukesha è orgoglioso di avere ottenuto un dono da Rudra; conosco anche le malefatte dei suoi tre figli; ma non abbiate timore, vi prometto che li distruggerò tutti". Gli dèi tornarono nelle loro dimore.
Venuto a conoscenza del piano degli dèi, Malyavan informò gli altri due fratelli, che però non se ne curarono, sicuri che nessun potere nell'universo potesse sconfiggerli. Essi giunsero persino a dire: "Non abbiamo fatto nulla che possa aver causato dispiacere al Signore Vishnu; certo egli ha perso la testa montato dalla malizia degli dèi". Perciò decisero di combattere gli dèi.
Migliaia e migliaia di demoni si riunirono a Lanka per far guerra agli dèi. Salendo sui loro velivoli, e armati fino ai denti con armi micidiali, tutti quei feroci e potentissimi demoni volarono verso il cielo (il mondo degli dèi). Guidati dai tre fratelli, essi invasero la dimora degli dèi lanciando urla furiose.
Il Signore Vishnu venne a sapere dell'invasione e presto apparve personalmente sul campo di battaglia, impugnando le sue armi divine e guidando il suo veicolo divino, Garuda, grande quanto una montagna. Gli dèi e i saggi cantarono le sue glorie. I demoni lo circondarono ed egli cominciò a colpirli con le sue armi divine.
I demoni si diressero rapidamente verso il sacro monte chiamato Narayana Giri, scagliandosi contro il Signore Narayana o Vishnu come gli insetti si scagliano contro una fiamma. Il Signore li sbaragliò con una pioggia di missili e suonò la sua potente conchiglia. Quel suono stordì i demoni, che rimasero barcollanti e confusi. Il Signore Vishnu li distrusse a migliaia.
Sumali venne in aiuto dei demoni e fece loro da scudo contro la potenza del Signore. Allora il Signore Vishnu si volse contro il demone e gli staccò gli orecchini e anche i cavalli. Non più sotto il controllo del demone, i cavalli si misero a correre in diverse direzioni, come i sensi di un uomo senza autocontrollo.
Mali corse in aiuto del fratello, e vi fu una cruenta battaglia tra lui e il Signore Vishnu. Un missile del Signore colpì il demone assorbendone, per così dire, il sangue. Mali colpì Garuda, il veicolo del Signore, e con grande gioia dei demoni lo costrinse ad allontanarsi dal campo di battaglia. Non badando alla sconfitta, il Signore Vishnu lanciò contro Mali il suo disco, che possedeva lo stesso splendore del sole. Il demone cadde subito esanime.
Dopo la morte di Mali, Sumali e Malyavan si ritirarono dal campo e si diressero verso Lanka. Nel frattempo Garuda aveva riacquistato la sua vitalità e con la forza del vento che scaturiva dalle sue ali spinse i demoni alla disperazione.
Mentre il Signore Vishnu inseguiva i demoni in fuga, Malyavan gli disse: "Narayana! Non conosci il codice di condotta di un guerriero? Perché, contraddicendo quel codice, vuoi uccidere coloro che si sono ritirati dalla battaglia e che quindi non stanno combattendo?". Il Signore rispose: "Voi siete crudeli, e gli dèi vivono temendovi. La loro protezione mi è più cara della mia stessa vita. Perciò vi distruggerò dovunque vi troviate".
Queste parole scatenarono l'ira di Malyavan, che attaccò immediatamente il Signore con le sue potenti armi. Il Signore ricevette quei missili e li riscagliò contro lo stesso demone. Gravemente ferito, Malyavan rimase stordito per un po', pur riacquistando presto le forze. Quindi, con un potente urlo, egli colpì sia Vishnu che Garuda. Infuriato, Garuda indirizzò una terribile raffica di vento contro Malyavan che fuggì a Lanka. E vedendolo ritirarsi, anche Sumali scappò a Lanka. Incapaci di fronteggiare la potenza suprema del Signore Vishnu, i demoni guidati da Malyavan e Sumali si ritirarono nel mondo degli inferi, lasciando Lanka sotto le cure del signore della prosperità.
Ogni volta che sulla terra c'è un declino del Dharma, il Signore s'incarna per distruggere i demoni e ristabilire il Dharma.
Sumali rifletté a lungo e profondamente sulla sua posizione. Guardando la bellissima figlia, che era in età da marito, egli si chiedeva chi avrebbe avuto come sposo. Una ragazza crea molta ansia nelle famiglie del padre, della madre e del marito: la reputazione di queste famiglie dipende dalla sua buona condotta. Perciò Sumali disse alla figlia: "Ti prego, vai da Visrava, il figlio del saggio Pulastya, e persuadilo tu stessa ad essere tuo marito".
Kaikasi si recò presto dal saggio Visrava, che allora era impegnato in un grande rituale vedico. Alla conclusione del rito, il saggio le chiese: "Chi sei e perché sei qui?". La ragazza rispose: "Sono Kaikasi, figlia di Sumali. Il motivo per cui sono qui, di certo lo saprai per intuizione". Il saggio si ritirò dentro di sé e, saputo per quale ragione la ragazza era là, le disse: "Poiché hai cercato di me in un momento poco propizio, mentre ero impegnato in un rito terribile, darai alla luce dei figli molto crudeli, ma il tuo ultimo figlio sarà nobile e virtuoso come me".
A suo tempo Kaikasi diede alla luce un figlio o un mostro con dieci teste; e il saggio lo chiamò Dashagriva. Poi nacque Kumbhakarna. Quindi la figlia Surpanakha. Per ultimo nacque il pio Vibhishana. Essi crebbero rapidamente.
Un giorno Vaisravana (conosciuto anche col nome di Kubera) andò a trovare suo padre Visrava, e Kaikasi gli presentò Dashagriva. Il giovane s'ingelosì di Kubera e decise di superarlo in tutto. Allora i tre ragazzi si misero a praticare austerità. Kumbhakarna praticò il pancagni-tapas d'estate e restò immerso nell'acqua gelida d'inverno. Vibhishana rimase in piedi su una gamba per cinquemila anni. Dashagriva digiunava per mille anni e poi offriva in sacrificio una delle sue teste; in questo modo egli aveva già sacrificato nove teste. Mentre stava per offrire la decima, apparve Brahma e offrì loro un dono: "Esprimete un desiderio, perché i vostri sforzi non siano vani". Dashagriva disse: "Signore, tutti gli esseri temono solo la morte. Non esiste nemico come la morte; perciò io chiedo l'immortalità". Quando Brahma rispose che per le creature è impossibile non morire, egli chiese di non poter venire ucciso da dèi, semidèi, demoni, ecc., e sprezzante tralasciò di menzionare l'uomo. Vibhishana pregò: "Possa la mia mente non deviare dal Dharma, nemmeno di fronte al più grave pericolo".
Prima di offrire un dono a Kumbhakarna, Brahma chiese alla dea della parola di far sì che egli non chiedesse qualcosa che avrebbe potuto causare la distruzione dell'universo. Entrando in lui, la dea intorpidì la sua mente; ed egli chiese: "Possa io dormire per tantissimi anni". Brahma concesse loro i doni prescelti.

[NOTA: Il pancagni-tapas è sedere sulla sabbia rovente circondandosi di fuochi accesi ai quattro lati. Questa storia di Kumbhakarna contraddice la versione precedente. Molti studiosi pensano che l'intero 'Uttara Kandam' sia un'interpolazione, un'aggiunta indegna.]

Sumali chiamò Dashagriva e gli disse: "É una fortuna che tu abbia ottenuto l'ambita invulnerabilità, che certamente ti permetterà di essere il signore dei tre mondi. Il Signore Vishnu ci costrinse a lasciare Lanka, ma ora non abbiamo più paura di lui. Lanka appartiene ai demoni; è il nostro territorio. Dopo la nostra partenza la occupò tuo fratello Kubera; perciò è giusto che tu la reclami da lui, con la negoziazione, con la persuasione o, se necessario, con la violenza".
La prima reazione di Dashagriva fu negativa. "Kubera è mio fratello - disse - come posso combattere contro di lui". Ma Prahasta, un ministro di Sumali, rispose: "Tra gli eroi non vi è affetto fraterno. Un tempo c'erano due sorelle, Diti e Aditi, i cui figli erano rispettivamente demoni e dèi. Poi i fratelli combatterono tra di loro e, con l'aiuto di Vishnu, gli dèi vinsero e divennero signori dei mondi".
Dashagriva si convinse e inviò lo stesso Prahasta come suo emissario a reclamare Lanka da Kubera. Senza alcuna esitazione Kubera rispose: "Lanka mi fu data come dimora da mio padre. Ma torna pure da Dashagriva e digli che da questo momento Lanka è sua". Così Dashagriva ottenne Lanka senza combattere. Kubera andò da suo padre Visrava e lo informò dell'accaduto. Il saggio disse a Kubera: "Sì, Dashagriva me ne ha accennato, e l'ho rimproverato. Ma dal momento che hai già lasciato Lanka, vai al Kailash, che sostiene la terra, e vivi là con la tua gente".
Dashagriva fu incoronato re di Lanka. Poco dopo egli diede sua sorella Surpanakha in sposa al demone Vidyutjihva. Andando a caccia per la foresta un giorno Dashagriva incontrò Maya, uno dei figli di Diti, e gli chiese il motivo del suo vagare. Maya rispose: "A suo tempo gli dèi mi diedero la ninfa Hema, e con lei ho vissuto felicemente per molto tempo. Ma circa quattordici anni fa ella mi ha lasciato per svolgere una missione degli dei. Addolorato per la sua partenza, vago per la foresta insieme a mia figlia. Da lei ho avuto anche due figli: Mayavi e Dundubhi". Dashagriva rivelò la sua identità. Maya gli offrì la mano di sua figlia Mandodari, e Dashagriva l'accettò con gioia.
Mandodari diede alla luce un figlio che quando nacque pianse così forte da far tremare Lanka. Per questo Dashagriva lo chiamò Meghanada.
Per il fratello Vibhishana, Dashagriva ottenne come sposa la figlia del semidio Sailusha, chiamata Sarama. Questa ragazza era nata sulle rive del lago Manasa. Sua madre aveva ordinato al lago: "Saro ma vardhata" (Lago, non gonfiarti); perciò alla bambina era stato dato il nome di Sarama.
E così vissero tutti a Lanka, godendosi la vita.
Su richiesta di Kumbhakarna, Dashagriva fece costruire un palazzo. Quando fu pronto, Kumbhakarna vi si recò felicissimo ed entrò in un sonno profondo per un lunghissimo periodo.
Nel frattempo il potente Dashagriva diede inizio alla sua campagna di distruzione. Egli devastò i giardini e i campi da gioco dei semidèi, ne sradicò gli alberi e ne inquinò i fiumi.
Il capo dei semidèi, Kubera, venne a sapere dei misfatti di suo fratello. Pieno di sollecitudine familiare e sperando di dissuaderlo dal compiere ulteriori malvagità, egli inviò un messaggero alla corte di Dashagriva. Il messaggero fu ricevuto onorevolmente e amabilmente dal nobile Vibhishana, che lo presentò a re Dashagriva.
Il messaggero disse: "O re, ho un messaggio per voi da parte di vostro fratello Kubera. Degnatevi di ascoltarlo mentre lo leggo: "Io credo sia bene che tu ponga fine alle tue attività distruttive: hai già fatto abbastanza in questo senso. Penso anche che, se puoi, dovresti percorrere la via del Dharma. Ho visto la distruzione che hai arrecato ai giardini celesti. Ho anche sentito dire che hai ucciso molti saggi e hai tormentato pure gli dèi.
"Tu mi hai scacciato in molte occasioni; tuttavia non si rinnega un membro della propria famiglia, anche se questi è colpevole di offese. Mi sono ritirato nell'Himalaya, dove ho praticato intense austerità. Altamente compiaciuto di me, il Signore Shiva mi è apparso e mi ha detto 'O signore della prosperità, sono molto compiaciuto delle tue austerità e della tua devozione. Come frutto delle tue austerità io ti considero mio carissimo amico. Con la tua devozione ti sei guadagnato la mia amicizia. D'ora in poi sei mio amico'. Tornando nella mia dimora, dopo essere stato benedetto dal Signore Shiva, ho saputo dei tuoi atti distruttivi. Perciò ti supplico d'abbandonare questa condotta indegna".
Udite le parole del messaggero, Dashagriva andò su tutte le furie e, stringendo i pugni e digrignando i denti, gridò: "Né tu né lui siete miei amici. Solo uno stolto si vanterebbe della sua amicizia con il Signore Shiva. O messaggero, finora pensavo di non dover fare del male a mio fratello. Ma udite le tue parole e il suo messaggio, sento che devo abbandonare quest'idea. Sono pronto a conquistare i tre mondi e a cacciare nella dimora della Morte tutti i protettori della creazione!".
Detto ciò, Dashagriva tagliò la testa del messaggero e diede il corpo in pasto ai demoni.
Subito dopo Dashagriva riunì intorno a sé i suoi ministri: Mahodara, Prahasta, Marica, Suka, Sarana e Dhumraksha. Circondato dalle sue forze demoniache, egli si diresse verso la dimora di Kubera, con l'atteggiamento di chi è pronto a dar fuoco al mondo intero. In poche ore egli raggiunse il luogo chiamato Kailash.
Le sentinelle poste ai confini informarono subito Kubera che suo fratello Dashagriva aveva invaso il Kailash. Seguì una cruenta battaglia tra demoni e semidèi.
Quando Dashagriva forzò l'entrata del palazzo, le guardie lo fermarono e lo colpirono con tutta la loro forza; ma il dono ottenuto dal Creatore lo rendeva immune a tutto. Quando Dashagriva rispose ai loro colpi, i semidèi caddero.
Vedendo questo, Kubera mandò il semidio Manibhadra a difendere il Kailash. Nel frattempo i luogotenenti di Dashagriva avevano ucciso migliaia e migliaia di semidèi. Visto il modo di combattere leale dei semidèi e considerata la forza e la slealtà dei demoni - quale confronto c'era tra le due parti? Manibhadra fu sconfitto.
Facendosi avanti Kubera parlò a Dashagriva, che, illuso dal dono dell'invincibilità ottenuto dal Creatore, continuava a perpetrare crimini di ogni genere: "Peccatore! Tu non dai retta al mio saggio consiglio; ma col tempo realizzerai le cattive conseguenze delle tue malvagie azioni. Chi offende sua madre, suo padre, i santi e i precettori, raccoglierà i frutti di tali azioni quando entrerà nel regno della Morte. Colui che qui non pratica austerità (tapas), con l'ausilio di questo corpo impermanente, dopo aver lasciato questo mondo quel folle sarà bruciato (tapyate). Ad ogni modo questo è certo: ognuno raccoglie inevitabilmente il frutto delle azioni fatte qui".
Udendo queste parole, i luogotenenti di Dashagriva si ritirarono dalla battaglia. Ma lo stesso Dashagriva si fece avanti per combattere contro Kubera. Durante quella battaglia spettacolare, quando Kubera lanciò il missile del fuoco, Dashagriva lo neutralizzò con il missile dell'acqua.
Combattendo, Dashagriva assunse varie forme e infine sconfisse Kubera. Quando Kubera cadde, sconfitto, Dashagriva s'impossessò del suo veicolo, il Pushpaka (un velivolo spaziale che poteva volare, per così dire, alla velocità del pensiero, costruito con metalli e pietre preziose, e resistente al caldo e al freddo), e considerandosi il conquistatore dei tre mondi s'apprestò a fare ritorno alla sua dimora.
Mentre Dashagriva faceva ritorno a Lanka, d'un tratto il Pushpaka andò in stallo. Dashagriva rimase perplesso. Vicino al velivolo apparve: un essere dall'aspetto strano: nano, senza pelo, con gli arti corti, ma molto potente. Era Nandi, il veicolo divino del Signore Shiva.
Nandi si rivolse al re dei demoni: "Torna indietro, Dashagriva. Su quel monte laggiù sta giocando il Signore Shiva. Nessuno può andare oltre questo limite". Udendo queste parole e guardando l'aspetto della strana creatura, Dashagriva rise deridendolo.
Adirato, Nandi maledì Dashagriva con queste parole: "Mi hai trattato con disprezzo perché ho la faccia di un vanara. Perciò, per ucciderti, nasceranno dei vanara dotati della mia forza e vitalità, aventi la mia forma e a me pari in valore. Io stesso avrei potuto ucciderti in questo momento; ma non lo faccio perché ti sei distrutto da solo con le tue azioni malvagie".
Mentre Nandi pronunciava queste parole, gli dèi e i saggi cantarono le glorie del Signore e fecero cadere una pioggia di fiori.
Dashagriva fu molto seccato, e s'accinse a sradicare la stessa montagna che era stata d'ostacolo al suo volo. Il monte tremò, compresi tutti gli esseri che vi dimoravano. Anche Parvati, la consorte del Signore Shiva, ebbe timore. Vedendo questo, il Signore Shiva come per gioco spinse giù la montagna con le dita del piede.
La montagna si assestò. La pressione del piede di Shiva era tale che le braccia di Dashagriva rimasero incastrate sotto! Il demone urlò dal dolore. Udendo il suo urlo fragoroso gli dèi, i semidèi, i demoni e i saggi furono terrorizzati. Essi andarono da Dashagriva e gli consigliarono di propiziare il Signore Shiva, rassicurandolo: "Il Signore è un oceano di misericordia e sicuramente ti darà le sue benedizioni".
Allora Dashagriva cantò le glorie del Signore. Compiaciuto, il Signore Shiva apparve davanti a lui. Liberato dalla pressione della montagna, Dashagriva mise in salvo le sue braccia. Il Signore Shiva gli disse: "Sono contento della tua devozione. Poiché hai gridato forte, facendo scappare tutti gli esseri in ogni direzione d'ora in poi sarai chiamato Ravana (ravah = rumore)".
Dashagriva pregò il Signore di conferirgli altri doni: "Concedetemi di non poter essere ucciso da nessuno se non da un essere umano: infatti non temo gli esseri umani. Vi prego anche di concedermi un'arma divina da usare in guerra". Il Signore concesse a Ravana i doni richiesti e gli diede una spada divina chiamata Candrahasam. Quindi Ravana fece ritorno alla sua dimora.
Mentre girava per la foresta, un giorno Ravana vide una bellissima giovane vestita da asceta.
Spinto dalla forte passione, egli l'avvicinò e le chiese: "Chi sei, donna leggiadra? Tu sei giovane e hai l'aspetto di un'asceta: queste due cose sono contraddittorie! ".
La ragazza rispose: "Sono la figlia del saggio reale Kusadvaja, figlio di Brihaspati. Mio padre m'istruì nella recitazione dei Veda; perciò fui chiamata Vedavati. Molti dèi e semidèi chiesero la mia mano, ma mio padre desiderava avere come genero il Signore Vishnu e nessun altro. Saputo di questo, un demone chiamato Sambhu uccise mio padre; e anche mia madre, che salì sulla pira funeraria di suo marito. Da allora ho intrapreso intense austerità per onorare il desiderio di mio padre e ottenere come sposo il Signore Vishnu".
Ravana si fece conoscere e si vantò: "Chi è mai questo Vishnu di fronte a me? Vieni, diventa mia moglie e goditi la vita". Ravana l'afferrò per i capelli.
Fortemente adirata dal suo comportamento, Vedavati maledì Ravana con le seguenti parole: "Non desidero preservare questo corpo che tu hai toccato; perciò entrerò nel fuoco sacro. O peccatore, poiché mi hai contaminata, causando con questo la mia morte, io rinascerò per causare la tua distruzione. Se in me è rimasto qualche merito, rinascerò senza essere concepita da una donna".
Detto ciò, ella entrò nel fuoco sacro. O Rama, quella Vedavati è tua moglie Sita; e tu sei lo stesso Signore Vishnu.
In seguito Ravana si recò in un posto dove il re Marutta stava celebrando un rito sacro assistito dal saggio Samvarta, figlio di Brihaspati. Quando lo videro, tutti gli dèi assunsero forme diverse: Indra divenne un pavone, Yama divenne un corvo, Kubera divenne una lucertola e Varuna divenne un cigno.
Ravana sfidò Marutta. Questi stava per combattere, ma il precettore gli ricordò: "Se lasci questo rito incompleto, la tua famiglia perirà; e poi, avendo intrapreso questo rito sacro, non puoi impegnarti in combattimento". Marutta non reagì.
I demoni dichiararono Ravana vincitore, ed egli divorò tutti i saggi del posto e andò via.
Felici di essere sfuggiti astutamente alla collera di Ravana, gli dèi conferirono dei doni agli animali di cui avevano assunto le forme: da allora il pavone ha occhi sulle penne, il corvo fu liberato dai dolori della morte, la lucertola ottenne il suo riflesso dorato e il cigno il suo colore candido.
Dopo la vittoria conseguita durante il rito sacro di re Marutta, Ravana continuò a girare la terra con l'intenzione di sconfiggere tutti i re del mondo. La maggior parte di essi cedettero alle sue richieste senza neanche bisogno di una sfida.
A suo tempo Ravana giunse ad Ayodhya. Qui egli sfidò il re Anaranya, che però accettò la sfida e combatté contro il demone. Segui una cruenta battaglia tra i due. Ravana distrusse il meglio delle forze di Anaranya, mentre quest'ultimo sbaragliò i luogotenenti di Ravana.
Nella sua rabbia crudele, Ravana assestò un colpo poderoso sulla testa di Anaranya, il quale cadde dal suo veicolo.
Come sorridendo, Ravana disse: "Cos'hai fatto, o re? In tutti i tre mondi non c'è nessuno che mi sia pari in un combattimento corpo a corpo".
Anaranya rispose: "Che posso farci, demone: il Tempo è davvero supremo, e io devo inchinarmi all'inevitabile. Non sono stato sconfitto da te ma solo dal Tempo. Tu sei servito solo come pretesto. Ma ascolta quello che ti dico: nella mia stessa dinastia sorgerà un principe - Rama, figlio di Dasaratha - che vendicherà la mia morte e ti distruggerà completamente".
Detto questo, Anaranya ascese in cielo e Ravana continuò le sue imprese.
Vedendo la perversa distruzione degli esseri umani da parte di Ravana, il saggio Narada lo avvicinò e gli disse: "O re dei demoni, tu hai guadagnato il dono estremamente prezioso dell'invincibilità nei confronti di dèi, semidèi e demoni. Ascolta, vorrei darti un consiglio. Il mondo degli esseri umani è soggetto alla morte; e allora perché indulgi nella loro uccisione? Non è una perdita di tempo uccidere questi stolti esseri umani che sono già soggetti alla vecchiaia, alla malattia e alla morte? E certo che tutti questi esseri dovranno entrare nella dimora di Yama, il dio della morte. Perciò sfida direttamente Yama. Se riuscirai a conquistare Yama, avrai conquistato automaticamente tutti gli esseri mortali".
Il ragionamento di Narada andò a genio a Ravana, che si preparò a partire subito per la dimora di Yama. Egli disse a Narada: "Invero io distruggerò anche i signori della creazione".
Subito dopo la sua partenza, il saggio rimase perplesso: tutti gli esseri hanno paura della morte e nessuno può conquistarla. Cosa avrebbe potuto fare Ravana contro Yama? Anch'egli s'avviò subito verso la dimora di Yama.
Narada disse a Yama: "Il demone Dashagriva sta venendo qui per cercare di sconfiggere te, che sei estremamente difficile da vincere. Perciò anch'io sono venuto qui".
Mentre stava ancora parlando, udirono il rombo del velivolo di Ravana che atterrava nelle vicinanze.
Nella luce emessa dal suo veicolo spaziale, Ravana vide con i propri occhi sia il fato dei malfattori e dei peccatori sia quello delle persone pie. Egli vide come i peccatori venivano torturati nell'inferno, e vide anche come le persone pie gioivano nelle regioni celesti.
Usando la forza, egli fece liberare i peccatori dalla morsa dei servi di Yama. I peccatori furono estremamente felici. I servi di Yama, invece, s'infuriarono e combatterono contro Ravana. Il demone lanciò una scarica di missili potentissimi; stando a terra egli lanciò il terribile missile Pasupata, che arrivò come fuoco accecante circondato da fumo. I servi di Yama cadevano numerosissimi.
Yama udì le grida pietose dei propri servi e si rese conto che Ravana stava avendo la meglio su di loro. Armato di vari missili infallibili, egli emerse dalla sua corte preceduto dalla Morte nella sua vera forma. Vedendo Yama emergere con furore, tutti gli esseri dell'intero universo tremarono per la grande paura.
Ravana fu l'unico a non aver paura. Avvicinandosi a Yama, Ravana lo colpì con varie armi. A sua volta anche Yama andò all'assalto di Ravana con diverse armi. In questo modo i due combatterono per sette giorni e sette notti.
Ravana lanciò molti missili potenti contro Yama. Vedendo ciò, la Morte disse a Yama: "Ti prego, dammi il permesso di distruggere questo demone malvagio. Nessuno di quelli che cadono sotto il mio sguardo sopravvive, fosse anche per un'ora".
Yama rispose: "Aspetta, adesso guarda il mio valore". Dicendo questo, Yama sollevò la più micidiale delle armi, conosciuta come kaladanda, che uccide tutti gli esseri anche al solo vederla.
Proprio in quel momento apparve sul posto Brahma, il Creatore, che pacificò Yama con le seguenti parole: "Yama, non dovresti uccidere Ravana, che è protetto dal dono che gli ho concesso. Metti via il kaladanda. Esso è infallibile. Se lo usassi contro Ravana; sia che egli sopravvivesse al colpo sia che ne morisse, la mia parola si rivelerebbe falsa".
In obbedienza al consiglio di Brahma, Yama mise via il kaladanda. Neppure Yama però poteva essere sconfitto; perciò egli semplicemente svanì da quel luogo. Considerandosi il vincitore, Ravana salì sul Pushpaka e andò via.
In seguito Ravana conquistò i Naga. Poi si recò nel territorio dei Nivatakavaca. Anch'essi avevano ricevuto un dono dal Creatore Brahma e godevano di un suo favore speciale. Ravana andò da loro e li invitò a combattere. Le due forze furono impegnate in battaglia per oltre un anno, ma nessuna delle due poteva vincere.
Il Creatore Brahma apparve sul posto e disse ai Nivatakavaca: "Voi non potete vincere Ravana in battaglia. Credo che sia una buona soluzione unirvi in un'amicizia reciproca. Infatti è solo attraverso l'amicizia che la gente ottiene la prosperità".
Quindi, avendo il fuoco sacro come testimone, Ravana concluse un patto d'amicizia con i Nivatakavaca.
Uscendo da lì, Ravana incontrò gli esseri chiamati Kalakeya. Mentre combatteva contro di loro, egli perse il cognato Vidyutjihva (il marito di Surpanakha) e anche moltissimi soldati. Ma alla fine Ravana sterminò i Kalakeya.
Da lì egli si recò nel regno di Varuna. Qui incontrò i figli di Varuna, che combatterono bene contro di lui. Essi gli dissero che loro padre Varuna era andato alla corte di Brahma ad ascoltare un concerto di musica. Tuttavia, avendo sconfitto i figli di Varuna, Ravana si considerò il conquistatore del mondo e quindi fece ritorno a Lanka.
Dovunque andasse, quando vedeva una bella ragazza, Ravana la rapiva e la portava con sé. Così moltissime ragazze erano state portate via da lui con la forza. Figlie di naga e di gandharva, figlie di saggi, di demonesse e di dee - il Pushpaka le aveva portate via tutte ed era stato inondato dalle loro lacrime . Tutte gridavano: "Il peccato di violare le mogli altrui è veramente senza pari nella sua gravità, e Ravana vi trova diletto. Perciò egli morirà a causa di una donna".
Quando rientrò a Lanka, Ravana trovò che sua sorella Surpanakha era inconsolabilmente addolorata. Alla domanda del fratello ella rispose: "O re, tu sei la causa della mia vedovanza; tu sei responsabile della morte di mio marito. Il tuo dovere era quello di proteggermi, ma in realtà hai rovinato la mia vita".
Ravana le rispose con calma: "Tuo marito è stato ucciso in battaglia; io non avevo alcuna intenzione di farlo morire. Comunque, tutto questo è passato. Adesso farò di tutto per renderti felice. Vai a vivere con nostro fratello Khara; i quattordicimila soldati del suo esercito saranno per te come fratelli. Tu sarai per loro come una madre".
Poco tempo dopo Ravana entrò in uno dei parchi di divertimento di Lanka il cui nome era Nikumbhila. Là vide suo figlio Meghanada impegnato a celebrare un elaborato rito religioso. Vide che Meghanada indossava una pelle di daino e aveva l'aspetto di chi è impegnato in un rito religioso ortodosso. Egli l'abbracciò con affetto e poi gli chiese: "Che cos'è quello che stai facendo, figlio mio?",
Usana, il sacerdote officiante, rispose: "Signore, tuo figlio ha completato con successo questi sette riti sacri: l'agnistoma, l'asvamedha, il bahusuvarnaka, il rajasuya, il gomedha, il vaishnava e il mahesvara. Egli ha ottenuto le benedizioni dello stesso Signore Shiva, e quindi potrà muoversi secondo la sua volontà, volare nell'aria e compiere molti trucchi di magia".
Ravana espresse un leggero dispiacere: "Tutto ciò è indegno di te, figlio mio. Tu hai offerto sacrifici ai nostri nemici, gli dèi. Ad ogni modo, tutto ciò che hai fatto è ben fatto. Torniamo a casa".
Raggiunto il suo palazzo, Ravana fece scendere dal Pushpaka le numerose donne che aveva rapito. Vedendole, Vibhishana si rammaricò immensamente e ammonì gentilmente il fratello maggiore: "Sicuramente è peccato rapire le mogli degli altri. E noi dovremo pagare caro questo peccato. Anzi, la cosa è già evidente! Fratello, nostra cugina Kumbhinasi è stata rapita dal demone Madhu. Sono certo che il fatto è collegato direttamente al rapimento di queste donne pie da parte tua. Meghanada era impegnato nel rito sacro, io ero impegnato nella meditazione e Kumbhakarna dormiva profondamente. Madhu s'è portata via Kumbhinasi. Quando l'ho saputo, ho pensato che forse stavano bene l'uno con l'altra".
Ravana però reagì in maniera diversa. Egli ordinò all'esercito di prepararsi ad invadere il territorio di Madhu; e fece persino svegliare Kumbhakarna. Con l'aiuto di tutti - eccetto Vibhishana, che custodiva Lanka durante l'assenza degli altri fratelli - egli invase Madhupura.
Ravana non riusciva a vedere Madhu. Kumbhinasi però corse incontro a Ravana, cadde ai suoi piedi e pianse, implorando: "Ti prego, concedimi la grazia che non mi farai restare vedova. Per una donna onesta non c'è sventura più grande che restare vedova; questa è la causa principale di ogni paura e tristezza". Ravana promise di risparmiare la vita a Madhu. Allora Kumbhinasi tornò dentro e svegliò il marito che dormiva.
Ella presentò Ravana a Madhu: "Questo è mio fratello Ravana, che ha bisogno del tuo aiuto nella sua lotta contro gli dèi". Madhu ricevette Ravana con grande affetto e ospitalità.
In una notte di luna piena, Ravana stava riposando sul monte Kailash. I soldati delle sue forze armate dormivano.
La luna piena e la brezza soave, la fragranza dei fiori di campo e la musica degli esseri celesti ebbri d'amore, risvegliarono la sua passione.
In quel mentre passava vicino a lui una ninfa celeste chiamata Rambha. Ella era vestita in maniera seducente; e il suo aspetto e il suo portamento erano tali da sollevare la passione in chi la guardava.
Ravana l'avvicinò e le chiese: "Dove stai andando, o donna leggiadra? Chi è quella persona fortunatissima che oggi godrà con te dei piaceri sensuali? No, non andartene lasciandomi qui. Vieni, divertiamoci insieme. Chi è pari a me nei tre mondi?".
Avvicinata in questa maniera da Ravana, Rambha cominciò a tremare per la paura; e gli disse: "Sii benevolo con me, signore! Tu sei il protettore di tutti; non proteggerai forse tua nuora? Io sto andando a incontrare Nalakubara, il figlio di tuo fratello, e perciò sono tua nuora. Ti prego, lasciami andare".
Ravana però non era dell'umore di ascoltare questo sermone. Sopraffatto dalla lussuria, egli afferrò Rambha e la violentò.
Quando la liberò, dopo averla violentata, Rambha era come una ghirlanda imbrattata o dell'acqua infangata.
Ancora tremante per la paura e la vergogna, ella andò da Nalakubara e gli narrò tutto quello che le era successo lungo la strada.
Poi cadde ai suoi piedi piangendo, e implorò il suo perdono.
Quando seppe che Ravana aveva osato violare Rambha, Nalakubara entrò per un po' di tempo in profonda meditazione,
Egli 'vide' tutto ciò che era accaduto a Rambha. Sopraffatto da una collera immensa, prese dell'acqua con le mani e pronunciò solennemente questa terribile maledizione:
"Poiché ti ha violentato senza che tu, Rambha, lo desiderassi, egli non potrà più godere di alcuna donna che non lo desideri. Se mai provasse a violentare una donna che non lo desiderasse, la sua testa scoppierebbe in sette pezzi".
Appena Nalakubara pronunciò questa terribile maledizione, tutti gli dèi, a partire dal Creatore Brahma, gioirono e fecero scendere una pioggia di fiori.
Quando Ravana venne a sapere di quest'infallibile maledizione, cominciò a frenarsi dal molestare qualsiasi donna non lo desiderasse.
Ravana rivolse i suoi occhi al cielo e decise di conquistare anche quello. Quand'egli entrò nel regno degli dèi con il suo potente esercito , i cieli tremarono e lo stesso Indra rimase scosso sul suo trono. Egli ordinò a tutti gli dèi di prepararsi a combattere contro Ravana.
Quindi Indra, il dio del cielo, tremante di paura andò subito dal Signore Vishnu e si sottomise umilmente a Lui, dicendo: "Di grazia, Signore, dicci che cosa dobbiamo fare. Ravana, che in virtù dei doni che ha ricevuto si considera invincibile, è venuto a combattere contro di noi. Tu sei il nostro solo rifugio, la nostra sola forza e il nostro unico sostegno. Tu sei il Signore supremo; in te dimorano tutti i mondi. L'universo ha origine da te e in te ritorna. Ti prego, dimmi che cosa vuoi che facciamo con questo Ravana".
Il Signore Vishnu rispose: "Conosco già i misfatti di Ravana. Ma in questo momento non scenderò in battaglia contro di lui. Io, Vishnu, non potrei mai tornare dal campo di battaglia senza avere ucciso il nemico; ma adesso questo è impossibile, poiché Ravana è protetto dal dono ricevuto da Brahma. Comunque ti prometto che lo distruggerò presto, per la redenzione degli dèi. Perciò per il momento combattilo tu stesso insieme agli dèi".
Tutti gli dèi scesero in campo guidati da Indra. Nello stesso tempo i demoni, con a capo Ravana, fecero il loro ingresso nei cieli.
Allora il potente demone Sumali entrò nel campo di battaglia e provocò molta distruzione tra le forze degli dèi. L'ottavo Vasu, di nome Savitra, distrusse il veicolo di Sumali. Poi, lanciando un missile estremamente potente chiamato gada, il Vasu colpì Sumali. Il fuoco sprigionato dal missile consumò interamente il demone.
Vedendo che il loro capo Sumali era stato ucciso, gli altri demoni fuggirono in tutte le direzioni.
A questo punto entrò in campo Meghanada. Indra rassicurò gli dèi dicendo: "Non temete: guardate mio figlio Jayanta che entra in campo per affrontare Meghanada".
La battaglia tra Meghanada e Jayanta fu molto aspra. Quando Meghanada usò i suoi poteri magici, vi fu una totale confusione e gli dèi si uccisero persino tra di loro!
Indra stesso entrò in campo con il suo velivolo celeste. La battaglia ebbe un nuovo culmine quando Kumbhakarna e altri demoni mostrarono tutto il loro valore. Vi fu molta distruzione da ambo i lati.
Durante quella spaventosa battaglia, una volta Indra circondò Ravana con le sue forze divine. Quando Meghanada lo venne a sapere si precipitò sul posto. Egli usò i suoi poteri magici: nessuno riusciva a vederlo. Con il suo potere illusorio, Meghanada catturò Indra e lo fece prigioniero. Poi si rivolse a suo padre Ravana e gli disse: "Vieni, torniamo a casa, ho catturato lo stesso Indra".
Tutti gli dèi, guidati dallo stesso Creatore Brahma, andarono a Lanka. Brahma supplicò Ravana: "Il valore di tuo figlio è altamente encomiabile. E poiché ha conquistato lo stesso Indra, d'ora in poi egli sarà chiamato Indrajit. Lascia libero Indra, perché continui a svolgere le sue funzioni nei cieli. Che Indrajit scelga in cambio qualsiasi dono".
Felicissimo di questo, Indrajit chiese il dono dell'immortalità. Ma Brahma puntualizzò: "L'immortalità è impossibile in questo mondo mortale, sia per gli uccelli, gli animali e tutti gli altri esseri. Perciò ti prego di modificare la tua richiesta".
Indrajit rispose: "Prima d'affrontare un'impresa importante praticherò regolarmente i riti sacri. Se riuscirò a completarli in tempo, sarò invincibile; in caso contrario resterò vulnerabile. Inoltre dovrò restare invulnerabile finché rimarrò seduto nel mio velivolo".
Brahma gli concesse quanto chiesto. Indrajit disse: "La gente cerca l'immortalità praticando austerità e propiziando gli dèi; ma io diventerò immortale per mezzo dello sforzo personale e della vigilanza".
Indra fu rilasciato. Brahma gli disse: "Ora ti dirò perché sei stato preso prigioniero. In principio creai gli esseri e li creai tutti uguali, dello stesso colore e della stessa forma. Poi contemplai la mia creazione e desiderai creare un essere particolare. Volli la certezza che quest'essere particolare fosse assolutamente immacolato (a = senza; halya = macchia). Era una donna e il suo nome era Ahalya. Ella divenne la moglie del rishi Gautama. Sopraffatto dalla passione per lei, un giorno tu la seducesti, approfittando dell'assenza di suo marito. Il saggio vi sorprese entrambi; e quando scoprì il tuo misfatto, ti maledì: "Poiché hai sedotto impavidamente mia moglie, sarai preso prigioniero dal tuo nemico". Gautama maledì anche sua moglie: "Poiché hai fatto questo, orgogliosa della tua bellezza, non sarai l'unica donna bella del mondo e così perderai la tua unicità". Perciò, Indra, ricorda il tuo misfatto. Tu sei stato sconfitto dal tuo misfatto, non da qualcun altro. Adora immediatamente il Signore celebrando il sacro rito Vaishnava, e così sarai purificato da ogni peccato".
Indra seguì il consiglio di Brahma.
Una volta Ravana andò in una città chiamata Mahismati, la capitale del regno Haihaya, il cui re era Kartavirya Arjuna. Giunto là, Ravana gridò: "Chi è quell'Arjuna che governa questa città?". Gli fu detto che Arjuna si stava divertendo nel fiume Narmada.
Ravana andò immediatamente al fiume, e dopo aver fatto il bagno adorò il Signore nella forma del Linga che pose sulla sabbia.
Poi Ravana notò un fenomeno inspiegabile: il flusso del fiume s'era improvvisamente arrestato. Tramite le sue spie egli apprese che Kartavirya Arjuna, che si stava divertendo con delle donne nel fiume, ne aveva arrestato il corso con le sue stesse mani e aveva creato un lago artificiale per il proprio piacere.
Udito questo, Ravana desiderò sfidare Kartavirya Arjuna in combattimento. Tuttavia i ministri di quest'ultimo pregarono il demone d'accettare la loro ospitalità, passare la notte lì e quindi sfidare il re la mattina seguente. Essi argomentavano: "Non è eroico sfidare un guerriero che si sta divertendo con delle donne!".
Ravana era propenso ad accettare, ma nel frattempo il suo esercito aveva già cominciato a combattere contro i soldati di Kartavirya Arjuna, creando molto frastuono.
Anche i principali luogotenenti di Ravana erano entrati nella battaglia. I ministri di Kartavirya Arjuna lo informarono della battaglia, e anch'egli si precipitò a combattere.
La battaglia fu sanguinosa. Kartavirya Arjuna tirò un potente colpo con il suo gada e fece perdere i sensi a Prahasta. Tutti gli altri demoni, incluso Ravana, corsero ad aiutare Prahasta.
Allora Kartavirya Arjuna diresse la sua attenzione verso Ravana, e con molta facilità lo catturò. Egli legò Ravana come Narayana aveva legato il re dei demoni Bali.
In quel momento gli dèi e i semidèi fecero scendere una pioggia di fiori dicendo: "Ben fatto". I demoni gridarono invano: "Liberalo, liberalo".
Il saggio Pulastya seppe della cattura di Ravana dagli dèi e andò a intercedere di persona da Kartavirya Arjuna. Quest'ultimo ricevette il saggio con tutto l'onore e la riverenza dovuti e, dopo averlo pregato d'accettare la sua ospitalità, gli chiese; "Che cosa posso fare per te, o santo?".
Il saggio lodò Kartavirya Arjuna per il suo valore e quindi lo pregò di liberare suo figlio Ravana dalla prigionia. Senza indugio Kartavirya Arjuna acconsentì alla richiesta del saggio.
Incurante dell'ignominia subita per mano di Kartavirya Arjuna, Ravana continuò a girare per il mondo in cerca di nuove battaglie e nuove conquiste.
Una volta egli giunse nel regno di Kishkindha, governato dal potentissimo vanara Vali. Egli gridò a squarciagola, sfidando Vali a farsi avanti e a combattere contro di lui. Un ministro di Vali informò il demone che il suo re era uscito dalla capitale per andare a compiere l'adorazione serale che celebrava quotidianamente. "Se puoi aspettare un po', lo vedrai di certo", egli disse, e aggiunse: "Lascia però che ti avverta! Vedi quella montagna di ossa laggiù: esse appartenevano ad altri eroi che come te hanno voluto sfidare Vali. Anche se avessi bevuto il nettare dell'immortalità, il suo effetto durerebbe solo fino a quando non affronteresti Vali. Se comunque avessi fretta di morire, allora recati all'Oceano Meridionale, dove troverai Vali".
Ravana non si fece impressionare dalle minacce. Salì sul Pushpaka e si diresse verso sud. Infine scorse Vali che offriva le sue preghiere vespertine, e s'avvicinò a lui senza fare il minimo rumore. Per caso lo vide anche Vali. Senza alcuna difficoltà, Vali imprigionò Ravana sotto la sua ascella e si librò nell'aria. Tutti gli altri demoni si misero a urlare e a inseguire Vali, ma invano.
Dopo averlo portato su tutti gli oceani delle quattro direzioni e avere offerto le sue preghiere a ciascun oceano, sempre tenendo Ravana sotto l'ascella, Vali fece ritorno a Kishkindha. La, nel suo giardino, Vali lasciò cadere Ravana, e poi gli chiese: "Da dove sei venuto".
Pieno di ammirazione, Ravana disse a Vali: "Che forza, che valore, e quanta maestà! E incredibile che qualcuno abbia potuto tenermi nella sua morsa come una bestiolina e portarmi fino ai quattro oceani ai quattro angoli della terra. Tu sei davvero un eroe eccelso. Avendo avuto prova della tua straordinaria potenza, desidero concludere un patto d'amicizia con te. D'ora in poi noi due godremo ogni cosa in maniera indivisa, avremo cioè in comune mogli, figli, città, regno, piaceri, cibo e rifugio".
Poi essi alimentarono il fuoco sacro e davanti ad esso si strinsero la mano e conclusero un patto d'amicizia. Ravana visse nella dimora di Vali per un mese, godendo della sua ospitalità, e infine fece ritorno a Lanka. Tale era, o Rama, la potenza di Vali, che tu hai ucciso con tanta facilità.
Così il saggio Agastya concluse la sua narrazione.

[NOTA: Questa storia spiega perché Rama non poteva fidarsi di Vali, che era amico di Ravana. E giustifica anche l'affermazione di Vali che avrebbe potuto chiedere facilmente a Ravana di riconsegnare Sita a Rama.]

Rama disse ad Agastya: "La tua descrizione della forza di Vali e Ravana è stata meravigliosa. Ma sono certo che Hanuman è più potente di tutti questi eroi. Tutto ciò che io ho ottenuto: Lanka, Sita, la vittoria, l'amicizia, e anche il regno, lo devo alla forza di Hanuman; se non fosse stato per lui, forse non avremmo saputo neanche dove si trovava Sita. Eppure, come mai egli non poteva uccidere Vali o Ravana o gli altri?".
Agastya rispose: "Se è tuo desiderio ti racconterò nei dettagli la storia di Hanuman. Sul monte Sumeru viveva un re chiamato Kesari, che aveva una moglie di nome Anjana. Hanuman nacque da lei, come figlio di Vayu, il dio del vento. Mentre la madre era andata a prendere della frutta per dargli da mangiare, il bimbo scambiò erroneamente il sole per un frutto e si lanciò nell'aria per coglierlo. Sebbene il piccolo fosse giunto vicino al sole, quest'ultimo non voleva bruciare quel bimbo innocente. Al lamento di Rahu, intervenne Indra, che colpì il bambino e lo fece precipitare a terra. Nella caduta il suo mento si fratturò, e da questo gli deriva il nome Hanuman.
"Vedendo questo, il dio del vento s'arrabbiò e si ritirò dal mondo. Nessuno poteva più respirare. Allora tutti gli esseri cantarono le glorie del dio del vento e cercarono di propiziarlo. Tutti gli dèi, incluso lo stesso Brahma, andarono a trovarlo. Vayu uscì dalla sua grotta con il bambino privo di sensi. Al tocco del Creatore, il bambino tornò in vita. E il dio del vento tornò a muoversi tra gli esseri quale loro vita.
"Quindi tutti gli dèi glorificarono Hanuman, offrendogli ogni tipo di doni: salute, libertà dalle malattie, lunghissima vita, invulnerabilità nei confronti di fulmini e altre armi del genere, il dono di un potente gada, l'abilità di cambiare la sua forma e quella di muoversi ovunque a volontà, ecc.
"Ricco di questi doni, Hanuman aveva perso la testa e aveva cominciato a saccheggiare le foreste e gli eremitaggi, assalendo persino gli stessi saggi. I saggi sapevano che era invincibile e che godeva della protezione divina. Perciò lo maledirono: "Tu ci molesti facendo assegnamento sulla tua forza straordinaria; d'ora in poi non sarai più consapevole della tua forza per molto tempo". Ma realizzando il grande ruolo che egli doveva svolgere al tuo servizio, i saggi modificarono la loro maledizione: "Quando però la tua forza ti sarà ricordata, la riacquisterai".
"Perciò, benché egli fosse dalla parte di Sugriva nella lotta contro Vali, non si ricordò della sua forza. E solo per amor tuo che Hanuman è nato in questo mondo e gli dèi lo hanno creato".
Dopo aver narrato tutte queste storie, Agastya e i saggi si congedarono da Rama.
Il giorno dopo l'incoronazione di Rama, i bardi di corte cantarono dolcemente le sue glorie per svegliarlo dal sonno: "Signore, se tu dormi, tutto il mondo dorme. Perciò svegliati". Rama si alzò e, dopo le abluzioni, adorò i saggi e Dio.
I re e gli altri ospiti d'onore che erano venuti ad assistere all'incoronazione lasciarono Ayodhya uno dopo l'altro, dopo essere stati debitamente onorati da Rama. Rama disse loro: "Invero il malvagio Ravana è stato ucciso dal Dharma, dalla verità e dalla giustizia, della cui gloria spirituale voi siete manifestazioni; io sono stato un mero strumento, un pretesto". Essi a loro volta lo lodarono, considerandosi davvero fortunati e benedetti.
Rama elargì gioielli preziosi ai capi vanara che lo avevano aiutato nella grande battaglia contro Ravana e che erano venuti ad Ayodhya per assistere all'incoronazione. Essi avevano gradito molto il loro soggiorno ad Ayodhya; un mese era trascorso come fosse stata un'ora. Anche Rama era stato felice in loro compagnia.
Quindi Rama diede a Sugriva e agli altri capi vanara il permesso di partire per fare ritorno ognuno al proprio regno.
Egli congedò anche Vibhishana, perché tornasse a Lanka, per governare Lanka secondo il codice del Dharma' . Rama sottolineò: "Che la tua mente non concepisca mai un comportamento ingiusto, o re. L'uomo saggio si attiene al sentiero del Dharma, godendo il governo del regno per molto tempo".
Poi Hanuman s'inchinò a Rama e gli offrì questa preghiera: "Signore, possa esserci in me una devozione suprema nei tuoi confronti; possa la devozione del mio cuore non vacillare mai. Fa' che io viva fintanto che la tua storia e la tua gloria sono cantate in questo mondo".
Rama disse: "Così sia, Hanuman! La mia storia sarà narrata finché durerà il mondo; e la tua gloria continuerà fintanto che la mia storia sarà narrata in questo mondo. Per uno solo dei grandi servigi che mi hai reso, sono tenuto a darti la mia stessa vita; e per i numerosi altri rimarrò sempre in debito con te. Uno che ha ricevuto aiuto, lo restituisce nei momenti di difficoltà dell'altro: ma io spero che tu non abbia mai bisogno del mio aiuto, e che non ti troverai mai in difficoltà".
Così dicendo, Rama abbracciò Hanuman e gli concesse il dono prezioso di una collana che lui stesso aveva portato al collo.
Quindi tutti i vanara e altri capi ancora si congedarono da Rama con le lacrime agli occhi.
Un giorno, mentre era seduto con i suoi fratelli, Rama udì una voce eterea che diceva: "Rama, sono il veicolo spaziale Pushpaka. Secondo il tuo comando, sono stato alla dimora di Kubera; ma egli mi ha rimandato a te, poiché tu hai conquistato Lanka e hai distrutto il malvagio Ravana. Kubera è felicissimo di sapere della tua vittoria e ti prega di usare questo velivolo per muoverti a tuo piacimento nel mondo. Perciò sono tornato qui da te. Ti prego d'accettare i miei servigi".
Rama rese omaggio al velivolo spaziale e poi gli ordinò: "Molto bene, ora vai dove desideri, e torna da me quando ti penserò".
Vedendo i poteri soprannaturali di Rama, Bharata rimase stupefatto, e disse: "Fratello, davanti a te persino le cose inanimate diventano esseri senzienti. La gente che vive nel tuo regno è libera dalle malattie, la durata media della vita s'è allungata. La mortalità infantile è sconosciuta. Ognuno gode di ottima salute. Persino la pioggia e il vento ti favoriscono. I cittadini dicono tra loro: 'Sarebbe bello poter avere per sempre un re così'".
Rama fu felice di udire queste cose.
Più tardi, quello stesso giorno, Rama andò nel boschetto di asoka insieme a Sita. Questo delizioso giardino era pieno di fiori profumati e bellissimi prati verdi, e inoltre era dimora d'innumerevoli uccelli variopinti il cui canto rallegrava coloro che l'ascoltavano.
Rama e Sita sedettero nel giardino. Con infinito amore e affetto, lo stesso Rama porse a Sita la dolce bevanda chiamata maireyakam.
Presto i servitori servirono loro della carne finemente cucinata e varie altre pietanze prelibate, Gli accompagnatori di corte intrattennero Sita e Rama con musica e danze.
Così Rama trascorreva la mattina curando gli affari di corte; e passava le sere in compagnia di sua moglie. Anche Sita trascorreva la mattina al servizio delle suocere e i pomeriggi in compagnia dell'amato marito.
Un giorno Rama disse a Sita: "Mia cara, vedo che aspetti un bambino! Dimmi, che cosa posso fare per renderti felice durante questo periodo particolarmente fausto".
Sita rispose: "Signore, il mio solo desiderio è quello di rivisitare le foreste e i sacri eremitaggi dei santi che vivono sulle rive del sacro Gange".
Rama rispose prontamente: "Certamente, mia cara, partiremo domani stesso".
I giullari di corte intrattenevano Rama e gli altri principi e dignitari con racconti umoristici.
Più tardi Rama chiese alle spie e agli agenti segreti: "Ditemi, che cosa dice il popolo di me, di Sita, e dei miei fratelli Ditemi tutto senza alcuna riserva".
Dopo molta esitazione, Bhadra riferì al re ciò che diceva qualche cittadino: "Rama ha fatto ciò che nessun altro ha mai fatto prima: ha costruito un ponte sull'oceano, è andato a Lanka con l'ausilio delle forze vanara ed altre forze, ha ucciso Ravana e ha riavuto Sita. Non so come faccia ad amare ancora Sita così tanto, dopo che ella è stata rapita da Ravana che se l'è stretta addosso e l'ha tenuta nel boschetto di asoka per tanto tempo. Bene, allora suppongo che d'ora in poi neanche noi possiamo disapprovare questo tipo di condotta da parte delle nostre mogli".
Il volto di Rama mostrava il suo profondo turbamento e la sua ansietà. Egli sciolse il consiglio di corte e chiese ai suoi messaggeri di far venire subito i suoi fratelli. Chiamati d'urgenza, i tre fratelli si precipitarono a corte e rimasero sbigottiti nel vedere il volto ansioso di Rama. Essi s'inchinarono e rimasero rispettosamente a distanza.
Rivolgendosi a loro, Rama disse gravemente: "Vi prego d'ascoltare ciò che ho appena udito. Lo scandalo pubblico sta divorando il mio cuore. Perché appartengo alla grande dinastia di Ikshvaku; e anche Sita appartiene a una nobile e rispettabile famiglia. Voi sapete come Sita fu rapita da Ravana nella foresta Dandaka e come infine io la riconquistai. Per convincermi della sua purezza, Sita entrò persino nel fuoco. Lakshmana, tu sei stato testimone alla dichiarazione dello stesso dio del fuoco che Sita è pura. Nel mio essere più profondo io so che lei è pura. Perciò l'ho riportata ad Ayodhya con me.
"Tuttavia c'è uno scandalo pubblico riguardo a lei. Chi è soggetto allo scandalo pubblico in questo mondo, va nei mondi inferiori fino a quando dura lo scandalo. L'infamia è derisa dagli dèi, e la fama viene adorata in questo mondo. Invero è proprio per ottenere fama che la gente intraprende varie attività. Per timore dello scandalo io potrei anche abbandonare la mia vita e tutti voi, miei cari fratelli; per non parlare di Sita. Perciò fate come vi dico, e non cercate neanche di consigliarmi contro. Prendete immediatamente Sita e portatela in un posto lontano: accompagnatela all'eremo del saggio Valmiki e lasciatela lì. In effetti, lei stessa desiderava andare a visitare quegli eremi.
"Giuro che non cambierò la mia risoluzione, e vi prego di non cercare neanche di dissuadermi".
Trascorsa quella notte, al sorgere del nuovo giorno Lakshmana chiese a Sumantra di preparare il cocchio reale.
Quando il cocchio fu pronto Lakshmana andò da Sita e le disse: "Tu avevi chiesto a re Rama di farti visitare gli eremi dei saggi che vivono sulle rive del fiume Gange. Il re é stato ben lieto di esaudire la tua richiesta e mi ha comandato di accompagnarti. Perciò o Sita, sali sul cocchio".
Con il cuore colmo di gioia, Sita corse nei suoi appartamenti, prese vestiti, gioielli e altri doni che intendeva offrire ai saggi e alle loro consorti, e ritornò laddove Lakshmana l'aspettava con il cocchio pronto a partire. Non appena vi salì, il cocchio s'avviò rapidamente.
Tuttavia Sita notò dei cattivi presagi e fu in ansia per suo marito e sua suocera. Ella offrì una preghiera per la loro incolumità.
Sita e Lakshmana trascorsero quella prima notte in un ashram sulle rive del fiume Gautami. La mattina seguente ripresero il viaggio.
Quando furono vicini al sacro Gange, guardando il fiume Lakshmana si mise a gemere forte, con grande sorpresa di Sita. Ella gli chiese: "Perché piangi così, Lakshmana? Certo perché senti tanta nostalgia di tuo fratello Rama. Anch'io la sento. Visiteremo gli eremitaggi e passeremo stanotte lì, quindi torneremo ad Ayodhya il più presto possibile".
Sita e Lakshmana salirono sul traghetto per attraversare il Gange. Ancora una volta Lakshmana cominciò a piangere e a gemere forte. Poi disse a Sita: "Il mio cuore è triste, Sita. So che il mondo mi biasimerà per quello che sto facendo. Preferirei morire in questo momento. Sii misericordiosa, perché non è colpa mia".
Così dicendo, egli cadde ai piedi di Sita piangendo amaramente.
Sita divenne ansiosa e si preoccupò moltissimo. Ella chiese a Lakshmana di dirle tutto, senza riserve. Lakshmana si alzò e continuò: "Alla presenza dei membri del suo consiglio, Rama è stato messo a conoscenza di un terribile scandalo pubblico. È qualcosa che i cittadini di Ayodhya e del regno dicono. Rama ne fu molto turbato, poi mi disse qualcosa e si ritirò nel suo appartamento. Non posso ripeterti quelle parole. Posso dirti soltanto che a causa di quello scandalo il re ha deciso di abbandonarti. Ti prego di ricordare che egli non ti accusa, ma ha paura dello scandalo pubblico. Questo è l'ordine del re: devo accompagnarti all'eremo del saggio Valmiki e lasciarti là. Il saggio è un grande amico di nostro padre e certamente avrà la massima cura di te".
Quando udì le terribili parole di Lakshmana, Sita cadde priva di sensi, sopraffatta dal dolore. Dopo un tempo considerevole, ella riprese coscienza e si rivolse a Lakshmana con tono angosciato: "Il mio corpo sembra essere stato creato per soffrire, e io sono un'incarnazione di sofferenza infinita. Quale terribile peccato devo aver commesso in una vita precedente? E chi devo aver privato del suo sposo, per essere soggetta a questo fato pur essendo casta e innocente?
"Ho già vissuto in passato nella foresta, ma allora avevo con me il mio signore Rama. Ora come potrei vivere in questa foresta senza di lui?
"Quando entrerò negli eremi dei saggi, che cosa dirò loro; per quale motivo sono stata esiliata da Rama? Sarebbe stato meglio che mi fossi gettata nel Gange; ma il mio signore mi avrebbe accusato della distruzione della sua dinastia, perché porto in grembo suo figlio.
"O Lakshmana, fa' quello che il Signore ti ha ordinato di fare. Quando tornerai ad Ayodhya porta i miei devoti inchini al signore Rama e a mia suocera, e assicura il mio signore della mia purezza e della mia eterna devozione nei suoi confronti.
"Sono certa che sono stata esiliata solo a causa dello scandalo pubblico e non perché il mio signore abbia il minimo sospetto sulla mia castità. Invero, per una donna casta il marito è dio, i parenti e il guru; egli le è più caro della sua stessa vita; perciò la sua missione è per lei della massima importanza. É in questo spirito che mi congedo da te. Ora puoi andare".
Quando Lakshmana scomparve dalla sua vista, Sita scoppiò a piangere, seduta sulla riva del Gange.
Valmiki andò in riva al Gange e salutò Sita con il dovuto onore e rispetto.
Egli disse: "Io so che tu sei Sita, figlia di re Janaka e nuora di re Dasaratha. Tu sei l'amata moglie di Rama. Sapevo che saresti venuta, e so anche per quale ragione sei qui. Per mezzo dell'occhio dell'intuizione, acquisito con la pratica di intense austerità, io so che tu sei assolutamente pura. Io conosco tutto quello che succede nei tre mondi.
"Vieni! A poca distanza da qui vedrai un eremitaggio di donne ascete che d'ora in poi si prenderanno cura di te. Non essere triste. Considera questa la tua casa".
Valmiki condusse Sita nell'eremitaggio femminile e la presentò alle donne ascete, affidandola alle loro cure.
Quando vide che Sita era entrata nell'eremo del saggio Valmiki, secondo l'ordine di Rama, Lakshmana fu afflitto dal dolore e disse a Sumantra, il fedele auriga: "Guarda, Sumantra: quello stesso Rama che ha conquistato gli dèi, i semidèi e i demoni deve ora patire questa disgrazia. In precedenza era stato bandito dal suo regno, e ora viene separato dalla moglie diletta a causa dello scandalo pubblico. Questo non mi sembra giusto".
Dopo avere ascoltato la sua afflizione, Sumantra gli rispose: "O Lakshmana, tutto ciò era noto ai saggi da molto tempo. Un giorno il saggio Durvasa rivelò tutto questo a tuo padre, re Dasaratha.
"Il saggio predisse che Rama sarebbe stato soggetto a molta sofferenza, che avrebbe esiliato Sita, e più in là anche te. Il re mi ammonì di non rivelare a nessuno questo segreto. Comunque, ora te l'ho detto".
A questo punto Lakshmana era ansioso di conoscere tutta la verità, e Sumantra continuò: "In quel tempo il saggio Durvasa viveva nell'eremo del saggio Vasishtha. Re Dasaratha andò a trovarlo per rendergli omaggio e chiedergli qualcosa sulla sua vita e quella dei suoi figli.
"Allora il saggio Durvasa disse a tuo padre: "Ti dirò qualcosa che ebbe luogo molto tempo fa. Ci fu una guerra tra gli dèi e i demoni. Gli dèi implorarono la protezione del saggio Bhrigu, ma la moglie di Bhrigu concesse rifugio ai demoni. Vishnu divenne furioso e in un accesso di collera recise la testa della donna con la sua arma rotante. Il saggio Bhrigu fu molto contrariato e maledì lo stesso Signore Vishnu: "Poiché hai ucciso mia moglie, nascerai come essere umano e allora sarai separato da tua moglie!".
"Istantaneamente il saggio si ravvide e si dispiacque molto di avere maledetto lo stesso Signore Vishnu. Comunque, per rassicurarlo, il Signore Vishnu gli disse che avrebbe fatto l'uso migliore di quella maledizione, per il beneficio e degli dèi e dei mondi".
"Come risultato di quella maledizione, Vishnu nacque come Rama e ha dovuto bandire sua moglie Sita. Durvasa predisse anche che Rama avrebbe governato il mondo per moltissimo tempo, e avrebbe avuto due figli".
Lakshmana si sentì consolato dalle parole di Sumantra. Il sole tramontò, ed essi decisero di passare la notte sulla riva del fiume Kosi.
La mattina seguente Lakshmana e Sumantra intrapresero il viaggio di ritorno e raggiunsero Ayodhya verso mezzogiorno. Ivi Lakshmana vide Rama che era l'immagine stessa del dolore.
Stringendo con le sue mani i piedi di Rama, Lakshmana offrì questo consiglio al fratello:
"O Rama, obbedendo al tuo comando ho portato via Sita, lasciandola sull'altra riva del fiume Gange, affidata alle cure delle donne ascete che vivono in un eremo là vicino. Ti prego, Rama, non addolorarti per quello che è successo. Gli uomini saggi come te non si addolorano. In questo mondo tutti gli oggetti devono perire, tutte le cose che si elevano devono cadere, ogni incontro deve terminare con la separazione e la vita deve terminare con la morte. Perciò uno non dovrebbe essere eccessivamente attaccato alla propria moglie, ai figli, agli amici e alle ricchezze, poiché è sicuro di doversene separare. Abbandona questo dolore, perché se ti addolori potrebbe esserci maggiore scandalo pubblico; proprio quello che desideri evitare".
Rama si sentì risollevato. Il suo dolore era scomparso. Egli ringrazio e lodò Lakshmana per avergli dato quel consiglio al momento giusto. Rama continuò: "Negli ultimi quattro giorni, afflitto com'ero dal dolore ho trascurato i miei doveri di re. Ti prego di riunire i ministri e tutti gli altri membri della corte reale. Poiché non è saggio trascurare i doveri reali. Il re che non se ne occupa tutti i giorni precipita in un orribile inferno.
"A questo proposito ho udito il seguente racconto: C'era una volta un re chiamato Nriga. Dopo un rito sacro, egli diede in elemosina migliaia di mucche ai sacerdoti. Una mucca che apparteneva ad un brahmana venne in qualche modo mischiata con la mandria e fu data ad un altro brahmana di Kankhal. Il brahmana a cui apparteneva la mucca scoprì il fatto, e andò a reclamarla. L'altro brahmana rispose giustamente, affermando che si trattava di un dono del re. Quindi decisero entrambi di recarsi alla corte del re per risolvere la questione.
"Il re però era assente, e la disputa non poteva essere ascoltata. I due brahmana aspettarono alcuni giorni, ma quando videro che neanche allora il re s'era fatto vivo gli lanciarono la maledizione che il sovrano sarebbe nato come lucertola e sarebbe rimasto invisibile in un buco (così com'era rimasto invisibile per tutti quei giorni). Tuttavia i brahmana dissero che il re sarebbe stato liberato dalla maledizione quando il Signore Vishnu si sarebbe incarnato come Vasudeva. Tale è il fato di quei re che trascurano i loro doveri".
Rama continuò: "Nriga riunì i suoi ministri e disse loro: "Vi prego, installate immediatamente mio figlio Vasu sul trono e incoronatelo re. Ordinate anche ai nostri architetti reali di costruire per me una buca nella quale possa vivere abbastanza comodamente durante l'intero periodo della mia vita maledetta come lucertola. Là trascorrerò i miei giorni finché non sarò liberato dal corpo di lucertola per grazia del Signore Vasudeva".
"Poi Nriga disse al re suo figlio: "Ti prego, figlio mio diletto, aderisci rigorosamente al codice del Dharma. Non deviare dal sentiero della giustizia. Fa' che il mio fato sia per te un ammonimento: vedi che cosa ha provocato nel mio caso anche una piccola trasgressione! Però non addolorarti per me. E esattamente come dev'essere: ogni azione è seguita dalla reazione a lei appropriata. Si ottiene ciò che si deve ottenere, si va dove si deve andare, e si riceve qui (sia come piacere che come dolore) quello che è giusto che si ottenga. Tutto questo è in perfetta armonia con la giustizia divina, per il proprio bene". Dopo avere consigliato suo figlio in tal modo, Nriga andò a ritirarsi nella sua buca".
Rama continuò a narrare a Lakshmana storie simili, per illustrare come persino grandi saggi avevano maledetto altri, e come in seguito le loro maledizioni che a prima vista sembravano un male si erano dimostrate delle benedizioni mascherate per tutti coloro ai quali erano state rivolte.
Quindi Rama continuò, raccontando la storia di re Nimi:
"Nimi era il dodicesimo figlio del grande re Ikshvaku. Un giorno egli entrò nella sua capitale chiamata Vaijayanti insieme al saggio Gautama e ad altri. Entrando in città, egli decise di celebrare un rito sacro. Per questo invitò suo padre Ikshvaku e chiese al saggio Vasishtha di officiare il rito. Il saggio gli fece sapere: "Sono già impegnato a condurre un rito sacro per Indra; verrò da te non appena avrò concluso quel rito".
"Nimi continuò comunque il suo rito sacro per cinquemila anni. Quando Vasishtha tornò là, dopo aver concluso il rito di Indra, scoprì che il suo posto era stato preso dal saggio Gautama. Vasishtha s'adirò molto; e inoltre vide che, nonostante fosse giorno, Nimi dormiva profondamente. Questo lo irritò maggiormente e preso da un'incontrollabile ira lo maledì: "Tu mi hai offeso, prima invitandomi e poi ignorandomi. Possa il tuo corpo rimanere senza vita". Nimi sentì che era ingiusto ricevere quella maledizione dal saggio, e pronunciò una
contro-maledizione: "Possa anche tu essere privato del corpo". E subito rimasero entrambi senza corpo".
Su richiesta di Lakshmana, Rama continuò: "Il radioso saggio Vasishtha si recò da suo padre Brahma, il Creatore, e gli fece presente la sua condizione: "Signore, davvero infelice è la sorte di coloro che sono stati privati del corpo; senza il corpo non si può compiere nessuna azione. Perciò ti imploro, indicami il modo per ottenere un altro corpo".
"Brahma rispose: "Ottieni un corpo dalle energie combinate di Mitra e Varuna, e sarai incarnato senza essere stato concepito da una donna. Con quel corpo farai grandi azioni virtuose e poi tornerai da me".
"In quel tempo Mitra e Varuna vivevano insieme, devotamente adorati da tutti gli dèi. Un giorno la ninfa celeste Urvasi capitò per caso da quelle parti. Varuna la vide, s'innamorò di lei a prima vista e le chiese di stare con lui. La ninfa però rispose che, prima di lui, Mitra le aveva già chiesto di essere sua moglie. "Io ti amo con tutto il cuore - ella disse a Varuna - ma il mio corpo appartiene a Mitra".
"Incapace di controllarsi davanti a lei, Varuna fece cadere la sua energia in un vaso (che già conteneva l'energia di Mitra) .
"Mitra se la prese con Urvasi anche per questa parziale trasgressione e la maledì a nascere sulla terra come essere umano, e sposare Puruvara (il figlio di Budha) e vivere sulla terra per un periodo di tempo. Così ella cadde dal cielo sulla terra.
"Dal vaso emerse un saggio raggiante, il saggio Agastya, che disse a Mitra: "Non sono tuo figlio!", e andò via. Dopo un po' di tempo da quel vaso venne fuori il saggio Vasishtha.
"Intanto, sulla terra, i saggi che avevano visto Nimi cadere senza vita conservarono il suo corpo imbalsamato, e continuarono il loro rito. Alla conclusione del rito, il saggio Bhrigu disse: "Riporterò Nimi in vita".
"Anche gli dèi furono lieti di questo miracolo, e chiesero a Nimi: "Dove vorresti dimorare?". Nimi rispose: "Dimorerò negli occhi di tutti gli esseri".
Gli dèi esaudirono il suo desiderio e decretarono: "Grazie a te tutti gli esseri batteranno le ciglia, aprendo e chiudendo gli occhi, in modo che gli occhi possano godere di un po' di riposo in questi intervalli".
"Essi avevano ancora il corpo di Nimi. Gli dèi 'rimestarono' quel corpo e da esso emerse un essere. Poiché era nato (janana) dal rimestare (mathana) e dal disincarnato (videha) Nimi, l'essere nato in quel modo fu chiamato Janaka Vaideha di Mithila.
Lakshmana chiese a Rama: "Come mai Nimi, nonostante fosse impegnato a celebrare un rito religioso, non riuscì a controllare la sua collera e a trattenersi dal pronunciare la sua
contro-maledizione?"
Rama rispose: "La tolleranza non è cosa abituale a tutti, Lakshmana. La collera è difficile da controllare per la maggior parte delle persone. Per illustrare questo fatto, ti racconterò la storia di re Yayati. Ti prego d'ascoltare.
"Viveva anticamente un re di nome Yayati, che era figlio di Nahusha. Yayati aveva due mogli: la prima si chiamava Sarmishta, figlia di Vrishaparva, e l'altra era Devayani, figlia di Usana. Egli ebbe un figlio da ciascuna delle due mogli: Sarmishta diede alla luce Puru e Devayani diede alla luce Yadu.
"Il re Yayati amava più Sarmishta che Devayani. Un giorno Yadu disse alla madre Devayani: "Tu sei nata da nobili saggi e sei nobile tu stessa. Com'è possibile che sopporti quest'offesa da parte del re senza dire una parola di protesta o di dispiacere? Io penso che noi due dovremmo gettarci insieme nel fuoco, e morire bruciati. Lasciamo che il re si diverta con Sarmishta, senza il minimo ostacolo. Comunque, se vuoi tu puoi sopportare quest'offesa e questi maltrattamenti; io non posso, e quindi ti lascerò".
"Udendo le parole del figlio, Devayani andò a chiedere aiuto a suo padre, il saggio Bhargava o Usana. Quando udì i fatti, il saggio s'adirò molto e lanciò una maledizione: "Possa Yayati, che preso dal godimento dei piaceri con Sarmishta trascura il tuo benessere, essere immediatamente sopraffatto dalla vecchiaia".
"A causa della maledizione del saggio, Yayati divenne subito vecchio. Tuttavia, per ritardare il giorno fatale, egli chiese ai suoi giovani figli di prendere per qualche tempo su di loro la sua maledizione, mentre lui avrebbe continuato a godersi i piaceri della vita. Egli andò da Yadu, che però non volle nemmeno ascoltarlo. Poi andò dall'altro figlio, Puru, che invece acconsentì prontamente e si considerò benedetto dal padre.
"Yayati tornò di nuovo giovane, mentre Puru portava il peso della sua vecchiaia. Dopo essersi divertito per moltissimo tempo, Yayati restituì la giovinezza a Puru e si riprese la sua vecchiaia. In cambio di questo favore, Yayati incoronò Puru re al suo posto. Ma riguardo a Yadu, Yayati lo maledì: "Tu non hai avuto alcun rispetto per me, che sono tuo padre. Perciò sarai padre di moltissimi demoni".
"Dopo un po' di tempo Yayati ascese in cielo; e Yadu ebbe moltissimi demoni come figli".

[NOTA: Yadu era un demone. Il Signore Krishna nacque nella stirpe di Yadu. I discendenti non ereditano necessariamente la natura dei loro antenati.]

Un giorno, mentre Rama sedeva nella sua corte, la guardia del palazzo gli annunciò: "Molti saggi sono giunti alla porta, o re, e desiderano incontrarti".
Su sollecita richiesta di Rama, i saggi entrarono a corte.
Dopo averli devotamente onorati, Rama disse loro: "Uomini santi!
Che cosa posso fare per voi? Posso conoscere lo scopo della vostra visita? Vi prego, comandate, e io farò con immensa gioia tutto quello che desidererete. Questo regno, la mia vita, e tutto il resto, li mantengo solo per il servizio dei santi. Questo lo dico in verità".
Dopo questa rassicurazione, i saggi dissero a Rama: "In un tempo remoto c'era un grande demone chiamato Madhu, figlio di Lola. Egli era un essere giusto e virtuoso, e per questo era amato dagli dèi e dai saggi. Assai contento di lui, il Signore Shiva gli fece dono di un tridente che aveva i poteri del suo stesso tridente.
"Il Signore disse a Madhu: "Estremamente compiaciuto di te, ti faccio dono di questo tridente. Fino a quando non verrà usato contro i saggi e gli dèi, resterà tuo; altrimenti sparirà".
"Madhu fu immensamente felice e pregò per un altro favore: signore, fate che questo tridente sia proprietà di tutti i miei discendenti".
"Il Signore, però, concesse un dono leggermente modificato: "La tua preghiera non deve rimanere inascoltata. Perciò avrai un figlio al quale farai dono del tridente. Fino a quando egli terrà il tridente in mano, resterà invincibile".
"Felice del dono ricevuto dal Signore Shiva, Madhu fece ritorno a casa. Sua moglie Kumbhinasi diede presto alla luce un figlio malvagio di nome Lavana. Fin dalla sua infanzia Lavana indulgeva in terribili azioni malvagie. Vedendo questo, Madhu fu molto turbato e dispiaciuto, e tuttavia non riuscì a fare nulla per cambiarlo. Perciò egli abbandonò casa e andò via. Comunque, prima di partire, diede al giovane il tridente del Signore Shiva, rivelandogli le condizioni del dono.
"Con l'ausilio di quel tridente Lavana cominciò a saccheggiare i tre mondi.
"Tutti i re del mondo, e i santi, gli asceti e gli eremiti hanno terribilmente paura di Lavana. O Rama, tu sei il nostro solo rifugio. Ti abbiamo raccontato sinceramente del demone e dell'arma che impugna . Noi siamo stati felici di sapere che tempo fa uccidesti il malvagio Ravana. Perciò riteniamo che solo tu puoi salvarci".
Rama domandò: "Dove vive questo demone chiamato Lavana? Cosa mangia? Che cosa fa?".
I saggi risposero: "O Signore, il demone vive a Madhuvana. Egli mangia di tutto, ma in particolare predilige divorare gli asceti. Le sue azioni sono veramente crudeli!".
Rama rassicurò i saggi: "Andate in pace, o santi. Potete considerare già morto il demone; su questo non c'è dubbio". Poi, volgendosi ai suoi fratelli, Rama chiese: "Chi è pronto a compiere quest'impresa?".
Bharata si offrì volontario. Satrughna però intervenne e disse: "Il mio diletto fratello maggiore Bharata ha già avuto abbastanza infelicità nella sua vita. Lascia che quest'impresa sia affidata a me".
Rama fu d'accordo e rispose: "Ben detto, Satrughna. Manderò te a combattere contro Lavana. Anzi, voglio incoronarti subito re di Madhuvana. Uccidi Lavana, installati sul trono di Madhuvana e governa quel paese con giustizia".
Questa svolta improvvisa degli eventi sconcertò Satrughna, che rispose: "Ahimè, che cosa ho fatto! Mi sembra ingiusto che mentre il fratello maggiore è ancora in vita, il minore sia incoronato. D'altro canto il tuo comando non dev'essere disobbedito. Tu stesso mi hai spesso insegnato le sacre Scritture che spiegano la giusta condotta umana, e io so che non è corretto per un giovane argomentare con un anziano. Io so che argomentare contro quello che un anziano ha detto, anche se potrebbe apparire ingiusto, non è corretto. Perciò, Rama, non discuterò con te, ma farò esattamente ciò che mi hai comandato di fare, e distruggerò qualsiasi ingiustizia possa trovarsi in me".
Rama celebrò immediatamente l'incoronazione di Satrughna come re di Madhuvana, prima ancora di inviarlo a combattere contro il demone. I saggi e tutti gli altri religiosi presenti proclamarono il demone morto, già dal momento dell'incoronazione di Satrughna! Rama strinse a sé Satrughna e gli consegnò un'arma dall'incomparabile potenza: "Carissimo fratello, quest'arma fu creata dallo stesso Creatore Brahma traendola dal grande oceano; ma finora era rimasta celata. Il Signore la usò contro i primi demoni, Madhu e Kaitabha; e dopo la loro distruzione la usò per creare il mondo. Benché la conoscessi, non l'ho mai usata contro Ravana, perché sapevo che avrebbe causato un'immensa distruzione...
"Tu sai che Lavana tiene il tridente di Shiva in casa sua e tutti i giorni attende al suo culto. Poi egli va in giro per procurarsi il cibo. Se lo sfiderai prima che rientri a casa sua e metta di nuovo le mani sul tridente, lo sconfiggerai facilmente".
Rama continuò: "Porta con te un grande esercito che ti sostenga nell'impresa, o Satrughna. Portati denaro e viveri a sufficienza e distribuiscili ai soldati, perché siano contenti e stiano su col morale. Fa' accampare l'esercito lontano dalla città e presentati da solo a Madhuvana, cosicché il demone non abbia sospetti sulle tue intenzioni. Questo è l'unico modo in cui potrai ucciderlo. E adesso è il momento migliore per partire; perché è estate, e il Gange è facile da attraversare".
Dopo aver ricevuto le benedizioni delle regine e di Rama, Satrughna partì. Infine, dopo aver passato due notti per strada, Satrughna raggiunse l'eremo del saggio Valmiki. Egli s'inchinò ai piedi del saggio e poi chiese: "Sant'uomo, permettetemi di restare qui per una notte. Domani ripartirò per la mia missione".
Il saggio accolse Satrughna con tutto il cuore e gli disse: "Invero questo è il tuo eremitaggio; esso appartiene a Rama e alla sua famiglia".
Dopo avergli offerto l'ospitalità dell'eremo, il saggio Valmiki narrò a Satrughna la seguente storia riguardo a un eremitaggio delle vicinanze:
"C'era una volta un re chiamato Saudasa, che aveva un figlio di nome Viryasaha. Un giorno, mentre era a caccia, Saudasa vide due demoni nella foresta intenti a godersi il loro pasto. Pieno di collera, il re ne uccise uno. L'altro demone maledì Saudasa con queste parole: "Tu hai ucciso il mio amico, che non ti aveva fatto alcun male; perciò, a suo tempo, mi prenderò la rivincita su di te".
"Qualche tempo dopo Saudasa volle celebrare il rito del cavallo. Alla conclusione del rito, il demone prese le sembianze del saggio Vasishtha e chiese della carne da mangiare. Il re diede ordine di preparare la carne. E il demone stesso, questa volta nelle sembianze di un cuoco, preparò un pasto di carne umana.
"Quindi il re servì il vero saggio Vasishtha con quel cibo. Ma il saggio adirato maledì il re : "Poiché mi hai dato da mangiare della carne umana, tale sarà il tuo cibo (cioè, diventerai un cannibale)".
"Il re stava per maledire a sua volta il saggio, ma la regina lo trattenne. La sua ira fluì fuori dalla sua bocca e bagnò i suoi piedi, che divennero scuri, Per questo egli fu chiamato Kalmashapada. Allora Vasishtha modificò la sua maledizione e disse: "Essa avrà effetto solo per dodici anni". Dopo aver vissuto per dodici anni come un cannibale, il re riacquistò la sua condizione precedente e il regno che gli apparteneva prima. Quel famoso rito sacro fu celebrato in quell'eremo laggiù.
Quella notte, mentre Satrughna era ospite nell'eremitaggio di Valmiki, Sita diede alla luce i figli di Rama.
Nel cuore della notte, alcune persone provenienti dall'eremitaggio femminile in cui risiedeva Sita si recarono dal saggio Valmiki e annunciarono: "Signore santo, la moglie di Rama ha dato alla luce due figli! Ti preghiamo, vieni a benedirli e a proteggerli dagli spiriti maligni".
Il saggio Valmiki si recò immediatamente dove si trovava Sita, accompagnato da parecchi saggi anziani. Egli prese un mazzetto d'erba kusa, consacrò i bambini con dei mantra per proteggerli dagli spiriti maligni e quindi li toccò con quegli steli d'erba.
Il primogenito fu toccato con la cima dell'erba kusa, e perciò Valmiki lo chiamò Kusa. L'altro bambino fu toccato con la parte bassa e terminale (lava) dell'erba, e perciò fu chiamato Lava.
Infine tutte le persone che si trovavano nell'eremo cantarono le glorie di Rama e Sita.
La mattina seguente Satrughna si recò dal saggio Chyavana e gli chiese di svelargli i punti forti e i punti deboli di Lavana e del famoso tridente di cui era in possesso.
Per far comprendere a Satrughna il potere tremendo di quel tridente, il saggio gli narrò la storia di un suo antenato chiamato Mandhata.
Il saggio Chyavana disse: "Una volta il tuo antenato Mandhata andò in cielo, con l'intenzione di conquistarlo. Indra gli disse umilmente: "O re, perché non provi a conquistare tutta la terra, prima di tentare d'invadere il cielo in questo modo?".
"Mandhata domandò con ira: "La terra è già stata conquistata; chi c'è sulla terra che non riconosce la mia sovranità?". Indra rispose calmo: "Lavana".
"Mandhata fece subito ritorno sulla terra e inviò un emissario a Lavana, perché accertasse se effettivamente egli non riconoscesse la sovranità di Mandhata. La risposta di Lavana fu rapida e sommaria: fece un bel pasto del messaggero.
"Fortemente incollerito da questo affronto alla sua potenza, lo stesso Mandhata in persona si recò a combattere contro Lavana. Per niente intimorito dalla sfida, Lavana prese il suo tridente e lo lanciò contro Mandhata. L'arma infallibile tolse la vita al grande re e ritornò dal demone".
"Tuttavia, non temere - concluse il saggio Chyavana - domani tu ucciderai il demone Lavana, quando lo sfiderai prima che abbia il tempo d'afferrare il tridente".
La mattina seguente di buon'ora Satrughna partì da solo verso la città chiamata Madhuvana. Una volta raggiunta la città, egli s'appostò in modo tale da bloccare l'ingresso alla casa di Lavana.
Lavana, che era uscito a procurarsi del cibo, tornò poco dopo con un carico enorme di carcasse di vari animali.
Vedendo Satrughna in piedi che bloccava l'entrata del suo palazzo, egli gridò: "Chi sei, o folle? Che cosa vuoi fare qui? Io ho ucciso e divorato migliaia di persone come te, nonostante fossero tutte ben armate ed eroiche in battaglia. Ovviamente la carne che ho portato con me non è abbastanza, e tu sei venuto a completarla per me. Ora ti ucciderò e farò un bel pasto anche di te".
Allora Satrughna rivelò la sua identità, dicendo di essere il fratello di quel Rama che aveva ucciso il potente Ravana.
Il demone replicò: "Ah, che meraviglia, Ravana era un mio parente stretto. Come sono fortunato di poter vendicare così facilmente la sua morte!".
Vedendo che il demone era disarmato, Satrughna lo sfidò ad un combattimento a corpo a corpo, Lavana accettò, e afferrati degli alberi enormi cominciò a colpire Satrughna con essi.
Satrughna combatté impavidamente, ma colpendolo con un grosso albero Lavana gli fece perdere i sensi.
Vedendolo giacere a terra immobile, Lavana pensò che Satrughna fosse morto. Perciò, senza neanche curarsi di andare a prendere il tridente, si sedette a consumare il suo pasto.
Nel frattempo, però, Satrughna aveva ripreso i sensi. E senza perdere altro tempo, egli fissò quel missile micidiale che Rama gli aveva dato, pronto a sparare, bloccando nello stesso tempo l'entrata del palazzo, in modo che Lavana non potesse prendere il suo tridente invincibile.
La forza del missile fu tale che fece paura anche agli dèi, che erano andati a trovare il Signore per un'ambasciata.
Il Signore li rasserenò: "Questa immensa energia che vi ha impaurito tutti non è altro che il missile che Satrughna sta per usare nella battaglia contro Lavana. Esso fu forgiato all'inizio dal Creatore dell'universo per distruggere i demoni Madhu e Kaitabha. Andate rapidamente ad assistere al terribile scontro". E gli dèi scesero sulla terra per assistere alla grande battaglia.
Satrughna fece partire il missile divino contro Lavana, che cadde subito morto.
E in quello stesso istante il tridente ritornò dal Signore Shiva.
Dopo l'uccisione di Lavana, gli dèi si complimentarono con Satrughna per la sua impresa sovrumana.
"Questo demone aveva oppresso impietosamente molti dèi e demoni - essi dissero - ma per fortuna ora l'hai ucciso".
Satrughna pregò gli dèi perché entrassero nella città di Madhupuri. Gli dèi entrarono in città e la benedirono, augurandole che da allora in poi essa sarebbe diventata fiorente e prosperosa.
E infatti da quel giorno stesso la prosperità e la pace tornarono nella città di Madhupuri. Ogni suo abitante era sano, felice e in pace con sé stesso.
Con Satrughna come re, la giustizia fu riaffermata ovunque, e strade e giardini furono costruiti dappertutto.
Dedito al benessere della città e del suo regno, in questo modo passarono dodici anni. Un giorno Satrughna sentì l'intenso desiderio di rivedere i piedi divini di Rama.
Lungo la via del ritorno ad Ayodhya, Satrughna fece nuovamente sosta per un giorno all'eremo del saggio Valmiki.
Nel frattempo il saggio aveva composto la famosa epica chiamata 'Rama Carita' (la storia di Rama). E Valmiki volle recitarla a Satrughna per fargliela ascoltare.
L'epica era perfetta in ogni suo aspetto. Le sue parole erano veritiere, la narrazione era veritiera. Udendola, Satrughna cominciò a versare lacrime d'amore, e singhiozzando ripetutamente perse coscienza del corpo per un po' di tempo.
Anche i soldati lì presenti udirono la commovente storia e furono rapiti in estasi. Più tardi essi chiesero a Satrughna: "Di chi parla questa storia? Su che cosa è basato l'intero poema? È vero o stiamo sognando? Ti preghiamo di chiedere al saggio tutte queste cose".
Satrughna, comunque, si rifiutò di farlo. Egli rispose: "Guerrieri! Non è corretto da parte nostra chiedere queste cose al saggio. Certamente in quest'eremo del saggio Valmiki vi sono innumerevoli meraviglie".
Detto questo egli si ritirò nel proprio accampamento.
Ben presto Satrughna entrò nel palazzo di Rama e, con sua immensa gioia, vide il fratello attorniato dai suoi ministri.
Egli s'inchinò ai piedi del suo re, e poi disse: "Rama, ho eseguito devotamente i tuoi ordini. Lavana è stato ucciso e io stesso ho regnato su Madhuvana per un lungo periodo di dodici anni. L'amministrazione dello stato è stata stabilita su solide basi. Benedicimi, Signore, poiché senza di te sono come un vitello senza la mucca; permettimi di stare qui ai tuoi piedi".
Rama abbracciò affettuosamente il fratello e rispose: "Allo stesso modo anche tu mi sei molto caro, o Satrughna. Ma gli uomini di stirpe guerriera non si sentono tristi quando sono separati dai loro amici e parenti; poiché per loro, la protezione del popolo è di primaria importanza. Resterai dunque con me per sette giorni, e poi tornerai nel tuo regno".
Satrughna trascorse sette giorni beati in compagnia di Rama e degli altri suoi fratelli; e l'ottavo giorno ripartì per Madhupuri insieme a Bharata.
Un giorno, mentre Rama teneva consiglio nella sua corte ad Ayodhya, un uomo anziano si presentò alle porte del palazzo, portando tra le braccia il corpicino morto del suo bambino.
L'anziano brahmana gridava piangendo: "Ahimè, cos'ho fatto per meritare questa sventura? Io non ho mai pronunciato il falso; non ho mai fatto del male ad alcun essere vivente. Non ricordo di aver mai fatto una cattiva azione contro qualsiasi essere. E allora, per quale peccato questo mio figlioletto è morto prima di poter celebrare le esequie dei suoi genitori?
"Ah, figlio mio, te ne sei andato dopo una vita tanto breve, lasciando me e tua madre affranti dal dolore. Ma molto presto anche noi ti seguiremo .
"Una disgrazia come questa non s'è mai sentita; io non ho mai visto una cosa simile. Dev'esserci senz'altro una ragione. Si sa che cose del genere avvengono a causa dell'ingiustizia del re. Non c'è dubbio che il re Rama è responsabile della morte prematura di questo bambino.
"Che il re riporti il bambino in vita, oppure io mi toglierò la vita qui stesso, davanti all'ingresso del suo palazzo. E allora che il re e i suoi fratelli si divertano, dopo essersi resi responsabili della morte di un brahmana.
"Le disgrazie affliggono la nazione governata iniquamente da un re dalla condotta deplorevole o immorale; è solo in un paese simile che il popolo è soggetto alla morte prematura".
Profondamente angosciato dalle parole del brahmana, Rama riunì immediatamente i saggi della sua corte. Dopo averli ricevuti con grande reverenza e onore, Rama li mise al corrente dell'accaduto.
Notando il grande dispiacere che affliggeva Rama, il saggio Narada gli disse:
"Rama, ti dirò il vero motivo della morte prematura di quel bambino.
"Nell'epoca conosciuta col nome di Krta o Satya Yuga solo i brahmana, o le persone sagge e istruite che erano giuste e autocontrollate, si dedicavano alla pratica delle austerità. Col passare del tempo, durante l'era conosciuta come Treta Yuga, anche le persone che non erano tanto sagge e istruite, tanto giuste e autocontrollate - anche persone d'indole guerriera e dallo spirito marziale - cominciarono a praticare austerità. Certo già durante quel periodo l'ingiustizia aveva cominciato ad invadere la terra. Con l'inizio della terza era, conosciuta come Dvapara, l'ingiustizia dell'era precedente si era, per così dire, raddoppiata. E persino coloro che erano dediti alle professioni, al commercio, all'industria e all'agricoltura, e che quindi erano ancor più lontani dalla via della giusta condotta, cominciarono a praticare delle austerità, sicuramente per motivi poco edificanti. Ora già qualcuno che non appartiene a nessuna di queste classi, e che invece è nato nella classe servile, è impegnato in austerità: certamente egli non possiede nessuna delle qualificazioni necessarie. In questa era, la classe dei sudra (la classe servile) è caratterizzata dall'ingiustizia; il fatto che un membro di tale classe abbia cominciato a praticare austerità ha causato la morte del bambino. Se potrai porre rimedio a questo stato di cose, allora il bambino tornerà in vita".
Udendo questa spiegazione, il morale di Rama si risollevò. Egli ordinò che il corpo del bambino fosse imbalsamato, e che si consolasse l'anziano padre. Subito dopo egli pensò al velivolo spaziale Pushpaka, che in un attimo arrivò sul posto. Salito sul velivolo, Rama perlustrò la terra a est, a nord e ad ovest, ma non vi scoprì alcuna azione ingiusta che avrebbe potuto causare quella grande calamità. Poi egli si diresse verso sud, e nei pressi di una grande montagna vide un immenso lago. Stando in piedi nel lago, qualcuno stava praticando intense austerità. Guardandolo, Rama gli chiese: "Per curiosità, o asceta, desidererei sapere chi sei? In quale comunità sei nato? E perché stai praticando queste austerità: per ottenere il paradiso o per un'altra ragione? O forse stai praticando queste austerità, molto difficili per altri, solo per ottenere un dono. Dimmi sinceramente: sei un brahmana, un guerriero, un commerciante o un servo?".
L'asceta rispose: "Non ti dirò il falso, o Rama. Ti dirò la verità, poiché attraverso questa penitenza desidero ottenere lo stato divino. Io sono un sudra, e il mio nome è Shambuka".
Non appena Shambuka pronunciò queste parole, Rama sguainò la sua spada radiosa e gli recise la testa.
Gli dèi furono lieti e vollero offrire a Rama un dono.
Rama fece la sua scelta: "O dèi, se siete compiaciuti con me, che il figlio del brahmana torni in vita; questa è l'unica cosa che vi chiedo".
Gli dèi risposero: "Questo è già stato fatto, perché nel momento in cui hai tagliato la testa di Shambuka il figlio del brahmana è risuscitato. Bene, ora procediamo verso l'eremo del saggio Agastya. Egli ha vissuto di sola acqua negli ultimi dodici anni e ha appena concluso il suo periodo d'austerità. Andiamo a trovarlo".
Quando gli dèi arrivarono nel suo eremitaggio, Agastya li ricevette con sacra devozione. Più tardi essi partirono.
Rama scese dall'aeromobile Pushpaka e s'inchinò davanti al saggio. Il grande rishi lo accolse con tutto il cuore, e poi gli disse: "Gli dèi mi hanno detto che hai ucciso l'asceta-sudra, risuscitando così il figlio del brahmana. Tu sei davvero il Signore Narayana; in te dimorano tutte le cose. Tu sei il Signore di tutti gli dèi. Tu sei l'eterno purusha (la persona suprema). Ti prego, passa la notte qui e riparti domattina. Accetta anche quest'ornamento radioso di cui solo tu sei degno. È detto che colui che regala ciò che gli è stato dato acquista moltissimo merito".
Rama chiese al saggio: "Come hai fatto ad avere quest'ornamento? Ti prego, raccontamelo, sono curioso di saperlo".
Agastya continuò: "Moltissimo tempo fa vivevo in una foresta. Un giorno m'inoltrai profondamente nel cuore della foresta e vidi un bellissimo eremitaggio. Trascorsi una notte là. La mattina seguente vidi un cadavere vicino all'eremitaggio. Mentre mi chiedevo di chi poteva essere quel corpo, vidi un'altra scena meravigliosa.
"Un veicolo spaziale discese sul posto, e in esso vidi un radioso essere celeste circondato da ninfe che cantavano e danzavano. Mentre continuavo a guardare, egli scese dal velivolo, si accomodò e divorò quel cadavere. Finito il pasto, andò al lago a lavarsi. Quando stava per risalire sul velivolo, gli chiesi: "Chi sei? Hai l'aspetto di un dio, ma hai divorato un cadavere. Ti prego di chiarirmi i motivi di questo strano comportamento"".
Agastya continuò:
Per rispondere alla mia domanda, quell'essere celeste mi raccontò questa storia:
"Quando vivevo su questa terra ero il figlio del re di Vidharbha chiamato Sudeva. Egli ebbe due mogli, e da esse ebbe due figli. Io mi chiamavo Sveta e mio fratello Suratha.
"Alla morte di nostro padre, i cittadini m'incoronarono re. Per un certo periodo di tempo amministrai il regno con giustizia, e in seguito mi ritirai nella foresta e praticai intense austerità. Tuttavia, quando lasciai questo mondo e raggiunsi il più alto reame celeste, il Brahmaloka, scoprii di essere ancora soggetto alla fame e alla sete.
"Quando ne chiesi la ragione, il Creatore Brahma mi disse: "Tu hai fatto penitenze solo con il corpo; perciò soddisferai la tua fame divorando carne umana. Poiché non hai dato niente a nessuno - né da mangiare né da bere - sei ancora soggetto alla fame e alla sete anche in paradiso. Comunque sarai liberato da questa condizione quando sarai benedetto dall'incontro con il saggio Agastya"".
Quell'essere celeste fu felicissimo di vedermi, perché in quello stesso istante fu liberato dalla sua miserabile condizione. Come segno di gratitudine, egli mi indusse ad accettare quest'ornamento celeste.
Poi Rama chiese ad Agastya: "Perché la foresta chiamata Dandaka è priva di animali e uccelli? Ti prego, o saggio, illuminami anche su questo".
Il saggio Agastya continuò:
Anticamente Manu ebbe un figlio chiamato Ikshvaku. Manu lo installò sulla terra come suo unico imperatore. Inoltre Manu istruì Ikshvaku nell'arte della giusta amministrazione. E gli disse: "Ecco qui la verga del castigo, figlio mio. Con questa proteggi il popolo. Il re che usa questa verga per punire i criminali va in paradiso. Perciò usa la verga con estremo giudizio. La giustizia è la cosa suprema in questo mondo".
Poi Manu fece ritorno nella sua dimora.
Ikshvaku ebbe cento figli. L'ultimo era uno stolto che crebbe come un analfabeta. Il suo nome era Danda, poiché il padre aveva pensato: 'Sicuramente il suo corpo riceverà la verga (danda)'. Ikshvaku gli affidò la terra tra i monti Vindhya e i monti Saivala. Danda costruì la capitale del suo regno, che chiamò Madhumantam, e nominò Usana come suo sacerdote personale.
Mentre Danda governava il suo regno, un giorno gli capitò d'incontrare Araja, la figlia di Usana (il saggio Sukra). Ella era veramente bella, e quando Danda la vide fu istantaneamente sopraffatto dalla lussuria.
Avvicinandola, egli le chiese: "Chi sei, bella fanciulla? La tua semplice vista mi ha riempito di desiderio per te".
Araja, però, ebbe tanta paura e rispose docilmente: "Ti prego, o re, non toccarmi, non prendermi con la forza; perché una vergine è sotto la custodia di suo padre. Mio padre Sukra è il mio tutore e il mio guru, e anche tu sei suo discepolo. Se egli s'arrabbiasse, la tua sorte sarebbe triste. Perciò è giusto che tu vada a chiedergli la mia mano; altrimenti incorrerai in una grande sventura. Quand'è in collera, mio padre potrebbe ridurre in cenere i tre mondi. Se invece glielo chiederai, egli sarà lieto di darmi in sposa a te".
Nonostante queste parole, Danda fu inamovibile. Egli sollevò le mani sulla sua testa in un gesto di saluto e di sottomissione e ribadì la richiesta di soddisfazione immediata della sua lussuria. "Ti voglio disse - anche se mi costasse la vita; anche se fosse un grande peccato da parte mia. Ti amo intensamente. Vieni da me, timida fanciulla!".
Quindi la prese con la forza. Infine, soddisfatto il suo desiderio, egli fece ritorno al palazzo, mentre Araja tornò piangendo all'eremo di suo padre.
Quando il saggio Sukra venne a sapere della violenza di Danda, andò fuori di sé in preda a un'ira incontrollabile. Egli si volse ai suoi discepoli e urlò: "Guardate il terribile misfatto dello stolto Danda. Permettendosi di scherzare così con il fuoco che sono io, certo egli ha raggiunto la fine della sua vita. Visto che ha osato commettere questo efferato crimine, dovrà certamente raccogliere i frutti della sua azione. Entro sette giorni, il re con la sua famiglia e i suoi amici vedranno la morte. E per sette giorni una pioggia incessante devasterà il suo regno".
E così fu. I discepoli stessi del saggio lasciarono l'eremitaggio e si rifugiarono in una foresta vicina. Sukra però comandò a sua figlia Araja di restare nell'eremo, assicurandole la sua protezione. Persino le piante e gli alberi che erano intorno a lei furono protetti dalle benedizioni del saggio.
Così il regno di Danda, il Dandakaranya, divenne disabitato.
Comunque - concluse Agastya - dopo molti anni dei saggi cominciarono a viverci di nuovo e a praticarvi le loro austerità.
Il giorno seguente, Rama si alzò di buon'ora e recitò le sue preghiere mattutine. Poi si recò dal saggio Agastya, s'inchinò davanti a lui, e gli chiese il permesso di tornare al suo palazzo: "Mi considero veramente benedetto d'essere stato alla tua presenza, o saggio!".
Il saggio Agastya rispose: "Sono sorpreso dalle tue parole, Rama; poiché in verità tu sei il supremo purificatore e redentore del mondo intero e di tutti gli esseri che vi dimorano. Chi ha la fortuna di vederti; anche solo per un'ora, viene completamente purificato, e diventa degno d'essere adorato anche dagli dèi. Chi invece ti guarda con occhi maligni, è soggetto alla punizione di Yama, il dio della morte. Ritorna nel tuo regno e proteggi i tuoi sudditi, seguendo rigorosamente le leggi del Dharma. Tu infatti sei la mèta di tutti gli esseri sulla terra".
Rama salì sul veicolo spaziale Pushpaka e fece rapidamente ritorno al suo palazzo. Rientrato nei suoi alloggi, egli licenziò il velivolo.
Subito dopo, Rama fece chiamare i suoi fratelli, e disse loro:
"Ho compiuto il mio dovere verso l'anziano brahmana, che ha riavuto suo figlio. Desidererei seguire il sentiero del Dharma e fare qual cosa di più per acquisire del merito religioso. Ho in mente di celebrare il rito Rajasuya, insieme a tutti voi che siete la proiezione esterna de mio stesso sé. Abbiamo sentito dire che Mitra celebrò quel rito sacro, e lo fece anche Soma, guadagnandosi una fama eterna".
Udendo ciò, Bharata si rivolse a Rama con grande amore e devozione :
"Rama, tutti i re della terra ti considerano il signore dell'universo. Essi guardano a te come a un padre. O Rama, tu sei il solo rifugio di tutti gli esseri sulla terra. Ma il rito Rajasuya è pieno di conflitti con gli altri re, perché comporta la loro sottomissione e simili atti di violenza. Quando tu sai che tutti i re sono di fatto sotto il tuo controllo, non c'è neppure bisogno di sfidarli. Perciò, ti prego, abbandona l'idea di celebrare il rito Rajasuya".
Rama fu contento delle parole del fratello, e disse:
"Sono felicissimo delle tue parole sagge e coraggiose, o Bharata. Ho abbandonato l'idea di celebrare il rito Rajasuya, che in effetti coinvolge l'esecutore in qualche forma di violenza. Certamente, le persone pie non dovrebbero impegnarsi in azioni che comportino danno o sofferenza per gli esseri viventi".
Lakshmana disse poi a Rama:
Invece del Rajasuya, penso che dovremmo celebrare il rito dell'Asvamedha. L'Asvamedha è un grande rito e purifica da tutti i peccati perciò ti prego di considerarlo.
Ho sentito dire che nei tempi antichi lo stesso Indra celebrò quel sacro rito per acquisire abbastanza merito per poter uccidere il suo nemico, il demone Vritra.
In realtà il demone Vritra era un re buono e nobile che governava il mondo intero con giustizia e saggezza. E nel mondo vi era pace, abbondanza e prosperità.
Affidando il regno a suo figlio, un giorno Vritra decise di praticare austerità.
Non appena egli cominciò le sue austerità, Indra si recò dal Signore Vishnu e disse: "Signore, Vritra sta per cominciare a praticare delle austerità. Se avrà successo nella pratica, egli diventerà estremamente potente e nessun altro potrà sottometterlo finché durerà il mondo. La tua grazia, o Signore, è la sua sola forza. Io ti prego di trovare un modo per eliminarlo".
Il Signore però rispose: "Finora sono stato amico di Vritra, perciò non potrei ucciderlo. Tuttavia esaudirò la tua preghiera. Mi dividerò in tre parti. Una parte entrerà in Indra, l'altra entrerà nella sua arma, il fulmine, e la terza entrerà nella terra. Con l'ausilio di queste tre parti, riuscirai a uccidere Vritra".
Mentre gli dèi stavano a guardare sbalorditi, Indra impugnò il suo fulmine e lo lanciò contro il demone Vritra.
La testa del demone cadde subito a terra rotolando. Ovviamente fu l'energia divina dello stesso Signore Vishnu che permise il successo di Indra.
Vritra era un brahmana di nascita. E il terribile peccato di avere ucciso un brahmana perseguitava e ossessionava Indra.
Allora gli dèi andarono ancora una volta dal Signore Vishnu e lo pregarono insistentemente: "Signore, per grazia tua Indra ha potuto uccidere il potente demone Vritra, ma il terribile peccato di avere ucciso un brahmana lo perseguita. Di grazia, libera Indra da quel peccato".
Il Signore Vishnu rispose: "O dèi, adoratemi attraverso il sacro rito dell'Asvamedha, e io libererò Indra dalla paura generata dall'avere ucciso un brahmana".
Mentre Indra era tormentato dal peccato di avere ucciso un brahmana, grandi calamità colpivano la terra. I laghi si prosciugavano e i fiumi andavano in secca; mancava la pioggia e prevaleva la siccità. Allora gli dèi ricordarono le parole del Signore Vishnu.
Rapidamente tutti gli dèi si riunirono per celebrare il grande rito dell'Asvamedha. Alla conclusione del rito, il grande peccato dell'uccisione di un brahmana apparve davanti a loro, dopo aver lasciato Indra.
Quel 'peccato' si divise in quattro parti: una parte vive nelle acque dei fiumi durante i quattro mesi della stagione delle piogge, una parte vive nelle terre sterili, una parte vive nelle giovani donne durante il loro periodo mestruale e la quarta vive in coloro che scandalizzano o uccidono un brahmana.
Così Indra era stato purificato e redento dal peccato di avere ucciso un brahmana attraverso il potere del grande rito dell'Asvamedha.

Rama fu deliziato dall'ascolto di questo racconto, e disse a Lakshmana:
"La storia che hai narrato è davvero meravigliosa. Anch'io ho udito un'altra storia che mette in risalto la gloria del rito dell'Asvamedha. Ora ve la racconterò.
"Anticamente il saggio Kardama aveva un figlio chiamato Ila. Questi aveva conquistato il mondo intero e governava la terra con giustizia e saggezza, trattando tutti gli esseri come suoi figli.
"Un giorno egli si recò nella foresta per andare a caccia. Nel corso della spedizione capitò nei paraggi del luogo in cui era nato il Signore Skanda. In quella regione, il Signore Shiva era impegnato a divertirsi con la dea Parvati, e aveva decretato che tutti gli esseri che si trovavano in quell'area sarebbero diventati femmine.
"Quando re Ila entrò in quella regione, si accorse che aveva misteriosamente perso le caratteristiche di uomo ed era diventato una donna. Quando scoprì che tutto questo era opera del Signore Shiva, disperato egli cominciò a cantare le glorie di Shiva.
"Compiaciuto con lui, il Signore gli disse: "Chiedimi qualunque altro dono che non sia quello di ridiventare maschio". Ma Ila non aveva alcun altro desiderio!
"Vedendo la condizione pietosa di Ila, la devi Parvati disse: "Io sono l'altra metà del Signore Shiva, ed esercitando il mio privilegio ti faccio dono della virilità. Perciò tu sarai alternativamente uomo per un mese e donna nel mese successivo. Mentre sarai donna dimenticherai di essere uomo, e viceversa"".
Rama continuò la storia di Ila. "Durante il primo mese, Ila, trasformato in una donna avvenente, andò in giro con tutto il suo seguito, i cui membri erano stati anch'essi trasformati in donne.
"Un giorno Ila vide Budha, un bel giovane figlio del dio Soma (il dio della luna). Ella s'innamorò di Budha a prima vista.
"Anche Budha vide Ila e s'innamorò di lei. Egli disse tra sé: "Non ho mai visto una donna così bella in tutto il mondo; né tra le dee né tra le donne mortali". Allora si recò all'eremitaggio in cui vivevano Ila e le sue seguaci, e interrogò quest'ultime riguardo a Ila. Ma le donne del seguito seppero solo rispondere: "È la nostra guida, non è sposata, e vive in quest'eremo con tutte noi".
"Tuttavia, grazie alla sua saggezza intuitiva, Budha venne a sapere l'intera storia. Egli capì che erano tutti uomini (purusha) che erano stati trasformati in donne. Perciò le chiamò donne-kimpurusha, e disse loro che avrebbero ottenuto come consorti degli uomini-kimpurusha (una specie di esseri celesti).
"Quindi Budha andò da Ila, rivelò la sua identità e chiese la sua mano. Ila acconsentì subito ad essere sua moglie. Insieme essi si godettero la vita per tutto quel mese.
"Un giorno, dopo la conclusione del primo mese, Ila si svegliò come uomo. Anticipando quel giorno, Budha aveva cominciato a praticare intense austerità.
"Ila disse a Budha: "Sono venuto in questa foresta insieme al mio seguito; e poi mi sono addormentato. Ora non vedo il mio seguito. Amico, sai forse che ne è stato di loro?".
"Rendendosi conto che Ila aveva dimenticato gli avvenimenti del mese precedente, Budha disse: "Vi è stata una terribile tempesta che li ha uccisi tutti. Anche tu hai trovato riparo qui, durante la tempesta. Non importa: potrai continuare a stare qui, mangiando frutta, radici, e altro".
"Ila credette alla storia di Budha, e disse: "No, non mi piacerebbe tornare al palazzo reale senza il mio seguito. Mio figlio Sasabindu è là, e sicuramente regnerà al posto mio".
"Dopo un mese, Ila diventò di nuovo donna. In questo modo passò il tempo. Dopo nove mesi Ila e Budha ebbero un bambino, che chiamarono Pururava.
"Un giorno, dopo la nascita di Pururava, Budha chiese ai saggi: "Di grazia, o saggi, ascoltatemi. Ila era un grande e nobile re; e voi sapete come è stato trasformato in una donna. Vi prego di trovare un modo per fargli riacquistare il suo stato di uomo".
"Il saggio Kardama (padre di Ila) disse: "Non vedo altro rimedio se non l'adorazione del Signore Shiva; e non vi è rito più grande di quello dell'Asvamedha per ottenere le sue benedizioni".
"Ben presto tutti i saggi insieme organizzarono il rito dell'Asvamedha per propiziare il Signore Shiva. Immensamente soddisfatto dalla celebrazione del sacrificio dell'Asvamedha, il Signore Shiva si manifestò in mezzo a loro e disse: "O santi, sono molto compiaciuto dalla vostra devozione, chiedetemi un favore". Essi pregarono: "O Signore, concedi a Ila di ridiventare uomo". Il Signore Shiva fu felice di trasformare di nuovo Ila in un uomo.
"I saggi tornarono alle loro dimore e anche re Ila fece ritorno al suo palazzo.
"Tale è la gloria del sacrificio dell'Asvamedha", concluse Rama.
Poi Rama annunciò: "Alla presenza di saggi e santi come Vasishtha, Varnadeva, Jabali e Kasyapa, alla presenza dei santi brahmana, e con l'ausilio dei loro consigli e delle loro benedizioni, libererò un cavallo sacro ben adornato, come preparazione alla celebrazione del rito sacro".
Udendo queste parole di Rama, Lakshmana fece riunire immediatamente i saggi e i brahmana nel palazzo reale.
Inoltre Rama mandò a chiamare Satrughna, Vibhishana, i re dei paesi vicini e gli uomini religiosi di tutto il mondo.
Quando gli ospiti cominciarono ad arrivare, Rama fece preparare montagne di cibo di tutti i tipi per servirli in maniera adeguata.
Bharata e Satrughna ricevettero gli ospiti e offrirono loro doni preziosi. Vibhishana ed altri accolsero devotamente i religiosi e si dedicarono al loro servizio. I vanara servirono tutti gli ospiti, avendo cura che nulla fosse trascurato.
Il sacrificio dell'Asvamedha ebbe inizio con indescrivibile magnificenza.
Quando tutti i preparativi furono completati, Rama liberò un magnifico cavallo, che affidò alla custodia di Lakshmana.
Poi, insieme a tutto il suo seguito, Rama entrò nel luogo di Naimishan, dove si sarebbe celebrato il rito sacro.
Il rito sacro ebbe inizio e si protrasse per un anno intero. Cibo, bevande, indumenti, oro e ornamenti scorrevano incessantemente in quel luogo. Bharata e Satrughna avevano quest'incarico e si preoccupavano che non vi fosse alcuno che, avendo espresso il minimo desiderio, restasse insoddisfatto.
I vanara s'impegnarono alacremente al servizio di tutti gli ospiti. E il nobile Vibhishana servì con zelo i saggi.
Nessuno era debole, sporco o bisognoso. Nessuna necessità rimaneva inappagata. E prima ancora che venisse espresso, ogni desiderio era già appagato.
Quelli che volevano oro, ricevevano l'oro; quelli che volevano indumenti, ricevevano indumenti. Dolci e cibi prelibati erano sempre a disposizione di tutti.
Tutti gli ospiti dicevano tra loro: "Non abbiamo mai visto una cosa simile. Né Indra né Soma né Varuna né alcun altro hanno mai celebrato un rito di così grande splendore".
Altrove, scortato da Lakshmana, il cavallo continuava a vagare per la terra.
A questo grandioso rito sacro venne anche il saggio Valmiki con i suoi discepoli. Tra questi vi erano i due fanciulli Kusa e Lava.
Il saggio aveva detto loro: "Cantate gioiosamente il 'Ramayana', il grande poema epico che vi ho insegnato. Cantatelo davanti ai saggi o ai brahmana, nei palazzi dei principi e lungo le strade principali. Cantatelo alle porte del palazzo di Rama e di fronte ai sacerdoti officianti il rito sacro. Ecco, prendete questi frutti; essi terranno lontana la stanchezza e proteggeranno le vostre voci dalla fatica.
"Nel caso Rama vi chiamasse a cantare il poema davanti a lui, fatelo senza esitazione. Non accettate alcun compenso; infatti, a che servono l'oro o le ricchezze? Se Rama vi chiedesse di chi siete figli, rispondete semplicemente: "Siamo discepoli di Valmiki". Ecco, prendete questo strumento musicale e cantate il poema accompagnandovi con esso".
Così istruiti dal saggio, i giovani figli di Sita attesero con zelo l'opportunità di cantare il Ramayana.
La mattina seguente i due ragazzi si alzarono presto e offrirono le loro preghiere mattutine. E come il saggio aveva comandato loro, cominciarono a cantare. Quindi Rama stesso chiese loro di cantare il poema.
Il re riunì tutti i saggi e i santi, i re, gli eroi, i sacerdoti, i narratori, i grammatici e tutti gli altri brahmana che erano interessati ad ascoltare il grande poema, e quindi chiese ai due ragazzi di cantarlo davanti a loro. Tutti i membri di quell'augusta assemblea bevvero il nettare estasiante del poema con le loro orecchie, e l'affascinante personalità dei due fanciulli con i loro occhi.
Essi dicevano l'un l'altro: "Questi due ragazzi somigliano moltissimo a Rama, sono il ritratto stesso di Rama. Se non indossassero indumenti ascetici e non avessero i capelli intrecciati sul capo, avremmo potuto dire che sono i figli di Rama".
Dopo aver completato la recitazione di venti capitoli, secondo le istruzioni del saggio Valmiki, i fanciulli si fermarono.
Allora il re chiese a suo fratello di donare ai due ragazzi una borsa piena d'oro - che però essi rifiutarono educatamente di accettare, dicendo: "Noi siamo abitanti della foresta e l'oro non ci è di alcuna utilità".
Rama chiese loro chi fosse l'autore del poema e se esso fosse autentico. I fanciulli risposero devotamente che il poema era una composizione del saggio Valmiki e che la sua storia era assolutamente veritiera.
Al termine della giornata, Rama diede loro il permesso di tornare all'accampamento del saggio. Il giorno seguente, di nuovo, egli fece recitare loro il poema.
Così trascorsero molti giorni. Rama fece recitare loro il poema alla presenza di saggi e re, Dalla maniera in cui il poema veniva recitato, egli concluse che si trattava dei figli di Sita.
Allora Rama inviò dei messaggeri al saggio Valmiki, con questo messaggio: "Se Sita è libera da condotta impura, che venga qui, scortata dal saggio Valmiki, e provi la sua purezza. Che ella si presenti domattina qui, in questa augusta assemblea".
Questo messaggio fu debitamente convenuto al saggio Valmiki, che rispose ai messaggeri: "Certamente Sita sarà d'accordo a fare secondo le istruzioni di Rama, perché lei considera suo marito come Dio stesso".
Quando gli venne riferito questo messaggio, Rama si rivolse ai saggi e ai re, e disse: "Domani sarete testimoni della purezza di Sita".
Tutti quanti lodarono la sua decisione: "Questo, o Rama, è perfettamente in sintonia con la tua natura pura e gloriosa".
Trascorsa la notte, all'alba del nuovo giorno Rama riunì in assemblea tutti i saggi e gli uomini santi come Vasishtha, Vamadeva, Jabali, Kasyapa, Visvamitra, Dhirghatama, Durvasa e altri.
Tutti attendevano con impazienza lo svolgersi degli avvenimenti e non vedevano l'ora di vedere la nobile Sita dar prova della sua castità.
Il saggio Valmiki entrò nell'assemblea seguito da Sita.
Subito vi fu una certa inquietudine nell'assemblea, poiché ognuno aveva notato quanto Sita fosse triste e addolorata.
Valmiki prese la parola: "Rama, ecco qua Sita, che è devota ai suoi voti coniugali e la cui condotta è perfettamente retta. Abbandonata a motivo del pubblico scandalo, ella è vissuta vicino al mio eremitaggio. Questi due figli di Sita sono figli tuoi, o Rama: dico la verità. Non ricordo di aver mai pronunciato il falso in vita mia. Ho praticato austerità per moltissimo tempo: giuro sulle mie austerità che Sita è pura".
Rama disse: "Anch'io sono certo della purezza di Sita, o saggio. Ma possente è lo scandalo pubblico a motivo del quale ho dovuto abbandonare Sita, nonostante io stesso sapessi che era pura. So anche che questi due ragazzi sono i miei figli".
Nel frattempo anche gli dèi s'erano uniti all'assemblea.
Infine Sita disse: "Se io non ho mai concepito, neppure mentalmente, il pensiero di un altro uomo all'infuori di Rama, allora, o Terra, ricevimi. Se con il pensiero, le parole e le azioni ho sempre adorato Rama, allora, o Terra, ricevimi".
Non appena Sita pronunciò queste parole, un trono celestiale venne fuori dalla terra. Su di esso era assisa madre Terra. Ella ricevette Sita tra le sue braccia e, abbracciandola con grande amore, rientrò nella terra.
Tutti gli esseri - gli dèi, i saggi, i brahmana, i sacerdoti che erano venuti per celebrare il rito dell'Asvamedha, gli uccelli, gli animali e persino gli alberi e gli esseri inanimati - tutti espressero la loro ammirazione, la loro devozione e la loro meraviglia, ognuno nella propria maniera.
Tutti erano rimasti meravigliati e allibiti dalla maniera miracolosa in cui Sita era scomparsa all'interno della terra.
Alcuni lodarono e glorificarono Rama, altri lodarono e glorificarono Sita. Tutti erano colmi di sgomento e di meraviglia.
Quando vide che Sita era stata inghiottita nelle viscere della terra, Rama fu completamente sopraffatto dal dolore.
Egli gridò forte, piangendo: "Ahimè, Sita mi è stata portata via sotto i miei stessi occhi. Tanti anni fa la liberai da Lanka, perché ora non dovrei liberarla dalle viscere della terra? O Terra! Restituiscimi Sita immediatamente, oppure ti farò assaggiare la mia ira. Dovunque Sita possa essere ora, riportala subito a me. Se non lo farai, ti distruggerò insieme alle montagne e alle foreste, e tutta la terra sarà coperta d'acqua".
Vedendo l'ira di Rama, il Creatore Brahma gli disse: "Non arrabbiarti, Rama. La casta e devota Sita è andata prima di te nell'aldilà, in maniera naturale; e presto anche tu sarai riunito a lei. Ascolta ancora, o Rama: la tua storia fino ad ora è stata magnificamente narrata nel grande poema del saggio Valmiki. Vi è ancora una parte, riguardante il prossimo futuro. Ascolta anche quella sezione".
Pronunciate queste parole, Brahma tornò alla sua dimora.
Rama chiese a Valmiki di recitare la storia degli avvenimenti futuri. Ed essa fu recitata più tardi da Kusa e Lava.
Non vedendo Sita, Rama considerava il mondo vuoto; e, sopraffatto dal dolore, non aveva pace.
Egli non prese in considerazione la possibilità di pensare ad un'altra come moglie, e quindi, per la celebrazione dei riti religiosi, usò un'immagine di Sita fatta d'oro.
Rama governò la terra per moltissimo tempo. Durante l'intero periodo del suo regno tutti gli esseri godettero di ottima salute e lunga vita.
Dappertutto vi era giustizia e rettitudine. La terra era prosperosa. La pioggia cadeva nella misura necessaria e veniva al momento giusto. Nessuno soffriva di alcuna sventura.
Dopo aver goduto della sua vita con Rama, i suoi figli e i suoi pronipoti, la madre di Rama - Kausalya - salì in cielo.
Dopo aver condotto una vita retta, anche Sumitra e Kaikeyi andarono in cielo. Tutte si riunirono in cielo con re Dasaratha. E Rama propiziò tutti con le doverose e regolari celebrazioni delle cerimonie che si praticano ogni anno in onore degli antenati defunti.
Dopo diversi anni, lo zio di Rama Yudhajit mandò dal nipote il proprio guru con un messaggio e un grande carico di coperte di lana, pietre preziose, indumenti e anche cavalli, come suoi doni per Rama.
Il santo messaggero fu ricevuto con il massimo rispetto, con grande reverenza e amore. Quindi Rama lo fece sedere su un seggio appropriato ad un ospite di riguardo e gli chiese come stava suo zio.
Infine egli chiese al brahmana: "Qual era il messaggio di mio zio per me?".
Il reverendo messaggero disse: "Sulle rive del fiume Sindhu vive un gandharva chiamato Sailusha, che ha con sé trenta milioni di soldati eccezionalmente forti. Ti preghiamo di conquistarli con la tua forza, ed espugnare le città dei gandharva. All'infuori di te, non abbiamo nessun altro che possa riuscire in quest'impresa".
Rama diede subito il suo consenso, e fece mandare a chiamare Bharata insieme ai suoi due figli Taksha e Pushkala. Indicandoli, Rama disse al brahmana: "Questi due giovani, insieme al loro padre Bharata, conquisteranno presto le schiere dei gandharva".
Detto questo, Rama fece incoronare i due ragazzi come re del territorio dei gandharva, anticipando così la loro vittoria.
Quindi il reverendo messaggero fece ritorno nel regno Kekaya (di Yudhajit), e Bharata e i suoi due figli partirono per la loro spedizione di guerra.
In quindici giorni, Bharata raggiunse il regno Kekaya e unì il suo esercito a quello di Yudhajit.
Insieme i due eserciti attaccarono le forze dei gandharva. La feroce battaglia che seguì durò sette giorni.
Volendo porre fine alla lotta, Bharata usò il missile mortale chiamato Samvarta; e in un batter d'occhio sterminò i trenta milioni di gandharva.
Poi Bharata entrò nel territorio dei gandharva insieme ai suoi due figli. Egli insediò suo figlio Taksha come re di Takshasila, e suo figlio Pushkala come re di Pushkalavata.
Le due città prosperarono grandemente sotto il loro dominio.
Bharata trascorse cinque anni con i suoi figli nei loro nuovi territori, e dopo aver reso stabile la loro amministrazione tornò ad Ayodhya.
Egli si prostrò davanti a Rama e poi lo mise al corrente di quanto era accaduto. Rama ne fu felicissimo.
Quindi Rama desiderò insediare i due figli di Lakshmana, Angada e Candraketu, come sovrani di due principati idonei a loro.
Rama disse a Lakshmana: "I tuoi due figli sono forti e valorosi, e sono all'altezza di governare i loro territori. Li nominerò re. Pensa ad un territorio adatto per ciascuno di loro. La regione prescelta dev'essere tale che i sovrani non dovranno avere alcun problema nel governarla, e gli eremitaggi dovranno essere tranquilli e liberi da ogni molestia".
Non appena furono trovati i territori adatti, Rama stesso incoronò re i due ragazzi. Il territorio governato da Angada fu chiamato Angada, e Candraketu fu installato sul trono di Candrakanti.
Lakshmana rimase con i suoi figli per un po' di tempo, e quando l'amministrazione dei due regni cominciò a funzionare senza problemi, egli fece ritorno ad Ayodhya e da Rama.
Mentre Rama continuava ad amministrare il suo impero, il Tempo (o la Morte) si presentò alle porte del suo palazzo sotto le spoglie di un asceta.
L'asceta disse a Lakshmana: "Ti prego, informa Rama che è arrivato un messaggero da parte di uno che è supremamente potente; digli che desidererei parlare con lui".
Lakshmana informò Rama dell'arrivo dell'asceta. Seguendo le istruzioni di Rama, Lakshmana fece entrare l'asceta e lo condusse alla presenza del fratello.
Rama ricevette l'asceta con grande reverenza e lo fece sedere su un seggio d'oro. Infine Rama gli chiese di comunicare il messaggio che aveva per lui.
L'asceta però gli rispose: "Posso trasmettere il messaggio soltanto in privato, o Rama. Perché chiunque lo ascoltasse o ci osservasse mentre parliamo dovrebbe essere subito messo a morte".
Rama acconsentì a questa condizione. Egli pose Lakshmana fuori della stanza con l'ordine preciso: "Non permettere ad alcuno di entrare e interrompere quest'importante conversazione. Chiunque entrerà nella stanza sarà messo a morte".
Poi, rivolto all'asceta, Rama disse: "Ora ti prego, comunicami l'importante messaggio che hai per me".
Quando furono soli, l'asceta rivelò la sua vera identità come Tempo (o Morte) e disse a Rama:
"O Signore, il Creatore Brahma mi ha mandato a te con il seguente messaggio:
"Un tempo tu avevi ritirato l'universo dentro di te e riposavi sul grande oceano. Quindi, per mezzo della tua Maya, tu creasti due esseri potenti, Madhu e Kaitabha. Dopo la loro distruzione, questa terra fu modellata con la loro carne. Tu stesso affidasti il compito di proteggere questo mondo a me, che nacqui dal fiore di loto emerso dal tuo ombelico. E io ho cercato di fare il mio dovere, ponendo il fardello sulle tue spalle. Nel corso del tempo tu ti sei incarnato sulla terra, insieme ad altri esseri divini, per la distruzione di demoni come Ravana. Tutto questo è stato fatto, e ora s'avvicina il tempo del tuo ritorno. Se tuttavia desiderassi continuare a vivere sulla terra, naturalmente potresti farlo. Se invece desideri tornare in cielo, in modo che il cielo possa accoglierti come suo sovrano, che così sia".
Quando Rama udì questo messaggio, rispose: "La mia manifestazione è per la protezione dei tre mondi, non solo per la protezione di questa terra; perciò presto lascerò questo mondo. Farò esattamente come ha detto il Creatore Brahma".
Mentre erano ancora impegnati in conversazione, si presentò all'ingresso della loro stanza Durvasa, il grande saggio famoso per la sua terribile collera. Egli ingiunse a Lakshmana: "Portami subito da Rama".
Quando Lakshmana cercò di discutere umilmente: "Potrei trasmettere il tuo messaggio a Rama, perché adesso egli è impegnato in un incontro importante? Oppure, non potresti attendere pochi minuti?", il saggio divenne estremamente furioso e disse: "Comunica subito a Rama che io sono qui. Se non lo farai, maledirò lui, te, i tuoi fratelli e tutta la famiglia reale. Non posso contenere la mia ira".
Udendo queste parole spaventose, Lakshmana rifletté un istante: "È meglio che io muoia, piuttosto che questo saggio maledica l'intera famiglia reale". E presa questa decisione, Lakshmana entrò nella stanza in cui stavano conversando Rama e l'asceta, e informò il fratello della visita di Durvasa.
Rama congedò l'asceta e uscì; poi s'inchinò davanti al saggio, che gli disse: "Ho digiunato per mille anni; desidero interrompere il mio digiuno proprio ora. Dammi da mangiare". Rama gli servì devotamente del cibo. Durvasa mangiò e quindi andò via.
Pensando alla terribile promessa che aveva fatto all'asceta (che chiunque avesse interrotto la conversazione sarebbe morto), Rama divenne triste.
Lakshmana comprese lo stato d'animo di Rama, gli si avvicinò con reverenza e disse: "Non preoccuparti per me; tutto questo è predestinato ad accadere. Scacciami, Rama, e onora la tua promessa; perché quando un uomo disonora la propria promessa va all'inferno".
Rama riunì in consiglio i ministri e i saggi e li informò dell'accaduto. Allora il saggio Vasishtha prese la parola e disse:
"O Rama, vedo che si sta avvicinando la fine: e ora anche Lakshmana dev'essere bandito. Questo dev'essere fatto, per amore del Dharma. Se il Dharma venisse abbandonato, vi sarebbe la distruzione universale".
Quindi Rama disse a Lakshmana: "L'esilio equivale alla pena capitale. Perciò, o Lakshmana, ti bandisco dal regno".
Lakshmana andò subito via, senza neanche rientrare a casa sua. Continuando a singhiozzare, egli raggiunse la riva del fiume Sarayu. Sedendo in meditazione, controllò il respiro e fu pronto ad abbandonare l'esistenza terrena.
Tutti gli dèi apparvero nel cielo. Senza essere visto da alcun essere umano, Indra portò Lakshmana in cielo con tutto il corpo.
Gli dèi furono felicissimi che Lakshmana fosse tornato in cielo, perché questo voleva dire che ben presto anche Rama sarebbe ritornato tra loro.
Rama fu preso da un dolore inconsolabile e disse: "Desidero abdicare al trono e ritirarmi nella foresta; desidero seguire Lakshmana". Perciò egli chiese a Bharata d'ascendere al trono.
Ma il nobile Bharata rispose: "Oh no, Rama, non ho alcun desiderio per il regno senza di te. Installa sul trono i tuoi figli Kusa e Lava. Fa' informare anche Satrughna della nostra decisione".
Vasishtha disse di nuovo: "Rama, guarda questi cittadini, tutti afflitti dal dolore".
Sopraffatto dal dolore, Rama sospirò: "Ah, che cosa devo fare?".
Tutti quanti dissero, come una sola voce: "Con le nostre mogli e i nostri figli, noi seguiremo Rama e andremo tutti dove andrà lui".
Riflettendo sulla devozione dei cittadini, e anche sulla fine imminente della sua missione sulla terra, quel giorno stesso Rama installò sul trono Kusa e Lava, assegnando a ciascuno di loro dei territori adatti.
Inoltre egli inviò dei veloci messaggeri perché informassero Satrughna della sua decisione.
I messaggeri comunicarono a Satrughna tutte le notizie sugli ultimi avvenimenti successi ad Ayodhya: "Rama ha abdicato al trono e vi ha installato Kusa e Lava. Kusa governa dalla sua capitale Kusavati, e Lava dalla sua capitale Sravasti. Tutti i cittadini di Ayodhya hanno deciso di seguire Rama: perciò la capitale è completamente deserta. Rama ci ha chiesto di metterti al corrente di tutto questo".
Venuto a sapere della distruzione della famiglia reale, Satrughna installò immediatamente i suoi figli sul trono e da solo, sul suo veicolo, guidò di gran fretta per raggiungere Rama.
Giunto alla presenza di Rama, Satrughna disse: "Ho installato sul trono i miei due figli, o Rama, e ho deciso di seguirti".
Rama vide la fermezza della sua determinazione e acconsentì.
Venuti a sapere dell'abdicazione di Rama e della sua imminente ascensione in cielo, vennero anche tutti i vanara, guidati da Sugriva.
E così pure gli dèi e i saggi erano accorsi alla presenza di Rama. Sugriva aveva installato sul trono Angada e aveva deciso di seguire Rama.
Quando arrivò Vibhishana, Rama gli disse subito: "Governa sul regno di Lanka finché il popolo desidererà che tu lo faccia, finché splenderanno il sole e la luna, e fino a quando la mia storia sarà raccontata in questo mondo. Ti prego, Vibhishana, non opporti". E Vibhishana acconsentì.
Rama benedì Hanuman: "Vivi e gioisci in questo mondo fino a quando verrà narrata la mia storia, e attieniti sempre alle mie istruzioni, o Hanuman".
Hanuman s'inchinò in segno di accettazione.
Allora tutti quanti cominciarono a lasciare Ayodhya. Tutte le armi, i saggi, i brahmana, la dea della prosperità, le sacre scritture, i sacri mantra - tutti seguirono Rama.
Bharata e Satrughna lo seguirono. Tutti i ministri e gli ufficiali lo seguirono. E anche tutti i cittadini lo seguirono.
Neanche la più piccola creatura rimase ad Ayodhya.
Tutti seguirono Rama.

[NOTA: Il testo suggerisce che le scritture e i mantra andarono in forma umana, cioè come studiosi e pandit. Nel capitolo terzo 14-15 vi sono molteplici nomi di creature con la descrizione della loro creazione. Nel capitolo settimo 25 vi sono i nomi di alcuni dei riti più importanti. Nel capitolo terzo 25, sesto 44-45 e altrove vengono dati i nomi dei missili. Nel capitolo sesto 74 si trovano i nomi di erbe meravigliose. Questi meriterebbero uno studio più approfondito. Nel capitolo quarto 40 e in alcuni successivi vi sono i nomi di luoghi, fiumi e montagne che meriterebbero d'essere studiati.]

Rama si diresse verso il fiume Sarayu, e ivi giunto toccò le acque del fiume con i suoi piedi. Per assistere all'infinitamente fausta e gloriosa ascensione di Rama, erano giunti colà tutti gli dèi nei loro veicoli spaziali, ed era venuto lo stesso Creatore Brahma in persona, nel suo veicolo celeste.
Allora il Creatore disse a Rama: "Vieni, o Vishnu, entra nei tuoi corpi divini insieme ai tuoi fratelli. Qualunque sia la forma che desideri assumere, assumila. Liberato dalla Maya con la quale ti eri ricoperto, tu sei ancora una volta al di là della comprensione della mente e della parola. Ti prego, ascendi alla tua dimora".
Poi Rama rientrò nello spirito del Signore Vishnu, insieme ai suoi fratelli. Perciò gli dèi e i saggi adorano Rama come lo stesso Signore Vishnu.
Rama disse al Creatore Brahma: "Assegna una regione celeste a questi miei devoti e seguaci, o Brahma".
In obbedienza all'ingiunzione di Rama, Brahma ordinò una regione celeste conosciuta come Shantanaka, e decretò: "Persino le creature subumane che lasceranno il corpo fisico pensando a te, o Signore, raggiungeranno questa regione celeste".
Sugriva rientrò nell'orbita del sole. E gli altri vanara che erano nati dalle varie divinità rientrarono nelle loro rispettive fonti d'origine.
Tutti i cittadini e i devoti di Rama entrarono nel fiume Sarayu e furono istantaneamente trasportati in cielo.
Il Creatore Brahma e tutti gli dèi del cielo furono felici del ritorno di Rama e degli altri esseri divini.
Questo è il Ramayana! Le sue parti principali furono composte dal saggio Valmiki e approvate dal Creatore Brahma.
Questo poema è estremamente fausto, e distrugge i peccati di chi riesce a leggere anche una piccola parte di esso. Invero, questo Ramayana viene recitato e ascoltato persino nei cieli. Chi lo legge ogni giorno ottiene qualunque cosa desideri.

OM TAT SAT

FINE DELL'UTTARA KANDAM

 

 

 

[NOTA: Nell'ultimo capitolo c'è una specie di nota che dice che Ayodhya restò deserta
 finché Rshabha non divenne il suo sovrano, e allora riacquistò la sua gloria.]

 

 


RAMA GITA

Rama disse: "Tutte le opere portano a un'ulteriore schiavitù e rinascita. A causa delle due forze contrastanti dell'amore e dell'odio le azioni sembrano differenti l'una dall'altra. L'uomo compie azioni buone e cattive con attaccamento, e così ottiene sempre più nascite. Dopo ogni rinascita vi sono di nuovo azioni. In questo modo il corso della vita materiale gira come una ruota.
La causa alla base di tutto questo è l'ignoranza. Rimuovere l'ignoranza è il solo mezzo per distruggere il corso della vita materiale. Soltanto la conoscenza è capace d'annientare l'ignoranza. L'azione non può distruggerla, perché nasce dall'ignoranza e non è il suo contrario.
La pratica dell'azione non distrugge né l'ignoranza né l'attaccamento ma conduce a un maggiore dolore dell'incarnazione. Perciò l'uomo saggio deve abbandonare l'azione, che è piena di difetti, e dedicarsi alla conoscenza e alla meditazione.
Che l'uomo saggio, dunque abbandoni ogni azione. Non vi può essere una combinazione di conoscenza e azione, perché l'azione è contraria alla conoscenza. Che egli ritiri i sensi da tutti gli oggetti e si dedichi sempre al raggiungimento dell'autorealizzazione.
Quando uno raggiunge la luce suprema della conoscenza del Sé, che distrugge l'idea della separazione del supremo Sé e dell'anima individuale, allora maya - insieme alle sue appendici che causano nascita, rinascita e azione - svanisce immediatamente.
Quando l'ignoranza è stata annientata dalla conoscenza, che è mera luminosità, pura e non-duale, essa non potrà riapparire mai più. Come potrebbe avidya causare ancora delle azioni una volta che è stata distrutta dalla conoscenza derivata dalle sacre Scritture?
La Taittirya Upanishad ha proclamato con zelo che l'uomo deve assolutamente rinunciare a tutte le azioni. Anche la Brhadaranyaka Upanishad ha affermato che soltanto la conoscenza porta al moksha, e mai l'azione, qualsiasi essa sia.
Che l'uomo pieno di fede e con la mente pura, guadagnando la grazia del guru, realizzi l'unità del jiva con il Brahman attraverso la grande formula 'Tat Tvam Asi' (Quello tu sei), e sia felice e stabile come il monte Meru.
Per realizzare il significato di questa formula bisogna conoscere il significato delle sue tre parole. 'Tat' e 'Tvam' indicano il Sé supremo e il sé individuale; 'Asi' indica l'identità di questi due.
Eliminando gli upadhi - interiorità e distanza - che limitano jiva e Ishvara, e i dharma che li rendono oggetti di percezione, prendendo solo la loro essenza interiore di pura coscienza attraverso il metodo del bhaga-tyaga-lakshana, e conoscendo così il proprio sé, l'uomo raggiunge lo stato assoluto.
Il corpo grossolano, che è composto dei cinque elementi quintuplicati, che è la dimora del godimento dei frutti delle azioni (cioè, dolore e piacere), che ha un inizio e una fine, che è nato dal karma ed è definito da maya, è l'appendice limitante del Sé.
Il corpo sottile è composto dalla mente, dall'intelletto, dai dieci sensi e dai cinque prana. Esso nasce dagli elementi non quintuplicati. Esso spinge il corpo grossolano a sperimentare il piacere, ecc. È un'altra limitazione del Sé.
Maya è il più importante corpo causale del Sé, ed è inscrutabile e senza inizio. La sua natura è indescrivibile. A seconda dei diversi modi di limitazione, Brahman appare come Ishvara o come jiva. L'identificazione del Sé da parte del sé dev'essere praticata attraverso metodi logici.
Il cristallo appare rosso quando viene messo vicino ad un fiore rosso. Allo stesso modo il Sé sembra avere la forma delle cinque guaine a causa della sua prossimità ad esse. Quando uno investiga e medita sulla grande formula 'Asangoyam Purushah' (il Sé è inviolato) allora realizza che questo Sé è non-attaccato, senza nascita e non-duale.
La condizione dell'intelletto è triplice: veglia, sogno e sonno profondo. Questi stati sono dovuti alla sua associazione con le qualità della natura; e sono in realtà false condizioni dell'intelligenza, poiché due stati sono assenti quando è presente l'altro. Essi non hanno la natura del Brahman supremo, che è eterna e assoluta beatitudine.
Uno dovrebbe negare l'intero universo praticando il metodo del 'neti neti' (non questo, non quello), e avere un assaggio dell'essenza immortale dell'oceano della Coscienza. Uno dovrebbe rinunciare a tutto dopo aver preso solo l'essenza dell'esistenza, proprio come uno getta la buccia e il guscio di un frutto dopo averne succhiato il succo.
Il Sé non nasce e non muore mai. Non è soggetto ad aumento o diminuzione. Esso è al di là di qualsiasi aggiunta alla sua grandezza; vale a dire è insuperabile. È della natura della beatitudine stessa, autoluminoso, onnipervadente, antico e uno-senza-secondo.
La sovrapposizione è definita come quel processo per mezzo del quale una cosa diversa da un'altra cosa è falsamente identificata con quest'ultima, a causa dell'illusione. Come l'idea del serpente si sovrappone ad un pezzo di corda, così l'idea del mondo è sovrapposta al Brahman.
L'idea dell'ego o 'io' è la prima sovrapposizione sul Sé, che è libero dall'imperfezione del pensiero e dell'illusione, ed è la stessa pura Coscienza. L'idea dell'ego è solo una mera identificazione erronea con il Sé, che è la causa di tutto, il Brahman senza alcun male, l'Assoluto supremo.
Il Sé (o Cidabhasa) e l'intelletto sembrano partecipare l'uno agli attributi dell'altro attraverso un mutuo collegamento o sovrapposizione dovuto alla loro coesistenza, proprio come il ferro è partecipe della natura del fuoco quando viene messo nel fuoco. La natura intelligente del Sé si manifesta nell'intelletto e la natura non-intelligente dell'intelletto si manifesta nel Sé. Questo è il cid-jada-granthi o il nodo tra il sé e la materia.
Io sono la grande luce. Io sono non-duale e senza nascita. Io sono autoluminoso. Io sono estremamente puro. Io sono l'oceano di pura Coscienza, senza mali, pieno, incarnazione di beatitudine e al di là dell'azione.
Io sono sempre libero, dotato di un potere inimmaginabile; sono la conoscenza che i sensi non possono avere. In Me non c'è azione. Io sono infinito, imperscrutabile. I saggi che sono devoti allo studio dei Veda meditano giorno e notte su di Me nei loro cuori.
Così uno dovrebbe meditare sempre sul Sé, con zelo incessante. Allora egli avrà l'illuminazione, che in brevissimo tempo distruggerà l'avidya insieme ai suoi effetti, come un malato distrugge la malattia prendendo l'elisir di lunga vita.
Uno dovrebbe sedere in un luogo solitario, ritirare i sensi dalle loro funzioni, frenare la mente e sottometterla, e concentrarsi sul puro ideale. Così si dovrebbe meditare sull'Uno, senza alcun pensiero per un secondo essere, aprendo l'occhio della coscienza e stabilendosi nel Sé assoluto.
Meditando giorno e notte sul proprio Sé, libero da ogni legame e dall'egoismo, il saggio dovrebbe attendere finché non si esaurisce il suo prarabdha karma che gli ha dato il corpo attuale. Allora egli si fonderà soltanto in Me.
Fino a quando uno non vede tutto come Me, che egli pratichi la devozione a Me. Io dimoro eternamente nel cuore di colui che ha per Me fede intensa e devozione.
La conoscenza è considerata di due tipi: essenziale (svarupa) e psichica (vritti). Delle due, la prima riguarda il nirguna Brahman, il vero, infinito e beato Assoluto.
L'altra è considerata la pura esistenza psichica che riguarda l'essenza spirituale indivisa del sé. Questa conoscenza è a sua volta di due tipi: indiretta e diretta.
La conoscenza indiretta porta la liberazione attraverso un'evoluzione progressiva, quando ha luogo la dissoluzione del mondo del Creatore. La conoscenza diretta produce la liberazione immediata, qui stesso, quando si esaurisce il prarabdha karma.
Quei peccatori che non hanno la coscienza del samadhi, che si gloriano della mera conoscenza verbale, sempre dediti a fare tutto quello che desiderano - questi uomini andranno all'inferno.
Come può uno, la cui mente non è distrutta, liberarsi dal samsara? Come può uno, che non ha coscienza del samadhi, distruggere la propria mente?
Il saggio sereno e spassionato, sempre devoto alla pratica dello yoga, non ha mai alcun timore di nulla, neanche di questo samsara difficile da attraversare.
Il grande yogi, i cui sensi hanno smesso di funzionare - che è libero dall'agitazione mentale, ecc. , e ha realizzato l'identità del Brahman e del sé - ottiene la liberazione immediata.
La grande meditazione sull'Esistenza, Conoscenza, e Beatitudine assoluta, omogenea e senza attributi, è la più alta di tutte le meditazioni. Essa causa la liberazione istantanea: ed è la meditazione 'Io sono Brahman'.
La conoscenza dell'identità del Brahman e del sé rimuove la falsa identificazione del sé con il corpo. Chi non ha il senso dell'io riguardo al corpo è chiamato jivanmukta.
Colui per il quale il mondo non è né permanentemente reale né irreale, e che è radicato nella coscienza immutabile, è chiamato jivanmukta.
Colui che ha l'esperienza del Sé nel samadhi e ha la stessa esperienza anche dopo essere uscito dal samadhi, colui che dimora soltanto nella pura autocoscienza, è un jivanmukta.
Colui che nella sua vita quotidiana nel mondo appare a volte come un uomo d'azione, a volte come un devoto, qualche volta come uno yogi, o altre volte come un saggio, questi è un jivanmukta.
La schiavitù sta nel credere 'Io sono il corpo'. La liberazione sta nella consapevolezza costante 'Io sono Brahman'. Perciò l'uomo intelligente dovrebbe meditare sempre: 'Io sono Brahman', fondendo il suo ego nell'Assoluto.
Colui che identifica sé stesso con il corpo ha paura da ogni lato. Perciò, con ogni possibile sforzo, uno dovrebbe cercare di rinunciare all'idea che il corpo sia il sé.
A causa dell'esistenza apparente del corpo, che persiste in lui come una tela bruciata, il jivanmukta dovrà affrontare piccoli problemi temporanei, ma comunque non rinascerà.
(Il jivanmukta) è un superuomo in cui la pace, l'autocontrollo e simili virtù emanano costantemente dall'autoconoscenza in maniera spontanea.
Egli è un superuomo che non ha la benché minima ammirazione neppure per i più fantastici poteri psichici.
Egli è un superuomo che non si perde vedendo le meravigliose creazioni del Signore.
Egli è un superuomo che non desidera, neppure nei sogni, i quattro tipi di salvezza, come: entrare nel regno di Dio, godere della vicinanza di Dio o della sua forma e del suo potere, ecc .
Chi ha dimenticato l'idea del corpo è un videhamukta, anche quando continua ad esistere il corpo, che è l'effetto del prarabdha karma.
È un Jivanmuktha colui che ha neutralizzato l'effetto della trasformazione della sostanza mentale in forme-pensiero e che si è stabilito nell'unica essenza omogenea e indivisa, grazie alla sua ferma convinzione dell'illusorietà di ogni altra cosa.
Gli oggetti non toccano colui che è stabilito nell'unica essenza omogenea. Persino gli dèi lo adorano. Il Vedanta proclama la gloria della persona la cui delizia risiede nell'unica essenza omogenea.
E considerato 'uno stabilito nella saggezza' colui che neanche per un momento concepisce il pensiero che anche un solo atomo possa essere differente dall'essenza omogenea.
È stabilito nella saggezza chi è sempre imperturbato, chi è estremamente solenne e profondo come l'oceano senza onde, chi trascende azione e modificazione, chi per la sua condizione è simile a un pitone, chi è inamovibile come il monte Meru e chi non ha neppure il pensiero 'Io sono un videhamukta'. Pur avendo un corpo, egli è certamente un videhamukta (un saggio liberato che non ha coscienza del corpo) .
Meditando continuamente sull'essenza unica ed omogenea di Brahman, la mente viene rapidamente distrutta insieme alla sua radice. Questo è certo.

 

 

 

 


GLOSSARIO

Agastya: Un grande saggio.
Agni: Il dio del fuoco.
Ahalya: La moglie del saggio Gautama, sedotta da Indra e redenta da Rama.
Aksha: Figlio di Ravana, ucciso da Hanuman.
Anasuya: La moglie del saggio Atri.
Angada: Il figlio di Vali.
Anjana: La madre di Hanuman.
Asoka-vana: Il boschetto di asoka, dove fu tenuta prigioniera Sita.
Atri: Un grande saggio incontrato da Rama nella foresta.
Ayodhya: La città capitale del regno Kosala.
Bharadvaja: Un grande saggio amico di Rama e dei suoi fratelli.
Bharata: Fratello di Rama, nato da Kaikeyi. Rifiuta di regnare durante l'esilio di Rama e amministra il regno vivendo da asceta, con i sandali di Rama installati sul trono.
Brahma: Il Creatore dell'universo. Il Brahma-loka è il cielo di Brahma.
Brahmacarya: Il voto di celibato; castità. Il primo periodo della vita, quello dello studente.
Brahman: L'Assoluto. Dio trascendente e immanente.
Brahmana: Persona che appartiene alla classe sacerdotale. Colui che conosce Brahman.
Cakra: Disco. Ruota. Arma da getto di forma circolare, propria di Vishnu.
Citrakuta: Collina sulla quale Rama passò il primo periodo del suo esilio.
Dandaka: La grande foresta dove Rama trascorse gran parte del suo esilio.
Dasaratha: Padre di Rama e re del Kosala.
Dharma: La legge spirituale che governa l'universo e la condotta di tutti gli esseri.
Dushana: Un demone, comandante delle forze di Khara.
Gandharva: Musicista celeste.
Ganga: Il sacro fiume Gange, a volte personificato in una dea.
Garuda: Considerato un uccello, semidio e veicolo divino del Signore Vishnu.
Godavari: Un fiume sacro dell'India del sud.
Guha: Un capo tribale molto devoto a Rama e ai suoi fratelli, che intrattiene lungo il cammino verso la foresta.
Hanuman: Un capo vanara, figlio di Anjana e di Vayu, il dio del vento. Dotato di forza straordinaria, scopre la prigione di Sita e contribuisce in innumerevoli modi al successo della missione di Rama.
Ikshvaku: Un grande antenato di Rama.
Indra: Il re del cielo, il capo degli dèi.
Indrajit: Il figlio di Ravana che conquistò anche Indra. Fu ucciso da Lakshmana.
Jambavan: Un capo tribale alleato di Rama. Viene considerato un orso.
Jambumali: Il primo demone ucciso da Hanuman a Lanka.
Janaka: Un grande saggio re di Mithila. Padre adottivo di Sita.
Janasthana: Parte della foresta abitata dai saggi, che venivano tormentati dai demoni di Khara.
Jatayu: Considerato un avvoltoio, combatté contro Ravana mentre questi cercava di portare via Sita.
Kabandha: Un demone di forma insolita che Rama incontrò nella foresta.
Kaikeyi: Moglie di Dasaratha e madre di Bharata. Chiede che Rama venga esiliato e che Bharata sia incoronato.
Kailash: Una montagna, dimora leggendaria del Signore Shiva.
Kasyapa: Un grande saggio.
Katisalya: Prima moglie di Dasaratha e madre di Rama.
Khara: Il capo dei demoni, fratellastro di Ravana; fu ucciso da Rama a Janasthana con tutto il suo esercito.
Kishkindha: Il regno di Vali e Sugriva.
Kosala: Il regno di Dasaratha.
Kshatriya: Un principe o un guerriero.
Kubera: Il dio della ricchezza; chiamato anche Vaisravana. È fratellastro di Ravana.
Kumbhakarna: Un demone, fratello di Ravana; un gigante potentissimo che dormiva a lungo.
Kusa: Figlio di Rama; uno dei due gemelli avuti da Sita.
Lakshmana: Figlio di Dasaratha e di Sumitra. Fratello di Rama e suo costante compagno.
Lakshmi: Consorte del Signore Vishnu. La Madre Divina dispensatrice di ricchezza e prosperità.
Lanka: L'isola e la città in mezzo all'oceano che era la dimora di Ravana.
Lava: Figlio di Rama e Sita, fratello gemello di Kusa.
Mandavi: Moglie di Bharata.
Mani: Antenati.
Mandodari: Prima moglie di Ravana.
Manthara: La serva di Kaikeyi che la istigò a fare esiliare Rama.
Marica: Un demone complice di Ravana.
Mayavi: Figlio di Maya; combatté contro Vali e fu ucciso da quest'ultimo.
Mithila: La capitale del regno di Janaka.
Nala: Un alleato di Rama e Sugriva; l'architetto che fece costruire il ponte per attraversare l'oceano.
Nandigrama: Il sobborgo di Ayodhya in cui Bharata visse come un asceta durante l'esilio di Rama.
Narada: Mitico saggio divino che funge spesso da intermediario tra dèi e uomini.
Narayana: Altro nome di Vishnu, il Protettore dell'universo. Uno della Trinità Indù.
Nila: Il comandante generale dei vanara.
Pampa: Un lago nella foresta Dandaka.
Pancavati: Il luogo dove Rama fece costruire la sua capanna durante l'esilio nella foresta.
Parasurama: Considerato un'incarnazione precedente di Vishnu. Nato da famiglia brahmana, egli sterminò tutti i re malvagi del mondo.
Pulastya: Un saggio chiamato anche Paulastya o Visrava; il padre di Ravana.
Pushpaka: Un veicolo spaziale straordinario. Apparteneva originariamente a Kubera, ma Ravana glielo rubò; quindi fu usato da Rama.
Rama: Figlio di Dasaratha e di Kausalya. È l'eroe del Ramayana; è considerato un'incarnazione di Vishnu.
Ravana: Il re dei demoni, nato da un saggio. Ricevette dal Creatore il dono dell'invincibilità, che usò per opprimere dèi e saggi. Rapì Sita e infine fu ucciso da Rama.
Rshyamuka: La collina dove s'era rifugiato Sugriva prima d'incontrare Rama.
Rshyasringa: Il saggio asceta che aiutò re Dasaratha a celebrare il rito sacro per ottenere dei figli.
Rudra: Il terzo membro della Trinità, chiamato anche Shiva, Tryambaka, ecc.
Sabari: Un'anziana asceta molto devota a Rama.
Sagara: Il nome di un re. L'Oceano.
Sampati: Considerato un avvoltoio, figlio di Suparsva e fratello di Jatayu. Aiuta Hanuman a trovare Sita.
Sarabhanga: Un saggio che viveva nella foresta Dandaka.
Sarama: Pur essendo una demonessa, era amica di Sita nell'asoka-vana.
Sarayu: Un fiume vicino ad Ayodhya.
Satabali: Un capo tribale comandante delle forze vanara.
Satrughna: Fratello di Rama. Figlio di Dasaratha e di Sumitra. Era il compagno costante di Bharata.
Siddha: Un saggio perfetto. (Siddhashrama: eremo di saggi perfetti).
Sita: Moglie di Rama. Figlia adottiva di re Janaka. È considerata un'incarnazione di Lakshmi.
Srutakirti: Moglie di Satrughna.
Subahu: Un demone che contaminava le foreste e i riti sacri di Visvamitra. Fu ucciso da Rama.
Sugriva: Il re dei vanara, fratello di Vali. Alleato di Rama, egli organizza l'invasione di Lanka. Sua maglie è Ruma.
Sumantra: Un ministro, amico e auriga di Rama.
Sumitra: La seconda moglie di Dasaratha, madre di Lakshmana e di Satrughna.
Surasa: Madre dei naga; fu d'ostacolo ad Hanuman durante il suo volo verso Lanka.
Surpanakha: Sorella di Ravana che cercò di sedurre Rama nella foresta; fu mutilata sul volto da Lakshmana.
Sushena: Un capo tribale, comandante delle forze vanara e suocero di Sugriva.
Tara: La moglie di Vali.
Tataka: Una demonessa che ostacolava un rito sacro di Visvamitra; fu il primo demone ucciso dal giovane Rama.
Trijata: Una demonessa amica di Sita nel boschetto di asoka.
Trikuta: La collina sulla quale sorgeva la città di Lanka.
Urmila: La moglie di Lakshmana.
Vali: Il re dei vanara, fratello maggiore di Sugriva. Rama uccise Vali dopo la sua alleanza con Sugriva.
Valmiki: Il grande saggio autore del Ramayana. Quando Rama bandì Sita, ella visse nel suo eremitaggio, dove poi partorì i due gemelli Kusa e Lava ai quali il saggio trasmise il Ramayana.
Vanara: Considerate delle scimmie; erano probabilmente uomini 'primitivi' abitanti della foresta.
Vasishtha: Un grande saggio. Guru e maestro spirituale di Janaka, Dasaratha e Rama.
Vayu: Il dio del vento, padre di Hanuman.
Veda: Le principali Scritture sacre; libri di conoscenza. Ne conosciamo quattro: Rig, Yajur, Sarna e Atharva.
Vibhishana: Il pio fratello di Ravana che lo abbandonò per cercare rifugio in Rama. Dopo la morte di Ravana fu incoronato re di Lanka.
Viradha: Il primo demone che Rama uccise durante l'esilio nella foresta. Nella vita precedente era il saggio Tumburu.
Visvakarma: L'architetto degli dèi.
Visvamitra: Un grande saggio che insegnò a Rama la scienza militare e gli diede molti missili. D'origine kshatriya, Visvamitra divenne un saggio brahmana grazie alle proprie austerità.
Yama: Il dio della morte.
Yamuna: Un fiume sacro.
Yudhajit: Fratello di Kaikeyi.
Yuga: Un'era nel ciclo della terra. Ce ne sono quattro: Satya o Krta, Treta, Dvapara e Kali.
Yuvaraja: Principe ereditario.

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Le
Edizioni Vidyananda
Casella Postale n. 41
06088 - S. Maria degli Angeli (Assisi - PG)


sono dedicate al servizio del Divino nell'uomo tramite la pubblicazione di libri spirituali che espongono la Verità del Sanatana Dharma (la Religione o Legge Eterna e Universale).
 


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